malavita – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il Pelé, le osterie e la vecchia Milano https://www.carmillaonline.com/2024/12/16/il-pele-le-osterie-e-la-vecchia-milano/ Mon, 16 Dec 2024 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86042 di Paolo Lago

Roberto Farina con Giancarlo Peroncini, La ballata del Pelé, Milieu, Milano, 2022, pp. 167, euro 15,90.

Vale la pena parlare adesso del bel libro La ballata del Pelé, nonostante sia stato pubblicato un paio di anni fa da Milieu, anche perché recentemente è uscito l’altrettanto bel documentario dal titolo “Mavadarviailcul Marvinhagler, a giro con il Pelé”, realizzato da Luca Falorni (alias Falco Ranuli), videomaker e scrittore livornese che ha vissuto diversi anni a Milano. Protagonista indiscusso del documentario (come del libro) è il Pelé, Giancarlo Peroncini, artista e cantastorie popolare milanese, importante testimone di una Milano che non [...]]]> di Paolo Lago

Roberto Farina con Giancarlo Peroncini, La ballata del Pelé, Milieu, Milano, 2022, pp. 167, euro 15,90.

Vale la pena parlare adesso del bel libro La ballata del Pelé, nonostante sia stato pubblicato un paio di anni fa da Milieu, anche perché recentemente è uscito l’altrettanto bel documentario dal titolo “Mavadarviailcul Marvinhagler, a giro con il Pelé”, realizzato da Luca Falorni (alias Falco Ranuli), videomaker e scrittore livornese che ha vissuto diversi anni a Milano. Protagonista indiscusso del documentario (come del libro) è il Pelé, Giancarlo Peroncini, artista e cantastorie popolare milanese, importante testimone di una Milano che non esiste più. La ballata del Pelé appare come un racconto ininterrotto, un po’ in italiano un po’ in dialetto, che il Pelé, grazie all’intermediazione di Roberto Farina, srotola ai lettori come il mago di un avanspettacolo inesorabilmente perduto. È lo stesso Pelé a spiegarci con un aneddoto il motivo del suo soprannome in una intervista a Roberto Marelli posta in appendice al suo racconto: “Il mio nome è Giancarlo Peroncini detto Pelé perché correvo forte, la storia è questa… un piccolo furtarello, il padrone mi ha visto, ha chiamato le guardie, io sono scappato! Esco dalla fabbrica, vedo tanta gente che corre e ho cominciato a correre anch’io… era la Stramilano… primo sono arrivato io, secondo il brigadiere che mi inseguiva”.

Nel racconto del Pelé rivive davanti ai nostri occhi un mondo che non esiste più: le osterie, la “ligera”, la malavita milanese (immortalata letterariamente da Danilo Montaldi nel suo Autobiografie della leggera), col suo codice d’onore, i Navigli di una volta, gli angoli di una Milano sottoproletaria e proletaria, il tutto solcato da grandi e irripetibili personaggi, veri geniacci dell’arte popolare dalle cui battute e dalle cui canzoni hanno tratto ispirazione cantori più noti della milanesità come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci o Cochi e Renato. Secondo Primo Moroni (del quale troviamo anche un testo in appendice al libro), frequentatore di questo mondo e amico del Pelé, la ligera del dopoguerra era formata da frange di popolazione che aveva partecipato alla Liberazione e che, quando la classe borghese riprese in mano la città, rimase delusa nelle sue aspettative di una società più giusta. Si trattava di una malavita che incarnava la ribellione del popolo, poco incline a un disciplinamento borghese, non immune anche da certe connotazioni ‘romantiche’. Fatto sta che la caratteristica del malavitoso della “ligera” era quella di essere prima di tutto uno svantaggiato, un deviante, uno che rubava per fame e non per profitto, guidato da un rigoroso codice morale, disposto ad aiutare qualsiasi amico in difficoltà economiche (“Con gli anni Settanta scompariva un’epoca. La ligera era sempre andata contro al soldo, non alle persone. Tutto è cambiato il giorno in cui la gente ha cominciato a rubare per il profitto e non per il bisogno”, dice il Pelé). La violenza e l’uso delle armi arriveranno dopo, con gli anni Settanta, con l’avvento dell’eroina che cominciava ad uccidere tanti giovani.

Dopo aver letto il libro di Roberto Farina che ci trasmette il racconto del Pelé, sbiadirà sicuramente nel nostro immaginario lo stereotipo che vuole Milano esclusivamente una “capitale morale” del paese, borghese, produttiva e austera perché anche qui c’era (un po’ come nella Roma pasoliniana, e non a caso Pasolini rimase affascinato anche da questa Milano) un fitto sottobosco sottoproletario, “tutta quell’umanità cioè di persone refrattarie all’integrazione nella disciplina di fabbrica, al lavoro stabile e più in generale al perbenismo dei ceti egemoni. Un’umanità estranea ai valori dell’accumulo e del risparmio, liberale, generosa, incosciente, dissipatrice: si fa un colpo e si offre da mangiare e da bere a tutta la comitiva” (Giovanni Manzari, Tra milanesità e cultura popolare, in appendice al libro). Un universo – è bene ribadirlo – ormai completamente livellato e annientato dalla macina della produttività capitalistica: come scrive Gianni Mura in un articolo di cui leggiamo uno stralcio sempre in appendice, oggi “i milanesi affollano i Navigli di notte, fino a tardi, fra una finta osteria e un ristorante che ha esposto il menù solo in inglese, tra decine di locali che hanno trasformato i Navigli in un divertimentificio quasi obbligatorio”.

Il racconto del Pelé assume spesso tonalità poetiche e malinconiche e riesce a materializzare una Milano che assomiglia alla Parigi del realismo poetico del cinema francese: una Milano che sembra uscita da un film di Marcel Carné o da una poesia di Jacques Prévert o, ancora, dall’intreccio narrativo del film Casco d’oro (1952) di Jacques Becker, in cui una malavita ancora ottocentesca è legata ai codici d’onore; e i Navigli di cui ci parla il Pelé assomigliano al “quartiere dei lillà” dell’omonimo film di René Clair del 1957, in cui campeggia il personaggio dell’Artista, interpretato da George Brassens, un cantante, musicista e chitarrista sempre al verde, frequentatore di locali e brasserie. In questo scenario quasi teatrale sul quale si avvicendano tantissimi personaggi dall’anima plautina (che nei litigi si scambiano perennemente l’imprecazione “mavadarvialcul” che dà anche il titolo al documentario di Falorni), uno degli sfondi privilegiati è l’osteria, ma quella vera, quella di una volta. Un luogo di aggregazione e di fratellanza, una vera e propria casa in cui si staglia un’umanità marginale che, tutta insieme, costituisce un’autentica famiglia allargata. Protagonista è allora la Briosca, l’osteria del “Pinza”, alias Luciano Sada, da lui gestita dal 1968 al 1972 sul Naviglio Pavese: qui si avvicendano, nel racconto del Pelé, figure immortali (e immortalate nei bei disegni di Elfo che arricchiscono il libro) come il Wanda, un geniale cabarettista che era stato un ballerino di Wanda Osiris, il Zola, il Conte (così chiamato perché assomigliava al conte Dracula e, in un aneddoto, rincorse Mogol e Battisti fuori dall’osteria spaventandoli a morte), il Gilberto e la sua donna, la Tiziana, Didi Martinaz, grande cantante di culto della mala milanese e poi, naturalmente, lo stesso Pelé (gestore anche lui di un’altra osteria, Le Tre Fontane), che suonava uno strumento particolare da lui stesso creato, il tolón, cioè il “tollofono”, “fatto con una grossa tolla (latta), dal bordo alto un centimetro” attaccato a un manico di scopa ai cui lati era legata una corda “di quelle per stendere i panni”.

Oggi, molte delle osterie sono state demolite, buttate giù con la ruspa, oppure trasformate in locali eleganti in un processo di trasformazione e ‘normalizzazione’ della marginalità urbana iniziato probabilmente un po’ in tutta Italia negli anni Ottanta; un povero Paese devastato in nome del profitto e di ciò che viene chiamato ‘riqualificazione’ delle città, un processo imposto dal potere che non ha fatto altro che annientare la bellezza. Di questo mondo, di quest’Italia popolare sopravvissuta forse fino agli anni Settanta, il Pelé è un prezioso testimone. Leggendo questo libro che racconta la sua “ballata” come le gesta di un antico cavaliere riusciamo a scorgere la magia e la bellezza (a fianco, naturalmente, della estrema durezza che le accompagna perché non siamo certo di fronte a vite facili e comode) che emergono per pochi attimi da un mondo che molti di noi (me compreso) non hanno mai conosciuto e non potranno conoscere nella realtà. Un mondo in cui i robotici meccanismi del capitale non avevano ancora rovinato i rapporti fra le persone, in cui l’amicizia era amicizia perché, come dice il Pelé, “in inverno la brina rosicava tutti i colori e pizzicava la pelle. Milano sembrava un fantasma, ma a quel punto bastava entrare in osteria. Lì c’era da bere. Ma bere non serve, se non ci sono gli amici. Questa è una regola: per esser davvero buono il vino deve essere bevuto fra amici. Il vino bevuto con gli amici scalda più di un ciocco di legno e frega la nebbia”.

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Esotismo della mafia – un altro caso di Operazione Astra https://www.carmillaonline.com/2018/01/07/esotismo-della-mafia-un-altro-caso-di-operazione-astra/ Sat, 06 Jan 2018 23:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42293 di Michelangelo Franchini

La mafia, si sa, è un ente secolarmente presente ovunque, e tuttavia torna a essere fenomeno solo quando è spettacolarizzata. Adesso è spettacolarizzata: la testata di Spada è diventata immediatamente fenomeno, notizia, aneddoto, meme. Come ogni fenomeno si è cercato di serializzarla, replicandola: si è cercata altra violenza simile nelle cronache precedenti, nei verbali di polizia, nelle parole dei cittadini (invano si è cercato di farlo con Totò Riina, fenomeno di tutt’altro genere, esaurito da tempo). I giornalisti hanno incalzato: come intimidisce la criminalità? Come agisce, cosa fanno fisicamente i [...]]]> di Michelangelo Franchini

La mafia, si sa, è un ente secolarmente presente ovunque, e tuttavia torna a essere fenomeno solo quando è spettacolarizzata. Adesso è spettacolarizzata: la testata di Spada è diventata immediatamente fenomeno, notizia, aneddoto, meme. Come ogni fenomeno si è cercato di serializzarla, replicandola: si è cercata altra violenza simile nelle cronache precedenti, nei verbali di polizia, nelle parole dei cittadini (invano si è cercato di farlo con Totò Riina, fenomeno di tutt’altro genere, esaurito da tempo). I giornalisti hanno incalzato: come intimidisce la criminalità? Come agisce, cosa fanno fisicamente i tirapiedi quando vengono a chiedere il pizzo? In che modo si muovono, che creature sono?

Alla costruzione della narrazione criminale si persegue con una certa morbosità. Come ogni narrazione mediatica avrà vita breve: si esaurirà e smetterà di essere interessante, salvo venir tirata fuori da qualche politico durante il prossimo comizio, nella speranza di rievocare quella curiosità che ora ci ossessiona. Perché? Perché vogliamo saperne di più.

Negli ultimi anni si è fatto spettacolo di associazioni criminali più e meno attuali, e lo si è fatto per i motivi più diversi. Nel caso di Romanzo criminale era il carisma dei personaggi a interessare, nel caso di Suburra la particolarità della vicenda, nel caso di Gomorra una deliberata intenzione divulgativa. Come Roberto Saviano ha intuito, è lo spettacolo a interessarci.

Non ci approcciamo ai servizi di La Sette sui malavitosi di Ostia con la volontà di fare di noi stessi dei cittadini informati, bensì con la voglia inconscia di ritrovare i personaggi di Suburra. Perché? Perché Suburra è spettacolo, è una vicenda particolare, lontana dalle nostre vite come può esserlo un film di fantascienza. Lontana e tuttavia vicina: si ambienta accanto a noi. Accanto a noi e tuttavia comunque a distanza di sicurezza: a Ostia, lontano, o comunque in periferia. Non certo qui da noi. Qui da noi, in questo quartiere, certe cose non accadono. Certe cose, quelle che vedi nella serie, non avvengono qui. Non potrebbero mai avvenire qui dove sono io, adesso, in questo quartiere rispettabile. Figuriamoci.

Il fatto è che siamo avulsi a ogni normalità. Pur essendone immersi, la rifuggiamo. Cerchiamo i filmati di Roberto Spada dopo che abbiamo saputo che Roberto Spada è un criminale perché vogliamo vedere che faccia ha: il criminale, non Roberto Spada. A nessuno importa di Roberto Spada, a nessuno importa di una giornalista sequestrata e minacciata chissà quanti anni fa.

Invece guarda qui: questo tipo ha dato una testata a un giornalista perché faceva domande scomode. Questo qui è un personaggio pericoloso, guarda che faccia da criminale. Questo è come il personaggio della serie.

La mafia è un fenomeno anche romano, e non solo. Probabilmente è ovunque, ma non ci siamo abituati. Pensiamo che la fisionomia di un mafioso non possa prescindere da certi e ben definiti tratti lombrosiani tra cui uno spiccato accento meridionale. La mafia per noi è, ed è sempre stata, un fatto meridionale. I criminali della banda della magliana? No, quelli non erano mafiosi. Erano pischelli. Pischelli che hanno sfidato i veri mafiosi, quelli meridionali, quelli lontani. Pischelli che hanno sconfitto la mafia meridionale. Pischelli con un’etica criminale. Quasi degli eroi, in pratica. Non certo mafiosi, no.

Siamo curiosi di vedere che facce hanno persone che chiedono il pizzo, che picchiano e che non hanno paura di uccidere e morire. Siamo più che curiosi di sapere chi sono. Perché loro sono il male, l’anti-stato, il cancro di questa bella città, non sono persone come noi. Devono avere facce diverse, vite diverse, case diverse. Sono come alieni infiltrati nel nostro sistema perfetto. Appena Roberto Spada si rivela, ecco che lo riconosciamo: guardalo, con quella faccia, è palesemente un criminale, un poco di buono. Si vede chiaramente, glielo si legge in faccia. Guarda com’è violento, come scatta. Una persona normale non farebbe niente del genere. Noi non faremmo niente del genere, noi siamo bravi cittadini. Sono loro i colpevoli di tutto.

Il motivo per cui sentiamo il bisogno di documentarci sulle vicende giudiziarie ostiensi è che abbiamo bisogno di costruire l’alterità per definire noi stessi, e definire noi stessi per escludere l’alterità, allontanarla, farne spettacolo, oggetto di studio. Allontanarla e sentirci al sicuro, convincerci che noi, i giusti, non siamo e non possiamo essere in nessun grado colpevoli: sono loro, gli altri, gli alieni che rovinano il nostro sistema perfetto, loro dell’altra fazione, nettamente divisa, e per fortuna lontana.

A un tangentista, a un omertoso, non riserviamo che l’accusa di complicità, annacquata da un empatico senso di autoconservazione: che altro deve fare? Evadere il fisco è reato ma non è peccato, quella donna deve proteggere i suoi bambini non può esporsi. Quando lo stato non c’è, la mafia balla, e lo stato non c’è mai, è un ente invisibile che possiamo personificare occasionalmente lanciando invettive contro i nomi. E tuttavia l’esercizio dell’invettiva, che pure esaurisce i postumi della sbronza elettorale, è tautologico e tutt’al più rilassante. Ciò di cui abbiamo bisogno è guardare in faccia i colpevoli, personificare il nostro malessere. Un tangentista è un uomo d’affari oppresso dal fisco, un omertoso un uomo cauto. Perfino un assassino cessa di essere un assassino dopo aver compiuto il delitto. Ma un mafioso no, non cessa mai di essere ciò che è: il nostro doppelganger, un uomo della strada, che vive e prospera nell’anti-stato. La sua esistenza, speculare alla nostra di bravi cittadini, è un fatto che ci indigna, ci frustra, ci intriga.

E così l’industria dello spettacolo ci mostra il reietto per eccellenza, per darci modo di disprezzarlo in pubblico e ammirarne segretamente la ribellione, e si immolano due o tre malavitosi sull’altare sacrificale della gogna mediatico-giudiziaria, mentre il popolo grida e il silenzio cala sul sistema. Fino alla prossima testata.


Operazione Astra: termine di Roland Barthes, designa l’atto di denunciare una parte per salvare il tutto

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Pastorale emiliana https://www.carmillaonline.com/2017/11/09/41628/ Thu, 09 Nov 2017 22:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41628 di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.

Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.

Quello che è successo, negli ultimi vent’anni in questo comparto, è la nota accelerazione globale di mercati, merci e processi produttivi, che si è abbattuta drasticamente su un distretto che un tempo si sentiva vincente per qualità e specializzazione: concorrenza sempre più feroce, prezzi al ribasso, qualità a picco e pressione sempre più distruttiva sul lavoro vivo. Appalti, sub appalti, spezzettamenti, la filiera che si slabbra e si allunga come un verme. Migliaia di lavoratori, principalmente stranieri, collocati nei gironi via via più degradanti del lavoro in appalto, tra cooperative spurie, terziarizzazioni, consorzi fittizi creati dalle stesse imprese appaltatrici – ovviamente nei segmenti produttivi dove regnano fatica, nocività, rischio per la salute. Insaccati, polpettoni, prodotti precotti e surgelati di ogni ordine e grado: tutto passa dalle mani di queste migliaia di pseudofacchiniquasialimentaristi, dalla salute spesso compromessa – abbondano problemi muscolo scheletrici, polmoniti, ferite da taglio, perché qui le lavorazioni più essenziali si fanno ancora di gomito e coltello.

Ma quella del distretto carni non è la solita minestra avvelenata del panorama italiano – cooperative che non sono cooperative, facchini che non sono facchini, contratti che non sono contratti. Non è solo una storia di appalti fasulli, elusione fiscale e capannoni della logistica persi nelle nebbie brumose della campagna padana. No, qui si sta parlando di un palcoscenico rinomato, dove va in scena ogni giorno la farsa dell’eccellenza agroalimentare italiana: un concentrato di bugie, affarismo, arroganza e retorica tricolore – straprovinciale e global, allo stesso tempo.

Il distretto carni rappresenta la vetrina delle scelleratezze italiane degli ultimi due decenni, un esempio della svalorizzazione del lavoro, della mortificazione operaia. E delle viltà, delle complicità, della subordinazione della politica e del sindacato, della retorica del primato dell’impresa come valore unanimemente condiviso. Perché questi territori, nell’immaginario, amano rappresentarsi come i luoghi dell’eccellenza alimentare, il richiamo ancestrale e fasullo alla terra, alla genuinità della tradizione, al mangiar sano, al mulino bianco e al vivere comunitario.

Tutta fuffa, tutto marketing. In questo comparto (come ovunque) la risorsa essenziale non è la genialità imprenditoriale o il retaggio di mestiere: il fattore chiave è il lavoro vivo, le braccia, l’intelligenza e la disperata disponibilità indotta dalla miseria. Si, la miseria, la vecchia, cara indispensabile miseria, altro che eccellenze: perché solo la miseria può indurre migliaia di nuovi schiavi a rinchiudersi in capannoni e celle frigorifere a rifilare, disossare, tagliare – ballando, a salario pieno, intorno alla soglia di povertà. La miseria è il miglior motivatore professionale, la leva perenne di ogni intrapresa economica. Industria 4.0? Da queste parti si preferiscono ingredienti antichi e tradizionali: sfruttamento, gerarchia, ricatto e sottomissione. Un tempo, per i locali, l’industria norcina fu davvero elemento di elevazione sociale: macelli, laboratori e fabbriche furono tra i templi del compromesso sociale emiliano. Oggi non c’è tempo per favole rassicuranti. Sei euro lorde all’ora, una settimana a casa l’altra lavorare 60 ore – anche 12 ore filate, fino a pisciarsi addosso o mangiare in piedi come i cavalli. E a ogni cambio appalto si sfoltiscono i ranghi dei sindacalizzati e dei riluttanti.

È una storia di pervicace illegalità, quella del distretto carni. Un morto ammazzato nel 2001 (fanno capolino anche i soliti servizi segreti), pestaggi, minacce, auto bruciate, criminali di ogni risma che attraversano la vita, e spesso i cancelli, di aziende prestigiose. Una pastorale emiliana (e segnatamente modenese) dove molti attori diversi continuano immutabilmente a cantare la loro parte – incassando milioni o sputando sangue -, comunque seguendo una partitura criminale efficace, per quanto tremendamente precaria. Il giorno che qualcuno si decidesse ad applicare (almeno un po’) le leggi della Repubblica, il mito dell’eccellenza agroalimentare italiana crollerebbe miseramente – e questo vale per tutta la cigolante catena nazionale, dai raccoglitori di pomodori del foggiano a questi strani facchini ghanesi, cinesi, filippini e albanesi, le cui mani callose (senza retorica) custodiscono il buon nome e la credibilità del marchio made in Italy che finisce sulle tavole di mezzo mondo. E allora, vediamoli, i protagonisti di questa moderna pastorale di provincia.

I PADRONI
Qualcuno è di nobile schiatta imprenditoriale, qualcuno è diventato un global player, qualcuno è un artigiano arricchito, qualcuno ha la mentalità truce del macellaio che sorveglia il negozio: tutti devono correre al ritmo spietato della concorrenza, che significa spremere lavoro e abbassare costi, pretese e qualità. Negli anni 90 hanno venduto tutti l’anima al diavolo, anche se oggi si ostinano a firmare protocolli etici. Aumentare i margini intensificando lo sfruttamento, è l’unica arma rimastagli. Sanno fidelizzare la gente, pagando in nero gli accoliti per scagliarli contro i lavoratori in appalto. Pagano anche giornalisti, pubblici funzionari, eserciti di consulenti, finanziano iniziative pubbliche, civiche, sportive, foraggiano sindaci costantemente distratti, rispetto alle brutture sociali che amministrano. Non sono mai stati soli, nella continua opera di evasione, elusione, violazione di norme e contratti. Queste pratiche non sono invenzione estemporanea di qualche imprenditore spregiudicato: mamma Confindustria veglia su tutti loro e non si è mai dissociata da nessuno dei suoi prosciuttai.

LE CENTRALI COOPERATIVE
Prendono le distanze dal sottobosco malavitoso, per tutelare il buon nome della “vera cooperazione”. Ma se il termine cooperativa è diventata una parolaccia è anche colpa loro, delle loro omissioni e complicità. Del resto i grandi gruppi cooperativi ufficiali hanno da tempo “marchionnizzato” le loro relazioni interne e i rapporti sindacali. Le cooperative spurie sono solo il bordo sfrangiato e impresentabile di un mondo geneticamente modificato, che comincia già dietro i banconi della Coop. Non è un caso che il Ministro del Lavoro nell’epoca del Jobs Act, venga da quella giungla.

LE COOPERATIVE SPURIE
Le mafie hanno scoperto questo mondo negli anni 90 e se ne sono innamorate. Costruire aziende cooperative, riciclare, vincere finti appalti, infilare al lavoro i picciotti in semilibertà. E finalmente entrare a testa alta, senza estorsioni, dentro i circuiti ufficiali del settore, insediarsi legittimamente in territori floridi, sottraendosi ai capricci mutevoli del ciclo dell’edilizia. Una volta i gruppi dirigenti di queste cooperative erano composti direttamente da pregiudicati casertani e calabresi. Oggi hanno imparato meglio a usare i prestanome, anche se magari le sedi legali sono gli studi di avvocati specializzati nel 416 bis. Naturalmente non tutte queste cooperative hanno origine e matrice criminale; nell’affare ci si è buttata tanta gente sveglia che da anni alimenta un tourbillon inafferrabile di sigle, consorzi, concordati, fallimenti, spesso riconducibili agli stessi capicordata e alle medesime aziende appaltatrici. Tecnicamente una “cooperativa spuria” è un’associazione a delinquere. Non dovrebbe occuparsene l’Ispettorato del Lavoro.

I SINDACALISTI
Ne sono passati tanti, dentro e davanti quei cancelli. Non si deve essere ingenerosi o qualunquisti, molti danno l’anima per organizzare e dare sbocco alla rabbia sorda della gente – se si va domattina, alle 5, ai cancelli della Castelfrigo o della Alcar, li si trova là davanti, col megafono e la bandiera. Ma tanti sono stati anche i vili, gli imboscati, gli impotenti che allargavano le braccia davanti a ogni abuso, quelli che limitavano la loro funzione alle denunce e agli esposti. Per non parlare di quelli che si sono prestati a fare da consulenti occulti nell’interesse delle aziende. Se avesse incontrato davanti a sé, il muro di un movimento sindacale serio e autorevole, tutta questa metastasi non si sarebbe mai estesa negli anni.

I QUESTORI
Hanno messo le forze di polizia al servizio delle aziende, a presidio della santa continuità produttiva, come se la Questura fosse l’Agenzia Pinkerton (che almeno non era pagata dai contribuenti). Se avessero “attenzionato” seriamente il comparto carni, oggi nelle carceri di Sant’Anna dovrebbe esistere un “padiglione cooperatori”. Particolarmente deplorevole il metro e la misura delle scelte di ordine pubblico: perché da queste parti, di solito, non si usano i manganelli contro I presidi sindacali; ma se a farli sono questi lavoratori un po’ scurotti (e si presume, meno tutelati), la celere si sente autorizzata a rompere ogni tabù – e anche qualche testa. Come se a questi proletari non si riconoscesse neanche il diritto minimo di sentirsi pienamente classe operaia.

I PM
Hanno lavorato con foga, nei mesi scorsi, per liberare le aziende dalla morsa dei sindacalisti molesti. L’inchiesta contro Aldo Milani, di quale dispiegamento di uomini e mezzi ha potuto giovarsi? Telecamere nascoste, microfoni, intelligence, agenti provocatori e trame raffinate. Chi ha mai visto un magistrato indagare con la stessa determinazione sul settore carni e le sue derive criminali? In occasione dell’arresto del leader del SI Cobas, la Procura ha ufficialmente esposto anche il suo teorema: lo sciopero e il picchetto, in una certa misura, possono essere inquadrati sotto il profilo criminale dell’estorsione. Bloccare un’azienda per spillare quattrini a un padrone, è un’azione delittuosa. Quando la politica muore, entrano in scena i corpi armati dello Stato (tale è la magistratura, non dimentichiamolo mai), che vanno a prendersi il loro spazio di supplenza e direzione politica, rilasciano proclami a reti unificate, scavalcano l’ectoplasma di amministratori e partiti, stabiliscono in proprio ciò che è lecito fare o non fare, nella Repubblica del Maiale.

I CONSULENTI
Ogni mafia ha bisogno dei suoi colletti bianchi. La mafia delle cooperative – e dei suoi committenti industriali – può contare su una pletora di avvocati, consulenti, commercialisti, facilitatori di ogni tipo. Parassiti ben pagati che studiano giorno e notte il modo per eludere leggi, fisco e contratti. Sono professionisti seri, sobri, abituati al basso profilo; magari vivono in questi stessi territori, dentro villette a schiera senza pretese. Fingono di ignorare quello che succede concretamente dietro le piramidi societarie e le trappole antioperaie che progettano. Probabilmente, per giustificare se stessi, nutrono anche una qualche confusa idea di progresso e di necessità dello stato di cose presenti. Una lumpen-borghesia delle professioni che spiega molto di questo paese, da Sud a Nord.

I DIRETTI
Sono I lavoratori assunti dalle imprese, magari con contratti stabili a tempo indeterminato. Sono quelli che fanno più pena di tutti sul piano morale. Ormai si tratta di minoranze dentro aziende che realizzano i volumi produttivi solo grazie al personale delle finte cooperative. Stanno abbarbicati ai loro lavoretti, al loro minuscolo privilegio, guardando ai colleghi del piano di sotto, come mine vaganti che possono mettere in discussione tutto il baraccone. Sono spesso immigrati anche loro, meridionali piovuti qui nei tristi anni 80, con mutui pesanti e figli precari da mantenere. Entrano a testa bassa, la mattina, davanti ai cancelli presidiati dalle lotte. Sanno che quei loro quasi colleghi hanno ragioni da vendere. “Ma così va il mondo: e meno male che non tocca a me…”. La mancanza di dignità a cui questi padri di famiglia egoisti si sottopongono è la parte peggiore della storia.

GLI AUTOCTONI
Sono commercianti, impiegati, spesso anziani pensionati che nella vecchia industria norcina hanno lavorato duramente e guadagnato onorevolmente. Quando i cortei dei nuovi schiavi del prosciutto passano in centro, li guardano, dalle soglie dei bar e dei negozi e scuotono la testa; pensano che questi nuovi arrivati abbiano poca voglia di lavorare, accampino troppe pretese, reclamino troppi diritti. Intanto gli affittano a caro prezzo stamberghe umide in centro, o vecchie masserie in campagna – perché del facchino “non si butta via niente”, si deve spremerlo in fabbrica e fuori, con metodo e scrupolo.

I POLITICI
Pallide figure che cominciano ad affacciarsi ai cancelli degli stabilimenti in lotta, in vista delle prossime elezioni. Sanno di non contare più niente – dichiarazioni di intenti, tavoli, protocolli – , un vecchio mondo caduto in disuso. Esprimono la pochezza caotica dei tempi: un esponente può esprimere “preoccupazione per i licenziamenti” e un altro può tuonare contro le “illegalità dei picchetti”, magari stando nello stesso partito. I facchini ghanesi o filippini, li guardano con perplessa ironia.

LE ROTATORIE
Sono l’elemento più innocente della zona, non fanno male a nessuno, non possono neanche tanto peggiorare la tragica bruttezza dei luoghi. Chissà com’erano le campagne, qui, un po’ di decenni fa, si fa fatica anche a immaginarlo. Dopo aver infilato capannoni grigi dappertutto, negli anni scorsi, oggi prevale la passione per le rotatorie di ogni ordine e grado. Danno al forestiero l’idea di un moto perpetuo in cui non ci si muove mai davvero. Non servono a niente. Sono buone solo per farci dei blocchi stradali.

GLI SCHIAVI RIOTTOSI
E poi c’è finalmente la contropastorale, il coro stonato e furente di Ahmed, Tashi, Antonu, Chen, Salvatore, Frank e molti altri pirati del prosciutto che, coltello in mezzo ai denti, si stanno lanciando contro le vestigia scassate del modello emiliano. Si ribellano perché non hanno altra scelta. Sono le vittime sacrificali del futuro luminoso che ci attende, i neo-schiavi dell’economia servile 4.0. Perché non c’è sviluppo o rivoluzione produttiva senza un esercito di servi pronti a tutto (è per quello che i ricchi, di solito, sono genuini no border e sostenitori dell’Open Society). Ma questi ragazzotti hanno la testa dura, non sono venuti fin qui per immolarsi sull’altare del Made in Italy, se ne fottono del Gran Biscotto, dei sofficini e del polpettone italiano. Hanno già dato abbastanza. Nel centesimo anniversario dell’Ottobre, stanno imparando a volgere le loro baionette da disossatori verso i generali. In questo momento sono loro l’unica vera eccellenza che esprime il territorio.

 

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