magia sessuale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 31 Jan 2025 00:45:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le due città (Victoriana 36/I) https://www.carmillaonline.com/2022/05/16/le-due-citta-victoriana-36-i/ Mon, 16 May 2022 20:35:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71999 di Franco Pezzini

All’insegna del Gran Lunare

AA.VV., La Belle Époque dell’esoterismo. Maghi, stregoni e alchimisti nella Parigi fin de siècle, a cura di Vittorio Fincati, pp. 294, euro 24, Edizioni Studio Tesi, Roma 2018.

“[…] la mia università fu Piccadilly. È là che ho intrapreso lo studio della vasta scienza che mi occupa tuttora”.

“Di quale scienza si tratta?”

“La scienza della metropoli, la fisiologia di Londra. Sia in senso letterale, che metafisico, è il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero [...]]]> di Franco Pezzini

All’insegna del Gran Lunare

AA.VV., La Belle Époque dell’esoterismo. Maghi, stregoni e alchimisti nella Parigi fin de siècle, a cura di Vittorio Fincati, pp. 294, euro 24, Edizioni Studio Tesi, Roma 2018.

“[…] la mia università fu Piccadilly. È là che ho intrapreso lo studio della vasta scienza che mi occupa tuttora”.

“Di quale scienza si tratta?”

“La scienza della metropoli, la fisiologia di Londra. Sia in senso letterale, che metafisico, è il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero. A Parigi si può dire: qui abitano le attrici, qui i bohèmien, qui i falliti; ma a Londra è diverso. Lei può indicare una certa strada come la strada delle lavandaie, ma in quella stessa via, al secondo piano, un uomo sta studiando forse le radici del caldeo, e in soffitta, magari, un artista dimenticato si sta spegnendo lentamente”.

 

Così il flâneur Dyson spiega al più pragmatico amico Salisbury, nel racconto di Arthur Machen “The Inmost Light” (1894). E, forte delle sue esercitazioni di botanico da marciapiedi, parlando di complessità sa quel che dice: nel corso dell’Ottocento, Londra è cresciuta in modo vertiginoso, e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo. Già più o meno dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta, il maggior porto del mondo e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra. Non è un caso che i movimenti dei lavoratori, protocomunisti e poi comunisti vi abbiano un importante luogo di confronto, che Marx vi si trasferisca (e vi muoia, nel 1883): Londra è davvero il luogo delle contraddizioni del Mondo Nuovo. Il numero di abitanti, da oltre 1 milione nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891: entro il 1860 è divenuto maggiore di un quarto rispetto alla seconda città più popolosa del mondo, Pechino, di due terzi maggiore di Parigi e cinque volte di New York. Nel 1897, l’anno del Dracula che enfatizza l’opposizione tra la metropoli moderna e i remoti confini del mondo civilizzato, la popolazione della Greater London è valutata in 6,292 milioni di persone, sorta di immensa vetrina di pasticceria per il Grande Vampiro.

Che tutto ciò impatti anche a livello immaginale e che in questo coacervo delle più varie realtà trovino spazio dimensioni molto lontane, almeno apparentemente, da quelle della politica e dell’economia – per esempio l’esoterismo – non è strano: e anche da questo fronte, che influisce sulla stessa letteratura, tra sette rosicruciane, gruppi magici e conventicole spiritualiste la metropoli vittoriana è davvero la capitale del pianeta.

Sarebbe però sbagliato pensare che esperienze importanti non sorgano anche altrove: e lo studioso di esoterismo Vittorio Fincati ha proposto una bella raccolta incentrata sull’altra (per definizione) metropoli del Vecchio Mondo, la rivale storica di Londra, cioè la Ville Lumière, pure cresciuta immensamente nell’Ottocento. Le trasformazioni impresse durante il Secondo Impero con la grandiosa ristrutturazione condotta dal barone Haussmann, rappresentano una delle maggiori e più discusse rivoluzioni urbanistiche nella storia dell’umanità: e intanto, un po’ a ridosso del grande romanzo francese dell’Ottocento che a Parigi raccorda fili dal profondo della provincia, a somma glorificazione della borghesia, cresce come edera irrorata dal romanticismo la letteratura fantastica di Francia. Anche lì, più o meno condizionata da suggestioni esoteriche.

Certo, ascoltando le voci antologizzate da Fincati, talora molto “tecniche”, dobbiamo sforzarci di immaginare la parallela prassi, la vita, i dialoghi concreti degli autori: non è un limite del libro, semmai lo spunto per un altro che possa mappare i caffè dove mistici e stregoni s’incontrano confabulando tra loro o invece pontificando tra la gente, le biblioteche storiche come quella dell’Arsenal dove il mago inglese Mathers (1854-1918) traduce i grimori, le esposizioni d’arte in cui ciabatta, paludato da babilonese, il Sar Peladan (1858-1918) animatore di vari Salon rosacrociani/simbolisti, i salotti che vedono i discepoli di Allan Kardec, grande codificatore dello spiritismo (1804-1869) ricevere da tavolini a tre gambe sensazionali rivelazioni sull’aldilà, le trombe delle scale di vecchie case polverose (carte da parati ingiallite, muri umidi), con alloggi dove celebrati studiosi come il mago socialista Éliphas Lévi (Alphonse-Louis Constant, 1810-1875) o il prolifico Papus (Gérard Encausse, 1865-1916, più di centosessanta testi all’attivo) meditano sulle proprie carte…

Secondo Fincati sarebbe Parigi la vera “capitale delle scienze iniziatiche e magiche per un arco di tempo di parecchi decenni se non addirittura ininterrottamente per più di un secolo”: e attribuisce tout court il fenomeno alla rivoluzione francese, in grazia dell’enfasi sulla libertà che, ormai libera da roghi, avrebbe finito con l’abbracciare anche questo sottomondo. Va d’altronde ricordato che una tradizione dell’occulto e dell’esoterico nei palazzi parigini è ben solida fin dal medioevo tra Bafometti e alchimisti, si consolida nella città di Caterina de’ Medici e di un’aristocrazia che ancora nel Settecento sguazzerà tra rituali di ogni genere (con conseguenti grandi scandali, va detto, e processi epocali). È un esoterismo che muove all’ombra delle cattedrali e tra le pieghe nascoste del solidissimo cattolicesimo francese, ora in forme visionariamente misticheggianti che grondano simboli criptici (e nutriranno le speculazioni balliste dell’esothriller nostro contemporaneo: sono questi gli anni del discusso don Bérenger Saunière, 1852-1917, parroco di Rennes-le-Château nel Midi e amatissimo dai devoti del Codice di Dan Brown, un po’ meno dai superiori del reverendo che constatano un suo truffaldino e redditizio traffico di servizi liturgici), ora in chiave decisamente magica se non stregonesca. E mentre in Gran Bretagna le massonerie di frangia – come le logge principali coi loro riti razionalisti – possono operare con grande libertà, in Francia il frisson della segretezza è probabilmente un elemento che contribuisce a calafatare un certo tipo di occulto (fino a giustificare le bubbole di Léo Taxil sulla presenza compiaciuta del diavolo nel chiuso delle adunanze massoniche, 1891-1897). Gli immortali in carrozza del Settecento, prima o poi, a Parigi li troviamo tutti: Cagliostro, Saint-Germain, Mesmer… e a distanza di un paio di secoli non potrà che arrivarvi pure la contessa di Cagliostro combattuta da Arsène Lupin (1923-1924).

La rivoluzione può cercare di imporre la logica dei Lumi e gli altari della dea Ragione, ma da un lato accanto all’illuminismo non è affatto sparito l’illuminatismo, e dall’altro ristagnano aree ben più oscure: fili che correranno ben oltre gli anni della rivoluzione, tripudieranno di diableries romantiche anche attraverso i salotti letterari (emblematica la rilettura romantica un po’ forzata e forzosa del Cazotte del Diavolo in amore, giocosa fantasia rococò, come invece venata di mistero esoterico) e condurranno oltre la boa di fine Ottocento all’esoterismo francese tra le due guerre mondiali. Il lascito al fantastico francese – la cui stagione d’oro è proprio l’Ottocento – sarà immenso, con una ricaduta popolare attraverso la mitologia dei feuilleton e un livello alto nella grande letteratura e nell’arte visionaria dei Salon rosacroce.

A fini di riordino d’una materia tanto magmatica, Fincati propone, con ampia libertà dall’indicazione fin de siècle del sottotitolo (si sfora fino agli anni Cinquanta del Novecento), alcune tipologie di interlocutori, privilegiando nomi e testi meno ovvî. Attenzione, segue qualche spoiler.

Anzitutto troviamo quelli che chiama i Pontefici: il dotto occultista e poeta Stanislas de Guaita (1861-1897) con il pezzo La morte e i suoi arcani, vero e proprio Libro dei morti dell’esoterismo occidentale moderno, di grande fascino anche letterario, costituente il cap. 6 del II tomo di Le serpent del la Genèse, 1897, e che nella sua riflessione sulla fine dell’esistenza giunge a speculare sui riti curiosi praticati alla morte del papa, sul vampirismo e sull’elisir di vita; un Anonimo un po’ nel solco del Guaita, con Il demone del gioco, 1909, che invece punta a un tema più banalotto e modaiolo, il rapporto tra occulto e sale d’azzardo, dove impazzerebbero – attenti, signori – larve ed eggregore peculiari; un altro Anonimo identificato nell’esoterista e mistico Paul Sédir (1871-1926) o con maggiore fondamento nel maestro americano Paschal Beverly Randolph o qualche suo discepolo, a offrire ampi estratti di Venere magica, 1897, plausibilmente legato alla sezione parigina della Hermetic Brotherhood of Luxor. “La lussuria degli uomini d’oggi ha ipocritamente preso a prestito gli argomenti che stai per studiare per infiggere nei caratteri deboli lo spillone di Lilith”, ma chi cerca qui materia pruriginosa resterà deluso.

Una seconda sezione è quella degli Stregoni, dove proprio il sesso gioca un ruolo speciale. Qui i testi sono un po’ più tardi, del periodo di entusiasmo occultista tra le due guerre: probabilmente per evitare l’ovvio, cioè le precedenti storie sui bizzarri riti neognostici in odor di satanismo – più liturgici che magici, ma con tutte le ambiguità del caso – della bislacca saga mistica/blasfema di Eugène Vintras (1807-1875) e Joseph-Antoine Boullan (1824-1893) sullo sfondo delle opere di Huysmans, Là-bas (1891) in particolare. Che pure dicono qualcosa sull’euforia sessuale nel sottomondo esoterico francese tra i due secoli. Si inizia con un racconto di René Thimmy, Il maestro degli Efialti, 1934, sul curioso caso di donne, perlopiù giovani, che tra la folla in metropolitana sono state punte con un ago (il titolo originale è in effetti Les piqueurs du Métro): contro ogni apparenza, non si tratta di una delle fantasiose parafilie trattate con rigore da Krafft-Ebing, ma della sottrazione di piccole quantità di sangue femminile per produrre Efialti (in pratica Incubi), “creazioni larvali che emanano dal sangue umano dopo avervi assorbito una certa vita e che conducono nel mondo invisibile una effimera esistenza, in una forma che la volontà umana può modellare”. Ovviamente si cita anche Magia Sexualis di Randolph… Seguono Il potere della nudità di Jean Lignières, che comprende i capitoli VIII e IX di Les Messes Noires, la sexualité dans la Magie, 1928, dal contenuto trasparente pur nella vastità visionaria delle implicazioni; e Pratica dell’amore platonico di Maurice Meyer, estratto da Le Mystère de l’amour platonique, essai d’érotisme ésotérique, 1938, le cui strane speculazioni – persino in tema di abbigliamento, per cui la toga sarebbe “il più adeguato per l’erotismo iniziatico” – meritano la lettura.

Si passa poi agli Alchimisti. Qui il primo testo è la memoria Il Gran Lunare di Pierre Geyraud, tratto da Les Sociétés Secrètes de Paris, 1939: accantoniamo la tradizionale alchimia dei minerali e il vecchio Nicolas Flamel celebrato anche da Harry Potter, si torna alle suggestioni di Thimmy su un’alchimia del sangue per creare Efialti e alla magia sessuale della società luciferiana T.H.L. (Très Haute Lunaire), il cui papa nero è un alchimista. Sempre Geyraud è però autore di un articolo Alchimia – intesa in senso più tradizionale, estratto da L’Occultisme à Paris, 1953 – dove fornisce alcuni ritratti testimoniali di maestri della dottrina agli inizi del Novecento: in particolare il colto e modesto Eugène Canseliet (maestro di un altro grosso nome dell’ermetismo francese, Claude d’Ygé), lo sfuggente Jean-Julien Champagne (destinato – si sostiene – a morir male nel 1932 per aver tradito la setta luciferiana che aveva contributo a fondare, e dietro cui si celerebbe il misteriosissimo personaggio noto come Fulcanelli, autore di Il mistero delle cattedrali), e Rosny Aîné di cui riparleremo. Un terzo testo, di Magophon, alias l’erudito e dotto ellenista Pierre Dujols (1864-1926, un altro dei candidati all’identificazione con Fulcanelli), Hypotyposis. Alcune considerazioni sul “libro muto” dell’alchimia, 1914, affronta dottamente l’esame di un classico seicentesco, il Mutus Liber (1677), composto come “raccolta di immagini enigmatiche” (una ipotiposi, spiega Dujols, “è una spiegazione data sotto forma di figure astratte”).

Poi ecco gli Evocatori: del già citato Paul Sédir, Incantesimi, raccolta di brani tratti da Les Incantations – le logos humain, la voix de Brahma – les sons et la lumière astrale, comment on devient enchanteur, 1897, dal contenuto piuttosto tecnico sul Verbo magico, in particolare sul ruolo del suono; di Victor-Émile Michelet, I segreti delle pietre preziose, da L’Amour et la Magie, 1909, sulle qualità magiche di una serie di minerali; di Pierre Noël de la Houssaye, Una evocazione necromantica, suggestivo cap. 20 di L’Apparition d’Arsinoë, roman d’un Frère d’Héliopolis, 1948. Una canonica di provincia ospita il dialogo concitato con un domenicano di un fedele caduto in peccato di magia, evocando una donna bellissima da un remoto passato egizio, con tanto di manifestazioni d’un raccapricciante guardiano della soglia, amplesso con la fantasima e blasfemi richiami al Cantico dei cantici.

In ultimo i Narratori. Il fatto è che uno dei lasciti più importanti della cultura magica riguarda proprio la narrazione: non tanto nel senso di romanzi esoterici o narrazioni a chiave (che pure ci sono, ma meno di quanti vengano sussiegosamente considerati tali da pretesi beninformati), quanto per l’idea del potere evocativo della narrazione in sé. La letteratura, lo sappiamo, della magia è parente stretta (e talora i maghi vi si riferiscono per far capire meglio alcuni concetti, indipendentemente da una natura “cifrata” dei romanzi), ma Fincati attinge qui a testi che vedono un legame stricto sensu con l’occulto. Si parte da Rosny Aîné, all’anagrafe Joseph Henry Honoré Boex (1856-1940, un altro dei candidati all’identificazione con Fulcanelli), attivo nella Parigi letteraria accanto a Edmond de Goncourt: il racconto La giovane vampira, 1920, primo di questa sezione, è percorso da sottili sberleffi verso gli inglesi, compresa forse la prima moglie da cui l’autore divorzia. Segue La donna che morì due volte. Magia passionale, 1895, di Jules Lermina, scrittore popolare e militante socialista, autore anche de L’A.B.C. du libertaire, 1906: un racconto debitore in qualche misura del Casa Usher di Poe, e forse di Véra di Villiers de L’Isle-Adam, dove un’osmosi d’amore diventa base per una malsana reviviscenza. Poi, nuovamente del poeta, ed evocatore di entità, Pierre Noël de la Houssaye, ecco la lirica La ninfa al cervo, estratto da Le premier livre des odes pindariques, 1823.

 

Tra alcuni di questi contributi, qualche lettore potrebbe vedere un nesso sottile, sostanziato dai rapporti che alcuni autori ebbero con una fantomatica società magica parigina, la Très Haute Lunaire. Possiamo rassicurarlo che non è stato con questa idea che abbiamo messo assieme i saggi. Ma a esser maliziosi talvolta si indovina.

 

Si sta discretamente alludendo a qualche sottesa chiave – o clavicula – luciferiana? (un aggettivo che indica qualcosa di molto diverso, chiariamolo subito, da satanista.) Non sta al recensore azzardare ipotesi: il testo in esame resta ricco di dati poco noti e senz’altro di grande interesse – pur nell’ovvia soggettività del taglio, che privilegia alcuni autori ad altri – per una storia dell’esoterismo. Sull’ambiguità di un quadro che rimane in gran parte coperto, fitto di trasversalità contraddittorie e che nutre per li rami una realtà ideologica molto più vicina ai nostri giorni, non resta che prendere atto: tanto più considerando il grigiore sussiegoso e la spocchia cialtrona di vari paralleli nell’Italietta provinciale a tali fioriture in Inghilterra e Francia.

Ma dobbiamo tornare a Rosny Aîné…

(continua)

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Bella vita e magie altrui di Mr. Sorme, outsider https://www.carmillaonline.com/2021/01/09/bella-vita-e-magie-altrui-di-mr-sorme-outsider/ Sat, 09 Jan 2021 21:56:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64347 di Franco Pezzini

(Per i tipi Carbonio è apparso un mese fa, a firma di Colin Wilson, L’uomo senza ombra. Il diario sessuale di Gerard Sorme, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 340, € 16,50, 2020, sequel di Riti notturni, proposto nel 2019.

Nel romanzo appare una figura modellata su Aleister Crowley: poco prima è uscito per Odoya, a cura del sottoscritto, Le nozze chimiche di Aleister Crowley. Itinerari letterari con la Grande Bestia, pp. 336, € 22, da cui si trae il contenuto dell’articolo che segue.

Come nei cartigli di avvertenze alimentari: [...]]]> di Franco Pezzini

(Per i tipi Carbonio è apparso un mese fa, a firma di Colin Wilson, L’uomo senza ombra. Il diario sessuale di Gerard Sorme, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 340, € 16,50, 2020, sequel di Riti notturni, proposto nel 2019.

Nel romanzo appare una figura modellata su Aleister Crowley: poco prima è uscito per Odoya, a cura del sottoscritto, Le nozze chimiche di Aleister Crowley. Itinerari letterari con la Grande Bestia, pp. 336, € 22, da cui si trae il contenuto dell’articolo che segue.

Come nei cartigli di avvertenze alimentari: il testo sottostante può contenere spoiler).

Riassunto delle puntate precedenti. Londra, metà anni Cinquanta: il brillante, disinvolto outsider Gerard Sorme, controfigura molto virtuale dell’autore Colin Wilson (nel senso di incarnare adeguatamente quel tipo di insoddisfazione esistenzialistica di cui Wilson discetta nelle sue opere, a partire dal famoso The Outsider, 1956, e che lui stesso in qualche modo si porta dentro) ha conosciuto la vertigine di un incontro-svolta con il carismatico Austin Nunne, colto e raffinato omosessuale rivelatosi purtroppo l’assassino copycat di Whitechapel. Al di là della deriva criminale di Nunne, il dialogo con lui ha suggerito a Gerard come sia possibile vivere con una diversa intensità, con un’altra marcia esistenziale rispetto all’opacità di un quotidiano: e non sono le due donne tra i cui letti il Nostro si alterna – Gertrude e Caroline, giovane zia e disinibita nipote – a bastare in tal senso.

La vicenda è stata raccontata – magnificamente – nell’ambizioso e complesso romanzo Riti notturni (Ritual in the Dark, 1960), ma l’itinerario di Gerard era solo all’inizio: lo ritroviamo poco dopo in una seconda avventura, narrata stavolta in prima persona, in forma diaristica. In effetti, L’uomo senza ombra. Il diario sessuale di Gerard Sorme figura come vero e proprio diario del Nostro: il titolo originale è Man Without a Shadow. The Diary of an Existentialist, alludendo alla storia dell’uomo che ha ceduto la propria ombra al demonio in cambio di ricchezza (cfr. il romanzo Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso, 1814, e il racconto di E.T.A. Hoffmann “Die Geschichte vom verlorenen Spiegelbild” cioè “Storia del riflesso perduto”, 1815) e al senso di inautenticità vissuto dall’esistenzialista Sorme, che scrive il suo diario sessuale proprio per riconoscere se stesso, cannibalizzato dall’opacità ma deciso a resisterle:

 

Di solito mi sento quasi inesistente, come se non riuscissi neppure a far apparire la mia ombra alla luce del sole, come Pe­ter Schlemihl di Chamisso o l’uomo nel racconto di Hoffmann. Eppure, sto imparando a gettare un’ombra.

 

Ma in modo un tantino più esplicito questa nuova avventura sarà proposta negli USA come The Sex Diary of Gerard Sorme, da cui il sottotitolo italiano.

Coronato da una riflessione sul realismo esistenziale nella forma romanzo, questo testo del 1963 già respira un certo clima certificato tre anni dopo dalla definizione Swinging London: un’epoca in cui tensione sessuale, riscoperta del magico (si pensi alla Hammer) ed euforia sociale evocano un mix esplosivo. La retrodatazione degli eventi al 1956 non forza i dati sociologici, ma li prefigura: come Wilson ha proiettato a posteriori in Nunne l’ombra dello Sventratore nella suggestione di un certo tipo di estasi losca, così invece anticipa in silhouette e tensioni l’orizzonte Swinging London, illuminandone le radici antropologiche. E insieme, anche qui gioca su una proiezione a posteriori: liberato il campo da Nunne/Jack the Ripper, il personaggio che permette a Gerard di testare desideri e richiami a una diversa intensità di vita è il mago Caradoc Cunningham alter ego di Aleister Crowley: a portare in scena non solo un mix dei principali interessi di Wilson – filosofia, sesso, criminologia, occultismo – ma proprio la magia sessuale del profeta del Thelema. Wilson, birichino, vagheggia anzi inizialmente di proporre L’uomo senza ombra alla Olympia Press di Parigi, specializzata in libri “osceni”, ma la casa editrice con cui edita per un pubblico mainstream, la Arthur Barker Ltd., si accaparra il romanzo con appena lievi modifiche. Il che comunque costringe, per il tema hard, a passare da un’autorizzazione in tribunale e affrontare una successiva causa per oscenità (che però supera, il giudice stabilisce, bontà sua, che L’uomo senza ombra non è più osceno delle opere di Henry Miller o di Lady Chatterley).

Al di là della protesta iniziale in una nota introduttiva di Sorme a proposito di una profonda unità della vicenda, deve ammettere lui stesso che l’incontro con Cunningham divide nettamente il testo tra un prima e un dopo. Cioè una prima parte concentrata su idee e pratiche di Sorme in tema di sesso, dove lui analizza se stesso e le proprie pulsioni (del resto Wilson ha lavorato subito prima a un nuovo saggio della saga degli outsider, Origins of the Sexual Impulse, 1963); e una seconda parte dove il Nostro, dopo essersi imbattuto in una biblioteca pubblica in un “interesting book on the Faust legend”, si interfaccia con la magnetica figura del mago (ricordiamo che, proprio attraverso Faust, la studiosa Eliza Marian Butler, autrice di importanti monografie di storia della magia, era stata indotta a incontrare un Crowley ormai decaduto). Ma va detto che la seconda parte in fondo è consequenziale alla prima: i misteri del sesso affrontati nella prima raggiungono nella seconda una frontiera ulteriore.

È probabile che la vicenda da commedia da Wilson posta in scena – e che rende il romanzo molto godibile e divertente – ammicchi a teatrini letterari di precedenti comparsate di Crowley, per esempio al Mago di Maugham, dove Aleister figurava rivisto e corrotto nei panni di Haddo: la piccola comunità descritta in Londra evoca a tratti, in modo sghembo e grottesco, quella di Parigi dove Haddo impazza. A parte apparizioni un po’ defilate di Gertrude e Caroline, qui ritroviamo il pittore Oliver con la minorenne Christine per cui nutre una casta attrazione, e la tedesca Carlotte gestrice del precedente alloggio del Nostro; ma emergono anche figure nuove come la garbata Diana nuova fiamma di Gerard, il mite e distratto musicista Kirsten a cui la strappa, Madeleine con cui Caroline condivide l’alloggio e alcuni avversari di Cunningham.

L’incontro col mago è casuale, appunto in una biblioteca: libro alla mano, Sorme ha appena adocchiato una ragazza vestita di rosso (una – potremmo dire – ragazza scarlatta), ma lo sguardo è stornato dall’apparire di un uomo presso gli scaffali lì accanto, fitti di volumi su magia, fantasmi eccetera.

 

Anche lui mi ha immediatamente incuriosito: un omone grasso, tra i trentacinque e i quarant’anni, con la testa completamente calva. Se fosse stato un attore, lo avrei scelto per interpretare lo scienziato pazzo. Anche lui ha fissato un paio di volte la ragazza in rosso; poi ha preso un libro ed è venuto a sedersi a pochi metri da me, dall’altra parte del tavolo. Mi sono accorto che mi fissava, ma ho finto di leggere. Dopo qualche minuto l’ho sentito mor­morare qualcosa sottovoce e ho sbirciato con cautela da sopra il mio libro. Aveva strani occhi rotondi dallo sguardo intenso e stava fissando la ragazza, che era tornata alla scrivania. All’improvviso ho provato una sensazione di tensione, come quando entri in una stanza dove ci sono due persone che si odiano, e lo percepisci bene anche se non le hai mai incontrate prima. Poi, un momento dopo, la ragazza si è avvicinata al nostro scaffale reggendo una pila di libri. L’uomo ha distolto gli occhi mentre lei veniva verso di noi, poi è tornato a fissarla non appena si è voltata. All’improvvi­so, lei si è guardata attorno, prima verso di me poi verso l’uomo dei libri di magia, con un’espressione sorpresa, come se uno di noi l’avesse colta in flagrante. E in quel momento è successa una cosa strana. La osservavo di nascosto, appoggiato allo schienale della sedia, con il mio libro sul tavolo. Lei ha fissato l’uomo ac­canto a me e si è fatta prima molto pallida, poi è arrossita. Lui non le aveva tolto gli occhi di dosso. La donna ha fatto un passo avanti, come se volesse colpirlo, poi si è fermata di colpo e si è voltata di nuovo. A questo punto l’uomo si è rivolto a lei: “Scusi, signorina, forse può aiutarmi”. Aveva una voce profonda, simile a quella di un attore, con una leggera pronuncia blesa. Si è alzato dirigendosi verso la ragazza; si è fermato a pochi centimetri da lei e le ha parlato a bassa voce. Ne ero affascinato, perché per qual­che motivo ero certo che la ragazza non lo conoscesse e che lui avesse notato in lei esattamente quello che avevo notato io: una specie di tensione sessuale. Era in piedi lì, di fronte a lei mentre le parlava, ma molto più vicino di quanto sarebbe lecito nel fare una domanda innocente a una bibliotecaria. La sua schiena era rivolta verso di me, in modo che non potessi vedere cosa stava succedendo, ma potevo giurare che le avesse messo una mano sul petto. Poi la ragazza ha detto, con una voce strana e tesa: “Si trova nella collezione speciale, signore, nel seminterrato. Se vuole venire da questa parte, glielo mostrerò”. Per un momento, l’uomo mi ha guardato, e il suo sguardo è stato inequivocabile come se mi avesse fatto l’occhiolino e mi avesse detto: “Vedi, l’ho fatto”. Mentre si allontanavano, le teneva una mano sulla schiena.

 

È abbastanza chiaro che si tratta di un ritratto di Crowley, e il richiamarlo nel contesto delle nuove eccitazioni in Inghilterra tra metà anni Cinquanta e Swinging London la dice lunga su un clima che vede incubare un po’ defilato – ma neanche troppo – il revival magico del Settanta.

Più avanti, Sorme dispensa qualche riferimento a nomi noti della bibliografia esoterica: cita “un paio di testi interessanti scritti da Montague Summers”, che gli forniscono occasione di riflettere sul peso del sesso nel caso di stregoneria del maggiore Thomas Weir di Edimburgo (anche se “Summers sembra essere uno scrittore dalla fantasia un po’ troppo sfrenata, che riesce a racchiudere più inesattezze in due paragrafi su Jack lo Squartatore di quante la maggior parte delle persone potrebbe accumularne in venti pagine”); e più avanti Là-bas di Huysmans, meditando su Gilles de Rais. E soltanto dove aver costruito così un set debitamente sulfureo fa ricomparire a una mostra di quadri dell’amico Oliver l’allegrone conosciuto in biblioteca la settimana prima: “I want to introduce you to a remarkable man”, se ne esce il pittore. “This is Caradoc Cunningham”.

 

Le prime impressioni che avevo avuto su Cunningham in biblioteca si sono rivelate corrette: è certamente uno degli uo­mini più strani che abbia mai incontrato. All’apparenza è una specie di attore: grande, piuttosto grasso, molto alto, calvo, uno sguardo quasi ipnotico in quegli occhi che sembrano rotondi. Sospetto che abbia escogitato un modo per gonfiare leggermente gli occhi e intensificare così questa impressione di forza di vo­lontà. Ha anche vari vezzi, come abbassare la voce e stringere gli occhi quando dice certe cose, per darsi un aspetto sinistro. Nel complesso, la prima impressione che ha fatto su di me è stata negativa: di un ciarlatano, un uomo senza autodisciplina. Ma dopo dieci minuti di conversazione, questa impressione svanisce completamente e sembra emanare un’energia tangibile e piutto­sto inquietante. Non c’è dubbio che la sua cultura sia davvero molto vasta, ma non se ne serve – come farebbe un ciarlatano – per impressionare. Ad esempio, abbiamo iniziato a discutere di Plotino e lui ha cominciato a citarlo in greco. Gli ho detto con impazienza che non conoscevo il greco e lui ha smesso imme­diatamente e non ha più pronunciato una sola parola in greco.

 

Via via Caradoc si rivela – guarda caso – un alpinista con trascorsi sui monti del Tibet; preoccupa l’amica di Sorme lì presente con il suo modo spiacevole di trasudare sesso, quasi la violasse senza avere contatto fisico; discetta di satanismo e occulto con lo scettico (ma non troppo) narrante; offre prove di chiaroveggenza; sostiene “di aver ucciso un mago in un ‘duello di magia’ mentre lui era a Marsiglia e l’avversario a Parigi”; irrita Sorme spiegando di credere in una libertà totale, il “Do what you will” di Blake, e il narrante obietta che

 

il “fa’ quello che vuoi” non è di certo utile; al contrario, è probabile che distrugga l’autodisciplina e annacqui ancor più la conoscenza. Ho citato come esempio Aleister Crowley. Ma si è scoperto che Crowley era stato un caro amico di Cunningham (come se non avessi potuto indovinarlo) e Cunningham si è immediatamente lanciato in sua difesa.

 

A proiettare/duplicare in modo perturbante l’icona di Crowley nel profilo di questo suo discepolo, appunto con un gioco analogo a quello condotto in Riti notturni tra Austin e lo Squartatore del 1888: è stato proprio da Crowley che il suo doppio Cunningham ha appreso i segreti della magia sessuale, e qui ne offre cenni. Sorme trova poi una decina di libri del nuovo conoscente alla Biblioteca del British Museum, quasi tutti di poesia, che giudica orrenda e datata (sembra un giudizio di Wilson sulla poesia di Crowley, che pure non era così male); e recupera anche una traduzione curata da Cunningham di “Abrahamelin the Mage”, cioè il Libro della Magia Sacra di Abramelin il Mago (un testo magico di autoiniziazione dallo straordinario successo nell’esoterismo moderno, che però era stato editato da Samuel Liddell MacGregor Mathers e non da Crowley, pur attento celebratore dei relativi rituali: licenza di Wilson). Lentamente Sorme inizia a maturare un’ammirazione per lui, “He is undoubtedly one of the most amazing men I have ever met”: in qualche modo il mago è uno step ulteriore nella sua ricerca d’intensità, rispetto all’outsider Austin del primo romanzo con cui condivide intelligenza, sensibilità e stranezza.

Vediamo così Cunningham praticare la meditazione indossando “un’ampia tunica gialla”, e teorizzare l’organizzazione, su una piccola isola di sua proprietà al largo della costa della Sardegna (non insomma la Sicilia di Cefalù), di una comune organizzata su

 

princìpi completamente anarchici […] Tutto sarebbe condiviso, comprese le donne. Mettere­mo in atto il precetto di Rabelais: “Fai quello che vuoi”. Finora il suo problema era stato la mancanza di denaro, ma la pittura di Oliver e l’invenzione di Kirsten probabilmente ci avrebbero fornito i soldi necessari. Non appena si fosse sparsa la voce dell’e­sistenza della nostra comunità, avremmo attirato grandi artisti da tutto il mondo e le signore facoltose avrebbero fatto a gara per poterci finanziare.

 

Peccato che il mago inizi anche a pensare di allargarsi sulla piccola rendita di Sorme, con vaghi cenni a “capi” in Oriente – dai quali trarrebbe i suoi “poteri” – pronti ad appoggiare l’impresa… Se poi mostra buon fiuto su ciò che l’irrequieto Sorme desidera davvero dalla vita (“Un modo per intensificare la mia coscienza di dieci volte; un modo di vivere più completo”), in rapporto alle riflessioni di Cunningham il giudizio di Sorme è netto:

 

per quanto possa essere un ciarlatano, ha innegabilmente alcune in­tuizioni profonde e qualche conoscenza insolita della psicologia, che non può avere appreso in Inghilterra (respingo la possibilità che sia frutto della sua mente; sebbene sia intelligente, non mi sembra un pensatore creativo).

 

Una valutazione di Wilson che, almeno all’epoca, possiamo riferire a Crowley.

Cunningham inizia Sorme anche alle droghe, pontifica su come prolungare l’orgasmo, gli infligge la lettura del Libro di Abramelin che in realtà non lo colpisce, ma intanto iniziano a emergere pagine del suo passato… Quando Frederick Wise, “un’autorità nel mondo delle sette eretiche […] un curioso vecchio con una zazzera di capelli bianchi e un gozzo terribile che gli dà l’aspetto di un rospo” apprende che Sorme rischia di finire sotto l’influenza dello strano conoscente, risponde: “C’è solo una cosa che posso dire con certezza su Cunningham. […] È uno dei pochi uomini davvero malvagi che abbia mai incontrato. Stia lontano da lui”. Anzi Cunningham sarebbe destinato a un futuro di perenne insuccesso, per avere infranto i suoi giuramenti di usare la magia soltanto per il vero bene: una chiave suggestiva – difficile dire quanto credibile – se riferita alle sfortune di Crowley, ma che ben si coniuga con il mito da tabloid di quest’ultimo. Wilson non cade nella trappola dell’“uomo più malvagio del mondo” – e neanche nella scandalizzata ostilità del primo biografo della Bestia (1951), John Symonds – ma attraverso le voci dei nemici di Cunningham mette in scena un teatrino che ai suoi tempi si nutriva ancora di un’immagine di Crowley da giornali popolari. Misurandosi con la complessità di un profilo spiazzante riconducibile alla genia degli outsider: dove in fondo sesso & magia si rivelano sistemi per potenziare l’esperienza esistenziale. Riflette Sorme:

 

Di una cosa sono certo: l’energia sessuale è quanto di più vicino alla magia – al soprannaturale – che gli esseri umani abbiano mai sperimentato. Merita uno studio continuo e attento. Nessuno studio è così redditizio per il filosofo. Nell’energia sessuale può osservare lo scopo dell’universo in azione.

 

Nell’era del politicamente corretto, l’enfant terrible Wilson riesce ancora a essere urticante: in qualche caso, è vero, per posizioni sul rapporto tra sessi obiettivamente superate, ma più spesso per la spregiudicata disinvoltura con cui analizza le proprie pulsioni e i propri sogni.

Nella girandola di avvenimenti successivi, rituali sovreccitati con sostanze tossiche, andirivieni sessuali con più giovani donne, richiami a Sade e a Varney il vampiro, ricordi delle avventure pregresse del mago, beghe tra occultisti (compare anche tal Doughty, doppione di Mathers, opportunamente “in a Scots kilt” come l’ex-amico di Crowley amava paludarsi), discussioni su argomenti esoterici di vario tipo, manipolazioni tentate da Cunningham ai danni di tutti i personaggi, irruzioni di giornalisti o di polizia, si offre comunque spazio anche al Crowley autentico. Sorme intende infatti inserire nel testo che sta scrivendo – Metodi e tecniche di autoinganno, sorta di calco dei volumi dello stesso Wilson – un capitolo sui ciarlatani, e collocherebbe lì il vecchio Aleister:

 

Cunningham lo conosceva bene negli anni Trenta ed è dell’opinione che Crowley possedesse sicuramente certi poteri, sebbene la maggior parte della sua magia fosse suggestione. Que­sta è la cosa che mi sorprende di Cunningham: che possa essere così distaccato e scettico sulla magia e poi credere alle cose più assurde. Ha criticato il fatto che secondo me serve una buona dose di cecità mentale per ingoiare le stravaganze di Cagliostro. “Mio caro ragazzo, non ti serve la credulità per interessarti all’oc­culto. Si parte da molto meno. Ti basta sapere che sei annoiato e sentirti legato mani e piedi – e tutti concordano su questo. L’unica altra cosa che devi accettare è che esistono davvero dei grandi poteri nell’universo, al di fuori di te, e che in rari momen­ti puoi metterti in contatto con loro e sentirti come un dio. Non appena inizi a studiare i metodi per stabilire un contatto, ecco che la magia comincia a interessarti”.

 

Senza svelare troppo su un romanzo godibilissimo anzitutto per come è narrato, si può rivelare che il mago maneggione finisce col fuggire oltre Atlantico: dove un finale beffardo gli attribuisce una sorte – di fondatore di una nuova religione, sostenuto da varie “società Cunningham” – simile a quella del suo maestro Crowley. Ad anticipare idealmente non solo il contesto torbido del terzo romanzo su Sorme, The God of the Labyrinth (in USA The Hedonists), 1970, di futura riproposizione per Carbonio – la ricerca del protagonista non poteva esaurirsi nelle buffe vicende qui descritte – ma altre più dirette apparizioni di Crowley in successive opere di Wilson.

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (IV) (Victoriana 28/7) https://www.carmillaonline.com/2020/08/29/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-iv-victoriana-28-7/ Sat, 29 Aug 2020 21:11:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62505 di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora in forma di volumi, ora di articoli, c’è di che riempire un’intera biblioteca.

Ma fin qui si tratta solo di una parte della sua opera, al di là della fitta rete di connessioni che collega tutto in un continuo dialogo: un’unica giostra dove l’ironia diventa strumento occulto e le più varie arti – compresa la pittura, di cui il Nostro a un certo punto si entusiasma – vengono riconosciute come magiche.

Pensiamo ai suoi scritti spesso pepati su temi filosofici, politici, o in senso lato culturali (eventualmente con tagli sfiziosi per farsi ospitare a pagamento su qualche testata), o alla sua straordinaria “autoagiografia” – come la definisce in sottotitolo – The Confessions of Aleister Crowley, 1929, da accostare con una certa prudenza ma di interesse enorme e grande divertimento. O all’amplissima produzione poetica, dove alterna testi molto belli ad altri in cui l’intento provocatorio – motivato all’interno di una riflessione fortemente polemica verso i valori tradizionali del mondo occidentale – rende la godibilità letteraria un po’ altalenante (ma simpatici sono i Songs For Italy, 1923, con una serie di frecciate al fascismo che l’ha cacciato da Cefalù). Pensiamo alle opere teatrali, sorta di interfaccia più libera alle pantomime dei rituali, o alle sue stesse traduzioni, dove una certa libertà autoriale/magisteriale è comunque ravvisabile: per esempio quella de I Ching (proposta in Italia da Tre Editori, 2018), evidenziante proprio la tensione a mescidare tradizioni assai distanti che tanto preoccupa colleghi esoteristi più legati alla loro “razzialità” (per esempio, abbiamo visto, Dion Fortune).

Nel panorama non poteva mancare la narrativa: e a parte alcuni romanzi più o meno noti al grosso pubblico, Crowley produce un’imponente messe di racconti che spiccano per qualità nell’orizzonte di una fiction breve primonovecentesca di lingua inglese dai contenuti fantastici, visionari o comunque eccentrici – e avvicinati per esempio dalla critica a quelli di un altro personaggio un po’ eccessivo di fine età vittoriana, il conte Eric Stenbock (1860-1895). Certo, non tutti i racconti crowleyani presentano lo stesso livello d’interesse e comunque non si tratta di grandi capolavori della letteratura. Una certa parte viene anzi varata a fini anzitutto alimentari, a fronte di una situazione economica che qualche lustro dopo condurrà il Nostro al fallimento sancito dal tribunale: l’eredità paterna fondata sulla birra (l’azienda familiare Crowley’s Alton Ales da cui il padre, pensionandosi, era passato all’attività di predicatore dei rigoristi Plymouth Brethren) è schiumata letteralmente via. Ma queste storie pensate per divertire e insieme formare alle idee thelemite (in qualche caso con riferimenti tecnici che sfuggono al lettore non preparato, ma sempre con lo strumento del paradosso e dell’ironia) sono nel complesso molto felici: e persino nei racconti minori, qualche guizzo del ruspante geniaccio dell’autore riesce qui e là a dardeggiare.

La spregiudicata capacità di cavalcare mode d’epoca – certe scene brillanti, un certo tipo di poliziesco – non ostacola note di genuina originalità: si pensi alle quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) incentrate su Simon “il semplice”, cioè il mistico, occultista e detective Simon Iff, creato alla fine del 1916. A metà gennaio 1917 Aleister ha già terminato di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff, poi edita su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio che ritiene di reincarnare, il losco medium del mago elisabettiano John Dee. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). Anche se è eccessivo proclamare – come fa lui annunciando la seconda serie – che si tratta dei polizieschi più sensazionali dopo quelli doyliani su Holmes, è vero che il taglio è innovativo: un mix tra i classici racconti polizieschi e i casi dei detective dell’occulto, con un occhio alla psicologia e un po’ di Thelema.

Come l’autore ricorda nella proprio “autoagiografia”, al di là di qualche differenza da una serie all’altra il sistema sottostante le avventure di Iff si basava

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Per inciso Simon Iff è lui, Aleister, in una versione “anziana” e saggia mixata (almeno nel romanzo Moonchild, scritto 1917 e pubblicato 1929, dove Iff torna) a qualcosa di Allan Bennett, suo istruttore magico ai tempi della Golden Dawn, poi monaco buddhista e figura fondamentale per l’ingresso del buddhismo in occidente: uno dei pochi amici per cui negli anni Crowley manterrà intatta un’affettuosa devozione, e di cui dovremo qui riparlare.

Ma le varie serie su Iff non esauriscono la produzione crowleyana di racconti brevi – come ricorda un volumetto uscito di recente nella deliziosa collana “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi delle salernitane Arcoiris, 2019: I Racconti della Bestia a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti è infatti una raccolta di dieci testi (tradotti da Luca Baldoni, introduzione di Steve Sylvester dei Death SS) tali da fornire un buon assaggio della novellistica del Nostro.

L’operazione è interessante, e per più motivi. A partire da uno contingente, cioè che si tratta della prima antologia italiana di racconti brevi di Crowley, otto inediti più due proposti con diversa traduzione sulla rivista Hypnos. A dar conto di varietà di registri – l’orrido e l’erotico, il fiabesco e il poliziesco brillante – che il lettore nostrano non collega automaticamente a un autore come il Nostro. E laddove si corteggia il fantastico – anche senza giungere al livello dei capolavori brevi di autori coevi come Machen – incontriamo comunque novelle affascinanti per la varietà e il carattere estremo degli spunti, il delirio onirico di certe suggestioni, il gusto dello strano su cui l’autore non risparmia nulla.

Il che traghetta immediatamente a un secondo motivo d’interesse, uno stile in genere non “alto” ma di qualche eleganza, e che risente naturalmente del contesto culturale del primo ventennio del Novecento: un mix di enfasi decadente e ironia lieve da buona società al caffè, conati simbolisti dove s’intravede il Crowley poeta e soluzioni popolari quasi alla Weird Tales, suggestioni estenuate e sfuggenti – anche a base di metafore in cui il lettore s’immerge e si attarda, con stranianti derive – ed eccessi a forti tinte. Spesso giocando con l’implicito, ora nel segno del gioco frizzante e ora di un’obliquità esoterica: da cui fantasie che sembrano imbizzarrirsi alla lettura, significati che si colgono come di sguincio sul lato dello sguardo, provocazioni talora francamente criptiche.

E un terzo motivo sta nel teatro che s’intravede dietro questi racconti, le dinamiche erotiche e le contrapposizioni, i profili di personaggi amici o nemici (come già nei racconti con Iff) e gli episodi autentici o presunti tali dalla vita dell’autore – che vi sgomita spudoratamente. Attenzione, nella disamina che segue qualche spoiler emergerà.

I primi racconti guardano come prevedibile al Crowley occultista. “La violinista” (“The Violinist”), scritto nel 1910 e pubblicato su The Equinox del settembre di quell’anno sotto lo pseudonimo di Francis Bendick, vede per esempio una protagonista modellata sulla seducente Leila Waddell, 1880-1932, violinista australiana ed ennesima partner magica della Bestia. Oggetto del racconto è il dividersi di lei tra due partner, un prosaico “ragazzo allegro” e un amante pneumatico richiamato per magia – con evocazione musicale su un pannello mosaicato enochiano –, dalle conseguenze inattese o forse non troppo. Non ci addentriamo in questa sede nel groviglio tecnico-occulto relativo al carattere N (altrove reso con diverso segno grafico) su cui si concentra la violinista, donde diverse possibili identità del lubrico spirito Remenu.

Anche più emblematico è “Al bivio” (“At the Fork of the Roads”), circa 1908 e pubblicato anonimo su The Equinox del marzo 1909, dove una tal Hypatia Gay, amante del poetastro/mago Will Bute, va a trovare il conte Swanoff, giovane poeta neofita della Fratellanza della Stella d’argento. I nomi possono non dirci nulla, ma Hypatia è in realtà Althea Gyles (1868-1949), illustratrice cara al poeta Yeats qui celato sotto la maschera di Will Bute: l’atteggiamento tiepido verso le abilità liriche di Crowley e lo scontro che li vede militare da parti opposte nella scissione della Golden Dawn conducono presto a un’ostilità personale. Mentre il conte Swanoff è naturalmente Aleister, il cui primo appartamento a Londra, 67-69 Chancery Lane, era stato affittato sotto lo pseudonimo di Conte Vladimir Svareff: anzi anche Swanoff – ci viene detto a un certo punto – è un mero pseudonimo per nascondere il lignaggio reale celtico del protagonista. Quanto alla Fratellanza della Stella d’argento si tratta trasparentemente dell’A∴A∴, organizzazione pensata da Crowley fin dal 1907, e la cui sigla è spesso resa come Astrum Argenteum.

Qui il racconto merita qualche cenno in più. Bute, cupamente geloso di Swanoff – come, sostiene Crowley, è Yeats di lui – ha mandato la sua aiutante in missione speciale in campo nemico: e il conte l’accoglie ammonendola a sfuggire i tentacoli del Polpo Nero che ha deciso di servire, e a non finire vittima dei vermi della Melma Ineffabile (notiamo come la fantasia dell’autore sia squisitamente evocativa). Sciocchino, gorgheggia lei, la prossima volta lo farà contento entrando con lui nel Tempio Bianco: però allontanandosi riesce a graffiargli la mano con una spilla, e porta trionfante quella goccia di sangue a Bute per i suoi sortilegi. In effetti l’indomani Swanoff si sveglia debolissimo e cereo, con le mani rugose: ma per fortuna arriva il suo maestro, che lo rimprovera di aver avuto a che fare con la Goetia – potremmo dire la magia di evocazione demoniaca. Swanoff assicura di no, e il maestro commenta che allora è la Goetia che ha avuto a che fare con lui. L’episodio di questo rimprovero – con tali parole – è autentico, e a muoverlo a Crowley era stato proprio il suo citato istruttore magico Allan Bennett: la dialettica tra i due è qui speculare a quella nel più tardo romanzo Moonchild tra il giovane Cyril Grey e l’anziano Iff, dove pure si cerca di impedire che i cattivi (tra i quali lo stesso Yeats) usino il sistema del graffio per sottrarre la stilla di sangue a fini occulti.

Il maestro predispone dunque il contrattacco. Anzitutto consegna al discepolo una pergamena magica da tenere sotto il cuscino, e lo istruisce a uccidere chi lo attaccherà: come in effetti farà in sogno una donna di pericolosa bellezza – ovviamente un succubo, che rivelerà caratteristiche spiacevoli – e per dieci notti Swanoff si affannerà a strozzarla. Passo successivo sarà il far infestare la casa di Hypatia – che ha tentato di tornare per procurarsi altro sangue – da migliaia di gatti, dandole qualcosa di cui occuparsi (si tratta di un sistema citato in più resoconti occultistici, e dunque almeno un topos di questo tipo di narrativa). Ma al terzo tentativo della pertinace fanciulla, Swanoff la chiude dentro il tempio: e lì si consuma una degna punizione per opera del dio celato dietro i sipari. A seguito della quale verrà ripudiata da Bute e finirà preda di un laido editore… Come riportato dalle note di The Equinox, “Questa storia è reale in ogni dettaglio. Data degli eventi 1899 E.V. maggio o giugno”: e la sintesi qui offerta non rende minimamente il carnevale di trovate. D’altra parte pareva importante soffermarvisi, sia perché appunto evidenzia i nessi con la vita dell’autore – per come almeno lui riteneva di viverla – e con altre sue opere chiave come Moonchild, sia perché si tratta del trasparente esempio di uno stile solenne e visionario giocata su mezzitoni d’ironia.

Assai più criptico è il racconto “Un ballo in maschera” (“A Masque”), mai pubblicato prima del 2010. In scena è una sorta di antiannunciazione nel segno del notturno e del lunare, e anzi di antinatività dove una misteriosa entità gobba – a metà tra l’incubo di Füssli e uno spirito astrale – si accoppia fatalmente con la splendida Margarita.

Ma, come detto, la raccolta guarda a registri piuttosto vari. “Il cacciatore di anime” (“The Soul-Hunter”) è sostanzialmente un horror, dai toni sfuggenti che fanno pensare a certe derive oniriche: scritto nel 1908 e pubblicato su The Equinox nel marzo 1910, narra i frustranti tentativi di un mad doctor di trovare l’anima in un paziente-vittima. Francamente più birichino, “La volpe” (“The Vixen”), edito su The Equinox del marzo 1911 di nuovo come Francis Bendick, è dedicato e nuovamente ispirato a Leila Waddell nella figura della protagonista Patricia Fleming, tra sadomaso, licantropia e naturalmente occultismo. Invece “La faccia” (“Face”), proposto per la prima volta sul Pearson’s Magazine nel settembre 1920, è un’originalissima vicenda poliziesca sulle conseguenze del rifiuto di uno spasimante cinese per motivi razziali: la citata formula del “chiudere tutte le fessure con lo stucco” alla base dei racconti di Simon Iff (che pure qui non c’è) vi sembra adottata in pieno.

“Illusion d’amoureux”, di nuovo edito a firma Francis Bendick su The Equinox del settembre 1909, coinvolge nel ruolo della protagonista la scrittrice Ada Leverson (1862-1933) che nel 1907 aveva avuto una relazione con l’autore. Qui la troviamo, coricata in una bara appesa come un’altalena, in attesa di essere visitata da “un dio imperscrutabile, sorridente, sempre sorridente di un sorriso che esprimeva una lussuria inimmaginabile e una crudeltà risolta – grazie a quale alchimia teurgica? – in una beatitudine fredda e pura” (e che lei, per non sbagliare, invoca quale “Abominazione suprema”). Sembra probabile che in fondo si tratti dell’ennesimo autoritratto di Crowley stesso.

Per certi versi ancora più spiazzante, a considerare l’idea che a torto o a ragione si ha spesso di Crowley, è “Il colore dei miei occhi” (“The Colour of My Eyes”), probabilmente scritto nella primavera 1918, una fiaba sapienziale delicata e ironica su Arte, Onnipotenza e Amore che fa pensare a un Wilde minore. Mentre “Il furto della signorina Horniman” (“Robbing Miss Horniman”), edito la prima volta su The International nell’aprile 1918, è un garbato racconto giallo dal doppio finale. Torniamo al criptico e al macabro con “Queste cose sono un’allegoria” (“Which Things are an Allegory”), edito soltanto postumo: un apologo strano, in qualche modo di critica sociale, al di là del linguaggio fiabescamente nero.

Naturalmente chi sia interessato a misurarsi con l’inglese elusivo, ironico e febbricitante dei racconti di Crowley può leggerli in lingua originale: il corpus dei testi narrativi brevi è infatti raccolto oggi in due volumi dalla splendida collana “Tales of Mystery and the Supernatural” per i tipi Wordsworth. Cioè The Simon Iff Stories & Other Works (2012), comprensivo delle quattro raccolte su Iff più gli otto racconti neopagani della raccolta Golden Twigs, ispirati al Ramo d’oro di Frazer (scritti 1916); e The Drug & Other Stories (2010), con ben quarantanove racconti – trenta dei quali pubblicati già dall’autore, gli altri inediti –, compresi quelli della presentata edizione italiana.

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (III) (Victoriana 28/6) https://www.carmillaonline.com/2020/08/15/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-iii-victoriana-28-6/ Sat, 15 Aug 2020 21:08:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62212 di Franco Pezzini

Dion Fortune vs. Aleister Crowley

Partiamo da una foto. Circa 1905: la ragazza – forse quindicenne, espressione serissima – ha il viso un po’ tondeggiante, i capelli acconciati con una riga in mezzo, e veste alla maschietta con giacca scura, camicia, cravatta. Sta guardando dritta nella macchina fotografica, pare fissarci. In un’altra foto della stessa serie – pochi minuti prima, o dopo – è invece di tre quarti e vediamo meglio il naso dritto, lo sguardo intelligente e determinato. Anche se il padre si occupa di stabilimenti idroterapici, la matrice [...]]]> di Franco Pezzini

Dion Fortune vs. Aleister Crowley

Partiamo da una foto. Circa 1905: la ragazza – forse quindicenne, espressione serissima – ha il viso un po’ tondeggiante, i capelli acconciati con una riga in mezzo, e veste alla maschietta con giacca scura, camicia, cravatta. Sta guardando dritta nella macchina fotografica, pare fissarci. In un’altra foto della stessa serie – pochi minuti prima, o dopo – è invece di tre quarti e vediamo meglio il naso dritto, lo sguardo intelligente e determinato. Anche se il padre si occupa di stabilimenti idroterapici, la matrice familiare è l’alta borghesia dell’acciaio, produzione di armi a Sheffield: e il nonno ha creato un motto di famiglia, “Deo, non Fortuna”, per griffare il proprio successo sociale. Senza immaginare che la nipote, Violet Mary Firth – la ragazza delle foto, che in quel periodo vara due raccolte di poesie, Violets e More Violets, 1904 e 1906 – trasformerà quel motto nel proprio pseudonimo densamente simbolico, Dion Fortune (1890-1946). Passerà da psicanalista (a poco più di vent’anni una delle meglio pagate di Londra) a occultista, anzi una delle più grandi del XX secolo: e attraverso contatti con varie scuole – inizialmente la Società Teosofica, poi gli epigoni della Golden Dawn e il gruppo del Moriarty di cui si dirà – cercherà di sposare la tradizione ermetica alle moderne scienze umane (Freud e Adler da cui è iniziata la sua formazione, più avanti Jung) nell’esaltazione del principio femminile. Articolando il suo pensiero in una vastissima produzione di testi monografici e di articoli, ma anche in garbate opere narrative a tema occulto che le romane edizioni Venexia hanno preso sistematicamente a pubblicare.

Gli inizi delle avventure di Dion Fortune nei mondi sottili sono in realtà un po’ traumatici, segnati da un’aggressione psichica ai suoi danni (sull’interpretazione del concetto si lasciano liberi i lettori). A salvarla è un collega più anziano che prende a fungerle da mentore, Theodore William Carte Moriarty (1873-1923), il cui profilo lei dunque adotterà affettuosamente come modello per il dottore psichico protagonista della sua prima opera narrativa, una serie di racconti apparsi separatamente nel 1922 e più avanti raccolti nel volume The Secrets of Doctor Taverner, 1926 (I segreti di Taverner, dottore dell’occulto, Venexia 2003).

L’entusiasta Fortune, che alla morte di Moriarty non è riuscita a succedere alla guida del suo gruppo, sta organizzando a quel tempo una propria comunità, la Community – poi Fraternity, quindi Society – of the Inner Light fondata nel 1924, con un numero crescente di discepoli, e proprio a Pentecoste 1926 hanno un’importante esperienza estatica nella sede organizzata in un vecchio frutteto ai piedi del Tor, la collina di Glastonbury. Se le storie di Taverner sono precedenti, il conflitto magico con Moina Mathers, vedova del vecchio padre-padrone della Golden Dawn, deve contribuire al clima in cui la raccolta matura.

The Secrets of Doctor Taverner, che si iscrive nel filone al tempo di successo sui dottori dell’occulto, vede Taverner fronteggiare i più vari fenomeni paranormali, e rappresenta forse il frutto più immediatamente godibile della produzione dell’autrice per un pubblico odierno: ma in generale tutti i suoi romanzi restano piacevoli, e un garbato clima primonovecentesco molto british ammanta vivide storie di rinascita spirituale, virtuali controcanti narrativi alla sua ampia produzione saggistica (in questo caso, per esempio, l’opera può essere utilmente abbinata al godibilissimo – nel senso che si legge come un romanzo – manuale Psychic Self-Defense, 1930, più volte tradotto in Italia).

Il paragone con Crowley è inevitabile. Entrambi arrivano dai frantumi della Golden Dawn, entrambi sono occultisti e scrittori, entrambi spiccano tra le eccellenze magiche del Secolo Breve, lui come uomo – e, piaccia o non piaccia, è un mattatore assoluto – e lei come donna, forse con minore genialità e versatilità ma senz’altro con un enorme impatto. Anzi da un certo punto di vista può essere considerata la risposta femminile a Crowley o anche l’anti-Crowley, anche se il discrimine è nei fatti meno netto di quanto appaia a una prima occhiata.

Tra i due non corre un’ostilità personale evidente, ma il vecchio 666 non può piacerle. Per lei, parlando in senso generale, un “black occultist” è uno che fa dell’“occultismo un pretesto per i propri vizi”, “sostiene la visione pagana della vita [in realtà anche nel cristianesimo esoterico di Fortune aspetti pagani non mancano] e un ritorno al primitivo, e racconta a signore non sposate di età incerta che ciò di cui hanno bisogno è parte del suo magnetismo maschile” (dall’opera Sane Occultism, 1929). Sta ammiccando ad Aleister? Forse sì, anche se le interessa stigmatizzare il tipo di approccio più che il collega in questione.

E appunto tra le avventure di Taverner, una sembra richiamare Crowley. “La casa del potere” (“The Power House”) vede emergere dalla folla di Londra, tra auto e quartieri sordidi, un occultista losco, tale Josephus, che fa pensare all’uomo della folla di Poe.

 

Davanti a noi rumoreggiava la marea della Londra commerciale, dalla quale balzò fuori un altro relitto umano sospinto sulla nostra isola come da un flutto. La mia mente tornò immediatamente alle immagini di Riccardo III nei miei libri di scuola: lo stesso volto da furetto, ma intellettuale, la bassa statura e la schiena lievemente gobba che serviva a spingere in fuori il torace dalla struttura potente per quanto sgraziata. Il pallore della pelle rivelava la scarsa salute e la vita malsana, trascorsa nell’aria sporca e senza la luce del sole, prediletta dagli abitati di quella zona. Gli occhi erano rotondi e luminosi come lo sono gli occhi neri come bottoni. La bocca, ampia e dalle labbra sottili, sembrava crudele; la bocca di un uomo sensuale, ma freddo, che provava sensazioni e non emozioni.

Il suo viso attirò la mia attenzione anche in quello sguardo veloce, perché esprimeva potere, ma fu il suo comportamento nei minuti a seguire che si impresse con tutti i particolari nella mia mente, perché non appena alzò gli occhi su Taverner la sua espressione cambiò da quella di una taccola agile e sveglia a quella di un gatto in trappola. Emise un suono che assomigliò molto a un sibilo

 

e lanciandosi nel flusso del traffico viene urtato da un’auto. Niente di grave, ma mentre è privo di sensi (Fortune sta pensando al finto malessere in strada dell’Haddo di Maugham?) Taverner si china su di lui e occhieggia per un momento il contenuto del taccuino che quello tiene in tasca, defilandosi poi rapidamente con l’amico e biografo Rhodes. La descrizione calza su Crowley almeno in parte e la conferma giunta da cenni offerti da Taverner – “Si pensava che fosse in Tunisia; persino Parigi era diventata troppo pericolosa per lui, invece eccolo qui, di nuovo a Londra” – sembra adattarsi bene al mago giramondo che tra il 1923 e il 1929 sarà appunto in Tunisia, a Parigi e infine a Londra, ma già prima aveva viaggiato moltissimo.

Anche qui come in Maugham troviamo una donna plagiata – tale Mary McDermot – e un losco manipolatore: appunto quel Josephus che considera un santo o un adepto. Il tipo organizza corsi di sviluppo psichico dopo aver scalzato il precedente leader di un gruppo iniziatico, tale Coates (Mathers?), e si è creato una confortevole setta-harem. Non dimentichiamo che nel 1922 (quando i racconti di Taverner sono pubblicati separatamente) Crowley sta portando avanti la comune della cosiddetta Abbey of Thelema di Cefalù (1920-1923), in un clima sporchiccio di harem che ritroviamo nella comunità di Josephus, e nel 1926 (edizione della raccolta) ha già subito pesanti attacchi dai tabloid per i fatti consumati in tal sede.

Ora il marito di Mary vorrebbe strapparla di lì, dove lei “perderà la propria anima”: lo scopo del plagiatore “è il male”, e anzi una sorta di vampirismo per cui necessita di sempre nuove reclute, se no si indebolisce. Taverner, che ha collaborato in passato a dare una lezione a Josephus (“Non c’è mai stata una canaglia più infida e […] non è uno di poco peso”), si offre di aiutarlo; e il fedele Rhodes si infiltra nella conventicola del nemico. Notiamo che Josephus appare drappeggiato e con la testa bendata come Crowley in varie foto all’orientale; che anche Josephus è coltissimo e divertente; che anche lui, pur non essendo un grande mago (il giudizio è stroncante), “conosce molte cose sul lato occulto del sesso e delle droghe”. Comunque Taverner con Rhodes gioca un nuovo tiro a Josephus, mettendolo KO ed esorcizzando il potere che stagna nella casa; poi congeda Mary che, liberata, torna dal marito. Certo, davanti a un arcidetective psichico come Taverner non c’è storia, e l’unica vera difficoltà è quella di sciogliere il legame psichico della vittima: per quanto canaglia, Josephus non sembra un vilain troppo serio e tutto si consuma rapidamente. Di assai più ampio respiro e pericolosa complessità è invece la vicenda di un romanzo di qualche anno dopo, The Winged Bull, 1935 (Il Toro alato, appena edito da Venexia): e, per il profilo di un altro vilain decisamente più tosto da affrontare, l’autrice – ça va sans dire – torna a Crowley.

Sono passati nove anni dalla raccolta, e Fortune è alla sua terza opera narrativa, per non parlare di tutto il resto delle sue pubblicazioni: del 1935, per dire, è anche il suo fondamentale The Mystical Qabalah. L’autrice ha iniziato ad abbandonare i compiti comunitari (nel 1931 si è dimessa da responsabile della Fraternità) per lavorare maggiormente su se stessa e semmai diramare insegnamenti tramite opere narrative: una fase in cui, rispetto al passato, accentua l’attenzione al dato rituale rispetto ad altri della sua precedente riflessione. Come appunto constatiamo nel Toro alato.

La trama (attenzione, con spoiler). Dopo la fine della Grande guerra, l’ex-ufficiale trentaduenne Ted Murchison, tanto capace tra i ranghi, non è più riuscito a trovare una propria dimensione sociale, e vivacchia tollerato dal fratello ministro di culto e dall’arcigna cognata. Dove l’autrice, tra le pieghe di un romanzo non tecnicamente letterario (al di là dei sottotesti esoterici e di un certo garbo, siamo in piena narrativa popolare, romanticismo annesso) offre un quadro documentario molto interessante di un impero in crisi, tra disoccupazione e demotivazione diffusa, con il problema di reduci che non riescono a ritagliarsi spazio nella società civile.

La crisi è anche, robustamente, spirituale: l’anglicanesimo di stato, moraleggiante e arido, sembra non offrire più sollievo e senso. Così all’inizio del romanzo, al British Museum, Ted si trova a simpatizzare con un’immagine religiosa molto più antica e che, nei suoi rovesci di fortuna, gli pare più vicina del Dio di suo fratello: un Toro alato, entità divina dell’antica Mesopotamia, icona di quelle dimensioni alte degli antichi paganesimi che lo spingono a proclamare ad alta voce – da memorie dei suoi studi giovanili – l’antica invocazione del dio Pan. Col risultato di essere udito – e portato in salvo nella nebbia fitta dove s’era perso, immagine emblematica di una caligine anche interiore – da un vecchio conoscente di passaggio, uno dei suoi superiori nei giorni dell’esercito, il paterno e amatissimo Brangwyn: e questi, colpito dal contesto e ricordandolo come giovane di grandi doti, gli offre un lavoro tanto ben pagato da autonomizzarlo dagli orridi parenti. Nella sua dimora elegante nascosta tra i bassifondi di Bloomsbury, Brangwyn ha coltivato i propri studi di antiche religioni, psicologia ed esoterismo non solo sui libri, e Ted comprende solo poco per volta cosa il nuovo capo vagheggi per lui. Per inciso, il Toro alato (lamassu o shēdu) era in varie civiltà mesopotamiche uno spirito guardiano, mentre qui diventa una metafora per la sessualità sublimata attraverso la spiritualità.

Il fatto è che la sorellastra del capo, tanto più giovane di lui, Ursula (di cognome Brangwyn, a ricordare non casualmente l’eroina di David Herbert Lawrence, Ursula Brangwen), ha un grosso problema. Già “pitonessa di alto grado” per il fratello, ha partecipato a un rito esoterico da lui celebrato assieme al suo ex-segretario, tale Frank Fouldes: col risultato del saldarsi di una relazione sentimentale e magica tra i due giovani. Peccato che l’elegante, molle e ambiguo Fouldes – intellettuale e pacifista (orrore!), a pagar pegno a un certo patriottismo greve del tempo – sia caduto sotto l’influsso malefico di un mago nero, il mezzosangue Hugo Astley. Ovviamente Brangwyn ha provveduto ad allontanare il segretario ormai burattino dello stregone, ma l’instabile Ursula gli è rimasta magneticamente legata, scivolando in una penosa deriva nevrotica. Così Brangwyn ha arruolato Ted – goffo, rozzo, per nulla intellettuale – come nuovo segretario per fargli celebrare lo stesso rito con Ursula, e farla legare magicamente a un uomo di ben altra solidità e fiducia.

Ora, l’identificazione con Crowley del minaccioso Astley è stata talora contestata sostenendo che si tratta semplicemente di un mago nero come lui veniva gabellato in quegli anni dai tabloid: proprio nel 1935 gli strascichi del processo contro Nina Hamnett per il ritratto che aveva offerto di lui nel memoriale Laughing Torso (1932) l’avevano portato alla bancarotta; e del resto alla fine dell’anno prima era sempre plausibilmente Crowley il modello del lumachesco Mocata in The Devil Rides Out di Dennis Wheatley, 1934. Eppure vedremo che anche qui i cenni sono sufficientemente univoci da poter giustificare un’identificazione (almeno virtuale e “caricata” da romanzo), e la stessa assonanza Astley/Aleister sembra interessante. Pur non potendo escludere che, nella libertà della fiction, l’autrice vi mixi anche la fantasiosa trasfigurazione di un altro mago mulatto esperto in riti sessuali, Paschal Beverly Randolph (su cui cfr. qui).

La sofisticata Ursula e il rude soldato – entrambi dai caratteri difficili e orgogliosissimi – di primo acchito non sembrano fatti per intendersi, non si piacciono e paiono costituire veri e propri poli antitetici: ma quando Ted, che il principale/mentore sta formando a una consapevolezza del mito e del simbolo, celebra con la ragazza un primo rituale, ecco nascere un inizio di sinergia. La situazione resta però complicata, sia perché i vilain tentano in più occasioni di recuperare Ursula, e lei stessa è fortemente tentata di seguirli, sia perché le reazioni di lei e quelle di Ted sono ancora improntate immaturamente alla schermaglia, tra frasi infelici, giudizi superficiali, incomprensioni reciproche. Insomma la ragazza finisce col cedere alle lusinghe di Astley, che vuole coinvolgerla nella degradante Messa del Toro (Mass of the Bull, “quella che celebravano a Creta […] L’origine della leggenda del Minotauro”, in realtà un’invenzione dell’autrice che si ispira alle messe nere): ben diversa insomma dal rito del Toro alato dell’erudito Brangwyn, che mirerebbe a “Un’intensificazione della vita su tutti i livelli”.

Fingendo di fare il doppio gioco, Ted accetta dunque di partecipare al rito del mago cattivo, e si trova legato su una croce in termini assai più scomodi e pericolosi di quanto avesse creduto, col risultato però di comprendere meglio il senso salvifico di quel sacrificio nel cristianesimo. Si intuisce che il rito dovrebbe culminare in un atto sessuale su un sepolcro/altare tra Ursula e il viscido Fouldes: ma profittando di un momento di oscurità Ursula libera Ted, e i due si nascondono nelle stanzette sul retro della sala. Riusciranno a uscire dalla situazione di scacco – Fouldes fa il furbo e Ted gli rifila una saccagnata di botte, Astley incassa la sconfitta (in fondo per lui Ursula vale come qualunque altra donna) – e dopo qualche ulteriore strascico d’incomprensioni il lieto fine sarà coronato per Ursula e per il Toro alato Ted dall’amore, da una maturazione psicologica e da una crescita spirituale.

Rispetto al resto della fiction dell’autrice questo romanzo – in fondo uno dei primi – è stato talora giudicato il meno interessante, e comprensibilmente l’editore l’ha posposto ad altri più noti e riusciti: e tuttavia merita senz’altro la lettura, sia per la piacevolezza che per le tensioni sottostanti tradite.

Certo può essere letto da ottiche diverse. Per l’autrice si tratta della drammatizzazione narrativa di una serie di riflessioni in tema magico-erotico (il Toro alato presenta un corpo animale, immagine di grande forza anche sessuale, una nobile testa umana e ali simbolo di spiritualità): Ursula e Ted sbagliano continuamente, ma si danno da fare per sollevarsi – e salvarsi a vicenda – in vista di un’unione dove il sesso non è demonizzato e punta a dimensioni alte. Quindi molti aspetti culturalmente datati dei loro profili in progress, riscontrati con sconcerto da lettori moderni, vanno intesi come non definitivi, connotati d’immaturità destinati nel finale a un armonico superamento.

D’altra parte, un po’ come Margaret ne Il mago di Maugham, Ursula è al centro di una rete avviluppante di azioni di controllo e di vere e proprie sopraffazioni: comprese quelle a fin di bene del fratello che la coinvolge nei suoi esperimenti, e che manipola con gran disinvoltura anche il protagonista. A richiamare di nuovo, anche con un certo pragmatismo, situazioni che i personaggi sono chiamati a superare: del resto il personaggio di Murchison è basato su Tom Penry Evans, ex-marito di Fortune, che per Ursula guarda a se stessa. È insomma credibile che nelle schermaglie continue del romanzo precipitino anche echi di tensioni, difficoltà di Evans a fronte di dinamiche esoteriche esondanti nella vita privata, speranze di Dion non sempre decollate.

Però non tutto si esaurisce nei limiti di personaggi in progress, e ovviamente restano le vedute dell’autrice, assai più condizionata da valori, ideali e punti fermi del proprio mondo britannico di quanto lo sia lo spregiudicato, più “moderno” Crowley: si pensi qui a una certa retorica del guerriero, agli ambigui cenni su un’“hygienic living as the only basis for efficiency” che al tempo flirtano pericolosamente con tropi eugenetici e idee discriminatorie di ereditarietà, etnia e razza, o al vago razzismo di rendere lo spiacevole Astley “un mulatto robusto e butterato”. A richiamare una simbolica più ampia, secondo cui la Grande Loggia Bianca (la confraternita di esseri spirituali che la Teosofia e Fortune stessa considerano alla guida dell’evoluzione dell’umanità) darebbe a ciascuna razza la religione adatta ai suoi bisogni, le tradizioni sarebbero razziali (al di là di alcune dimensioni più ampie condivise tra occidente e oriente) e risulterebbe dannoso proporre a culture diverse i nostri insegnamenti esoterici, come per noi adottare i loro. In tutto ciò l’autrice è in netta opposizione ad Aleister, che invece fonde e trasfonde tutto. E che dunque può essere incarnato da questo sangue misto, immagine dei loschi, immorali giri cosmopoliti a cui Fortune con sincera preoccupazione vede l’occultismo sempre più saldamente associato. Di qui invece il suo “zelo nel promuovere un occultismo socialmente responsabile radicato in ruoli di genere ortodossi” (Andrew Radford).

D’altra parte, nei limiti di un’ispirazione narrativa, gli indizi per collegare Astley a Crowley sono abbastanza chiari per i lettori d’epoca. Come questi:

 

[Murchison] Aveva già letto di alcune scabrose rivelazioni su di lui [= Astley] in una delle riviste domenicali meno rispettabili. All’epoca non vi aveva prestato particolare attenzione, sebbene come storie di fantasia avessero il loro fascino; ma ora che si trovava dinanzi a quell’uomo in carne e ossa, cominciò a pensare che non fossero solo leggende metropolitane. [Inevitabile pensare ai racconti sui tabloid: cap. 8]

 

[Dopo aver parlato dell’uso del corpo femminile come altare durante le messe nere, sorte a cui finirebbe destinata Ursula, Brangwyn chiarifica:] “Be’, la moglie di Astley ora è in un manicomio”. [Si parla di Rose Kelly, prima moglie di Crowley, ricoverata nel 1911?: cap. 9]

 

Già una volta Brangwyn ha fatto sbatter Astley fuori dall’Inghilterra “mettendo di mezzo un agente di recupero crediti che riscuotesse in blocco i suoi debiti e continuasse a citarlo in giudizio” (cap. 9), e le disavventure di Crowley coi creditori hanno trovato consacrazione in tribunale. Ancora, Murchison trova ripugnante che Astley, buttato fuori con la forza da casa di Brangwyn, gli chieda scusa “per essere stato preso a calci su una scala” (cap. 16): un atteggiamento molto simile al disprezzo di Arthur ne Il mago di Maugham, quando picchiato Haddo e uditolo scusarsi, ne liquida la mancata difesa come vigliaccheria. Considerata la notorietà dell’abbinamento Haddo/Crowley, un nesso pare plausibile anche qui. Ancora, Astley parla di caffè parigini e venta spagnole, del Sudafrica e del voodoo, del Tibet e dei lama (cap. 16), con la competenza del giramondo, e di nuovo è inevitabile pensare alla Bestia. Ancora:

 

Astley si dedicava a studi misteriosi e conosceva cose del tutto ignote all’uomo moderno, come quelle accennate nelle annotazioni latine al libro di Gibbon Declino e caduta dell’impero romano; le stesse che, di fatto, avevano portato l’antica Roma alla rovina. Collaborava inoltre con una casa editrice che stampava i suoi libri a Costantinopoli e i cui distributori si trovavano a Bruxelles e Buenos Aires. Ursula aveva visto alcuni dei loro volumi, che erano illustrati, e sapeva perfettamente per quale ruolo fosse stata scelta. [Le disinvolte operazioni editoriali di Crowley sono all’epoca abbastanza note: cap. 18]

 

Ancora, a far pensare a Crowley è la descrizione della casa di Astley (cap. 23) più come quella di un maturo malvissuto, beone, fumatore e dagli affaticati movimenti – c’è anche una ninfetta di servizio –, che non come il covo di un grande mago nero. Certo, nella casa sarebbero morti almeno tre uomini (si può pensare a quelli che la voce pubblica addebitava alla Bestia: cap. 24) e Astley viene definito “un uomo pericoloso, crudele quanto il demonio” (cap. 25): ma in realtà la sua pericolosità sembra riguardare più la psiche dei plagiati che non le classiche azioni di violenza attribuite agli stregoni da tutta una vulgata narrativa e poi filmica (sacrifici umani eccetera). Anche per il diverso clima della narrazione – qui i buoni sono efficaci – la pur provata Ursula non appare mai psichicamente a pezzi quanto la tragica Margaret de Il mago: e la terribile Messa del Toro, col suo caprone zoccolante (una sorta di citazione vagamente allusiva a quello fatto accoppiare da Crowley con Leah Hirsig a Cefalù nell’estate 1921) mantiene i connotati un po’ grotteschi dell’orgetta in costume. Aggiungiamo il possibile nesso con altre opere celebranti Crowley come vilain (si pensi al sogno liberante di Ted di cavalcare un cavallo nero, cioè del colore dei capelli di Ursula, che sembra richiamare la simbolica del to ride nel romanzo di Wheatley). È chiaro d’altra parte che qui, in forma morbida, ritroviamo il classico plot con la Bella, la Bestia e il grande rituale: finalizzato ora non alla nascita di una prole magica ma di una più complessiva pienezza di vita.

Interessante è peraltro il dettaglio del rito blasfemo con Ted crocifisso. È vero che inizialmente Astley sostiene che quella sulla croce è “una posizione confortevole. Io per primo ho meditato su delle croci per ore” (cap. 23); mentre poi durante il rito proclamerà che “è tramite la vostra agonia che verrà emanato il potere necessario al nostro rito” (cap. 25). Ma si tratta di una prova, e non è detto che quell’agonia sia davvero funzionale alla morte per soffocamento di Ted, anche se potrebbe non escluderla. In effetti, crocifissioni rituali sono documentate con una certa frequenza nell’antropologia religiosa, e non è strano che il tema venga inserito qui (anche per motivi di drammatizzazione narrativa della comprensione della categoria-sacrificio da parte dell’eroe).

Ma a fronte di tutto ciò lo spiacevole mulatto non riesce a sembrarci davvero minaccioso, un po’ come il Crowley dell’epoca; e quando la storia si conclude con la liberazione dei buoni a patto del loro silenzio, ci viene detto che Astley “sapeva perdere con dignità” (cap. 25). Sembra quasi di vedervi un tocco d’ironia benevola verso il vecchio furfante: a dir forse qualcosa dei veri rapporti dell’autrice con l’ingombrante collega.

(Le precedenti puntate di Sex and the Magic sono quiquiquiqui e qui)

 

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (II) (Victoriana 28/5) https://www.carmillaonline.com/2020/06/20/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-ii-victoriana-28-5/ Sat, 20 Jun 2020 21:15:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60888 di Franco Pezzini

Accadde a Lisbona

Rimase in bilico per qualche istante a fissare la voragine silenziosa, la balconata che oscillava sotto il suo peso, affascinata dalla visione del proprio corpo che franava nel vuoto insieme ai pioli di legno, in una danza leggera e scomposta in cui i riferimenti si perdono e senti soltanto il vento e il buio e la notte e ti senti libre…

Libre…

La balconata cedette. Pezzi di ringhiera precipitarono nel baratro, risucchiati dal vortice di scogli e di spuma.

Susanna si buttò indietro, urlando, poi [...]]]> di Franco Pezzini

Accadde a Lisbona

Rimase in bilico per qualche istante a fissare la voragine silenziosa, la balconata che oscillava sotto il suo peso, affascinata dalla visione del proprio corpo che franava nel vuoto insieme ai pioli di legno, in una danza leggera e scomposta in cui i riferimenti si perdono e senti soltanto il vento e il buio e la notte e ti senti libre…

Libre…

La balconata cedette. Pezzi di ringhiera precipitarono nel baratro, risucchiati dal vortice di scogli e di spuma.

Susanna si buttò indietro, urlando, poi sentì il fango e la sabbia sotto il suo corpo, e la terra che le entrava negli occhi e glieli faceva bruciare.

Doveva andarsene, scappare. Strisciò per qualche metro, in mezzo ai cespugli di erica, finché non fu di nuovo sul sentiero, fuori pericolo.

Fu in quel momento che la vide. Anzi, ci finì praticamente addosso, dolorante e infreddolita.

Era una grossa pietra con incise alcune parole in portoghese

NÃO POSSO VIVER SEM TI.

A OUTRA “BOCA DO INFIERNO” (SIC)

APANHAR-ME-Á NÃO SERÁ TÃO QUENTE COMO A TUA.

HISOS. TU LIYU.

Non conosceva il portoghese, ma i termini erano simili a quelli spagnoli. Tradusse mentalmente: “Non posso vivere senza di te. Mi avrà l’altra ‘Boca do Inferno’ che non potrà essere ardente come la tua. Hisos. Tu LiYu.”. Firmato Aleister Crowley.

 

Ciò accade, in un romanzo molto bello uscito nel 2011, Tutto quel nero di Cristiana Astori, all’(anti)eroina Susanna, in un certo punto sulla costa di Estoril presso Lisbona: una strada maledetta, su cui il 18 agosto 1970 si schiantava in auto la figura-chiave, la bellissima attrice Soledad Miranda. In auto su quella strada Soledad era già apparsa in un film leggendario che Susanna sta cercando: un filmato considerato frutto di mito cinefilo finché non emergerà sul serio (la letteratura gioca questi scherzi) grazie alla ricerca alla base di Tutto quel nero. Ma la storia incrocia a un certo punto, visionariamente, un’altra vicenda consumatasi a poca distanza dal luogo dell’impatto fatale, sulla stessa costa e praticamente sulla stessa strada, un punto impressionante della scogliera noto come Boca do Inferno: una cavità tra rocce scoscese dove il mare è sempre impetuoso e i corpi gettati scomparirebbero. È questo infatti il luogo del suicidio – o meglio del finto suicidio – di Aleister Crowley, ricordato dalla lapide che anche Susanna occhieggia.

Una beffa, certo, orchestrata dalla Bestia grazie al complice di eccezione Fernando Pessoa, e che però mixa vertiginosamente magia e sesso, sberleffo e letteratura, nel tessuto di una storia bellissima. Tale da ispirare almeno quattro romanzi (Alessandro Dell’Aira, O Mocho e o Mago, 1993, in Italia Il gufo e il mago. Pessoa e Crowley vis-à-vis, 2020; David Soares, A Conspiração dos Antepassados, 2007; Montserrat Rico Góngora, Pasajeros de la niebla, 2009; Francisco Salgueiro, O Anjo Que Queria Pecar, 2012); ma a darne oggi conto è una ricostruzione straordinaria a cura di Marco Pasi – probabilmente il massimo esperto scientifico della Bestia in Italia – nel volume intestato appunto a Fernando Pessoa e Aleister Crowley, La Bocca dell’Inferno, per i tipi di Federico Tozzi (Saluzzo, 2018). Cioè la prima raccolta organizzata, glossata e commentata in modo superbo dei documenti relativi alla vicenda, e che ci costringe a tornare indietro di parecchio tempo, rispetto alla scena con Susanna e al nostro precedente itinerario.

Nei primi decenni del Novecento, il Portogallo ha avuto vita turbolenta. Dopo la rivoluzione del 1910 che ha deposto l’ultimo re Manuele II si sono succeduti quarantacinque governi in gran parte controllati dall’esercito, fino al colpo di stato del 1926 che ha chiuso la prima repubblica, imponendo la dittatura militare del generale Carmona. A dare la spallata definitiva al governo repubblicano è stato il clamoroso scandalo del Banco de Portugal, 1925, orchestrato dal disinvolto affarista Artur Virgílio Alves dos Reis: la più clamorosa truffa mai perpetrata ai danni di una banca nazionale, e che ha impattato pesantemente sulle sorti del paese (la truffa, per intendersi, oggetto del grande sceneggiato nostrano Accadde a Lisbona del 1974, con Paolo Stoppa nei panni di Reis e un cast scintillante, diretto da Daniele D’Anza su sceneggiatura sua e di Luigi Lunari). Dunque tra vari balletti di cariche António de Oliveira Salazar è arrivato nel 1928 ai pieni poteri, riportando in pareggio il bilancio dello stato, inaugurando un regime all’insegna del motto “Deus, Pátria e Família” e fondando proprio nel 1930 l’União Nacional come braccio politico del governo. Ad avviare una politica di distensione ma insieme prudente distanza dai nazifascismi, considerati oltretutto impresentabilmente pagani.

Questa è la situazione in cui nel pomeriggio del 2 settembre 1930 il piroscafo britannico Alcantara attracca a Lisbona. A sbarcare è un Crowley cinquantacinquenne, un po’ appannato, con qualche acciacco e impoverito, sostenuto da discepoli a volte ingombranti o asfissianti, comunque segnato da una vita in cui non si è rifiutato nulla: ha alle spalle avventure infinite, come la fondazione nel 1904 della nuova religione di Thelema e l’esperienza 1920-23 della comunità magica a Cefalù chiusa per espulsione dall’Italietta fascista (cui dedica versi esilaranti). Al fianco ha l’ennesima amante, una bella diciannovenne dall’aria inquieta, la talentuosa artista Hanni Larissa Jaeger (per lui Anu o il Mostro, 1910-1933) dalla doppia cittadinanza tedesca e americana, perché la famiglia si è trasferita anni prima dalla Germania in California: l’ha incontrata solo poche settimane prima a Berlino dove lei, studentessa, organizzava una mostra all’accademia d’arte, ed è sbocciata una relazione rovente. Insomma, loro scendono sulla banchina e ad attenderli tra la calca, preavvertito con telegramma, è un omino miope coi baffi. Cioè il perplesso Pessoa (1888-1935), che quella visita – deve riflettere – se l’è un po’ andata a cercare.

Per capire di più apriamo il volume curato da Pasi. A un’introduzione a sua firma segue un ampio epistolario – più di centocinquanta pagine – di vari personaggi, tra i quali ovviamente i due protagonisti Pessoa e Crowley; più un mazzetto di articoli di giornale a documentazione del caso, che danno conto del suo impatto pubblico. Seguono: il testo di un romanzo poliziesco – una prima versione ancora schematica, ma tale da darci un’idea piuttosto precisa di dove si andasse a parare – maliziosamente scritto da Pessoa sulla sparizione di Crowley per assicurare ancora più pubblicità al caso (e per più agevole circolazione lo scrive in inglese, lingua che padroneggia perfettamente); un breve corpo di poesie legate a stretto filo alla vicenda; e infine una bella postfazione di Giuliano D’Amico (La vita come un’opera d’arte. Per una biografia letteraria di Aleister Crowley). Esaminiamo dunque i documenti di questa edizione ricchissima di note e bibliografia, forte di tutti i crismi del testo scientifico (evento non così frequente, in Italia, in volumi che toccano l’esoterismo novecentesco) ma godibilmente avvicinabile anche da un lettore non specialista.

Tutto inizia con una lettera di Pessoa (6 marzo 1917, quindi parecchio tempo prima) a tale Frank Hollings per ringraziare dell’invio di un “catalogo di libri sulle scienze occulte” e ordinare – lui che di soldi ne ha pochini in tasca – una copia del Book 777: un compendio di corrispondenze esoteriche curato appunto di Crowley ma anonimamente, e Pessoa ne ignora l’autore. Però l’ha ormai scoperto all’epoca della seconda lettera, dodici anni dopo (18 novembre 1929): e si rivolge stavolta alla Mandrake Press, la piccola casa editrice che sta varando una serie di opere di Crowley (tra cui il famoso Moonchild, edito appunto nel 1929), interessato ad acquistarne alcune. Pessoa, uomo di lettere imbevuto fino all’osso di esoterismo – pensiamo solo ai suoi esperimenti di scrittura automatica, alla mole di riferimenti esoterici nei testi noti e a tutti quelli nella massa di lavori interrotti oggi ancora in fase di studio – venera come martire l’ultimo gran maestro templare Jacques de Molay, vittima di Ignoranza, Fanatismo e Tirannia: dunque non può che essere intrigato da un uomo come Crowley, insieme occultista e poeta, profeta di un culto guardato con avversione da tutte le Chiese istituzionali (con la tara del caso, insomma, sulla fama dell’“uomo più malvagio del mondo”) e oltretutto vertice del templarismo esoterico dell’O.T.O., l’Ordo Templi Orientis. Inizia così uno scambio di lettere di natura commerciale e a un certo punto (4 dicembre 1929) il poeta chiede all’editore se può segnalare a Crowley un errore nell’oroscopo che lui si era confezionato. Il messaggio arriva a destinazione, e la Bestia risponde.

Lo stile è quello che ci si attende dalla solenne diplomatica epistolare dallo ierofante del culto di Thelema. In una lettera (11 dicembre 1929) che inizia ritualmente con “Care Frater, Fa’ ciò che vuoi sarà tutta la Legge” e termina con “Amore è la legge, amore sotto la volontà. Saluti fraterni, Το Μεγα Θηριον [appunto La Grande Bestia] 666”, Crowley spiega che sulla sua ora di nascita si è regolato un po’ a occhio in assenza di notizie davvero certe. Concede (bontà sua) che la supposizione di Pessoa è “abbastanza corretta”, del resto lui pratica poco l’astrologia; ma sarebbe lieto di ricevere “qualche informazione” d’oroscopo sulla sua “situazione attuale”.

Avviato così il contatto, Pessoa manda alla Bestia tre libretti di proprie poesie – alcune erotiche –  in inglese, suscitandone l’entusiasmo: Crowley è un poeta di qualche virtù, del resto riconosciute anche da critici di tutt’altro côté (come a suo tempo Chesterton, con minime riserve che avevano inaugurato un divertentissimo duello a distanza). Ma soprattutto – spiega la Bestia a Pessoa avvertendo della ricezione (22 dicembre 1929) – considera “l’arrivo delle sue poesie come un chiaro Messaggio, che sarei lieto di spiegarle di persona. Sarà a Lisbona nei prossimi tre mesi? Se così fosse mi piacerebbe farle visita”, con il giusto riserbo, e chiede di rispondergli a giro di posta.

Pessoa riceve però la lettera in ritardo, era fuori città, e gli scambi mostrano una serie di tergiversazioni interessanti. Ha bisogno di un preavviso – argomenta – perché potrebbe essere fuori Lisbona, preferirebbe vederlo a marzo e l’astrologia conferma che sarebbe un buon mese, potrebbe anzi andare lui stesso in Inghilterra anzi no, non ci riesce, appena può gli manderà l’oroscopo… eccetera. Si tratta di problemi reali, d’accordo; un po’ forse anche della resistenza di quest’omino metodico, a sua volta nella fase declinante della vita e ormai lontano dagli anni dell’attivismo intellettuale e di tante ambizioni, a lasciarsi sovvertire il trantran. Poeta immenso, caleidoscopicamente sfaccettato in una pletora di identità alternative sgomitanti come persone autentiche, e ormai ripiegato nel silenzio su un corpus di opere destinate a fama postuma, Pessoa è a sua volta un uomo appannato e dalla salute vulnerata: sbarca il lunario come collaboratore esterno di ditte commerciali e tiene a chiarire di essere “del tutto estraneo a ogni sorta di amicizia e a ogni tipo di intimità” (6 gennaio 1930). Forse anche per il contraccolpo dello stiracchiato rapporto con Ophelia Queiroz – Ofélia Queirós in grafia moderna –, che dopo una prima fase nel 1920 buferata dalla depressione, ha conosciuto un malinconico secondo tempo proprio tra settembre 1929 e gennaio 1930, a ridosso dei nostri fatti. I rapporti con Ophelia si ingarbugliano di nuovo, e la surreale presenza dell’eteronimo Álvaro de Campos come terzo incomodo – elementi di omosessualità? – contribuisce alla crisi.

Ma al di là del momento un po’ delicato sul piano personale, può esserci qualcosa di più specifico. Questo precisino che nelle lettere motiva minuziosamente ogni argomentazione, puntualizza ogni passaggio (come quando, 15 dicembre 1929, lui nazionalistissimo prega ironico la Mandrake “di chiedere al […] dattilografo di disannettere il Portogallo dalla Spagna”, dove l’intestazione della lettera precedente aveva collocato Lisbona) può essere anche un po’ preoccupato dell’incontenibile, ingestibile esuberanza del mago inglese che si autoinvita a Lisbona.

E che dal canto suo risponde ai tentennamenti. Direttamente o tramite il segretario Israel Regardie (1907-1985, altro personaggio di una certa nomea nella storia dell’esoterismo novecentesco, per aver poi pubblicato a proprio nome il materiale Golden Dawn coi suoi commenti, in flagrante violazione dei giuramenti di segretezza), Crowley si informa di una possibile venuta di Pessoa oltre Manica, spiega che sta manovrando per acquisire la piccola casa editrice Aquila Press (non ci riuscirà)… e a un certo punto annuncia con telegramma di essere “in arrivo su Alcantara prego incontrare” (28 agosto 1930). Plausibile che Pessoa vada ad accoglierlo (2 settembre), anche se tra bagagli e individuazione dell’albergo non c’è tempo per parlare. E così la Bestia invita il poeta (3 settembre) per l’indomani all’Hotel Paris di Estoril, nella pausa pranzo tra le ore votate al mare con Hanni. Ha molto da dirgli, spiega: “C’è in particolare il piano di mettere il Lavoro dell’Ordine [l’O.T.O.] su basi mondiali con una solida organizzazione”.

Non abbiamo una descrizione dell’incontro, ma possiamo immaginare Crowley tracimante che occupa tutto lo spazio possibile, Pessoa piccolo piccolo e un po’ interdetto, la bella Hanni – grande bellezza, fascino tormentato – che lo colpisce. Sul tavolo non c’è solo l’esoterismo: nei giorni successivi, grazie al poeta, Crowley conta di incontrare alcuni scacchisti portoghesi per qualche partita. Curiosissima è una lettera scritta direttamente da Hanni alla fine della settimana dopo (cioè domenica 14 settembre) lamentando che Pessoa non sia più venuto di persona e annunciando il loro arrivo a Lisbona per il giorno dopo: intendono incontrarlo. Perché è Hanni (Anu nella firma) a scrivere? Ovviamente funge da collaboratrice della Bestia, ma a Crowley non sfugge il maggiore appeal di una missiva dalla bella diciannovenne. Tanto più che tra l’incontro del 4 settembre e quello del 15 dev’essercene stato almeno un altro…

Peccato che in un messaggio successivo (17 settembre) Crowley spieghi – stavolta di persona – di essersi dovuto trasferire all’Hotel Miramar. “Ieri notte la signorina Jaeger ha avuto un violento attacco isterico, dando disturbo a tutto l’hotel”. La Bestia tende sempre a scaricare le motivazioni degli screzi sui furori delle partner (di volta in volta accusate di alcolismo, isterismo eccetera), ma sappiamo quanto sappia essere irritante: insomma non appare così strano che la passionale Hanni sia stata abbastanza accesa da ribaltare tutto. “È andata a Lisbona stamani, lasciando qui tutte le sue cose insieme a una nota in cui dice ‘torno presto’. / Ma se non tornasse presto, immagino che si dovrebbe chiedere alle autorità di fare delle ricerche”: e Crowley chiede a Pessoa di contattarlo, evidentemente si vedono. Però questa lettera è sincera o fa già parte del gioco sul presunto suicidio della Bestia abbandonata dall’amante, coi compari Aleister & Fernando che hanno preimpostato tutto nei giorni precedenti, compresa sfuriata di Hanni (simulata)? O il poeta viene incastrato solo ora nel gioco concordato da Aleister con Hanni? In realtà sembra che almeno il litigio sia stato autentico, Hanni furiosa ha chiesto l’aiuto del console americano per ripartire; poi con Aleister si sono rappacificati (il diario di lui tradisce in più punti un effettivo innamoramento), ma ormai la partenza della ragazza è decisa e concordano per raggiungersi in Germania. Proprio la non prevista sfuriata sembra insomma innescare il piano che Crowley concorda ora con Pessoa, avviando una delle beffe più celebri di tutta la storia moderna. Perché darsi tanta pena?

Il fatto è che Crowley ha bisogno di nuova visibilità, di pubblicità per rilanciare la sua immagine. Sa di non essere più l’uomo degli anni d’oro, si confronta con acciacchi e debitori incalzanti: la piccola Mandrake Press ha investito su di lui, ma non basta, e la beffa potrebbe riportarlo sulle pagine dei giornali con un prezioso ritorno di attenzioni sulla sua produzione editoriale. E anche pittorica, perché il mago ora sta puntando parecchio su quella vocazione scoperta da non troppi anni, e l’importante galleria di Karl Niederdorf di Berlino si prepara a un’esposizione dei suoi lavori. Poi certo la beffa soddisfa insieme il suo carattere birichino e la provocazione di paradosso e ironia insita nel suo magistero. E Pessoa? Offre volentieri una mano a un frater e l’idea della finzione, dello sberleffo è più che congeniale all’uomo che vive e gioca attraverso eteronimi: se poi è dubbio che i riflettori della stampa gli interessino in quanto tali – il suo ruolo in fondo resta marginale, da fiancheggiatore – la situazione potrebbe vedere anche per lui sviluppi editoriali interessanti.

Infatti è iniziata nel frattempo una buffa “commedia degli equivoci” (come la definisce opportunamente Pasi). In seguito ai dialoghi con la Bestia, Pessoa ha inviato alla Mandrake Press (12 settembre) una serie di proposte. Suggerendo testi portoghesi “insoliti e sconosciuti” da editare in inglese; caldeggiando di istituire una succursale dell’editore in Portogallo dove alcune lavorazioni sarebbero più economiche, e in cui plausibilmente si vede già coinvolto; ed evidenziando che si potrebbe sviluppare anche un catalogo in lingua lusitana. Per Pessoa è insomma implicito che i soldi dovrebbe metterceli la Mandrake. Ma è a questo punto che arriva (18 settembre) l’educata risposta del presidente della casa editrice, tale R. Thynne. Prendendo tempo sui titoli suggeriti, l’editore fraintende – o gioca a fraintendere – l’idea sulla succursale, prospettando allo (squattrinatissimo) poeta di assumere in loco il ruolo di rappresentante azionista come è Karl Germer in Germania, e grazie al quale la Mandrake può pubblicare in Inghilterra Alfred Adler e Alraune di Ewers. Per loro è implicito che a mettere i soldi sia Pessoa.

La commedia continua con Germer (1885-1962, altro nome notissimo dell’esoterismo novecentesco, che alla morte di Crowley diverrà capo dell’Ordo Templi Orientis) che invia a Pessoa copia del prospetto della “Aleister Crowley Ltd” (25 settembre), spaziando dagli scritti alla pittura agli sviluppi teatrali e cinematografici. Germer è un uomo d’affari, è stato anche editore, e (di nuovo) considera Pessoa interessabile come socio. Mentre il poeta, come già nei dialoghi con Crowley, prende a citare negli scambi un fantomatico finanziatore il cui nome resta sempre sconosciuto, e che vi torna di continuo come Convitato di pietra: molto promettente nell’ottica della Bestia e di Germer, molto sfuggente dal lato di Pessoa che sembra considerarlo non più di una mera ipotesi (o almeno così sosterrà l’anno dopo).

Intanto Crowley ha confezionato il farlocco messaggio di addio (quello evocato in Tutto quel nero e in effetti oggi presente in loco con una targa memoriale: “An[no] I4, ☉ in ♎ / Non posso vivere senza di te. L’altra ‘Boca do Infierno’ mi avrà. Non sarà mai ardente quanto la tua. / Hjsos. / Tu Li Yu”) e ne spedisce prontamente copia al poeta con istruzioni. La data espressa in termini astrologici indica a rigore il periodo di Sole in Bilancia dal 23 settembre al 23 ottobre: dal diario di Crowley sappiamo però che il messaggio viene scritto il 21 settembre – col Sole ancora in Vergine – e quindi lo sta postdatando. Da rilevare l’uso del termine Infierno e non Inferno come in portoghese, perché Crowley conosce meglio lo spagnolo; e il criptico “Hjsos”, “una misteriosa parola magica cifrata che solo lui e lei capivano” (così spiega, in terza persona, il biglietto di Crowley a Pessoa) è stato decifrato credibilmente come un acrostico per “Hanni Jaeger Save Our Souls”. Quanto a “Tu Li You”, presentato poi da Pessoa (su istruzione di Crowley) come nome di una precedente incarnazione cinese del suicida, rinvierebbe beffardo al saluto londinese d’epoca “Toodle-oo”. Ma a parte questi dati tecnici, il biglietto della Bestia a Pessoa ricorda tre punti sostanziali, cioè la convinzione che lo scoop sulla sua scomparsa porterà ottimi profitti (“£200 solo di diritti per l’America”), la proposta o piuttosto l’incitamento al poeta a scrivere una storia romanzata sulla scomparsa del mago, e il promemoria importante che la Boca do Inferno non restituisce i corpi lì inghiottiti dal mare. Ciò a giustificare la completa sparizione del suicida per amore…

“Lettera portasigarette identificati di Crowley ritrovati venticinque sera luogo costa detto Bocca Inferno polizia ancora indaga dubbio suicidio ma per ora niente certo scrivo”, così il telegramma (1 ottobre) di Pessoa a Germer. Ovviamente non seguiamo passo passo tutti gli scambi, e si rinvia all’intrigante documentazione, con gente preoccupata che contatta Pessoa alla notizia immediatamente dilagata, e lui che risponde solo dietro autorizzazione della polizia giudiziaria, raccontandone lo sconcerto. Mentre gli interessati vengono rassicurati per altra via dal “sig. Hyde”, cioè lo stesso Crowley.

Il portasigarette è un oggetto (all’epoca) abbastanza comune per un gentiluomo, e insieme piuttosto personale e connotante: ma va detto che ai cultori di polizieschi potrebbe suggerire qualcosa in più. Il 7 luglio (sempre 1930) è morto Sir Arthur Conan Doyle, e non sembra casuale che pochi mesi dopo Crowley pensi di lasciare alla Boca ciò che proprio il grande eroe doyliano aveva lasciato scomparendo a sua volta – solo in apparenza – in un altro abisso d’acque. Ne Il problema finale, 1893, Watson rinveniva infatti di fianco allo strapiombo della cascata di Reichenbach, a parte il bastone da montagna di Holmes (che alla Boca sarebbe stato proprio di troppo), il suo portasigarette d’argento con il messaggio virtualmente ultimo. Virtualmente: perché è vero che, scrivendo quel testo, Doyle aveva inteso far morire davvero Holmes, ma a distanza di anni si era risolto a farlo tornare, spiegando il tutto come una morte simulata. Ed è divertente che proprio quel Crowley che gli autori di apocrifi sherlockiani contrapporranno con una certa frequenza all’Arcidetective giochi a scomparire allo stesso modo.

Almeno per un po’ di tempo, cosa sia successo a Crowley non è affatto chiaro, il suicidio è una semplice possibilità: la polizia resta perplessa sull’assenza del corpo, alla Mandrake ricordano un po’ stizziti che Crowley è un burlone… Ma Pessoa, nel ruolo di massimo esperto portoghese di cose crowleyane e di interlocutore dello scomparso proprio nei giorni fatali – insomma il classico “Io lo conoscevo bene” in grado d’interpretare l’enigmatico biglietto ultimo –, si offre sornione al gioco, dicendo e non dicendo, ipotizzando e ammiccando, da consumato teatrante. Interrogato dalla polizia insieme all’amico giornalista Augusto Ferreira Gomes (1892-1953, pure interessato all’esoterismo, sodale di Pessoa fin dall’antica militanza nella rivista Orpheu, 1915, e ora divertito complice) che ha trovato casualmente portasigarette e messaggio, riesce a confondere ancora di più le idee degli inquirenti. Oltretutto Crowley sembrerebbe aver passato la frontiera la sera del 23, ma il controllo dei passaporti è così superficiale… E i giornali si lanciano sul caso a partire dal Diário de Notícias – secondo Pessoa, “il Times portoghese” – che ne parla fin dal 27 settembre, accendendo la miccia alla falsa notizia.

L’impatto del caso sulla stampa – prima in Portogallo, poi quella internazionale – è in effetti notevole, anche se non quanto Crowley sperava: in ogni caso la rassegna raccolta nel volume ci permette di condividere il divertimento dei due burloni. L’articolo “Uno strano caso” (appunto Diário de Notícias 27 settembre) spiega come il collega Ferreira Gomes in visita alla Boca il giorno prima avesse ritrovato il portasigarette col messaggio: Crowley diventa nell’articolo nientemeno che il “Capo del controspionaggio inglese in America durante la guerra”. “Uno strano caso” continua sulla stessa testata il giorno dopo con il resoconto della consegna dei reperti alla polizia, la strana notizia che Crowley avrebbe passato la frontiera ma senza la sua accompagnatrice, e il cenno sulla collaborazione di Pessoa alle prime indagini. Se questi due pezzi non appaiono firmati, il successivo “Il mistero della Boca do Inferno” (O “Notícias” Ilustrado 5 ottobre) lascia invece la parola a Ferreira Gomes che riprende diffusamente il tutto… Ma contemporaneo è un messaggio (5 ottobre) a Pessoa di Crowley: si trova con Hanni da Germer a Berlino, frequentano Aldous Huxley e il giornalista e scrittore J.W.N. Sullivan. Spiega allegro:

 

Non ho scritto prima. Gli eventi si sono succeduti così in fretta da farmi pensare che sarebbe cambiato tutto prima che lei ricevesse la mia lettera.

Ora che il mio corpo è stato ritrovato – non ho dettagli al riguardo – mi sento più tranquillo.

Devo dire che lei ha gestito la faccenda dannatamente bene! Il prossimo passo è – se avete qualche medium famoso lì a Lisbona – ricevere un messaggio dall’Illustre Estinto. Sto provando a far questo a Londra, a Berlino e negli Stati Uniti. Poi, al momento giusto, sveliamo ogni cosa. Da una parte faremo ridere tutti e poi daremo una bella spinta alla Ditta.

 

Quanto ad Hanni “mi chiede di mandarle i suoi saluti affettuosi”; ma in calce la Ragazza Scarlatta aggiunge di persona un curioso post scriptum che deve far arrossire Pessoa, “Penso che lei sia meraviglioso”. Una successiva lettera di Hanni a Pessoa (14 ottobre) risulta ancora più confusiva: simula ironicamente soddisfazione per la fine dello “spregevole furfante” la cui ultima lettera vorrebbe però portare sul cuore fino alla morte – notiamo lo sberleffo sul melodramma – e chiude maliziosamente “A sua disposizione per ogni servizio e conforto”. Dunque certo, ironia (che Pessoa finge di non rilevare nel messaggio 18 ottobre a Ferreira Gomes, però sta simulando nel solito gioco di disinformazioni incrociate nel caso che la posta – come saltuariamente avviene – passi al vaglio della polizia): ma perché il gioco di provocazione erotica al poeta da parte di Hanni? Probabilmente si tratta di un semplice scherzo privato, innescato da battute degli incontri di Lisbona, ma forse rafforzato – come vedremo – da qualche intrigante elemento aggiuntivo. Il gioco al romanzesco continua comunque in un ulteriore messaggio di Hanni (30 ottobre), dove finge d’ipotizzare che Aleister Crowley fosse in realtà due persone diverse, il gemello cattivo ucciso e il morigerato Edward Alexander (effettivo nome di battesimo di lui): “Ma allora… quale dei due ho amato?”. Un tema del doppio del tutto congruo al dialogo con il già indefinitamente multiplo Pessoa, i cui eteronimi mostrano vere e proprie personalità alternative.

Comunque il poeta si mostra efficientissimo. Si occupa di problemi burocratici ed economici del sodale Ferreira Gomes che sta per sposarsi a Parigi; fa pervenire ai vari interlocutori traduzione degli articoli portoghesi sul caso e notizie di quelli apparsi in Francia; spedisce un oracolo astrologico da lui approntato per prevedere gli sviluppi, nonché notizie generali, come sull’arrivo di investigatori inglesi a indagare. Anche se accenna soprattutto a uno, che si rivelerà il personaggio del suo romanzo in preparazione, un po’ nello stile (lettera a Germer 24 ottobre, ma il cenno torna anche altrove) dei polizieschi al tempo molto noti di Freeman Wills Crofts. In effetti il caso sta assumendo risvolti sempre più improbabili: come informa Regardie (17 ottobre, cfr. l’articolo sul caso dell’Oxford Mail, 15 ottobre), a detta di un medium e con ampio clamore giornalistico in Inghilterra, “666 sarebbe stato spinto giù da una scogliera in Spagna o in Italia da nemici appartenenti alla Chiesa Cattolica o alla Massoneria e il suo corpo non sarà mai ritrovato”. A sua volta Pessoa confida il fastidio che questa storia avrebbe dato a non meglio identificate “persone cattoliche” (sempre a Germer, 20 ottobre)… Dalla prima versione del suicidio d’amore la trama del romanzo apre ora all’idea dello scomodo Crowley assassinato da misteriosi nemici, della sua sostituzione sul treno verso la frontiera con un prestanome in modo tale da farlo credere vivo, e persino dell’uccisione di un taxista scomodo testimone. Ma il 27 ottobre da Londra Regardie ammette la difficoltà di tener desta l’attenzione sul caso, tanto più che ormai i giornali subodorano la messinscena; e il 18 novembre accenna che la Mandrake Press rischia di finire in liquidazione volontaria.

D’altra parte lo stesso Pessoa si è chiuso in questo periodo in un lungo silenzio che mette in fibrillazione gli interlocutori. Problemi di salute e non solo, spiegherà poi a Germer (3 dicembre), tuttavia non sterili perché ha avuto tempo di maturare un diverso sviluppo del romanzo. Crowley, incalzato dai nemici (sempre come Holmes dai sicari di Moriarty), non suicida né assassinato, avrebbe fatto fuggire Hanni per sottrarla al pericolo e inventato un arzigogolato sistema per allontanarsi, grazie a un proprio sosia e a un sosia (guarda caso) di Pessoa. Mentre lui col poeta resta visibile a testimoni in un certo caffè… “Naturalmente sarebbe un’ottima cosa se la riapparizione della figura centrale della storia non avvenisse prima dell’uscita del libro ma, come ho detto, la storia è stata concepita in modo tale da essere completa in se stessa e da potersi comunque adattare alla realtà”. Il romanzo, raccolto nel volume a cura di Pasi con tanto di varianti, figura infatti come narrato dal detective (con datatio “Barcellona, dicembre 1930”): e più che vicenda di eventi si allarga via via elusivamente quale vicenda di ipotesi, tra doppi in allegra circolazione e geniali strategie di confusione del lettore, con non rari ammiccamenti ai romanzi polizieschi. Vi compare naturalmente anche Pessoa, come personaggio interpellato dal detective, sostenendo a un certo punto che “Ci vuole un uomo forte per essere due uomini” e prendendo un po’ le misure a Crowley in quello che giustamente Pasi considera “il nucleo nascosto del romanzo”. In qualche misura rivelativo del pensiero di Pessoa sul mago.

A riscontro giunge a Pessoa una lettera scherzosa di Crowley e Hanni (14 dicembre), recante sia elementi per confondere le acque, sia qualche notizia concreta come il fallimento della Mandrake e la necessità di acquistare i volumi del loro magazzino: interessante è che la Bestia firmi come Benjamin Q. Knickerbocker, scelta di un nome non casuale. Richiama infatti il fantomatico storico olandese Diedrich Knickerbocker, presunto autore di A History of New-York from the Beginning of the World to the End of the Dutch Dynasty (1809): la sua misteriosa scomparsa da un albergo newyorkese, con tanto di Chi l’ha visto? sui giornali prima dell’uscita del volume, era stata in realtà funzionale a favorirne il lancio con un sistema di marketing virale. Il vero autore era Washington Irving alla sua prima prova di successo. Di nuovo dunque la storia di una sparizione farlocca, e di nuovo motivi di profitto editoriale…

Crowley scrive ancora più avanti, premendo per il romanzo e per un oroscopo di Pessoa (4 gennaio 1931) ma anche per il famoso finanziatore mai apparso (1 febbraio): e il poeta alla fine risponde (10 febbraio) accusando un proprio misterioso torpore interiore. Il romanzo non è più di attualità ma potrebbe venirne un buon testo, mentre sul finanziatore l’ipotesi gli pare tramontata e proverà senza troppe speranze con un’altra persona. Comunque (aggiunge, 13 febbraio) circola sui giornali la rivelazione del medium circa l’omicidio di Crowley da parte di un agente della Chiesa cattolica: e l’articolo non firmato del 16 dicembre sul Girasol “Aleister Crowley è stato assassinato?” è stato nei fatti scritto da Pessoa.

La risposta della Bestia (22 febbraio), è divertita. Ma a deliziare Hanni – che scrive la prima parte del messaggio – e il suo ingombrante partner è anche un altro motivo, la lettura del libro Ride the Nightmare di Ward Greene: Pessoa l’ha letto?

 

Offre una bella caricatura del mio grande Satana e un ritratto fedele di un uomo e sua moglie, persone che A[leister] C[rowley] conosce. Da allora ogni tanto lo chiamo “pasticcio d’agnello”.

 

Il cenno è gustoso e merita una parentesi. Ward Greene (1892-1956), scrittore, giornalista, drammaturgo, editore popolare, è forse oggi più noto per aver scritto la storia alla base del cartone animato Disney Lilli e il vagabondo; ma ha varato solo un altro romanzo (di buon successo, Cora Potts, 1929), quando pubblica il torbido Ride the Nightmare, 1930. Il protagonista è modellato sul profilo di un suo amico, William Seabrook (1884-1945), figura abbastanza inquietante di viaggiatore, scettico ma ossesso dall’occulto, cultore compulsivo di quello che oggi si chiama bondage nonché (almeno una volta) cannibale, noto tra l’altro per aver sdoganato nell’immaginario pop americano il tema dello zombie con i suoi racconti sul Vudù haitiano nel saggio The Magic Island (1929: generalmente si considera quale primo film sul tema quel White Zombie/L’isola degli zombies di Victor Halperin con Bela Lugosi, 1932, ispirato appunto al libro). Ride the Nightmare figura a volte con il titolo alternativo Life and Loves of a Modern Mister Bluebeard appioppatogli nel 1949, che già può dirla lunga sul tipo di protagonista: Jake Perry è un artista e non uno scrittore, ma il ritratto è quello spiccicato di Seabrook con il suo sadomaso, il bere, le insicurezze… e lui non se la prende. Più perplessa la critica: a detta del Saturday Review of Literature, “un libro come Ride the Nightmare potrebbe fare di più per riconciliare i lettori con la censura di cinquanta libri che la sostengono”.

Ciò detto, Seabrook è amico anche di Crowley, che in Ride the Nightmare compare come figura minore (ecco di cosa parla Hanni) con il nome di Bellerophon Cawdor. Sembra che Crowley e Seabrook si siano conosciuti a un pranzo presieduto dal giornalista Frank Harris (1855-1931, quello dello scandaloso e censuratissimo memoir My Life and Loves, edito tra il 1922 e il 1963): e nell’autunno 1919 la Bestia ha passato una settimana nella fattoria di Seabrook in Georgia indulgendo a riti sessuali con Katie, prima moglie del consenziente padrone di casa. Tra l’altro hanno condotto un bizzarro esperimento di comunicazione tra loro – a variazione del voto di silenzio del trappisti – usando soltanto la parola “wow”, episodio che ispirerà l’unica novella di Seabrook, dal titolo appunto “Wow” (1921, una fantasia su cosa accadrebbe ad abolire il linguaggio umano). Più tardi, in Witchcraft. Its Power in the World Today (1940), Seabrook parlerà della sua amicizia con Crowley, che l’ha colpito tanto da piacergli fin al primo incontro: e lo descrive come “uno strano tipo disturbante, dal pesante atteggiamento pontificale mischiato a una buona dose di humour furbo, scimmiesco e a volte malizioso”. Sembra probabile che il titolo Ride the Nightmare (romanzo, ricordiamolo, del 1930) possa ispirare quello di un altro romanzo apparso poco dopo, in cui proprio su Crowley è modellato il vilain, cioè The Devil Rides Out di Dennis Wheatley, 1934.

Ma torniamo alla corrispondenza con Pessoa, il cui entusiasmo per la faccenda della Boca do Inferno sembra evaporato e che torna dunque alla propria penombra. Nel paese dove Alves dos Reis sta scontando la sua truffa/beffa/finzione con vent’anni di galera (condannato nel 1930, riuscirà a uscire in effetti nel 1945), sul tema del fingere Pessoa sta continuando a riflettere. Come scrive in Autopsicografia, pubblicato 1º aprile 1931:

 

Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente

Che arriva a fingere che è dolore

Il dolore che davvero sente.

 

Segue un lungo silenzio. Dopo l’estate Crowley da Berlino (18 settembre) chiede a Pessoa cosa sia accaduto, informandolo che il Mostro “è sparito – con sollievo di tutte le parti – 6 mesi fa”. Al di là di una certa instabilità di Hanni – dalla vita interiore effettivamente sofferta –, è un fatto che proprio quello sia un elemento caratteriale ricorrente delle donne al fianco di Aleister, causa (nel senso di occasione e prerequisito) ma poi anche conseguenza di rapporti con un partner devastante come lui. E a un certo punto la fuga diventa inevitabile.

Pessoa risponde scusandosi (5 ottobre), e spiega la propria inerzia con ragioni astrologiche: per il resto, i finanziatori si sono dissolti, la pubblicazione della sua traduzione in portoghese dell’Inno a Pan di Crowley sulla rivista Presença (un’altra delle varie questioni sul tavolo) è stata rimandata, si trova in rovinoso ritardo sia sull’oroscopo che sul romanzo… Ma la Bestia comprende che qualcosa si è ormai sfilacciato: scriverà ancora (29 novembre e – con lettera circolare – 21 marzo del successivo anno 1932), poi il contatto si interrompe. Anche Pessoa continuerà a distanza a cercare notizie della Bestia e comunque a ragionare – anche criticamente – sulle sue categorie esoteriche.

Ma, a proposito di poesie: oltre all’epistolario, alla rassegna stampa e alla prima versione del romanzo (che Crowley non vedrà mai), l’edizione a cura di Pasi riporta come detto anche alcune liriche con testo originale, cioè la bellissima L’ultimo sortilegio di Pessoa inviata a Crowley, appunto l’Inno a Pan volto da Pessoa in portoghese, e Canzone assurda di Ferreira Gomes dedicata alla Bestia. Però a precederle tutte figura un’altra poesia di Pessoa, che fa riflettere: perché Dà la sorpresa di essere (tale il titolo attribuitole) sembra parlare di Hanni. In termini affascinati, eleganti, ma insieme eroticamente espliciti, e rivelativi della profonda impressione suscitata da questa inquieta diciannovenne. Inizia:

 

Dà la sorpresa di essere

È alta, di un biondo scuro.

Fa bene anche solo pensar di

Vederne il corpo mezzo maturo.

 

Passa poi a decantarne i seni, la mano, il braccio, il fianco, e termina con la quartina:

 

Invoglia come una barca

Assomiglia a uno spicchio d’arancia.

Mio Dio, quand’è che m’imbarco?

Ah, fame! Quand’è che io mangio?

 

Stavolta l’ironia – come nelle lettere un po’ ammiccanti di Hanni – lascia spazio a qualcos’altro: e può persino sembrare strano che Pessoa se ne esca in commenti tanto espliciti sul fascino erotico della compagna del frater. È pur vero che la ragazza descritta non viene mai chiamata per nome. Però, noi sappiamo che durante il soggiorno a Lisbona Crowley ha organizzato il 9 settembre 1930 un rituale di iniziazione cui partecipa certamente Raul Leal, amico di Pessoa, ma anche ragionevolmente quest’ultimo: e Pessoa in seguito dichiarerà – guarda caso – di essere iniziato a un ordine templare (l’Ordo Templi Orientis?). La stessa ricezione dell’ultima lettera inviatagli da Crowley (21 marzo 1932), un messaggio circolare normalmente trasmesso a ogni cadenza equinoziale agli iniziati dell’A∴A∴ – un’altra delle organizzazioni esoteriche gestite dalla Bestia –, avallerebbe l’ipotesi di un’iniziazione (anche se in tal caso molte altre comunicazioni analoghe avrebbero dovuto far parte dell’epistolario: sono state distrutte?). Il fatto comunque che Dà la sorpresa di essere sia scritta il 10 settembre 1930, cioè il giorno dopo il rituale citato offre una luce particolare al collegamento con Hanni. Considerando le connotazioni magico-sessuali dei riti crowleyani e il ruolo che Hanni deve avervi svolto (non necessariamente estremo ma simbolicamente trasparente), possiamo capire meglio cosa Pessoa possa aver visto, forse sperimentato, e cosa si sia sentito autorizzato a sognare.

Poi, come la truffa/beffa di Alves dos Reis ha finito con l’avere ricadute devastanti di più ampio contesto (la fine della repubblica, l’ascesa della dittatura militare), anche il caso della Boca do Inferno ha proiettato ombre lunghe impreviste, tragiche. Aleister esprimeva preoccupazione per Hanni nel messaggio a Pessoa a inizio beffa (17 settembre 1930), poi fingeva d’essersi suicidato: ma pochi anni più tardi, nel marzo 1933, lei si ucciderà davvero, ventiduenne, con overdose di morfina nella propria camera all’Hotel Alhambra di Palma di Maiorca. Pessoa morirà altri due anni dopo, nel 1935, solo quarantasettenne, travolto dai soliti problemi al fegato. Un’ampia percentuale della sua opera resta incompiuta, come il romanzo atteso invano da Crowley.

Le precedenti puntate di Sex and the Magic sono qui, qui, qui e qui.

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (I) (Victoriana 28/4) https://www.carmillaonline.com/2019/12/15/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-i-victoriana-28-4/ Sun, 15 Dec 2019 00:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56762 di Franco Pezzini

Angeli neri… angeli rossi

Nel 1970 esce un mondo movie un po’ particolare. Com’è noto, tale definizione etichetta un filone filmico curioso degli anni Sessanta e Settanta a metà tra documentario ed exploitation, rigorosamente a episodi, con filmati su fenomeni scioccanti (il termine alternativo è shockumentary) da parti diverse del mondo. Una certa retorica sensazionalistica connota di solito i toni delle voci narranti fuori campo: e in effetti, al di là delle pretese di “informazione”, è chiaro il compiacimento delle riprese sul morboso e sul violento.

Il film [...]]]> di Franco Pezzini

Angeli neri… angeli rossi

Nel 1970 esce un mondo movie un po’ particolare. Com’è noto, tale definizione etichetta un filone filmico curioso degli anni Sessanta e Settanta a metà tra documentario ed exploitation, rigorosamente a episodi, con filmati su fenomeni scioccanti (il termine alternativo è shockumentary) da parti diverse del mondo. Una certa retorica sensazionalistica connota di solito i toni delle voci narranti fuori campo: e in effetti, al di là delle pretese di “informazione”, è chiaro il compiacimento delle riprese sul morboso e sul violento.

Il film in questione ha però caratteri particolari e meno estremi: tratta certo con tocchi torbidi un tema controverso, ma senza flirtare con lo snuff. Si sta parlando di Angeli bianchi… angeli neri di Luigi Scattini e dell’uncredited Lee Frost (appunto 1970, ma uscito in Italia fin dal settembre 1969) con voce narrante di Enrico Maria Salerno su sceneggiatura dello stesso Scattini e di Alberto Bevilacqua: e il soggetto è l’occulto. Erompendo infatti dalle pieghe più o meno appartate di un decennio lunare (riprendo la definizione di Fabio Camilletti), proprio in quel volgere d’anni l’occulture prende a dilagare attraverso riviste e volumi popolari, cinema, tv e mille altri rivoli “ordinari”, comprese pratiche medianiche o magiche cerimoniali non più demonizzate e che diventano anzi di moda.

Se il tema interessa un po’ tutto l’Occidente, compresi gli Stati Uniti (con la loro The Occult Explosion, a citare il testo di Nat Freedland, 1972, e la svolta nell’immaginario sulle sette recata dal caso Manson, agosto 1969) e naturalmente anche l’Italia, la fucina più importante del revival magico è però ancora la Gran Bretagna. Cioè lo stesso paese che già una decina d’anni prima aveva visto riaprire le porte al gotico e all’occulto tramite l’avvio dell’età d’oro della casa cinematografica Hammer (1957), poi dettante all’immaginario collettivo una linea che corre per tutti gli anni Sessanta e anzi offre all’esperienza della Swinging London – ma con impatto planetario – un orizzonte mitico-magico peculiare; e ora è nuovamente da lì che l’occulto corre nel mondo. Basti rammentare eventi culturali come il varo nel 1970 della leggendaria rivista/enciclopedia inglese “Man, Myth & Magic” che porta il tema in chiave “colta” tra i lettori comuni; l’impennata della neostregoneria abbinata a un recupero (più o meno fantasioso, ma tant’è) di pratiche pagane; l’uscita nel 1971 del film-scandalo I diavoli di Ken Russell, ma insieme, già dalla fine del decennio precedente, la nascita di quel genere Folk Horror che, sposando minacciosi elementi ritualistici folklorici e neopagani a trame di fiction, troverà massima epifania nel capolavoro The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Non è un caso che Angeli bianchi… angeli neri parta proprio dall’Inghilterra, dalle profanazioni al cimitero di Highgate a rituali stregheschi a una presunta messa nera (ma le ragazze nude sembrano un po’ tutte troppo belle) eccetera: e il documentario, che corre per parti diverse del pianeta – con tanto di comparsata dell’allegro Anton LaVey, fondatore della Chiesa di Satana e uso a paludarsi da diavolone –, rappresenta una panoramica di straordinario fascino d’epoca.

Dove un aspetto rilevante sta proprio in quella voce fuori campo. E il primo episodio del film comincia così:

 

È accaduto un delitto. Siamo a Londra, nel cimitero di Highgate. Durante la notte, un episodio allucinante ha sconvolto la sacralità di questo luogo. Le prime tracce sono dei petali di fiori e delle piume di gallo, simboli della profanazione. Sembra assurdo, ma le vittime non sono persone vive: sono i morti. La polizia interroga, indaga: ma è sgomenta. È forse l’unica specie di crimine che paralizza anche i testimoni professionali della delinquenza con un terrore profondo come la coscienza. Ecco, quest’uomo è un testimone: dissimula il suo terrore, nega, non parla, ma ciò che ha visto non si cancellerà mai più dalla sua mente. Ha visto esseri umani avventarsi a scoperchiare le tombe. Aperte le bare, essi hanno affondato le mani nei resti orrendi dei cadaveri. Alla fine hanno conficcato negli scheletri pali aguzzi come lame. La versione della polizia sarà: sadici, spaventosi maniaci, necrofili dannati: ma ben altrimenti le antiche scritture demoniache definiscono questi colpevoli. Parlano di figli di Satana afflitti da una disperata nostalgia di Dio: uomini e donne che vivono tra noi, possono essere tra i nostri conoscenti; senza saperlo spesso confidiamo a loro i nostri segreti; eppure, giorno per giorno essi cercano d’imprigionare il cervello elettronico del mondo del Duemila con la millenaria, nera magia delle streghe; e anche i più scettici devono riconoscere che molte volte riescono là dove la scienza non può nulla.

 

Eccetera. Non badiamo troppo al confuso tenore dei dati offerti: ci si riferisce alla vicenda delle scampagnate antivampiriche per debellare il presunto vampiro di Highgate e ai vandalismi assortiti che il grandioso cimitero (dov’è sepolto, più dimostrabilmente, Karl Marx) aveva conosciuto in quegli anni e continuerà per un po’ di tempo a patire. A colpire nell’episodio sono piuttosto altri due elementi, cioè le immagini (la fotografia, gli ambienti, l’atmosfera) di straordinaria suggestione, e l’impasto retorico, pegno del tempo. Certo condizionato dall’ottica dell’Italietta coi suoi fremiti, le sue forzature, la sua cultura confessionistica, ma non solo: quel linguaggio riflette un più generale dato d’epoca tra toni forti, brividi e provocazioni in un’incredibile fase di svolta.

Se vogliamo averne prova, è consigliabile avvicinare un testo non italiano che – sia pure in termini più eleganti sul piano dei contenuti – propone come a episodi un consimile tipo di ottica, di linguaggio, di suggestioni: e cioè una bella raccolta riproposta abbastanza di recente per i tipi della milanese Ghibli, Voci dell’abisso. Racconti di magia nera di Aleister Crowley, H. P. Lovecraft, Montague Summers, Algernon Blackwood, August Derleth, Dennis Wheatley, Margaret Irwin, Cleve Cartmill, Robert Bloch, E. F. Benson (2017). Edita originariamente come The Satanists (1969, coeva dunque del film), l’antologia merita assolutamente la lettura, tanto più nella citata ottica vintage: e proprio a partire dall’introduzione I fatti del satanismo del curatore Peter Haining. Celebre antologista e divulgatore, Haining (1940-2007) è uno dei volti eminenti di quella stagione di dilagante riscoperta del magico: si pensi al suo leggendario Witchcraft and Black Magic (1971) uscito anche in Italia come Stregoneria e magia nera (ne I colibrì, Mondadori 1972) e che vantava un incredibile corpus di tavole di Jan Parker, non mere illustrazioni ma vera e propria opera parallela al testo. Ad avvicinare queste opere, comprese le bellissime e sinistre tavole di Parker, è il clima di inquietudine per una minaccia stregonesca che sembra echeggiare anzitutto insicurezze e crisi epocali.

Voci dell’abisso inizia con un trafiletto da The Sun 12 maggio 1968 – Messa nera in un parco dà il via alla caccia della polizia – che pare quasi rinviare all’inizio di Angeli bianchi… angeli neri; e lo stesso clima un po’ sovraeccitato da rotocalco si riscontra nell’introduzione.

 

Nello spazio di pochi anni soltanto, il satanismo è dilagato come un morbo maligno per tutta la Gran Bretagna. Dapprima semplice prerogativa di qualche isolato pazzoide e pervertito sessuale, crebbe poi con rapidità allarmante assumendo le proporzioni di una rete nazionale, con membri in ogni strato sociale: esponenti delle classi più abbienti alla ricerca di nuove perversioni e impiegati delusi, tormentati commessi d’ufficio e operai delle fabbriche appartengono notoriamente alla schiera di quest’arte funerea e lugubre.

 

E avanti su questo tono.

Del resto tra gli autori, a confermare tale vago sapore di assedio, spiccano due nomi eccellenti. Il primo è Montague Summers (1880-1948), l’equivoco reverendo convinto della colpevolezza delle streghe, studioso di letteratura gotica e di teatro ma soprattutto saggista sui temi dell’occulto, di cui è antologizzata qui qualche pagina su La messa satanica. Il secondo è Dennis Wheatley (1897-1977), il “Principe degli scrittori thriller”, mattatore della narrativa pop di lingua inglese tra gli anni Trenta e i Settanta, forte di una riconosciuta competenza sull’orizzonte stregonesco fin dai tempi del famoso romanzo The Devil Rides Out (1934, da cui il bellissimo film Hammer omonimo di Terence Fisher sceneggiato da Richard Matheson e interpretato da Christopher Lee, 1968). Già uomo dei servizi britannici, iperconservatore, nemico giurato di nazisti e comunisti, Wheatley canonizza nelle sue opere il nesso tra cospirazioni politiche e forze demoniache, ed è qui presente con Il sacerdote nero, stralciato da un altro suo romanzo, To the Devil – a Daughter, 1953 (da cui l’ennesimo film Hammer, Una figlia per il diavolo di Peter Sykes, 1976, sempre con Lee e di grande suggestione d’epoca ma liberissimo, e che stavolta disgusterà lo scrittore).

Poi certo, in Voci dell’abisso ci sono anche esponenti di un fantastico meno “tecnico”. A partire da Edward Frederic Benson (1867-1940) con l’elegante e torbido Il santuario, ronzante di mosche baalzebubbiche; poi Algernon Blackwood (1869-1951) con Antichi sortilegi, prova ormai celebre in tema di stregoneria, ma per qualità di penna godibilissima a ogni rilettura; Lovecraft (1890-1937) con l’obliquo La festa e August Derleth (1909-1971) con L’occhio del cielo, dove le note introduttive di Haining tradiscono gli equivoci d’epoca sull’interpretazione derlethiana della cosmologia di HPL.

Meno nota in Italia, Margaret Irwin (1889-1967), di solito autrice di romanzi storici, offre il sornione e raggelante Il libro, su impreviste conseguenze di scoperte nella biblioteca di casa; il pure poco conosciuto Cleve Cartmill (1908-1964) – poco conosciuto sia da Haining che dall’FBI, che indagò su di lui dopo il racconto Deadline (1944), evocante in modo dettagliato un’arma atomica non troppo diversa da quella del progetto Manhattan – parla di Figli di Satana nell’agghiacciante Oggi niente notizie; mentre un nuovo pezzo da novanta come Robert Bloch (1917-1994) chiude la rassegna con Il seme del Maligno. Una scelta insomma di piccoli gioielli per cui l’editore italiano merita senz’altro un plauso.

Ma c’è ancora un nome della raccolta, che la copertina indica per primo a dispetto della brevità del testo scelto: cioè quello di Aleister Crowley, la Grande Bestia 666 (1875-1947), personaggio citato qui anche nelle pagine di Wheatley ma presente in proprio come autore del brano titolato L’iniziazione. Non si tratta di un racconto, ma di un’istruzione stralciata da uno dei suoi opuscoli, con la messa in scena del rituale blasfemo della crocifissione di un rospo. Il fatto che tra tutta la sua produzione – nel 1969, è vero, meno facile da mappare nella sua impressionante estensione –, ricca di prosa, poesia e saggistica, sia stata proposta da Haining proprio questa breve istruzione finisce con l’orizzontare verso il Crowley più superficialmente “satanico” dei tabloid, “l’uomo più cattivo del mondo” eccetera: ancora una volta un pegno al clima d’epoca, che dice qualcosa delle provocazioni di un incredibile agitatore culturale (nel 1967 sulla copertina del Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles), ma rischia di travisarlo nel mero sodale del LaVey di turno. Torniamo insomma alla cornice vintage della raccolta in esame, che un lettore del 2019 è opportuno colga per poter capire e apprezzare il documento d’epoca.

Per approfondire un po’ il tema, può piuttosto essere utile accostare un altro testo edito nel 2015 dalla stessa Ghibli, cioè la biografia Aleister Crowley: la natura della Bestia di Colin Wilson (1931-2013): uno studio del 1987, è vero, ma preparato dal profilo di Crowley in The Occult: A History (1971) e da altre sue opere.

È vero che oggi questo saggio fortemente basato sulle Confessioni del mago può apparire povero a fronte di opere d’altra ampiezza e ricchezza di dati. Per limitarsi al mercato italiano, si pensi solo alle due monumentali biografie di John Symonds, giunta alla quarta, arricchitissima edizione, Aleister Crowley. La bestia 666 (Mediterranee 2006), e di Lawrence Sutin, Fai ciò che vuoi. Vita e opere di Aleister Crowley (Castelvecchi 2006); per non parlare di monografie come quelle di un’altra grande voce del revival magico, Francis X. King (1934-1994, peraltro legato anche personalmente a gruppi occulti) o, più recentemente, di Marco Pasi (in particolare Aleister Crowley e la tentazione della politica, Franco Angeli 1999, aggiornata nell’edizione inglese Routledge 2014). Però è anche vero che, in modo diverso dalla raccolta di Haining, Aleister Crowley – The Nature of the Beast ci riporta proprio allo scorcio d’epoca in questione. Sia per il taglio eccentrico di Wilson, testimone e in qualche modo promoter di quell’eruzione dell’insolito coi suoi studi sugli outsider – fin dalla famosa monografia del 1956 – e sull’occulto che hanno potentemente contribuito a un certo clima culturale tra i Sessanta e i Settanta (sul personaggio, cfr. qui): Wilson critica altre biografie su Crowley, incapaci di comprendere il personaggio, professa la propria fede nel fenomeno che etichettiamo come magia e colloca la Bestia nella galleria dei propri geniali outsider, umanamente perdenti ma portatori di svolte. Sia per le riflessioni sull’antiautoritarismo compulsivo e l’ossessione sessuale che l’autore sottolinea – con qualche buon motivo – come caratteristiche di Crowley e che negli anni del revival magico (e della rivoluzione sessuale) saranno viste come profetiche di fantasie diffuse e pratiche sociali. Più che mago nero, Crowley fu mago rosso nel senso della magia sessuale, anche se il termine è indubbiamente limitante: se certo non è il primo a praticarla (e abbiamo visto per esempio le idee del “Dumas d’America”), altrettanto sicuramente ne è il più grande teorico in età moderna. E i suoi angeli – se si vuole usare una metafora per ricondurre il sistema thelemico alla dimensione filosofica/religiosa che gli è propria – non sono tanto quelli neri del titolo di Scattini, quanto angeli rossi, scarlatti quanto la Babalon della Bestia.

Certo The Nature of the Beast, con le caratteristiche peculiari che lo pongono idealmente nella scia di studi alternativi come Il mattino dei maghi (1960) più che delle biografie “pure”, pur offrendo provocazioni interessanti è da accogliere un po’ sempre con le molle – e non solo per le personalissime idee di Wilson. La sensazione per esempio che nelle Confessioni Crowley tenda a intessere lisergicamente autofiction, giochi a impressionare, ricami per amor di narrazione e per gigioneria – come in fondo sempre, nella vita quotidiana come in romanzi e racconti, con un unico indiscusso mattatore in scena, sempre lui –, sia pure in alternanza a momenti di desolata onestà, lascia a volte pensare che invece Wilson prenda tutto un po’ troppo sul serio. Ma in ciò, tra fascino e limiti, sta il valore documentario del suo testo: e rileggerlo oggi finisce col suscitare una vaga melanconia per i sogni di un’epoca – che è stata anche nostra, almeno di chi può ricordarla, delle nostre singole vite e dei nostri sogni – ormai irrimediabilmente chiusa.

Le precedenti puntate di Sex and the Magic sono qui, qui e qui.

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Sex and the Magic: il Dumas d’America (III) (Victoriana 28/3) https://www.carmillaonline.com/2019/10/16/sex-and-the-magic-il-dumas-damerica-iii-victoriana-28-3/ Wed, 16 Oct 2019 21:10:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55372 di Franco Pezzini

La mazurka del barone, della Sophiale e della posizione

Cerchiamo di recuperare i fili. 1931, Parigi: in un incrocio trafficato della città, uno sconosciuto porge a Maria de Naglowska (cfr. seconda puntata) un manifestino. Degli editori in viaggio, vi si annuncia, intendono pubblicare una lussuosa edizione del Magia Sexualis di Paschal Beverly Randolph (cfr. prima puntata). Il distributore dei volantini scompare subito, ma una voce – interiore? – annuncia a Maria che sarà per lei, perché ne è degna… A suo dire, circolava la storia di note segrete [...]]]> di Franco Pezzini

La mazurka del barone, della Sophiale e della posizione

Cerchiamo di recuperare i fili. 1931, Parigi: in un incrocio trafficato della città, uno sconosciuto porge a Maria de Naglowska (cfr. seconda puntata) un manifestino. Degli editori in viaggio, vi si annuncia, intendono pubblicare una lussuosa edizione del Magia Sexualis di Paschal Beverly Randolph (cfr. prima puntata). Il distributore dei volantini scompare subito, ma una voce – interiore? – annuncia a Maria che sarà per lei, perché ne è degna… A suo dire, circolava la storia di note segrete di Randolph ancora da trascrivere in modo leggibile e che da un sessantennio una serie di ostacoli avrebbe sempre impedito di pubblicare. A suo dire, e non si hanno conferme indipendenti: dunque potrebbe anche trattarsi – ormai un po’ la conosciamo – di spregiudicata pubblicità dell’opera.

Si è datato l’episodio 1931 in quanto data probabile, lei resta un po’ nel vago: comunque ad aprile 1931 riceverebbe materialmente il manoscritto – proprio in un momento critico per la sua rivista “La Flèche” che rischia di chiudere – provvedendo a tradurlo. Un’operazione magica, sostiene, le permette di scegliere l’editore Robert Télin; ma in realtà dalla pubblicità sul “Figaro” risulterebbe che lo svizzero Télin, che è anche libraio, scrittore e conferenziere attento ai filosofi americani e con un passato un tantino controverso, era già detentore del manoscritto… Teniamo presenti queste due versioni, tra poco ne arriverà una terza.

Comunque l’operazione viene avviata e La Sophiale può consigliare ai lettori di “La Flèche” l’acquisto del volume, le cui copie – garantisce – si esauriranno prima di quanto non si pensi, a sostegno della stessa rivista. Chi abbia letto e studiato Magia Sexualis può non dubitare più che dal sesso, compreso e praticato nel modo corretto, scaturisce la verità. Anche se Maria tiene a sottolineare (nel 1933, sempre su “La Flèche”) un proprio ruolo autonomo dal “celebre americano” indicato come autore: lei non è discepola di Randolph, ma l’annunciatrice di una nuova religione, rivelatale a Roma e da lei riportata con parole umane nell’opera La Lumière du Sexe. Qualcosa che non è in contraddizione con i contenuti di Magia Sexualis, ma sarebbe frutto – spiega – di un’illuminazione diversa. Randolph ragiona come teosofi ed esoteristi della vecchia scuola, cioè in termini individuali e sostenendo l’evoluzione indipendente di ogni particella animica: un’ottica però fondamentalmente  egoistica, generatrice in ultima istanza di tutti i mali del genere umano. Al contrario il divino insegnamento che Maria proclama è che non esiste nulla di meramente individuale o separato: gli esseri umani non procedono verso l’Unità, ma sono l’Unità, e la separazione delle particelle dell’Universo sarebbe un’illusione di quel satanismo maschile cui appartengono tutti gli uomini della cultura e delle religioni “antiche”, Randolph compreso.

Tutto chiaro? Fino a un certo punto. Infatti a fronte di un bacino importante – come abbiamo visto – di scritti di Paschal Beverly Randolph di autenticità sicura e pubblicati a suo tempo nella lingua dell’autore, il grosso problema è che al contrario il testo di Magia Sexualis non emerge per vie diverse dall’edizione francese. Il che significa che del testo edito da Télin con curatela di Maria non abbiamo un originale nella lingua in cui Randolph era solito scrivere. Certo, in teoria un presunto testo originale inglese dovrebbe in prospettiva vedere le stampe: a fine dicembre 1931 secondo le pagine pubblicitarie nel corpo della stessa edizione, a fine febbraio 1932 a detta di “La Flèche” (1931, n. 8), ma in realtà non comparirà mai (mentre verranno edite traduzioni in inglese del testo francese, ma è chiaramente un’altra cosa). Non solo: a dispetto delle parole di Maria – che, ormai lo sappiamo, vanno prese con parecchia cautela –, non perviene altra testimonianza su materiali di Randolph con tale specifico contenuto circolanti tra un lato e l’altro dell’Atlantico.

Ma è meglio esaminare questo e altri problemi con il testo davanti, nell’ultima edizione italiana per i tipi delle romane Edizioni Mediterranee: e già sembra strambo che di tutta l’opera del Dumas d’America nel Belpaese sia stato tradotto solo un campione tanto dubbio. Eppure il volume merita due parole perché traghetta a plaghe dell’immaginario anche molto più vicine a noi. La prefazione è – sorpresa – del vecchio frequentatore di Maria, Julius Evola, e la Nota introduttiva di Gianfranco de Turris, “segretario della Fondazione Julius Evola, per conto della quale cura tutte le ristampe dei libri del filosofo tradizionalista” (traggo da Wikipedia) nonché co-curatore del volume assieme allo specialista di cose naglowskiane Vittorio Fincati. Dove i nomi di Evola e de Turris già indirizzano in termini trasparenti verso una certa area ideologica.

Apparso nel 1969, Magia Sexualis ha conosciuto due successive edizioni – 1977, 1996 – prima della quarta 2017 riveduta e ampliata: un ampliamento che ci si poteva giustamente attendere (nelle prime c’era solo il testo randolphiano con la Prefazione di Evola), a fronte delle maggiori notizie emerse. Va detto subito che l’opera non è affatto un Kamasutra in salsa occulta, come potrebbe pensare il lettore ingenuo di fronte al titolo, e presenta ben poco di pruriginoso: le posizioni ci sono, ma niente che soddisfi appetiti facili.

Cominciamo dalla struttura del testo attribuito a Randolph, venticinque capitoli, a partire dalle note introduttive (capp. 1-4). Si parla poi dei principi-cardine di questo impianto esoterico (capp. 5-8): volitismo, cioè autodominio e tensione ad accrescere le proprie forze; decretismo, la decisa capacità di recare mutamenti; posismo, il nesso plastico tra postura e altri elementi dell’atto magico; tiroclerismo, potere di evocazione. Seguono un corpus centrale sulla magia (capp. 9-18), e una sezione finale sugli specchi magici (capp. 19-25). Al di là dell’interesse “tecnico”, alcuni capitoli sono di grande suggestione narrativa: il cap. 13 sulle cariche magiche parla del modo di fissare intere scene a certi oggetti rendendole visibili attraverso il tempo; i capp. 23 e 24 si soffermano su quadri o statue viventi, cioè immagini capaci di animarsi.

Come detto, il testo non ci giunge nell’originale inglese degli scritti del Dumas d’America: si tratterebbe infatti della riproposta non di un’opera in sé compiuta (non esistente in quanto tale), ma di istruzioni interne di un gruppo magico legato a Randolph, anzi della selezione di una parte del relativo corpus circolante in forma manoscritta. Come curatrice, Maria l’avrebbe tradotto in francese “costruendo” l’opera in forma di volume. Secondo la Nota finale della curatrice il gruppo sarebbe la stessa Eulis Brotherhood di Randolph, e il materiale corrisponderebbe alla seconda parte del secondo grado degli insegnamenti ai membri. Nella Nota si sottolinea il senso della scelta di omettere qualche porzione del corpus (nozioni astrologiche generiche, ricette che potrebbero condurre gli incauti a sperimentare sostanze pericolose) e il fatto che il manoscritto completo delle istruzioni fosse in sessanta copie (manoscritte) per i membri.

Eppure il testo pare strano. Vi troviamo una tensione sistematica non altrove documentata in Randolph (corrispondenze, ore e giorni appropriati ai riti, eccetera), un’attenzione all’astrologia quasi assente dagli altri suoi scritti, e un impianto linguistico che rende difficile intravedere un testo inglese a monte: elementi che hanno portato a maturare un certo scetticismo sulla genuinità dell’attribuzione. Anche se è vero che non si tratta di criteri assoluti, tanto più che non disponiamo di simili istruzioni per gruppi autenticamente gestiti dal mago americano.

In realtà Maria parla nella Nota finale di “note manoscritte […] servite alla redazione”, un’espressione un po’ generica che fa pensare a un libero adattamento più che a una traduzione nel senso filologico. A comprendere per esempio materiale confezionato non dal magister ma da uno più collaboratori come certe dispense universitarie; oppure, come si è inteso, insegnamenti sempre di Randolph ma di tradizione orale, che Maria avrebbe espresso con una certa libertà. Del resto nel periodo successivo alla morte del Dumas d’America le sue idee sono state abbondantemente rielaborate nell’ambito di gruppi come la Hermetic Brotherhood of Luxor o ad opera di entusiasti come Reuben Swinburne Clymer (ne parleremo tra poco). Il materiale di Randolph che arriva a Maria può essere insomma già spurio: il che non è strano, considerando come i testi operativi magici siano spesso opere stratificate, e il riferimento a un nome non implica un rigore filologico nell’attribuzione.

Dato interessante, si è osservato come nel lancio di Magia Sexualis su “La Flèche”, vengano menzionati titoli di capitoli che poi non compaiono nel testo edito (per esempio sull’onanismo evocatorio e su tecniche magico-sessuali per ringiovanire), a far pensare a un corpus più ampio di materiali “randolphiani” – con tutte le virgolette del caso – circolanti nel sottobosco magico in cui La Sophiale si muove. Di più, la Nostra potrebbe avervi inserito materiali “altri” che le parevano congrui: e Mario Praz ha fatto notare come uno dei capitoli rechi una sospetta consonanza con una scena dal romanzo di Joséphin Peladan, À coeur perdu (1888).

Ma, fatta salva una base di idee effettivamente di Randolph, Fincati – che interviene sul tema anche in una pagina di appunti online molto ricca di documenti, Una gnostica a Montparnasse. Maria de Naglowska – ipotizza una tesi ancora più radicale: cioè la costruzione a tavolino da parte di Maria, con la complicità del disinvolto Télin, di un testo che Randolph non avrebbe mai scritto neppure nella forma di istruzioni, ma che ne conterrebbe semplicemente un po’ di idee rivedute e corrette pescate dai suoi volumi più noti, mischiate a quelle di altri e della stessa Sophiale. Chi si occupa di testi sacri (di tutti i tipi) o magici sa che non solo in molti casi si tratta di opere “collettive” – in più forme – ma che le attribuzioni sono spesso tendenziali, magari per nobilitare i testi medesimi o inscriverli in una certa tradizione: il concetto di diritto d’autore è in questo senso un’urgenza moderna e laica, ma nella realtà piuttosto conservativa dell’occulto i poli dell’entusiasmo e della truffa vedono infinite posizioni soggettive intermedie. Cercando una sintesi, diciamo che si tratta di materiale di gruppi che in qualche modo si rifanno a Randolph: e in assenza (almeno per ora) di dati più sicuri non resta che accogliere l’attribuzione in chiave problematica.

Ma riprendiamo l’esame dell’edizione per Mediterranee. Che nello specifico rimonta a una copia dell’originale francese rimasta alluvionata a Firenze nel 1966 e passata da un amico appunto a Julius Evola, che l’aveva tradotta. Il risultato è oggi questa nuova edizione con carta elegante (questa collana è molto bella) e di oggettivo fascino per i mille misteri che intesse. Il testo “randolphiano” con la Nota finale di Maria vi occupa le pp. 39-174. Il resto del volume presenta una serie di materiali di interesse che va ben oltre lo specifico del contenuto magico.

A partire da una serie di testi riguardanti Maria, dove si apprezza l’apporto di Fincati, che offre una netta svolta qualitativa rispetto alle edizioni precedenti. Già traduttore in Italia dell’opera Le Rite Sacré de l’Amour Magique, e forte di ricerche documentali complesse, lo studioso dedica un contributo erudito (pp. 21-28), in generale accurato, equilibrato e tale da render conto della problematicità del personaggio della Sophiale. Colpisce solo il tenore di alcune espressioni (“Preferiamo tacere sugli aspetti di mistificazione sfacciata e anche stupida, oltre ai deliranti attacchi di misticismo, con i quali essa ha infarcito i suoi due libri successivi”): le dottrine naglowskiane presentano tutte le equivocità denunciate, ma resta la sensazione che esoteristi di sesso maschile non verrebbero stigmatizzati con una simile durezza terminologica. Fincati ricorda comunque le conoscenze esoteriche che Maria mostra di avere, forse tramite contatti con la sezione francese della Confraternita di Luxor, o attraverso ambienti russi; e per la profetessa del Regno della Madre istitutrice di sacerdotesse dell’amore parla correttamente di femminismo sacro, anche sul filo delle riflessioni di Sarane Alexandrian. Citandolo anche quando dice: “Con un’audacia serena, Maria de Naglowska ha attaccato le convenzioni che paralizzano la destinazione occulta della donna, e non soltanto le convenzioni sociali ma anche il partito preso sentimentale”. (Anche se poi sempre Alexandrian se ne esce con alcune espressioni che comunque riportano a un certo spiacevole sottomondo ideologico: “Oggi, la donna che vuol essere uguale all’uomo coltiva a dismisura la ragione. È questo il grande errore del secolo e l’origine di tutti i mali di cui soffriamo”, eccetera – lascio alle lettrici di esprimersi.)

Fincati osserva però che a dispetto degli entusiasmi dei discepoli la magia sessuale della donna naglowskiana risulta, “in fin dei conti, in funzione del maschio”: e nutre riserve sulle fantasie di riforma della società e sulla sostanza del femminismo proclamato dalla Sophiale, visto più come una patina superficiale che una radicata convinzione. Nella citata pagina web dove raccoglie parecchio materiale su di lei (e offre un gustoso bozzetto di Evola, non presentabile nel volume curato in coppia con l’evoliano de Turris) Fincati chiarisce anche meglio: il ruolo della donna come ierodula dei misteri del sesso magico non c’entra nulla con le rivendicazioni femminili sulla parità di diritti. Il che è vero, e le posizioni politiche di Maria negli anni Trenta non autorizzano a pensare diversamente. Ma come spesso succede, la forza intrinseca di una posizione libertaria esonda ben oltre le categorie di chi l’aveva abbozzata: per cui, a dispetto di tutte le sue ambiguità, la bizzarra gnosi di Maria de Naglowska volta all’instaurazione del Regno della Madre e alla liberazione da cinque millenni di patriarcato finisce con il recare provocazioni sociali più forti – e con un baricentro comprensibilmente un po’ spostato – di quelle che lei intendeva proporre. Confluendo in un più ampio filone di femminismo “magico” (in tutte le possibili accezioni) in chiave di garanzia di futuro e di urgenza di ridiscussione della dinamica tra sessi, compresa quella imperante in certo mondo esoterico.

Fincati, che cita volumi anche recenti, cura poi personalmente una Premessa al testo “randolphiano” su alcune peculiarità dell’edizione del 1931 (pp. 31-32) e un’Appendice con un paio di documenti (pp. 175-185) che chiariscono meglio le posizioni naglowskiane. Da questo versante, insomma, l’edizione soddisfa le esigenze di un lettore che cerchi buona informazione.

Dove il testo convince meno – e il recensore, partito con grandi speranze, è rimasto deluso – è nella parte dedicata a Randolph. È vero, il materiale della Magia Sexualis è di attribuzione dubbia: ma visto che è il nome di Randolph a comparire nell’intestazione, che l’opera ne contiene (almeno in parte, almeno indirettamente) il pensiero e che di lui all’interno si parla il problema sorge. Anche qui, esaminiamo il materiale offerto: dopo la Premessa di Fincati troviamo una Breve nota biografica “storica” su Randolph, tratta dall’edizione 1931 e firmata da tale Allan F. Odell, che l’editore presenta semplicemente come “studioso americano” (pp. 33-34), poi un profilo sempre di Randolph a firma di Maria (pp. 35-37). Quale il problema? Il fatto che i dati siano fermi alle conoscenze degli anni Trenta. E cioè al ritratto mitizzante e manchevole di Randolph che circola dagli inizi del secolo, legato alla fantasiosa e agiografica ricostruzione spacciata dall’occultista e medico alternativo americano Reuben Swinburne Clymer (1878-1966) a colmare la scarsità di notizie allora reperite sul Dumas d’America.

Clymer, entusiasta di Randolph di cui si sente erede tramite i gruppi rosicruciani americani, prende a ricollegare disinvoltamente a lui le proprie fondazioni magiche: fatto in sé non strano, è un classico dei gruppi esoterici cooptare fantasiosamente qualche figura del passato come fondatore virtuale, onorario. Ma soprattutto, convinto della propria affidabilità di storico dell’esoterismo, Clymer produce un Randolph rivisto e corretto in un mischione che ne semplifica idee e contraddizioni, lo inserisce in una più ampia traditio rosicruciana egizia, e lo aggancia – tramite fantomatici contatti, o nessi societari, o suggestioni di vario tipo – a personaggi eccellenti della grande storia magica e non: il Conte di St. Germain (circa 1691/1712-1784), Albert Pike (1809-1891), Éliphas Lévi (1810-1875), Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), Gérard Encausse detto Papus (1865-1916) e lo stesso Napoleone III. Clymer enfatizza anche i rapporti tra Randolph, il suo ordine e Lincoln, accrescendo di molto il peso del Dumas d’America agli occhi del presidente. Le oscurità sopravvissute nella ricostruzione vengono presentate come inevitabilmente frutto di distruzioni documentali da parte di nemici di Randolph, identificabili (è ovvio) in quelli dello stesso Clymer, di continuo coinvolto in furiose polemiche. E visto che scrive molto, i suoi scritti resteranno influenti negli studi su Randolph proprio a causa della difficoltà per molto tempo di trovare notizie credibili. Gli studi recenti permettono oggi di prendere queste ricostruzioni con beneficio d’inventario e di ridimensionarne le suggestioni.

È quello di Clymer, comunque, il ritratto di Randolph che emerge nella paginetta dell’americano Allan F. Odell: e per inciso non è chiaro se possa trattarsi dello studioso di scienze di tal nome citato in pubblicazioni d’epoca, di un ignoto omonimo, o piuttosto di uno pseudonimo d’occasione per Maria (il contenuto della paginetta, ma senza firma, appare anche in “La Flèche” 1931, n. 8) o eventualmente per lo stesso Télin (magari ispirato dai cataloghi dove si muove abilmente) onde offrire una patina di americanità al tutto.

Quando dunque “Odell”, chiunque sia, parla del successo di Randolph negli ambienti occultisti europei ed elenca una serie di nomi eccellenti con cui avrebbe avuto rapporti – il generale Ethan Allen Hitch(c)ock militare e studioso di alchimia, Éliphas Lévi, lo scrittore e occultista Bulwer-Lytton, Charles Mackey (probabilmente Mackay, autore di Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds, 1841), l’erudito massone Kenneth Mackenzie e altri “scrittori massonici”, il conte Brasinsky (Brasynsky), Napoleone III, il medium Alexis Didier e suo fratello Adolph(e) scrittore di temi mesmerici, il conte Tsovinski, il generale Pélissier duca de Mal(a)koff, Hargrave Jennings teorizzatore del fallo come simbolo originale di tutte le religioni – sta in realtà importando suggestioni da un romanzo dello stesso Randolph, The Wonderful Story Of Ravalette, come se il personaggio più o meno autobiografico fosse tout court l’autore (sul tema cfr. Joscelyn Godwin, Theosophical Enlightenment). I contatti in questione sono tutti da verificare e richiamano piuttosto a un’idea astratta di comunità magica e rosicruciana.

Stesso discorso per la fantomatica missione in Russia da parte di Lincoln, presentata così: “Non si capisce bene quale fosse la sua missione, ma certamente fu di ordine sia occulto che politico. Probabilmente si trattò di sollecitare un appoggio russo per controbilanciare l’Inghilterra”, dove al netto della stima di Lincoln per un uomo come Randolph, è pura spy story pensarlo inviato in funzione diplomatica. Certo, non sarebbe teoricamente impossibile che nei suoi viaggi verso il Vecchio Mondo il Dumas d’America si fosse trovato a porre piede anche in territorio russo; ma la missione così descritta è una bufala, dove “Odell” sta rifacendosi agli entusiasmi di Clymer.

Qualunque sia il legame con “Odell”, a questo ritratto fantasioso di Randolph attinge comunque anche Maria per il profilo offerto sia su Magia Sexualis sia altrove: come su “La Flèche” n. 7, dove ne tira fuori una delle sue. Forte della propria origine russa, La Sophiale sostiene di avere ricevuto una prima iniziazione da una defunta e non meglio identificata principessa Elena in una filiale della loggia di Randolph da lui fondata a San Pietroburgo nel suo fantomatico viaggio. Poi certo, si tratta di capire se non esistesse qualche cenacolo esoterico russo che fantasticava una fondazione randolphiana: ma dato il tenore un po’ retorico dell’affermazione, viene più da pensare alle solite fantasie di Maria. Davvero un personaggio su cui varrebbe la pena lavorare letterariamente.

Il tutto per tacere di veri e propri errori: “Odell”, parlando delle opere di Randolph, scrive “solo alcune delle quali furono pubblicate lui vivente”, il che suona paradossale per un autore tanto editato (e fa sorgere ulteriori dubbi sull’americanità dell’autore); mentre Randolph non può aver cominciato gli studi, come sostiene Maria, “in seno alla Società segreta nota con le cifre H.B. of L. (Hermetic Brotherhood of Luxor)” la cui fondazione è parecchio più tarda.

Per inciso, il Randolph che possono conoscere Hoffmann Price e Lovecraft è evidentemente quello di Clymer. Ma (alla luce di quanto detto nella prima puntata di questa serie) considerato il botto nel 1931 di Magia Sexualis che fa conoscere Randolph in Europa e il numero di americani su e giù dalla Parigi della Sophiale, fa riflettere che “Through the Gates of the Silver Key” venga scritto tra ottobre 1932 e aprile 1933: a fronte delle curiosità occultistiche del complice di HPL, un nesso anche solo accidentale nella genesi del personaggio Étienne-Laurent de Marigny potrebbe insomma trovare ulteriore credibilità.

Tornando però all’edizione italiana, niente di male nell’offrire su Randolph quei dati un po’ disinvolti per mancanza all’epoca di documentazione, e che possono anzi evocare un clima d’epoca: ma oggi andrebbero robustamente glossati. Come detto, negli ultimi decenni su Randolph sono usciti parecchi volumi importanti con una quantità di informazioni affidabili sulla sua vita, sui gruppi frequentati via via, sul loro clima ideale, eccetera: e nessuno di questi viene qui citato. Tantomeno la fondamentale (e oltretutto bellissima) già menzionata unica biografia di John Patrick Deveney con Franklin Rosemont del 1996. L’unico cenno che fa intuire si conosca l’esistenza di altra letteratura è un’informazione-lampo (quasi invisibile) nell’aletta di terza di copertina, dove la biografia di Randolph viene liquidata in due parole veloci comprensive di queste frasi: “Si dedica attivamente alla politica, diventa amico di Lincoln e, dopo la guerra civile, si batte per i diritti dei neri. / Dopo il 1866, deluso dalla politica, si consacra esclusivamente” eccetera. Ma gli studi mostrano compatti che Randolph è stato a tutto tondo e lungo tutto il corso della vita il sostenitore convinto – e per anni militante, anche prima della guerra – di una serie di diritti civili e politici, un importante (sì) intellettuale afroamericano: la sua vita non si è esaurita nei salotti magici d’Europa o in strambe missioni segrete, ma è stata spesa molto trasparentemente tra ambienti black dove recava forme di coscientizzazione e altri, come quelli dello spiritualismo americano, che almeno in parte muovevano su posizioni progressiste. In sostanza, l’omissione di tutta la letteratura su Randolph successiva agli anni Trenta nasconde quasi completamente questa figura schierata per richiamare soltanto, e in termini un po’ fantasiosi, l’esoterista esotico. Sì, è vero: stiamo parlando della curatela di un testo di magia, non di una biografia dell’“autore”. Ma per un’edizione arricchita del 2017 (cioè a distanza di più di vent’anni da una biografia ormai ricostruita dettagliatamente) tale silenzio sembra davvero un po’ grave.

Non possiamo però dimenticare chi promuove inizialmente la pubblicazione della Magia Sexualis, cioè Julius Evola, che vi fornisce una Prefazione (pp. 11-19). Interessante senz’altro per gli studiosi di Evola, ma molto poco per quelli di Randolph: le critiche che gli muove con una certa sufficienza (“Chi non è digiuno per quanto riguarda la letteratura sulla magia e sulle scienze esoteriche senza, per questo, indulgere in fantasie, dovrà leggerlo con molta prudenza, unita anche con una certa indulgenza”) partono da interpretazioni esoteriche di un certo mondo che non è affatto quello del primo mago americano, né della Sophiale, né di un intero filone di altri occultisti. Per esempio in tema di polarità sessuale, di cui Evola (tra soavi cenni al “pregiudizio evoluzionistico, […] quello umanitario” eccetera) discetta come se si trattasse di inattaccabili dati scientifici: “Le cose stanno in modo alquanto diverso”… Ma è abbastanza evidente che in questione sono solo differenti scuole di pensiero, sulla base di diversi – e tutti discutibilissimi – sistemi magici e antropologici.

Piuttosto, come osserva Introvigne nel suo bellissimo I satanisti (Sugarco 2010), può stupire che Evola consideri un testo dubbio quale Magia Sexualis come davvero rappresentativo delle idee di Randolph. È vero che in quel contesto “il barone” avanza anche dubbi su possibili manipolazioni dell’opera da parte della Sophiale. Ma sembra chiaro che, con tutto il suo sussiego, Evola sappia meno di quel che immagini di sapere.

A coronare il volume edito da Mediterranee è un’interessante Nota di Gianfranco de Turris (pp. 7-10), che ricostruisce gli eventi del contatto di Evola con l’editore e dell’arrivo di Magia Sexualis alle stampe in Italia. Ma interessante anche per due aspetti specifici.

Il primo riguarda la presunta disinvoltura dell’erotologo Evola e un suo “certo gusto a scandalizzare” lo stesso mondo di destra, per esempio attraverso un’intervista (1970) con un redattore di “Playmen”, il barone Enrico de Boccard (sul personaggio, cfr. qui). “Nella ‘candida conversazione’ con de Boccard, il filosofo criticò, ma non dal punto di vista bigotto, anzi all’opposto, il modo in cui la ‘rivoluzione sessuale’ affrontava la questione per andare ben oltre essa”: a ostentare il ritratto di un personaggio di larghe vedute che insomma piaccia al pubblico di oggi. Peccato che poche pagine dopo, nella Prefazione, Evola appaia figura un po’ diversa. Non tanto quando liquida Maria – con cui aveva collaborato a lungo, che l’aveva aiutato a tradurre in francese La parole obscure du paysage intérieur – Poème à 4 voix (1921), gli aveva offerto spazio e forse altro (di volta in volta i due sono stati detti amanti, o legati da una relazione tantrica o semplicemente da forti passioni comuni) – con un giudizio sprezzante sul suo sistema di iniziazione “‘satanica’, in tutto ciò essendo abbastanza evidente uno scandalismo a fini pubblicitari”: possiamo leggerla come valutazione meramente “tecnica”, anche se ci si può chiedere perché a quel punto lui mandasse contributi per “La Flèche”. Però a lasciare attoniti è soprattutto l’assoluto silenzio sul fatto che si siano conosciuti e la distanza che pone, come trattasse di un’estranea. Insomma l’Evola dalle presunte larghe vedute sembra comportarsi non diversamente dagli imbarazzati borghesucci desiderosi solo di far dimenticare ogni proprio trascorso con la scandalosa Maria.

Ma c’è un aspetto intrigante più generale in filigrana all’episodio dell’intervista su “Playmen”. Nella ricerca da parte del neofascismo di aree culturali sensibili e non già saldamente presidiate da forze dell’arco costituzionale, Evola aveva (anche comprensibilmente) individuato nell’erotologia un terreno interessante: e negli ultimi anni Sessanta il boom della rivoluzione sessuale finisce con l’aprire promettenti spazi di accreditamento per una destra che vuole presentarsi rinnovata. Un altro settore storicamente frequentato dall’estrema destra era poi quello dell’esoterico, anche se nel Revival magico che vede il botto proprio alla fine del decennio si afferma una forte concorrenza delle culture alternative di sinistra. Ma a quel punto è chiaro che proporre nel 1969 Magia Sexualis – cioè un’opera che coniuga erotologia ed esoterismo – non appare operazione ideologicamente neutra: sarebbe ingenuo pensare di trattarla come intrapresa puramente filologica di un testo di occultismo.

Il che finisce col traghettare all’oggi. Lo storytelling di estrema destra ama ancora considerare come una propria trincea – e grazie soprattutto a Evola e alla sua scuola – alcuni temi-chiave, con una rumorosa cassa di risonanza oggi sui social: in particolare nel mondo di un fandom weird dove de Turris è attivissimo, con una ricca serie di curatele editoriali, non sempre il pubblico comprende il gioco di sottotesti ideologici di alcune interpretazioni (enfatizzazioni, omissioni). Con l’emersione qui e là sul web di idee assunte acriticamente a dogmi:

  • il complottismo di sinistra contro le interpretazioni simboliche;
  • la bieca e cieca incomprensione da parte della critica progressista delle dottrine esoteriche e quindi dei relativi autori;
  • la lettura tout court del panorama dell’esoterismo sotto un cappellino evoliano.

Sul primo punto: solo una scarsa informazione (usiamo un termine morbido) diffusa in questa Italia può pensare di esaurire una dimensione fondamentale come il simbolo nella simbolica di parte di una certa tradizione. Il problema starà piuttosto nell’usare le interpretazioni simboliche in termini congrui al contesto, dove le intenzioni dell’autore e il suo retroterra culturale e storico le rendono credibili, e non appigliandosi a vaghezze metastoriche costruite in chiave ideologica (e manipolatoria). Siamo simboli e viviamo in essi, diceva Emerson: la prima parte dell’espressione conduce su vie sottili e di credo anche personalissimo che non è questa la sede per discutere, ma la seconda parte finisce col richiamare discorsi già altrove affrontati – e cari a questa testata – sul potere dell’immaginario. Chi ha scritto su ciò pagine a tutt’oggi preziose è Furio Jesi, non a caso uno dei nomi più temuti dall’estrema destra. Mentre l’enfasi entusiasta di certo fandom sui “pionieri delle interpretazioni simboliche” (in particolare quelle postevoliane di autori come Tolkien e Lovecraft) non arriva a porsi il problema della congruità storica e filologica del relativo contenuto e della motivazione ideologica un tantino capziosa del tipo di approccio.

Sul secondo punto: il dogma gioca sulla confusione tra tradizioni culturali e filoni ideologici. È vero, una critica di matrice illuminista non può amare troppo l’esoterismo: penso a Ripellino, che in quell’opera inarrivabile che è Praga magica chiama “ciarlatano mistico” il povero Meyrink, o a Eco con l’incredibile, geniale, a suo modo profetico Pendolo di Foucault. Ma progressista è un termine ambiguo (come il suo opposto, antimodernista, che permette confusioni assai equivoche); e solo la scarsa informazione – torniamo a chiamarla così – può far ignorare la varietà di declinazioni storiche nel corso del tempo di una galassia ideale complessa e variegatissima come quella dell’esoterismo. In sostanza, esaurirlo nell’ambito dell’estrema destra – che cerca di accaparrarselo – è semplicemente falso. Ne troviamo di marca che possiamo definire progressista o ancor meglio libertaria, c’è un socialismo magico e persino un Comunismo magico (titolo offerto da Francesco Dimitri all’omonimo volume per Castelvecchi, 2004). Ma ne troviamo anche nell’ambito di un pensiero di destra che non ha nulla in comune con l’estrema destra e anzi se ne ritrae con ripugnanza. Ho il sospetto che Meyrink, nemico del militarismo, rispettoso degli ebrei in un mondo che virava pesantemente verso l’antisemitismo, fautore di un dignitoso esoterismo di crescita interiore e non di acquisizione di spazi di potere (un distinguo spesso trascurato dagli interpreti nostrani), sarebbe piuttosto addolorato da certi accaparramenti del suo nome. Un personaggio poi come l’occultista Dion Fortune – donna di polso – probabilmente butterebbe “il barone” giù dalla collina di Glastonbury, gridandogli dietro cosa pensa delle sue idee sulle donne. La realtà è che anche nella provincialissima Italia l’esoterismo andrebbe affrontato con il rigore dedicatogli da ormai un ampio filone di studi internazionali, soprattutto anglosassoni, rappresentati nel Belpaese da autori come Introvigne e lo straordinario Marco Pasi. Ciò che permetterebbe di evitare le tirate per la giacca di autori e di opere.

Il che traghetta al terzo punto: proprio l’interpretazione di Evola in Magia Sexualis mostra una sostanziale incomprensione di altre chiavi esoteriche legate a realtà culturali semplicemente diverse. Al di là insomma dei suoi contenuti ideologici (che possono ripugnarci, ma non è questo ora in questione), l’evolismo, con la sua lettura tanto autocentrata, non è una lente in grado di comprendere e far comprendere sul piano scientifico un orizzonte esoterico assai più vasto e complesso. Evola parla di Evola, della sua lettura, delle sue teorie, del suo “razzismo spirituale” eccetera, ma è poco utile per capire Randolph, de Naglowska, Meyrink o altri.

Ma allora sorge il sospetto che il curioso silenzio di questa edizione sugli ultimi decenni di studi sul Dumas d’America non costituisca un accidentale segno di trascuratezza della curatela – interpretazione che del resto suonerebbe inaccettabilmente offensiva nei confronti di un curatore colto come de Turris (o come Fincati, che però in un’ideale ripartizione del lavoro sembra essersi occupato soprattutto della Sophiale). Mostrare il profilo politico di un mago “progressista”, antirazzista, schierato per diritti di classi subalterne – dove le etichette interessano poco, non si sta cercando di cooptarlo in qualche tifoseria ma di avere un quadro storicamente corretto – minerebbe uno dei dogmi circolanti sulla piazza dell’Italietta. Quelli di cui il lettore di scarsa informazione (continuiamo a chiamarla così) continua giulivo a farsi portavoce.

(3 – continua)

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Sex and the Magic: il Dumas d’America (II) (Victoriana 28/2) https://www.carmillaonline.com/2019/10/05/sex-and-the-magic-il-dumas-damerica-ii-victoriana-28-2/ Sat, 05 Oct 2019 21:07:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55154 di Franco Pezzini

I riti erotici della papessa Naglowska

Una delle caratteristiche dell’impegno esoterico di Paschal Beverly Randolph (cfr. la puntata precedente) è l’estrema prolificità editoriale, sia col proprio nome che con pseudonimi – Griffin Lee, Count de St. Leon – o persino in forma anonima. A parte l’attività sulle riviste – collaborazioni col “Journal of Progress and Spiritual Telegraph”, cura editoriale di “Leader” (Boston) e “Messenger of Light” (New York) – il Dumas d’America pubblica nel corso della sua vita una gran quantità di volumi, appunto una cinquantina di [...]]]> di Franco Pezzini

I riti erotici della papessa Naglowska

Una delle caratteristiche dell’impegno esoterico di Paschal Beverly Randolph (cfr. la puntata precedente) è l’estrema prolificità editoriale, sia col proprio nome che con pseudonimi – Griffin Lee, Count de St. Leon – o persino in forma anonima. A parte l’attività sulle riviste – collaborazioni col “Journal of Progress and Spiritual Telegraph”, cura editoriale di “Leader” (Boston) e “Messenger of Light” (New York) – il Dumas d’America pubblica nel corso della sua vita una gran quantità di volumi, appunto una cinquantina di opere tra saggistica e narrativa, che trovano una certa circolazione. Alcune delle quali fondamentali per capire il suo pensiero, e in qualche caso (soprattutto i romanzi) tali da poter essere apprezzabilmente proposte anche in traduzione.

Da qualche anno è possibile accedere comodamente online a un certo numero di questi testi, per non parlare di una buona saggistica di lingua inglese che sovviene al lungo silenzio sull’autore da parte degli storici dell’esoterismo lamentato nel 1994 da Joscelyn Godwin. Studi come The Hermetic Brotherhood of Luxor: Initiatic and Historical Documents of an Order of Practical Occultism a firma dello stesso Godwin, di Christian Chanel e John Patrick Deveney (Weiser, 1995, in Italia per Mediterranee, La Fratellanza Ermetica di Luxor. Storia, rituali iniziatici e istruzioni di occultismo pratico, 2008) o Magia Sexualis: Sex, Magic, and Liberation in Modern Western Esotericism di Hugh B. Urban (University of California Press, 2006) – per fare solo due esempi tra i tanti, in larghissima parte non tradotti in italiano –, offrono pagine preziose. Ma fondamentale è la biografia Paschal Beverly Randolph: A Nineteenth-Century Black American Spiritualist, Rosicrucian, and Sex Magician di John Patrick Deveney e Franklin Rosemont (State University of New York Press, 1996), a tutt’oggi – per quanto mi risulta – l’unica in circolazione.

In Italia, paradossalmente o forse non troppo, non è apparso nessuno dei testi principali a firma di Randolph, ma solo un’operetta tecnico-occultistica a lui attribuita con parecchia prudenza, Magia sexualis: e che tuttavia merita un esame per i nessi con altre figure del sottomondo magico e l’impatto su un immaginario anche molto più vicino a noi. Ci concediamo dunque una digressione, passando dall’Ottocento americano al Novecento del Vecchio Mondo.

Roma, 1920: nella città ancora – per poco – prefascista arriva una figura molto particolare. Non certo per l’aspetto: è una piccola donna bionda prossima ai quaranta, a suo modo graziosa ma poco appariscente. A colpire chi le parli sono piuttosto la lingua (francese, ma in realtà ne conosce varie), gli occhi profondi d’un azzurro duro e la personalità che dietro quell’azzurro sembra di cogliere – vivacità, determinazione. Forse non si avverte ancora il magnetismo che la connoterà anni dopo, è ancora nel matraccio di qualche trasformazione interiore. O forse sì, ma attende di prendere una forma più definita.

Maria è russa di San Pietroburgo, di famiglia aristocratica: si dice – uno dei tanti si dice di questa storia – che il padre generale Dimitri de Naglowski governatore della provincia di Kazan sia stato avvelenato nel 1890 durante una partita a scacchi da un fantasioso nichilista, e la madre è morta cinque anni più tardi. Ma col resto dei parenti Maria ha rotto in nome dell’amore per un partner non titolato ed ebreo, il violoncellista Moïse Hopenko conosciuto nel sottobosco artistico di San Pietroburgo. Trasferitisi prima a Berlino e poi a Ginevra, si sono sposati, hanno combinato tre figli – Alexandre, Esther Marie e André – e conosciuto crescenti tensioni nel rapporto con le due diverse realtà di origine: portatrici oltretutto di concretissime ricadute pratiche, come la perdita degli aiuti della comunità russa per l’iscrizione dei figli alla sinagoga. Verso il 1910 Moïse, ardente sionista, se n’è andato in Palestina, mollando Maria (che, incinta di André, rifiutava di seguirlo) per trasferirsi a dirigere il primo conservatorio musicale ebraico; e lei ha dovuto cavarsela col proprio lavoro d’insegnante in scuole private e poi di giornalista, facendosi notare per la verve tagliente delle sue posizioni. Al tempo sono ancora un mix radicale di nazionalismo e socialismo rivoluzionario (del resto ha un fratello bolscevico, Aleksandr Dimitrievich Naglovskij), e le sue idee sulla donna appaiono per ora molto conservatrici: avrà il tempo di cambiarle. Il risultato dei suoi articoli è una breve incarcerazione con l’accusa di spionaggio, e alla fine l’abbandono della Svizzera.

Per cui – appunto – arriva a Roma, dove riprende quel che sa fare, insegnamento e giornalismo (un impiego al giornale “L’Italia”, 1921-26): e all’inizio si trova sorvegliata perché vive con il fratello, incaricato d’affari di Mosca. Ma, pare sulla base di un interesse per l’occulto sviluppato già in Svizzera, s’imbatte anche nel giro degli esoteristi locali, in particolare i futuri fondatori del Gruppo di Ur: un sottomondo di aspiranti maghi, esoteristi e nostalgici del paganesimo imperiale – gente che sogna di coltivare le forze magiche dell’individuo e insieme di condizionare occultamente la politica – che a dispetto di un certo grigiore merita conoscere, per capire uno dei vari bacini ideali di un neofascismo molto più tardo. E infatti, tra loro, Maria fa conoscenza via via approfondita con un pittore dadaista poco più che ventenne che diverrà ideologo di estrema destra, il futuro “barone” Julius Evola. Ma lui, che sgomita per entrare nella nostra storia e vi avrà una piccola parte, ci interessa poco: pensiamo a lei.

Maria de Naglowska (1883-1936) poi detta La Sophiale è appunto una figura particolare. Una delle varie ispirate, teosofe e papesse che tra Otto e Novecento realtà e letteratura vedono affluire dall’Oriente a dispensare rivelazioni in caffè e salotti bramosi di misteri più o meno esotici: una linea che dalla celebre, bonaria Madame Blavatsky, storica fondatrice della Società Teosofica, porta fino alla fittizia principessa Assja Chotokalungin de L’Angelo della finestra d’occidente di Gustav Meyrink (e Alfred Schmid Noerr), 1927, capace addirittura di tornare dalla morte quale vampiro dell’anima per tentare il protagonista. Maria de Naglowska mostra idealmente tratti dell’una e dell’altra.

È discusso se in Russia Maria avesse già avuto contatti diretti con un sottomondo di mistici un po’ estremi. È persino possibile che già negli anni dell’istruzione – forse nel collegio dove ha studiato pedagogia – venissero notate sue doti particolari, medianiche o comunque visionarie: qualcuno le ha vaticinato una futura missione o le ha concesso una qualche iniziazione? Difficile dire. In ogni caso è almeno col primo soggiorno romano che si trova a diretto contatto con ambienti dell’esoterismo: e per quanto le posizioni lì siano distanti da quelle che lei maturerà, è possibile che le suscitino alcune domande. Alcune provocazioni, forse.

Nel 1926 Maria lascia Roma per Alessandria d’Egitto, dove il figlio Alexandre si è fatto una posizione e riunisce la famiglia (meno Moïse, risposato – pare in regime di bigamia – con la pianista ebrea ucraina Lina Krishevski). Una riunione solo temporanea, la figlia si sposa e presto la famiglia si dividerà di nuovo. Ma la novità è che nella città dei caffè, di Kavafis e degli affari Maria – che continua con le collaborazioni giornalistiche – aderisce alla Società Teosofica e inizia a tenere conferenze presso la sezione locale: visto che è la città dell’antica Ipazia e dei maestri gnostici, la cosa potrebbe sembrarle un segno. Nel 1928 un occultista francese di passaggio le profetizzerebbe anzi che lascerà presto l’Egitto per Roma, arriverà poi a Parigi per trascorrervi un pessimo periodo iniziale, ma lì infine le giungerà tra le mani un prezioso documento: e questo farà la sua fortuna, mondana e spirituale.

In effetti Maria torna a Roma nel luglio 1929, per restarvi due mesi, pare in rovinose condizioni economiche: ma visto che narrerà l’episodio delle profezia solo dopo l’apparente adempiersi a Parigi, occorre prenderlo con una certa cautela. Anche più dubbio è un altro suo racconto tardivo riguardante il secondo soggiorno romano: a proposito cioè del fatidico incontro con un fantomatico monaco, nello stesso momento dell’intronizzazione oppure dell’elezione di Pio XI da parte del Conclave (così si esprimerà in occasioni diverse: ma Pio XI, eletto papa nel 1922, diviene il primo sovrano del nuovo Stato di Città del Vaticano dal 7 giugno 1929, non in luglio quando lei riferisce d’esser tornata). Questo monaco, scalzo e col suo povero saio addosso, ma dal nome conosciuto e venerato dalla Chiesa cattolica – così lei si esprime –, le consegnerebbe un biglietto con l’immagine di un triangolo, trasmettendole non per bocca umana, non attraverso libri la “tradizione boreale”: quella cioè (in ipotesi) a monte dell’itinerario magico che farà di Maria de Naglowska uno dei nomi di maggiore provocazione dell’occultismo novecentesco.

Si è ipotizzato il contatto con un ex monaco della Chiesa Mariavita polacca, gruppo eretico che traghettava nel culto generose dosi di libertinaggio, ma è più probabile che in realtà si tratti di un mito di fondazione e che la figura richiami simbolicamente quel Terzo Termine della Trinità di cui Maria poi tanto parlerà. I dettagli rimandano del resto all’immaginario dei gruppi neognostici con cui Maria verrà a contatto a Parigi e a quello della cosiddetta Confraternita dei Polari di stampo rosacrociano e sinarchico. D’altra parte non si può neppure escludere che dall’incontro casuale con uno degli infiniti religiosi in giro per Roma – che magari le ha passato un santino macchiato d’inchiostro, certi episodi nascono anche così – qualcosa sia scattato nella testa di Maria e nella forma dei suoi desideri. Uno degli aspetti affascinanti della sua figura sta nella disinvoltura con cui si ridisegna davanti agli interlocutori e forse a se stessa: molto difficile orizzontarsi tra sparate piuttosto incomprensibili (in particolare quando non le vedremmo necessarie), possibili fraintendimenti degli interlocutori ai suoi discorsi elusivi, verità psichiche e simboliche che avrebbero potuto interessare Jung. Difficile stringere su dati precisi, anche quando in apparenza li offre.

Tanto più che in seguito racconterà altri strani episodi. Il fatto per esempio che a Roma – probabilmente già nel primo soggiorno – pur non essendo ancora iniziata a misteri superiori, sarebbe riuscita a far fecondare per vie magiche una donna, attraverso una complicata cerimonia, ma senza che venisse sfiorata fisicamente. L’episodio, narrato da lei al solito giornalista divertito degli anni parigini, resta troppo vago per potervi attribuire anche solo un valore simbolico (si perdoni il gioco di parole) pregnante: ma sembra indicativo del suo modo di proporsi.

Comunque Maria parte dall’Urbe per Parigi – dove sarebbe stata chiamata da una casa editrice francese per un lavoro – e vi arriva il 3 settembre 1929: ottiene però solo il permesso di soggiorno (non di lavoro, forse è stata preceduta da cattive informazioni delle autorità svizzere), si trova in miseria e per quattro mesi resta persino senza alloggio. Ma lentamente le cose ingranano e nell’ottobre 1930 nasce “La Flèche – Organe d’Action Magique”, una testata per cui impegna in carta e stampa buona parte del suo (poco) denaro. È lei a scrivere la massa degli articoli, ma collaborano anche vari esoteristi (tra i quali il solito Evola), e qualche conoscenza di Maria con contributi anche un po’ off-topic; ne usciranno diciotto numeri dal varo al 1933. La vera svolta però è un’altra, un po’ di tempo dopo, e qui di nuovo si tratta di decodificare un suo racconto piuttosto confuso: in un incrocio trafficato della Ville Lumière qualcuno le piazzerebbe in mano un volantino, su un progetto di pubblicazione di un volume Magia sexualis in edizione extralusso. E chi sarebbe l’autore del testo? Nientemeno che il nostro Dumas d’America, Paschal Beverly Randolph…

Torneremo più avanti sullo specifico di questa vicenda, che vede Maria recuperare il manoscritto presuntamente di Randolph, portarlo all’editore Robert Télin scelto con un’operazione magica – così racconta lei, in realtà vedremo che emerge un’altra versione o forse due – e varare la pubblicazione in chiave molto più economica. Il successo dell’operazione in un sottobosco parigino di curiosi del magico e devoti del pruriginoso la conduce ad affermarsi come esperta di magia sessuale. E sull’onda di rivista e volume nasce la figura pubblica della Sophiale: carismatica ierofante in una Montparnasse di artisti e intellettuali; mistica dalle venature sulfuree (si definirà “una donna satanica”, anche se vedremo che il termine va rettamente inteso), con fughe nell’estremo che piacciono agli ascoltatori surrealisti; conferenziera su temi occulti, dove appunto sesso e magia vanno a braccetto.

Lei parla a platee di crescente ampiezza, e in margine agli incontri alcuni spettatori passano nella sala accanto per iniziazioni sataniche. Altri riti, vedremo, sono un tantino più estremi.

Per i suoi seminari passano Breton, Man Ray, forse William Seabrook: e l’entusiasta Pluquet, architetto e collaboratore di Le Corbusier, ravviserebbe un’influenza del pensiero della Sophiale persino sul lavoro di quest’ultimo. Va detto che a bazzicare gli incontri sono in moltissimi casi semplici curiosi; ma non è semplice comprendere il livello di simpatia perché a distanza di anni parecchi dei frequentatori faranno il possibile per far dimenticare ogni propria familiarità con lei, con un imbarazzo persino comico. Evola sarà uno di questi casi.

Il passo successivo è la fondazione a Parigi di una società occulta con alcuni discepoli (il devotissimo e acritico Marc Pluquet poi suo biografo, lo scrittore Claude Lablatinière in arte Claude d’Ygé, il pittore Camille Bryen…), la Confrerie de la Flèche d’Or, che naturalmente è Maria a guidare e dura dal 1932 al 1935.

Ma Maria non si limita a parlare e scrivere articoli. Lascia anche alcune opere più ampie, non enormi ma di approccio non semplicissimo, dalla novella semi-autobiografica Le Rite Sacré de l’Amour Magique (1932) al trattato La Lumière du Sexe (1932) – previsto come guida rituale per gli iniziandi della Confraternita – al famigerato Le mystère de la pendaison (1933), per un tipo di pratica iniziatica estrema che qualcuno ritiene responsabile di almeno un morto. Con costernazione genuina della sophiale, si vocifera, e relativi problemi di ordine pubblico. Certo quel rito di ascensione alla montagna satanica, che a sentir Maria condurrebbe a straordinari miglioramenti spirituali (ma che ci si permette di sconsigliare caldamente) assomiglia in modo un po’ losco a quelli patrocinati dalla satanica Helen Vaughan tra le pieghe corrotte della Londra vittoriana in The Great God Pan di Arthur Machen (1894). O a certe fantasie di Félicien Rops.

Inevitabile comunque che La Sophiale attiri l’attenzione dei giornali, ed è in particolare un articolo di Stéphane Pizzella della rivista “Voilà” con tanto di fotografie – molto suggestive – che la rende improvvisamente celebre. Continua a essere poco appariscente: piccolina, molto pulita, non truccata, capelli corti biondocenere lisciati con cura, camicetta accollata assolutamente decorosa, modi ineccepibili. Parla con garbo, a volte con ironia, e gesticola poco: solo gli occhi azzurri, durissimi ma profondi, capaci d’illuminarsi all’improvviso, effettivamente colpiscono. E gli intervistatori restano spiazzati dal fatto che una simile, sobria figuretta, tanto lontana dagli stereotipi della profetessa come della Menade, passi tanto tempo a riflettere di una roba come la magia sessuale.

Parlando, usa parole semplici: ma è il suo impianto teorico a risultare ingarbugliato, a voce (riportano testimoni perplessi) come negli scritti. L’inizio non sembra particolarmente complicato od originale: il primato del divenire sull’essere e l’identificazione (con caratteri analoghi a idee di un po’ tutto l’occultismo francese dell’Ottocento) della terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, con il divino femminile. All’ebraismo come religione del Padre, inteso con carattere androgino, e al cristianesimo come religione del Figlio, con carattere maschile, seguirebbe insomma la nuova era del Terzo Termine di natura femminile, associato al sesso: da cui la necessità delle tecniche di magia sessuale, per riconciliare le forze della luce e dell’oscurità attraverso l’unione dei due poli sessuali, e il potere di trasformazione spirituale del sesso. Ma arriva il difficile. Nell’essere umano esisterebbero due componenti indipendenti e complementari, il Corpo che è Dio/la Vita e la Ragione associata a Satana, che contro Dio protesta continuamente: e la loro necessaria relazione dialettica, la lotta contro Dio che è dovere e insieme calvario di Satana, e la conseguente lotta di lui contro il Figlio, condurrebbe a una sintesi identificabile nel Terzo Termine, lo Spirito Santo. Però, per Maria, Satana non è una potenza malefica, rappresentando piuttosto l’elemento purificatore del polo negativo; alla donna, polo positivo, sarebbe sufficiente l’iniziazione divina.

Satana avrebbe poi due dimensioni, maschile e femminile. Il satanismo maschile (ma forse dovremmo dire la dimensione satanica maschile, per non confondere con l’accezione cultista di satanismo) tenderebbe a negare ogni verità legata alla dinamica vitale, ponendosi come separazione e come No opposto al Sì: è immortale anche se determina continuamente la morte, però è necessario, perché senza lotta (opponendo Cielo e Terra, gli Elohim del Sì e del No confermano il contrasto come base dell’Unico che è e che noi siamo) e senza Morte, la Vita non esisterebbe.

Ma in Satana ci sarebbe anche un lato femminile, di cui normalmente non si parla perché fin dall’Origine la parola gli fu negata: normalmente tace perché è il Guardiano della Soglia, quello che si oppone al fallo solare per impedire la fecondazione, e senza questa opposizione la Vita non sarebbe. Solo talvolta Dio gli restituisce la parola, nelle fasi critiche di fine di un’epoca: e l’esprimersi del satanismo femminile (Satana-Donna, Satana-Madre Divina) segna una nuova fase, tutto cambia, la separazione cessa di esistere, i contrari si fondono e la Vita trionfa. Richiamandosi alla promessa biblica, La Sophiale spiega che lei schiaccia appunto la testa del Serpente, il satanismo maschile, e proclama il trionfo della vergine solare per bocca del satanismo femminile. Tutto questo – e parecchio altro, non è questa la sede per iniziare i lettori – si declina poi in una serie di rituali e pratiche sessuali (ritenzione del seme, sua assimilazione e altre, fino alla citata pendaison); e il primo compito della sacerdotessa sarebbe mettersi al centro di un gruppo di uomini e donne animati da desiderio sessuale, captarne le emanazioni e usarle magicamente, in particolare nei grandi riti del Terzo Termine. Un quadro meno eccitante del previsto, commenta qualche linguaccia, a fronte dell’età un tantino matura delle signore coinvolte.

La riflessione teologica di cui sopra conduce a un mutamento anche nelle posizioni politiche di Maria. Un articolo su “La Flèche” dal tema Il “bolscevismo” è compatibile con la dottrina del Terzo Termine della trinità? sottolinea l’abisso tra le due letture della realtà (15 febbraio 1933, n. 15) contestando la concezione sessuale del bolscevismo che difenderebbe il piacere fine a se stesso; e in seguito la Nostra si allontanerà ancora, verso suggestioni teocratiche nel segno della sua peculiare interpretazione trinitaria. Le sue accuse colpiscono anche i nazisti e lo stesso ebraismo nell’atteggiamento dei suoi fedeli verso le partner cristiane: dove non è difficile cogliere qualcosa della sua storia personale. Non entriamo qui peraltro nella complessa questione del rapporti di Maria col mondo ebraico.

Aiutata economicamente dal figlio André che negli anni ha fatto la spola tra lei e il padre, Maria vive in una spoglia cameretta all’Hotel de la Paix, al 225 di boulevard Raspail, dove talora riceve ospiti seduta compostamente sul letto, in un sentore di castità assoluta. Ma la sua base operativa sono caffè e brasserie: prima “La Rotonde”, mitico punto di ritrovo degli artisti di Montparnasse, poi nello stesso quartiere “La Coupole”, il caffè degli occultisti che brulica di stranieri, altro luogo leggendario della cultura parigina (inaugurato nel 1927, bazzicato da gente come Cocteau, Joséphine Baker, Man Ray, Georges Braque, Picasso e tanti altri), comunque locali dove attira abbastanza interessati da garantirsi moderate consumazioni a spese dalla direzione. La si incontra a un tavolino con una tazza di cappuccino davanti, una brioche oppure un panino (di necessità mangia poco) e una quantità di carte e trafiletti di giornale, mentre medita a occhi socchiusi, scrive oppure – la sera – intrattiene fumando un pubblico variegato. Oltretutto, con l’antica formazione da giovane aristocratica, è in grado di intrattenere gli interlocutori in un certo numero di lingue. Riceve anche all’American Hotel (15, rue Bréa) e ogni giorno si ritira alla chiesa di Notre-Dame des Champs nel cuore di Montparnasse – cioè proprio nell’area dove è certa debba avvenire il passaggio dal Secondo al Terzo Termine – per pratiche di meditazione. Come lei spiega, le chiese cristiane, votate al Secondo Termine della Trinità, permettono di assorbire la forza da lui lasciata: e suggerisce anche una particolare tecnica.

Frequentatissimi sono poi gli incontri del mercoledì al vicino Studio Raspail (36, rue Vavin), più noto come cinema: ed è lì che in una saletta conferenze il 5 febbraio 1835 riesce finalmente a celebrare il rito-chiave del suo culto, quella Messa d’Oro in cui rivivere liturgicamente il calvario di Satana. In quel rito tre uomini dovrebbero compiere un concreto rito sessuale con quattro donne, ma sembra non venga mai celebrato: in questa versione preliminare, l’elemento sessuale è reso in forma solo simbolica. Tranquillizzati dal tenore più morigerato, vediamo di che si tratta.

L’arredo della sala consiste in un paio di quadri illustrativi delle idee di Maria, un altare lievemente rialzato e un seggio dove La Sophiale è assisa abbigliata d’oro e coronata: e di fronte, in penombra e con le spalle al pubblico, si ergono i due iniziandi. Uno recita il poema liturgico, poi la sacerdotessa offre loro del vino che benedice dopo un canto corale, annunciando che la forza trasformatrice che è in lei si unisce al principio virile dei due; e la fase successiva la vede proiettare sui fedeli quell’energia sessuale (con grande emozione di alcuni in sala). Poi la sacerdotessa si adagia sull’altare, uno degli iniziandi recita la dichiarazione dell’ammesso al battesimo del Terzo Termine della Trinità, i due bevono il vino e gettano ritualmente a terra le coppe vuote. Quindi il figlio della celebrante – sempre André, che a differenza degli altri resterà un po’ all’ombra del ricordo della madre –  illumina la sala, Maria si rialza e provvede a lavare i piedi degli iniziati aggiungendo una speciale magnetizzazione perché il cammino nel pantano del mondo non nuoccia; infine li asciuga, torna a sedere sullo scranno e annuncia per ognuno dei due la promozione al grado di Spazzino (in senso interiore – la traduzione che a volte si trova, Scopatore, rischia d’essere fraintesa), “Che il coraggio sia con lui”… e a ciascuno consegna la relativa patente. Al termine di questo rito a metà tra reinvenzione liturgica e film di Jean Rollin (ma molto scenografico, i testimoni trovano esteticamente bellissime le sue celebrazioni) dichiara che, con quei primi due iniziati, la religione del Terzo Termine della Trinità è effettivamente costituita. Poi tutti raggiungono “La Coupole” per festeggiare…

Evola stigmatizzerà infastidito ne La metafisica del sesso l’intenzione di Maria di scandalizzare a tutti i costi i lettori con richiami satanici; ma il Satana di Maria non ha nulla in comune con quello biblico e quello della vulgata, e neppure con quello del satanismo coevo. E per capire qualcosa del pensiero naglowskiano dobbiamo tenere presenti vari elementi.

Per quanto formata nell’ortodossia della Chiesa russa, Maria viene da un mondo che rimprovera da sempre all’Occidente l’eccesso di misura in materia spirituale: un mondo dove la mistica conosce esperienze spesso estreme, dove l’idea di aggregare il Femminile alla Trinità ha assunto forme diverse (per esempio promuovendo la Sophia/Sapienza a Quarta Persona), dove il Grande Santo flirta talora con il Grande Peccatore – fino a espressioni spiazzanti, orgiastiche o comunque da noi considerabili oltre le righe di qualunque spiritualità presentabile. Si discute se Maria attinga all’esperienza dei Chlysty, una strana setta russa che immette in un esagitato misticismo cristiano elementi orgiastici pagani; o se abbia conosciuto Rasputin (come sostiene, ma negando di esserne stata ispirata) o magari Gurdjieff (a Parigi negli stessi anni, potrebbe aver ispirato alcune sue idee). Ma anche a prescindere da influssi diretti di singoli iniziatori dell’est, nel suo strano gnosticismo fai-da-te sembra di cogliere l’eredità di un più vasto e sfuggente panorama di sincretismi da oriente e di filoni eretici dei grandi monoteismi.

D’altra parte si è ipotizzato con qualche buon motivo che alla base delle idee di magia sessuale dell’autrice possa riconoscersi un più puntuale rapporto con gruppi neognostici francesi: e in particolare il riciclaggio di idee del clandestino Cenacle d’Astarté fondato nel 1920, che vedeva nella Donna Divina proprio la terza ipostasi dell’Assoluto e aveva come simbolo un sesso femminile (riprodotto in forma molto astratta, un triangolo col vertice in basso da cui spunta una rosa) simile a quello offertole dal fantomatico monaco a Roma. Lo stesso epiteto gnosticheggiante La Sophiale potrebbe venire da lì. Visto che la Ville Lumière brulica al tempo di occultisti ed esoteristi e che oltretutto tra il 1932 e il 1934 vi è esploso il caso “satanico” de L’Eletta del Dragone (edito 1929, presunto memoriale di una dark lady, Clotilde Bersone, agli alti gradi dell’altrettanto presunto massonismo satanico e in realtà divertente feuilleton) è probabile che il sistema di Maria sia una sorta di patchwork di molti spunti, cuciti col filo di peculiari provocazioni d’ambiente. Se c’è una vera Eletta del Dragone, come argomenta Massimo Introvigne con un po’ di ironia, è in fondo proprio lei.

Sulla base per esempio di articoli del 1931-32, Vittorio Fincati – lo studioso che, con Introvigne, in Italia si è forse più occupato di Maria – ipotizza anzi che, come la Confraternita dei Polari e altri occultisti d’epoca, anche la Nostra fosse in attesa di un’epifania fatale per l’anno di fuoco 1933: qualcosa che potrebbe inquadrare tutta la sua opera, forse sulla base di un evento medianico-evocatorio consumatosi in Egitto – come già avvenuto a Crowley – o piuttosto in Russia al tempo della sua gioventù. Il non verificarsi della crisi mondiale apocalittica diffonderà nei gruppi perplessità o sollievo: ma considerando che proprio nel 1933 Hitler arriva alla Cancelleria, si potrebbe sospettare un fraintendimento sulla natura dell’epifania. Maria comunque vede l’ascesa al potere di Hitler come evento apocalittico, la venuta dell’Angelo della Morte, grave per tutti ma soprattutto per gli ebrei: lo scrive su “La Flèche” proprio nel fatale 1933.

Ma accanto o piuttosto insieme a tentativi di spiegare il pensiero naglowskiano nel segno dell’antropologia religiosa, devono probabilmente ravvisarsi altre chiavi. Senza azzardare psicanalismi superficialotti (il profilo di Maria resta troppo sfuggente per presumere di analizzarlo in termini credibili), i suoi rituali francamente estremi pongono almeno qualche domanda sul suo personale orizzonte di fantasie. Ora, a parte l’influsso di sessuologi eccentrici come Camille Spiess, altre sue letture risultano ben più imbarazzanti: e in particolare i testi (li traduce lei in francese?) dell’austriaca istriana Edith Cadivec, una dominatrix in realtà non semplice estrosa sessuale ma vera e propria criminale, responsabile di violenze su minori, processata nel 1924, e sulla quale la Nostra espone invece su “La Flèche” un giudizio spiacevolmente elogiativo. Fincati potrebbe aver ragione nel ravvisarvi un nesso con alcune fantasie sadiche di Maria, che pure è tutt’altra persona da Cadivec. Nel contesto di una vita tanto provata, a monte delle trovate rituali naglowskiane si può insomma ipotizzare sensatamente anche una sghemba dimensione di personalissime pulsioni: fantasie come di là da uno spioncino, et de hoc satis. Dopo la morte di lei, del resto, sua figlia farà piazza pulita di almeno una valigia di materiali imbarazzanti.

Ma oltre a questi due fronti – le agenzie culturali di formazione e le tortuosità di un mondo interiore – si può serenamente considerarne un terzo, più pragmatico. La vita di Maria è tutta una battaglia contro difficoltà spaventose, anzitutto economiche ma anche di sradicamento, di lotta per i propri affetti, di apertura di spazi che una donna intelligente, talentuosa e fantasiosa non trova soddisfatti in professioni sottopagate ed entro limiti sociali angusti. L’identità che si costruisce permette forse di vedere se stessa in un modo diverso: un’autofiction dove ricomporre frammenti di sé e insieme raccogliere attenzione, stima e devozione che le erano state rifiutate. Certo, Maria non lucra, e la sua vita è così costretta nella guaina che si è costruita da trovarsi vincolata a uno stile di vita povero e per certi versi ascetico. Ciò che spiegherebbe anche il suo continuo ravvisare miracolosi segni confermativi in eventi in sé banali, e persino il suo raccontare versioni aggiustate della propria esistenza o vere e proprie panzane. Del resto, nella sua lettura del Genesi, Dio/Vita ha creato Verità & Menzogna, Origine & Apparenza, e solo così la vita andrebbe avanti, dialetticamente: la sola Verità la annienterebbe, la sola Apparenza la bloccherebbe. A quel punto, le verità aggiustate avrebbero un senso.

Maria gioca anche, plausibilmente, con ciò che gli interlocutori vogliono leggere nelle sue parole. È probabile che le frasi ambigue da lei usate (il suo stile è francamente elusivo) vengano “chiarificate” alla meglio dai giornalisti che devono riassumerle. Il fatto che sostenga di essere d’origine polacca, e che la sua famiglia avesse un castello nei Carpazi distrutto durante la Grande guerra (ad ascriverla idealmente alle Indie d’Europa come una vampira letteraria?), non sembra proprio risponda a verità, ma potrebbe anche costituire la sintesi di mezze frasi un po’ vaghe e un po’ fraintese dal giornalista. Che abbia ricevuto un’iniziazione fin da ragazzina e conosciuto Rasputin non è dimostrato, ma non appare così implausibile – e vai a sapere cosa le informazioni implichino in concreto. La storia poi di aver impalmato un tal signor Naglowski, ricco polacco, col quale sarebbe vissuta nel Caucaso, è chiaramente una balla: ma su pagine desolanti come quella del suo matrimonio è anche più comprensibile che Maria preferisca glissare, inventare, riscrivere.

Insomma, impossibile far di lei un santino, perché pesanti dosi di ambiguità le restano addosso: ma è intrigante cercare di capire una figura storica che non agisce come noi avremmo fatto e i cui frequentatori – salvo qualche devoto – a un certo punto si sono defilati in massa. Coi chiaroscuri e i misteri di una vita come in palcoscenico, Maria sarebbe un grande personaggio teatrale: o eventualmente da film, a recuperare non le scene erotiche (che potrebbero serenamente restare implicite) ma i dialoghi sfuggenti nei caffè degli artisti, i rapporti con un mondo che sta sfarinandosi verso la tragedia o il gioco delle sue espressioni – concentrata, ostinata, delusa, furbetta – di fronte agli intervistatori. O a recuperare, ancora, episodi come quello che segue, dove la parte hard (diciamo così) è velata dal buio.

Tra le persone che a Parigi aprono le porte a Maria c’è l’americana Gladys (probabilmente uno pseudonimo), attratta pare più dagli aspetti pruriginosi che da quelli disinteressatamente magici. Con Maria e un malassortito gruppo di discepoli, il giornalista testimone raggiunge lo studio di Gladys e della sua amica Liliana, boulevard Edgar-Quinet: e lì tra arredi in baudelairismo Kitsch, Champagne ed etere dietilico, dovrebbe svolgersi un rito sessuale. Maria acconsente a bere: lo Champagne fortificherebbe i nervi, agevolando la comunicazione coi piani invisibili, ma a differenza dei compagni si bagna appena le labbra. Quindi passano alla celebrazione. Formano la catena, si concentrano come riescono dato il grado d’etile, il giornalista trova l’atmosfera poco seria ma La Sophiale sembra voler raccogliere tutti i fluidi circolanti nello studio. Dopo una mezz’oretta, attraendo verso di sé Liliana e ammonendo sulla pericolosità del momento, prende a gesticolare attorno alla testa di lei: quindi ansima di vedere la sfera, la colonna luminosa e qualcuno afferma di scorgere una testa di fuoco. A quel punto Maria si spoglia, restando in sottoveste rossa – niente di erotico, sottolinea il giornalista – e si corica a terra ponendo la testa tra i piedi di Liliana: salvo poi balzare in piedi con un grido selvaggio spegnendo la luce. A rischiarare lo studio ora buio, resta solo un treppiede con carboni ardenti e grani d’incenso: e in quelle tenebre, salvo La Sophiale che assorbe le energie come una spugna, i partecipanti si dedicano a ben altro tipo di estasi. Quando però il giorno dopo Maria incontra il giornalista, gli chiede se abbia trovato impressionante la testa di fuoco condensata tra le sue mani, e pronta a rispondere alle sue domande… Ovviamente quello è costretto ad ammetter di non aver visto né colonne luminose né teste di fuoco, ma la stranita Maria gli sembra del tutto in buona fede. Sta facendo la commedia? Ha vissuto tutto in forma di autoipnosi? Ha semplicemente visto – magari con occhi tutti interiori – qualcosa che altri non vedono? Ovvio che per noi resti estremamente difficile interpretare il suo personaggio; e tanto più perché il devoto biografo Marc Pluquet crede letteralmente a tutto ciò che lei dice.

Il fatto è che, con il suo carisma e il suo stile di semplicità che potrebbe flirtare con la recita, Maria affascina, aprendosi spazi in un mondo che resta patriarcale anche tra gli esoteristi (in quanto donna, i giudizi su di lei saranno sempre più duri e sprezzanti che su colleghi maschi intenti in simili pratiche): e il suo épater le bourgeois le permette di fare il pieno di pubblico, di attrarre spiriti inquieti, di giocare – diciamolo pure – anche sulle fregole degli interlocutori. Sia o meno suo amante per un periodo (qualcuno lo dice, non è importante) Evola che farà tanto il disinvolto in materia sessuale sarà però cautissimo nel raccontare quanto abbia collaborato con lei, marcando distanza nei resoconti: ma se al tempo fosse stato tanto infastidito, l’atteggiamento sarebbe stato diverso. Certo nella versione virilista di Evola – virilista fino alla caricatura – l’idea di una papessa del sesso, con un’autorità non intimidita dal falloforo tantrico, resta radicalmente indigeribile.

Potremmo aggiungere ancora un tassello. A saldare il quadro sfuggente di cui sopra potrebbe essere in fondo un ulteriore elemento d’epoca, il gusto della provocazione surrealista: per Maria non tanto a livello di adesione teorica, quanto di partecipazione a un clima dove i surrealisti (che bazzicano, ricordiamolo, i suoi incontri) esaltano proprio figure femminili estreme ed eccessive, femmine folli dai sadici riti o o dagli occhi perduti in estasi strane. La teologia di Maria sembra uscita da Une semaine de bonté, e del resto la sua influenza sul surrealismo, il suo posto nella galleria del surrealismo femminile verranno rimarcati anche a distanza di parecchio tempo in studi artistici.

Per non parlare della ripresa delle sue provocazioni in chiave musicale: un legato con ricadute anche recentissime, perché Maria continua a intrigare. Penso alla canzone La Sophiale de Montparnasse di Devis Granziera, leader del progetto musicale Teatro Satanico, e forte della straordinaria voce di Laura Agerli, nel bell’album Friends & Fiends (2016) che raccoglie tracce ispirate o dedicate a personaggi “forti” (molto vari, da Ulrike Meinhof a Leonarda Cianciulli). Oppure a María de Naglowska (“Un pedestal se erige eterno / sobre la piedra negra / que porta tu pecho hoy / que porta tu pecho hoy / y la lucha / te a María…”) nel progetto solista Niebla di Esteban M, musicista, cantautore, compositore e produttore argentino (2018).

L’età della Sophiale dura fino al 1936. Quell’anno una sua conferenza sul coito magico suscita un’incriminazione per oltraggio alla pubblica decenza: a sollevarla è un privato, tal capitano di corvetta Guibaud, sentitosi personalmente offeso – c’è gente così – davanti al manifestino del dibattito in una bacheca del Club du Fauburg (dove Marie si è spostata, la saletta dello Studio Raspail non basta più per gli ascoltatori). Il sensibile Guibaud vince in primo grado ma perderà in appello.

Però nell’aria c’è qualcosa di ben più serio: e sulle soglie di quell’anno Maria, sembra in seguito a un sogno in cui avrebbe presentito anche la propria morte, profetizza la rovina del Secondo Conflitto. Fino a quel punto gli uomini sarebbero liberi di scegliere la Luce o le Tenebre, ma nel ’36 le due correnti contrarie – destinate a contribuire con il loro scontro a una trasformazione più ampia – raggiungerebbero una forza tale da imprimere invincibilmente un corso alle singole vite: e la guerra si imporrà come inevitabile. Auspicando la salvezza per il popolo francese, ma già certa che oltre i confini il combattimento sarà atroce, La Sophiale esorta a formare una schiera che offra al mondo desolato futuro la Parola vivificante del Terzo Termine… Poi saluta i discepoli spiegando che la sua missione è conclusa, passerà parecchio tempo prima che il suo magistero venga apprezzato; e si trasferisce presso la figlia a Zurigo. Il motivo – qualcuno ipotizza, pensando al caso Guibaud – potrebbe essere diverso, il timore di essere arrestata per reati contro la morale; ma tendo a credere di più che colga in sé qualcosa che non va. E infatti se non è nel 1936 che scoppia la Seconda Guerra Mondiale (ma inizia la guerra civile spagnola, che ne è un po’ l’anticamera), è pur vero che l’ultimo combattimento per Maria si consuma quell’anno: il 17 aprile muore infatti a Zurigo a soli 53 anni. La voce di una sua scomparsa a Parigi durante la Seconda Guerra Mondiale, eventualmente deportata dai tedeschi per l’antico matrimonio con un ebreo, è insomma l’ennesima leggenda.

Come da lei profetizzato, le sue opere trovano circolazione piuttosto limitata fino ad anni recenti, quando (2011-12) verranno tradotte per la prima volta in inglese da Donald Traxler per Inner Traditions. Ma il testo che la fa maggiormente conoscere, sia pure non come autrice ma traduttrice ed esperta della materia, paradossalmente è il primo: quel Magie sexualis comparso nel 1931 per i tipi Robert Télin, e la cui storia merita un discorso a parte.

(2 – continua)

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Sex and the Magic: il Dumas d’America (I) (Victoriana 28/1) https://www.carmillaonline.com/2019/08/31/sex-and-the-magic-il-dumas-damerica-i-victoriana-28-1/ Sat, 31 Aug 2019 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54492 di Franco Pezzini

Lincoln, Lovecraft e i preadamiti

21 aprile 1865. Il corpo del sedicesimo presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, assassinato il 15 aprile, parte in treno per l’ultimo viaggio insieme ai resti del figlio William morto nel 1862. Inizia così un lento corteo funebre ferroviario, con un transito attraverso città e commemorazioni che durerà tre settimane (fino al 3 maggio) e che farà ricordare l’evento – ovviamente anche un grande rito politico – come “The Greatest Funeral in the History of the United States”. Diretto verso Springfield, Illinois, è un convoglio [...]]]> di Franco Pezzini

Lincoln, Lovecraft e i preadamiti

21 aprile 1865. Il corpo del sedicesimo presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, assassinato il 15 aprile, parte in treno per l’ultimo viaggio insieme ai resti del figlio William morto nel 1862. Inizia così un lento corteo funebre ferroviario, con un transito attraverso città e commemorazioni che durerà tre settimane (fino al 3 maggio) e che farà ricordare l’evento – ovviamente anche un grande rito politico – come “The Greatest Funeral in the History of the United States”. Diretto verso Springfield, Illinois, è un convoglio apposito di nove carrozze, otto messe a disposizione dalle ferrovie per familiari, amici e cariche pubbliche, più la solita presidenziale – ora parata a lutto – in cui sono trasportati i feretri. Lungo il viaggio vengono cambiate varie locomotive, e un’altra precede il treno per evitare ogni ostacolo sul percorso.

In quel contesto di commozione collettiva nessuno si preoccupa di un episodio consumatosi su un treno per Springfield molto più comune. Seduto tra gli altri c’è un uomo di trentanove anni. Un bell’uomo, di pelle un po’ più scura rispetto a quelli intorno: uno dei frequenti casi per i quali da un paio d’anni (cioè dal 1863) negli USA si è preso a parlare di miscegenation, da miscere e genus, il figlio in sostanza di una coppia  con un partner di colore – africano – e l’altro bianco. In italiano ancor oggi si continua a usare un termine francamente sgradevole, mulatto, dallo spagnolo mulato, in riferimento al mulo come animale ibrido (da lavoro): ma nella terminologia della società schiavistica americana le categorie genealogiche sono persino più loscamente precise e il Nostro viene descritto come un octoroon, cioè con un ottavo di ascendenza africana. Cioè quanto, per intenderci, Alexandre Dumas figlio, il cui nonno era considerato mulatto mentre il più noto (e omonimo) padre si sarebbe definito un quadroon: citazione exempli gratia che però, vedremo, è meno accidentale di quanto sembri. Dal canto suo, più elegantemente, il personaggio in discorso ama definirsi un uomo con due anime.

Comunque sia, alcuni passeggeri, di fronte a colore della pelle e tratti del viso, obiettano alla presenza del Nostro sul treno: e gli viene chiesto di scendere. Alle biffe razziste l’uomo potrebbe ben protestare di aver conosciuto Lincoln nel 1851, dieci anni prima che assurgesse alla massima carica degli States, e di aver mantenuto un rapporto tale da voler accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Sicuramente non spiega invece ciò che alcuni poi sosterranno, cioè che solo l’anno prima, 1864, Lincoln stesso lo avrebbe inviato in Russia, per una missione “coperta”: ma chissà se è vero, e comunque in quel caso non ne potrebbe parlare. Per quanto banalissimo nel contesto, l’episodio del treno (simile ad altri di ordinario razzismo vissuti per esempio dal giovane Gandhi) sembra quasi simbolico a fronte del funerale di Lincoln, il presidente celebrato come liberatore dei neri. E passano dieci anni.

29 luglio 1875. Sul The Toledo Daily Blade di Toledo, Ohio (p. 3, col. 3), si riporta la morte violenta in città di un quarantanovenne. Il titolo del pezzo, By His Own Hand, è esplicito, suicidio: per una ferita autoinflitta alla testa, si afferma. I dubbi fioccano, la vittima aveva espresso più volte nei propri scritti una netta contrarietà all’idea del suicidio. Ma è vero che, impoverito e paralizzato agli arti inferiori, sempre più amareggiato e sospettoso che la moglie lo tradisca (un’oriunda irlandese, la prima era stata afroamericana), l’uomo potrebbe aver deciso di farla finita. Salomonicamente, il decesso finisce archiviato come accidentale. In seguito circolerà la voce secondo cui un ex-amico morente avrebbe confessato di averlo ucciso per gelosia, in un raptus di follia. In ogni caso la vittima era lo stesso uomo cacciato dal treno per Springfield. E le ombre non finiscono con quella morte: perché la storia di Paschal Beverly Randolph di mistero è abbondantemente ammantata.

Nato l’8 ottobre 1825 e cresciuto a New York, Paschal vanta da parte paterna di discendere da uno dei padri della Virginia, William Randolph (1650-1711) e dall’eccentrico John Randolph di Roanoke (1773-1833). Sua madre –  morta quando lui è giovanissimo, lasciandolo senza casa e mezzi di sostentamento – era invece Flora Beverly, che lui descriverà come ideale compendio del meticciato, combinando origini inglesi, francesi, tedesche, native americane e malgasce.

Al Nostro, povero mezzosangue libero ma costretto a partire da zero, non resta che scappare sul mare, dove si dice sia marinaio dall’adolescenza fino ai vent’anni quando rientra in patria.

Muovendo nel sottomondo dei nuovi culti, frequenta circoli spiritualistici americani dai primi anni Cinquanta (cioè in fondo molto presto, considerando l’evento “fondativo” legato alle sorelle Fox nel 1848) e si scopre capace di trance: dal 1853 riceve messaggi – afferma – dall’Angelo Madre, poi da Zoroastro, Pascal e un essere chiamato Eben el Teleki. Prende così ad abbinare alle competenze professionali da medico (attività che in qualche modo è riuscito ad avviare) quelle esoteriche: pubblicizza i propri servizi di chiaroveggente a fini curativi e analista della personalità su riviste spiritualistiche (almeno dal 4 giugno 1853 su The Spiritual Telegraph), appare in pubblico per performance medianiche e si conquista visibilità anche come dotatissimo conferenziere.

Nei fatti è sempre in viaggio, in lungo e in largo per gli Stati Uniti – dove abita via via in città diverse – e in Europa. Lo troviamo così a Londra nel maggio 1855 per la convention mondiale dei discepoli di Robert Owen, a Parigi nell’estate per esibire le sue trance e a New York in settembre, quando si rivolge agli afroamericani – che negli USA giudica destinati a estinguersi – evocando il promettente scenario di un’emigrazione in India. Ma lentamente cresce in lui la convinzione che i neri debbano poter restare liberi e con pari diritti sul suolo dove sono nati. I messaggi delle sue trance presentano coloriture politiche black, e del resto a spingere Randolph in tale direzione non è solo il suo status anagrafico e la sua personale riflessione, ma l’antischiavismo diffuso in ambienti spiritistici.

Però ecco una nuova svolta: un viaggio del 1857 che lo porta da Londra a Parigi all’Egitto e al Levante. È in quest’occasione che scopre gli usi magici dell’hashish e la magia sessuale, poi tasselli centrali di un magistero via via elaborato negli anni, e che salderà euforicamente teorie salutistiche, sessuologiche, spiritualismo e occultismo.

Sulle avventure di questo periodo fioriscono voci poco controllabili. Se non è strano che transiti per palcoscenici e salotti dell’Europa occidentale (meriterebbe approfondire il tema dei suoi contatti con esoteristi francesi – mesmeristi come Jules Du Poter de Sennevoy e Louis Alphonse Cahagnet – e inglesi), il sistema di cui getta le basi è debitore per sua stessa ammissione degli insegnamenti di mistici levantini. Il tema degli specchi magici, pure connotante la sua dottrina e legato a forme “nobili” di chiaroveggenza, pare per esempio importato dal Medio Oriente, però (come l’hashish) si trova già presente anche tra i mesmeristi francesi. D’altra parte per uno studioso di origini africane e attento alla dimensione black non sarebbe strano pensare a qualche influsso anche di elementi della tradizione animista africana (senza finire però in fenomeni sincretisti come il vudu, che lui conosce ma tenendosi a distanza). Nei fatti già al ritorno da questo primo viaggio tra Europa e Oriente sviluppa una critica dello spiritualismo, per il suo approccio passivo verso le entità avvicinate.

Due sono le società esoteriche al cui nome Randolph resta legato, e la prima entra in scena a questo punto. Gli sfuggentissimi Rosacroce costituiscono dal Seicento in avanti un paradigma di straordinario successo, sia a livello di fantasticherie narrative (si pensi a Zanoni del narratore e occultista Edward Bulwer-Lytton, 1842) che di pratica iniziatica. Soprattutto in ambito massonico anche nell’Ottocento sorgono società rosicruciane (Ancient and Accepted Scottish Rite, 1801; Societas Rosicruciana in Anglia, 1866…) e non stupisce che un esoterista come Randolph firmi a lungo i propri scritti con lo pseudonimo “The Rosicrucian”. Ma a maggior ragione si comprende la scelta dell’attivissimo occultista reduce dall’Oriente – come il leggendario Christian Rosenkreuz eponimo – di fondare la Fraternitas Rosae Crucis nel 1858, prima loggia a San Francisco nel 1861: cioè la più antica organizzazione rosicruciana negli USA, a detta dello specialista A. E. Waite (1857-1942, studioso di ermetismo legato alla Golden Dawn, americano trapiantato in Inghilterra e caro amico di Arthur Machen). Il successore di Randolph come Supremo Gran Maestro sarà per sua stessa scelta Freeman B. Dowd (1828-1910), dalla lunga carriera di esoterista.

Poi sembra che Randolph – che non è affatto ricco e se la cava con parecchio senso dell’avventura – passi di nuovo molto tempo itinerando tra Malta, la Grecia, l’Egitto e il Medio Oriente nell’ascolto di tradizioni magiche locali. Certo è solo che torna negli USA in tempo per schierarsi con l’Unione durante la Guerra di Secessione: la sua attività per la parità di diritti è frenetica, e a Utica presso New York raccoglie soldati di colore con tale successo che Lincoln (che sembra conosca appunto da qualche anno) gli chiede di promuovere la causa in Louisiana.

Il legame con il carismatico presidente potrebbe non esaurirsi, da parte di quest’ultimo, nella stima per l’idealismo di Randolph e nel riconoscimento pragmatico di una sua utilità. Cresciuto in una rigorosa famiglia battista, passato attraverso una fase di scetticismo giovanile, e raggiunta infine una fede personalissima dei cui connotati si discute, Lincoln conosce alla morte del figlio una terribile crisi; sua moglie si rivolge a medium per sedute spiritiche, e almeno a una di queste sembra aver partecipato il presidente. In tale contesto emotivo e profondamente angosciato dagli stessi drammi della guerra, Lincoln potrebbe essere rimasto colpito dal dinamico mistico mezzosangue che offre voce agli spiriti, anche a prescindere da ogni forma di adesione alle sue idee. Quanto alla storia dell’ipotetica missione in Russia per conto del presidente, ne resta poco chiara l’eventuale sostanza: e comunque la morte di Lincoln chiude il discorso.

Dopo la guerra, troviamo Paschal attivo come insegnante nell’alfabetizzazione dei giovani neri a New Orleans, poi delegato della Louisiana alla Southern Loyal Convention. Ma dopo il ritorno nel 1867 a Boston dove esercita come medico, conosce alcuni gravi rovesci di fortuna. Già non ricco, finisce vittima di una frode che vede sottrargli buona parte della sua sostanza; e nel 1872 viene pure arrestato con l’accusa di aver distribuito narrativa immorale. Dietro le accuse è un mestatore intenzionato a mettere le mani sui diritti d’autore di Randolph: e in risposta il Nostro stila The Great Free-Love Trial, 1872, dove denuncia che l’accusa rivolta al “più pericoloso uomo e autore sul suolo d’America” è nei fatti di aver spinto le donne a considerarsi uguali agli uomini. Anche se chiarisce di non avallare affatto il libero amore come comunemente inteso: la sua magia sessuale presenta ben altri connotati.

La sessualità è la chiave di volta del suo pensiero, e rapporto sessuale e orgasmo, nella sua dottrina, sono fonti di potere magico concretamente utilizzabile. Nella sua opera tarda e più celebre, Eulis (1874), il Nostro spiega che tutto era iniziato quando una notte a Gerusalemme (o forse a Betlemme, non ricorda più) aveva fatto l’amore con “una scura fanciulla di sangue arabo”. Di lì, non direttamente ma per suggestione (qualcosa forse tra illuminazione e ragionamento), avrebbe ricevuto “il principio fondamentale della Magia bianca d’amore”. Iniziato poi da alcuni “dervisci e fachiri”, grazie alla loro magia semplice e santa avrebbe trovato altre chiavi, muovendosi attraverso labirinti di conoscenze – così afferma – da loro neppure sospettati. Fino a diventare in atto ciò che era stato finora in potenza per predisposizione naturale, un mistico e col tempo il capo di una nobile fratellanza fino a scoprire “the elixir of life; the universal Solvent, or celestial Alkahest; the water of beauty and perpetual youth, and the Philosopher’s Stone”. In sostanza la magia legata all’atto sessuale.

Per scatenare tale corrente, l’unione presuppone però la commistione delle secrezioni, pena la mancanza delle “condizioni elettromagnetiche e nervose essenziali” e concreti danni alla salute. Più in generale, ogni disequilibrio sul campo – masturbazione, sesso non completo per uno dei partner – comporterebbe a suo dire penosi disturbi. Al contrario, un corretto ricorso a questo sistema di magia sessuale potrebbe produrre esseri umani fisicamente e spiritualmente superiori; e in generale l’attenzione a un sesso soddisfacente per entrambi i partner produrrebbe prole sana. Dove, al di là di ogni meccanicismo, stupisce l’attenzione al piacere femminile predicata in una società patriarcale quanto l’americana dell’Ottocento. Ma a preoccupare Randolph non è solo l’aspetto eugenetico: la magia sessuale praticata in unità d’intenti e di corpi sarebbe in grado di operare concretamente sulla realtà fisica con risultati stupefacenti. A differenza tuttavia di successive dottrine di sex magic (si pensi solo a Crowley o ad Austin Osman Spare), Randolph considera sacro e di purezza coniugale un simile atto, che non andrebbe praticato spesso, e mai con forme contraccettive o in forma solitaria o con partner del proprio sesso. La fratellanza cui egli attribuisce il nome di Eulis (da Eos, l’aurora, più tardi evocata da un altro e maggiore ordine magico, la Golden Dawn britannica) conserverebbe la sua dottrina.

Il nuovo successo del tema sessuale nell’occultismo si lega ovviamente a stretto filo a quello del discorso sul sesso nella cultura e nei media tra il Sette e il nuovo millennio, al di là di censure e repressioni che in fondo confermano (Foucault docet) un’ottimizzazione del dibattito. In questo senso l’Ottocento è davvero un tempo di svolta e Randolph – con tutti i limiti d’epoca rispetto alla sensibilità odierna (la bestia nera della masturbazione, il nodo dei rapporti omosessuali…) – spicca come una figura-chiave del passaggio alla percezione moderna di dimensioni estremamente fisiche dell’amore. Rispetto al mondo in cui vive le sue posizioni sono controcorrente e molto audaci: e se lavora in gran parte da solo e con sintesi molto personali delle tradizioni raccolte, la mole dei suoi scritti, la frequenza dei suoi interventi pubblici e il lavoro con un pubblico anche molto popolare deve lasciare più frutto di quanto avvertito per molto tempo dagli studiosi di esoterismo.

Ma c’è un altro soggetto interessante della riflessione di Randolph, e cioè le sue convinzioni in tema di preadamismo. L’idea dell’esistenza di uomini precedenti un personaggio mitico come Adamo conduce nel profondo del rapporto critico tra scienza e Scritture. Se nell’Ottocento il preadamismo vede una resistenza a considerare discendenti di Adamo e dunque superiori i popoli non occidentali (il tema, molto ampio, non può essere sviluppato in questa sede), proprio Randolph è a monte di un preadamismo non razzista. La sua opera Pre-Adamite Man: Demonstrating The Existence of the Human Race Upon the Earth 100,000 Thousand Years Ago! – edita sotto lo pseudonimo Griffin Lee nel 1863 – retrodata drasticamente l’origine dell’uomo sulla base di una pluralità combinata di fonti. Il primo uomo non sarebbe stato Adamo, e i pre-Adamiti – diffusi su tutta la terra tra i 35.000 e i 100.000 anni addietro – sarebbero state popolazioni civili e umane nel senso proprio del termine.

Abbiamo lasciato Randolph alle prese con problemi legali, ma le sventure non sono finite: resta infatti paralizzato dalla vita in giù in seguito a un incidente ferroviario. Tuttavia proprio questa fase costituisce l’ideale cerniera del suo rapporto discusso, abbastanza sfuggente, con soggetti poi membri dell’altra società occulta legata in qualche modo al suo nome: cioè quella Hermetic Brotherhood of Luxor, nata negli anni Ottanta (si parla di un fondatore ebreo polacco, il misterioso iniziato Max Theon), che a dispetto di origini abbastanza oscure avrà un robusto impatto sulla storia dell’occultismo occidentale quale concorrente della Società Teosofica. Il paradosso è che, pur ereditando da Randolph un ampio corpus di magia sessuale, la Brotherhood ne prenderà le distanze: da parte di alti gradi come Thomas Henry Burgoyne (1855?-1895?) si stigmatizzerà che Randolph era finito sulla “way of the Voudooism and Black Magic”, a giustificare anche il suo presunto suicidio. Continua così su un altro fronte quella stigmatizzazione del Nostro che potrà contribuire a oscurarne il nome.

In ogni caso la morte di Randolph nel 1875 chiude l’incredibile parabola del primo grande occultista statunitense, attivista sociale di fama e autore fecondissimo, con una cinquantina di opere all’attivo: non solo testi tecnici sulle sue dottrine, ma sviluppi delle tesi anche in forma di vivaci romanzi. Al punto da permettergli di griffarsi, nelle pubblicità della casa editrice che lui stesso ha fondato, della dizione onorifica “the Dumas of America”.

Insomma una figura d’impatto pubblico notevole, a differenza di molti esoteristi dalla vita appartata ripiegati nei loro studi: e sicuramente una figura scomoda per le sue idee politiche e sociali. Certo, quando Lovecraft nasce nel 1890 sono passati quindici anni dalla morte di Randolph, e c’è motivo di credere che il ricordo sia parecchio appannato: ma sembra davvero strano che HPL non ne conosca il profilo, almeno per sentito dire. Quello di un gran viaggiatore in un Oriente dagli arcani misteri ma anche in fondo tra dimensioni diverse della realtà, latore di tesi magiche blasfeme (in particolare tramite sesso) ed esempio concreto di quella miscegenation che suscita a Lovecraft inorridite inquietudini razziali, interessato al tema dei preadamiti che HPL già amava in Vathek, segnato da una morte enigmatica paludata di sospetti di suicidio, oggetto di accuse di vuduismo e magia nera… Insomma un profilo almeno interessante per il tipo di storie dell’autore di Providence, al netto della sua disistima verso l’occultismo.

Interessante tanto più considerando qualche possibile nesso col gran viaggiatore della saga onirica di Lovecraft, Randolph Carter. Certo si tratta di un nome di battesimo abbastanza comune, ricorrente persino come diffuso toponimo: e anche a prescindere dall’occultista, HPL lo può conoscere come cognome legato alla tradizione più illustre della Nuova Inghilterra (i Randolph, in effetti antenati dell’uomo con due anime). D’altra parte, come proposto, il nome dell’eroe viaggiatore di HPL può spiegarsi con la fama di un modello reale, un Randolph Carter Scholar al Christ’s College dell’Università di Cambridge negli anni 1892-1895, specialista in studi arabi ed egittologia e in rapporti amicali con l’autore del Ramo d’oro Sir James George Frazer: tutto vero. Però sappiamo bene che nella genesi di saghe e personaggi un richiamo non esclude l’altro, e anzi più facilmente si ibridano: tanto più che un nome può restare nell’orecchio di un autore persino al di là della sua coscienza e volontà. Non certo a pensare che i due Randolph possano banalmente sovrapporsi, ma solo a tentare di non perdere echi interessanti tra le pieghe dei testi. Si tratta comunque di una suggestione più che un’ipotesi, e in occasione della prima avventura dell’eroe – il racconto “The Statement of Randolph Carter”, 1919/1920 – il nesso resterebbe comunque labile.

Ma almeno in prosieguo un rapporto onomastico tra l’eroe di storie impastate di magia e quello che resta il primo mago importante della storia americana acquista credibilità. E dove il ricordo del Dumas d’America emerge più plausibile, sempre in rapporto a Randolph Carter, è in occasione di una collaborazione di Lovecraft (in termini ovviamente di squilibrio, ma tant’è) con Edgar Hoffmann Price sul racconto “Through the Gates of the Silver Key”, 1932-33/1934. Vi compare infatti l’occultista Étienne-Laurent de Marigny di New Orleans, “distinguished Creole student of mysteries and Eastern antiquities”, poi citato in altri testi-omaggio alla saga lovecraftiana… Hoffmann Price (con cui HPL aveva concordato di siglare i lavori congiunti sotto pseudonimo Etienne Marmaduke de Marigny) era appassionato di letture esoteriche, ben difficile che non conoscesse il profilo di Paschal Beverly Randolph almeno per sommi capi e magari al filtro delle letture dell’importante Hermetic Brotherhood of Luxor: e in un caso riguardante l’altro Randolph sembra quasi una divertita provocazione il porre in scena un ammiccamento – l’occultista creolo – nel segno della miscegenation.

Se dunque in termini di ragionevole ipotesi pare credibile almeno una memoria di Paschal Beverly Randolph, non ricordo che Lovecraft o Hoffmann Price lo abbiano mai citato esplicitamente. Però il primo non era interessato agli aspetti tecnici dell’occultismo, non avrebbe parlato volentieri di magia sessuale (se non appunto per vaghe metafore) e certo non simpatizzava verso un militante per la parità di diritti dei neri; mentre il secondo non aveva interesse – né al tempo né in seguito – a rimarcare pregiudizi e nervi scoperti del maestro.

D’altra parte non trovo riferimenti utili nella saggistica che ho consultato (neppure nel recente studio monografico di John L. Steadman, H. P. Lovecraft and the Black Magickal Tradition: The Master of Horror’s Influence on Modern Occultism, Weiser, 2015, che prende in esame i legami con varie scuole); eppure mi pare implausibile che nel vastissimo orizzonte di studi su HPL, che ha visto esplorare anche le piste più improbabili, nessuno abbia affrontato la questione. La lascio dunque come suggestione aperta: sarebbe divertente se, magari nell’ambito di studi americani (agevolati nell’accesso alle fonti e meno viziati dal provincialismo di certa Italietta nell’approccio alla storia dell’occulto) saltasse fuori qualche tassello a favore dell’ipotesi. A rivelare l’ombra, dietro fantasie di un narratore che proclamava idee razziste – salvo magari ammorbidirle nella vita vissuta –, della figura di un mago militante per i diritti black.

(1 – continua)

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