Maggio francese – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Riprendere e reinventare il comunismo con il ’68 https://www.carmillaonline.com/2018/08/08/riprendere-e-reinventare-il-comunismo-con-il-68/ Tue, 07 Aug 2018 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47759 di Fabio Ciabatti

Alain Badiou, Ribellarsi è giusto! L’attualità del maggio 68, Orthotes Editrice, 2018, pp. 107, € 14.

Perché continuare a parlare del ’68 a cinquant’anni di distanza dal maggio francese? Perché, risponde Alain Badiou, nonostante moltissimo sia cambiato da allora, noi siamo contemporanei del ’68, abbiamo lo stesso problema: riprendere e al tempo stesso reinventare il comunismo. Per poter fare questa affermazione Badiou deve leggere le vicende di quell’anno (e di quelli che verranno dopo) alla luce di una vera operazione filosofica, deve cioè interpretarle attraverso il concetto di “evento”.

Ma [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alain Badiou, Ribellarsi è giusto! L’attualità del maggio 68, Orthotes Editrice, 2018, pp. 107, € 14.

Perché continuare a parlare del ’68 a cinquant’anni di distanza dal maggio francese? Perché, risponde Alain Badiou, nonostante moltissimo sia cambiato da allora, noi siamo contemporanei del ’68, abbiamo lo stesso problema: riprendere e al tempo stesso reinventare il comunismo. Per poter fare questa affermazione Badiou deve leggere le vicende di quell’anno (e di quelli che verranno dopo) alla luce di una vera operazione filosofica, deve cioè interpretarle attraverso il concetto di “evento”.

Ma di quale ’68 stiamo parlando? Nel breve testo Ribellarsi e giusto! l’autore ne individua quattro e questa segmentazione spiega come mai le memorie e i bilanci storico-politici possano essere molto differenti. In primo luogo c’è il ’68 liceale e studentesco, quello più noto e spettacolare con le manifestazioni di massa, gli scontri e le barricate. Si è trattato di un fenomeno mondiale, ma che ha riguardato una minoranza proveniente dalla borghesia dominante (e questo spiega il successivo ritorno all’ordine di molti militanti e leader dell’epoca). Da un punto di vista ideologico questa gioventù si caratterizzava per un misto di virulenza anarchica, dogmatica marxista e accettazione generalizzata della legittimità della violenza (anche se essa fu agita per lo più da piccoli gruppi organizzati in funzione essenzialmente antirepressiva).
Il secondo ’68, sostiene Badiou, è quello operaio che diede luogo al più imponente sciopero generale della storia francese. Esso si è articolato intorno alle grandi fabbriche e alle imprese nazionalizzate, essenzialmente strutturato e animato dai sindacati, in specie la CGT, legata al Partito comunista francese. Partito e sindacato cercarono di isolare il contesto operaio dalla rivolta studentesca, ma questo non impedì lo svilupparsi di caratteristiche comuni. In primo luogo il movimento nelle fabbriche fu iniziato da giovani operai al di fuori delle strutture sindacali, utilizzando metodi di lotta non convenzionali come gli scioperi selvaggi (che in realtà partirono nel ’67, prima della rivolta studentesca) e, soprattutto, l’occupazione delle fabbriche, pratica ereditata dai grandi scioperi del ’37 e del ’47, ma mai sperimentata in forma così estesa. Anche nel ’68 operaio, inoltre, ci fu un’ampia accettazione della violenza, come testimoniano i sequestri dei dirigenti e gli scontri con i quadri locali e i CRS (la celere francese). Infine, quando il protocollo di intesa negoziato da Partito comunista e CGT fu presentato nelle fabbriche per porre fine agli scioperi, gli operai lo respinsero nonostante le numerose conquiste che esso assicurava. Questo rifiuto manifestava una soggettività operaia che associava allo sciopero qualcosa di ancora indistinto che però andava al di là della classica dialettica sindacale.
Il terzo ’68, prosegue Badiou, è quello libertario, figlio del comunismo utopico e del surrealismo. Questioni dominanti erano la trasformazione dei costumi, i nuovi rapporti amorosi e le libertà individuali. Una sorta di calderone anarchico, sostiene Badiou, che vide il trionfo dell’estetica sulla politica e che influenzerà la sfera culturale con le sue idee di un nuovo linguaggio pubblico, di un nuovo stile di azione collettiva ecc.

Infine c’è il quarto ’68 che è costituito dalla diagonale (attenzione, non la sintesi) degli altri tre. Per spiegarsi Badiou ricorre a un racconto personale. Siamo in una piccola università di provincia che, sulla scia degli eventi parigini, è in sciopero. Nasce l’idea di una manifestazione che si deve concludere davanti alla principale fabbrica locale, anch’essa in sciopero. “Cosa andavamo a fare laggiù? Non lo sapevamo, avevamo solo la vaga idea che la rivolta studentesca e lo sciopero operaio dovessero unirsi senza l’intermediazione delle organizzazioni classiche”. Nonostante la diffidenza di un gruppo di sindacalisti, si avvicinò qualche giovane operaio e poi altri ancora. “Iniziammo delle discussioni informali. Avvenne una sorta di fusione locale”. Si fissarono delle riunioni comuni all’interno della città e “costruimmo così la possibilità di una diagonale attiva tra i due Maggio 68”.1 Dal punto di vista dell’atteggiamento soggettivo, l’atmosfera era segnata da “un entusiasmo al tempo stesso gioioso e angosciato”, tipico della filosofia del terzo ’68.2
Il quarto ’68, secondo Badiou, esprime la convinzione che la vecchia concezione della politica è giunta al termine e avvia la difficile ricerca di una forma nuova dell’agire collettivo. La vecchia concezione parte dall’idea che la possibilità dell’emancipazione è inscritta e perfino programmata nella realtà storica e sociale grazie all’esistenza di un agente storico, oggettivamente dato, che per trasformarsi in potenza soggettiva deve essere rappresentato da un partito. Questo deve essere presente in tutti i luoghi di potere e di intervento per trasportarvi la forza e il contenuto dei movimenti sociali i quali, lasciati a se stessi, possono soltanto esprimere rivendicazioni particolari e organizzarsi in forma sindacale.
Le organizzazioni tradizionali e la democrazia rappresentativa, di cui esse rappresentavano i necessari organi, vennero aspramente criticate e delegittimate durante il ’68. La ricerca di una nuova politica avvenne però alla cieca anche perché la critica del vecchio fu fatta utilizzando il suo stesso linguaggio. Di qui la tematica chiaramente insufficiente del tradimento. Seppur a tentoni, qualcosa di nuovo è però emerso, non tanto in concomitanza dell’esplosione del maggio, ma attraverso il decennio successivo, grazie a una ricerca, al contempo pratica e teorica, svolta da un pugno di intellettuali, da un migliaio di studenti e liceali, da qualche centinaio di operai e di donne delle case popolari e anche da un bel po’ di proletari spesso provenienti dll’Africa.
Il ’68, in particolare il quarto, ha dunque reso possibile, anche se in forma meramente temporanea e localizzata, come nella città di provincia di cui ci racconta Badiou, qualcosa che immediatamente prima era assolutamente inverosimile, inimmaginabile. È questa la cifra di un evento, inteso nel senso filosofico di Badiou: un accadimento le cui conseguenze sono necessarie anche se imprevedibili prima dell’accadimento stesso. L’evento ’68 ci ha rivelato che, se una nuova politica comunista è possibile “essa partirà dai legami di massa, sarà un attraversamento delle classificazioni stabilite, non organizzerà ciascuno al suo posto ma al contrario consentirà degli spostamenti, materiali e mentali, strabilianti”.3 Il quarto ’68 ci ha mostrato che “il rovesciamento dell’inesorabile, della sordida gerarchia delle fortune, delle libertà e dei poteri erano politicamente possibili attraverso un interventismo inedito e la ricerca esitante di forme organizzative adeguate all’evento”.4 Tutto ciò appartiene, in senso stretto, al quarto ’68, l’unico che secondo Badiou ha avuto le caratteristiche dell’evento, in quanto è l’unico che, al di là dell’esplosione iniziale, innesca nuovi e straordinari processi di lunga durata.

Anche il lungo ’68 francese fu però interrotto: a livello intellettuale dalla “controcorrente ideologica e rinnegata” chiamata nouvelle philosophie, successivamente dalla vittoria elettorale della sinistra del socialista Mitterand e, infine, dal trionfo di un capitalismo tornato alla sua primitiva ferocia liberale. L’elezione di Mitterand, come tutti i ritorni all’ordine, ha prodotto una breve illusione in una larga parte del popolo. Per le giovani generazioni, ci ricorda Badiou, è stato necessario riapprendere dolorosamente che la sinistra non è una nuova possibilità della vita politica, ma solo uno spettro fortemente segnato dalle stigmate della putrefazione.
Purtroppo dobbiamo notare che il ciclo dell’illusione e della disillusione sembra ripresentarsi in continuazione. Per rompere la gabbia di questa coazione a ripetere, apparentemente inesorabile, le indicazioni di Badiou non saranno forse sufficienti, ma sono senz’altro preziose. Secondo il filosofo francese dobbiamo in primo luogo mantenere viva l’ipotesi storica di un mondo liberato dalla legge del profitto. È più importante sostenere che il mondo attuale non è necessario piuttosto che affermare “a vuoto” che un altro mondo è possibile, perché nella “vera politica”, così come definita attraverso la logica dell’evento, si va dalla non-necessità alla possibilità. In secondo luogo, la principale virtù politica che oggi ci manca è il coraggio. Non solo il coraggio di affrontare la polizia, senz’altro necessario, ma anche quello di difendere e di praticare le nostre idee, di utilizzare quelle parole che non osiamo più pronunciare. Spetta a noi criticarle, dare loro un nuovo senso, sulla scia del ’68. “Noi dobbiamo poter dire ancora ‘popolo’, ‘operaio’, ‘abolizione della proprietà privata’ etc., senza sembrare inattuali”.5 Infine, secondo Badiou, dobbiamo tornare a porci il problema dell’organizzazione, facendo tesoro dei multiformi esperimenti cominciati nel ’68 e partecipando alle sperimentazioni locali e alle battaglie politiche attuali da cui nascono nuove figure organizzative. Ben sapendo che la questione più difficile da risolvere è proprio quella di sapere di quale tipo di forma associativa abbiamo bisogno. In breve “dobbiamo avere il coraggio di avere un’idea. Una grande idea”6 attraverso la quale legarci alle immense masse di operai e di poveri che vagano sulla superficie della terra per trovare un luogo in cui vivere. Per tornare a dire “Ribellarsi è giusto”.


  1. Alain Badiou, Ribellarsi è giusto!, Orthotes Editrice, 2018, pp. 60-61. 

  2. Ivi, p. 63. In realtà Badiou attribuisce un valore secondario al terzo ’68, nei confronti del quale traspare, in modo forse ingeneroso, una certa antipatia. 

  3. Ivi, p. 65. 

  4. Ivi, p. 66. 

  5. Ivi, p. 71. 

  6. Ivi, p. 76. 

]]>
Il conflitto nello spazio dello sport. Storie di sport e politica 1968-1978 https://www.carmillaonline.com/2018/05/27/45696/ Sun, 27 May 2018 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45696 di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«What do they know of cricket who only cricket know?» Cyril Lionel Robert James

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio» José Mourinho

Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce [...]]]> di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«What do they know of cricket who only cricket know?»
Cyril Lionel Robert James

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio»
José Mourinho

Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce spesso a conquistare il centro della scena sportiva. «Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio» è una di quelle battute in grado di catturare l’attenzione e di distinguersi nel discorso pubblico sportivo. La frase dell’allenatore portoghese sembra richiamare l’affermazione «What do they know of cricket who only cricket know?» contenuta in Beyond a Boundary di Cyril Lionel Robert James – una pietra miliare degli studi post-coloniali, pubblicata nel 1963 – che, a sua volta, fa il verso a un passo contenuto in English Flag (1891) di Rudyard Kipling: «What should they know of England who only England know?». Grande appassionato di cricket, in Beyond a Boundary James esplora la psicologia e l’estetica del gioco, la sua funzione nelle politiche imperialistiche inglesi e nelle dinamiche di decolonizzazione, le questioni di classe, sociali e razziali che attraversano la dimensione sportiva, mostrando come sia impossibile tenere separato lo sport da ciò che lo circonda. Il binomio sport e politica, insomma, come chiave di lettura della realtà sportiva in una prospettiva capace di coniugare passione per il piacere e la bellezza dello sport e sguardo critico attento alle sue implicazioni storico-sociali. […]

In tutto il mondo il ’68 apre una stagione di conflitti animata da una molteplicità di attori che esprimono una richiesta di partecipazione e di allargamento degli spazi di democrazia, rivendicano diritti, rifiutano i sistemi autoritari, criticano le strutture politiche e sociali dominanti, si ispirano a ideali di emancipazione e di liberazione umana. La conflittualità si riverbera anche nell’universo dello sport, facendo emergere le contraddizioni inscritte in uno dei più importanti fenomeni di massa e mettendo in discussione la sua presunta neutralità e separatezza. Nella dimensione mondiale dello sport nascono movimenti di protesta che irrompono nelle competizioni, investono gli organismi istituzionali e gli equilibri politico-sportivi internazionali. Scontrandosi con culture e assetti consolidati, queste dinamiche generano fratture e resistenze, trasformazioni e chiusure conservatrici.

Considerati tradizionalmente luoghi chiusi, neutri e pacificati […] gli spazi dello sport vengono riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. Alimentata da un’esposizione mediatica sempre più ampia e pervasiva, la risignificazione degli spazi sportivi e della loro valenza simbolica avviene attraverso gesti e azioni eclatanti di immediata risonanza planetaria […], nelle mobilitazioni del “maggio” francese dello sport, nella “primavera di Praga” degli sportivi cecoslovacchi, nei boicottaggi delle competizioni che prevedono la presenza di paesi razzisti come il Sudafrica.

D’altra parte, l’utilizzo dello spazio sportivo globale per dare visibilità a rivendicazioni politiche e sociali contribuisce ad acuire la crisi di legittimazione delle istituzioni sportive internazionali, a partire da quelle olimpiche, investite da critiche radicali e incapaci di riformarsi. A fronte delle grandi manifestazioni sportive sempre più spettacolarizzate affette da “gigantismo” e condizionate dalle logiche di mercato, perde di credibilità la retorica dello sport come disciplina “pura” e “disinteressata”, “zona franca” al riparo dalla realtà “esterna”. […]

Dalla temperie del ’68 scaturisce una serie di riflessioni critiche sullo sport, contenute in tre ricerche commentate e presentate in forma antologica nella seconda sezione del volume. A ridosso del “maggio” francese la rivista «Partisans», vicina all’estrema gauche, raccoglie una serie di interventi di giovani impegnati nella ricerca teorica e nella militanza politica (Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm), pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione. Attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, e richiamandosi alle istanze emerse dal movimento studentesco i saggi propongono uno studio critico sullo sport e sulla cultura del corpo nella società capitalistica e denunciano come sotto il pressante invito a “fare sport” da parte della “cultura borghese” si celi un intento educativo di stampo repressivo.

Nel 1970 esce in Italia Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista del sociologo tedesco Gerhard Vinnai. L’autore, che si ispira alla Scuola di Francoforte […], intende svelare il carattere mistificante dell’ideologia […] che pervade anche il mondo dello sport e in particolare il calcio, denuncia la sua mercificazione e individua i nessi che lo legano ai processi di socializzazione e alle dinamiche psicologiche dell’aggressività e del narcisismo. Il terzo saggio, pubblicato in Italia alla vigilia delle Olimpiadi di Monaco, è Olimpiadi dello spreco e dell’inganno di Ulrike Prokop. Il filo conduttore […] è lo svelamento della retorica olimpica, a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, Pierre de Frédy, barone di Coubertin. […]

Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Da un punto di vista storico, rappresentano però i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di influenzare e arricchire anche il dibattito italiano su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.

La terza sezione del volume si concentra sul caso italiano. Nella prima parte viene analizzata l’evoluzione dell’associazionismo sportivo […] e la nascita di nuove esperienze di base che raccolgono le istanze di partecipazione e di cambiamento del mondo giovanile. Anche sulla scia del ’68 e delle teorie critiche di taglio sociologico, l’associazionismo italiano avvia un percorso di profondo rinnovamento teorico e pratico, elabora concezioni dello sport alternative rispetto a quella dominante, promuove forme di socializzazione e pratiche sportive inclusive, si batte per il diritto allo sport inteso come dimensione che, al di là dello svago e della ricerca della prestazione, deve fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale. A questi temi si mostra sensibile anche la “nuova sinistra” che, sia pure in modo discontinuo, apre le pagine dei suoi quotidiani a riflessioni sui risvolti politici e sociali dello sport.

Il percorso prosegue con il capitolo “Sport e contestazione”. […] Tra il 1968 e i primi anni Settanta manifestazioni, occupazioni di spazi dello sport, contestazioni di competizioni punteggiano l’universo sportivo italiano in diverse città. Negli anni successivi le mobilitazioni si intensificano e si connotano soprattutto nel segno dell’antifascismo e dell’antirazzismo. […] Nel 1974 gli organismi sportivi democratici e i movimenti “terzomondisti”, appoggiati dalla stampa di sinistra, chiedono, senza successo, di boicottare la semifinale di Coppa Davis Sudafrica-Italia. Poco dopo un ampio fronte di opposizione riesce a bloccare la trasferta italiana degli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby composta da soli bianchi, simbolo dell’apartheid nello sport. L’anno successivo le polemiche investono la partita di calcio Lazio-Barcellona, prevista all’indomani dell’ultimo efferato episodio di repressione delle opposizioni messo in atto dal regime di Francisco Franco. Il 1976 è l’anno della contestazione di una nuova trasferta della nazionale di tennis, questa volta per la finale di Davis nel Cile di Pinochet. […] Con le campagne contro i mondiali di calcio organizzati nel giugno 1978 in Argentina dal regime di Videla si esaurisce l’“onda lunga” del Sessantotto nello sport. […]

L’ultima parte del volume è dedicata al dibattito sulla violenza nel mondo del calcio, sul tifo e sul fenomeno degli “ultras”. Tra gli anni Sessanta e Settanta si assiste ad un’impennata dei comportamenti violenti che tendono a trasferirsi dall’interno all’esterno degli stadi. Sulle pagine della stampa italiana emerge una forte preoccupazione per la crescita di fenomeni analoghi alle forme di “teppismo” sportivo diffuse in altri paesi […]. Nel giugno del 1970 il dibattito sul tifo si sposta su un terreno molto diverso. Nei mondiali di calcio in Messico l’Italia batte in semifinale la Germania Ovest con un rocambolesco 4 a 3. Quando termina l’incontro, in tutto il paese una folla esultante si riversa per le strade. Questa inedita esplosione di nazionalismo sportivo colpisce gli opinionisti della stampa che si cimentano in diverse interpretazioni del fenomeno. Poco dopo l’attenzione si sposta sulla nuova fisionomia assunta dallo scenario degli stadi: sugli spalti compaiono coreografie e strumenti del tifo fino ad allora sconosciuti […] e diventano sempre più frequenti gli scontri tra opposte fazioni di tifosi, durante e dopo le partite. […]

Il libro ricostruisce le vicende e i temi sin qui sommariamente richiamati attraverso il prisma della stampa, con l’intento di fare emergere tanto le dinamiche politiche e sociali che caratterizzarono l’universo sportivo quanto le rappresentazioni che ne furono date e le riflessioni e i dibattiti che suscitarono nel contesto italiano. Eventi e processi di quella stagione vengono quindi contestualizzati storicamente e commentati in un percorso antologico basato su fonti a stampa di diverso tipo (grandi quotidiani di opinione e sportivi, riviste, organi dei partiti di sinistra e della “nuova sinistra”, periodici dell’associazionismo sportivo). […]

Nella temperie di quella stagione emergono diversi temi ancora attuali che offrono spunti di riflessione sulle trasformazioni e le involuzioni dello sport, attraversato dalle contraddizioni di un mondo sempre più globalizzato. Tra finanziarizzazione delle grandi società e grave sofferenza delle piccole, sport-spettacolo ed esperienze alternative di base, fenomeni di razzismo e pratiche inclusive, l’universo dello sport continua a misurarsi con problemi e scelte di fondo che rimandano alla dimensione politica.

 

]]>
E’ successo un sessantotto! https://www.carmillaonline.com/2018/03/22/successo-un-sessantotto/ Thu, 22 Mar 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44351 di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate [...]]]> di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.

Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.

Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:

“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1

L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.

Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.

Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.

L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.

Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.

Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece

“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3

Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:

“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4

La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:

“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5

Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.

Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6

E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):

“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7

Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.

L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:

“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8

Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…


  1. Viale, il 68, pag. 7  

  2. Si veda repubblica.it del 16 marzo 2018  

  3. Viale, op.cit. pag. 8  

  4. Viale pag. 9  

  5. Viale, pag. 9  

  6. Viale, pag. 198  

  7. Viale, pp. 202 – 205  

  8. pag. 10  

]]>
Vita di un naufragatore: Guy Debord https://www.carmillaonline.com/2016/03/13/vita-di-un-naufragatore-guy-debord/ Sat, 12 Mar 2016 23:01:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28977 di Gianfranco Marelli*

guy-debord Jean-Marie Apostolidès, DEBORD. Le naufrageur, Flammarion, Paris 2015, p.592

Le biografie, si sa, sono appannaggio di illustri personaggi, e Guy Debord (1931 – 1994) – nel suo piccolo – ne ha meritata ben più d’una, anzi cinque. Quasi sempre, però, più che vere e proprie biografie sono state dei panegirici – unica eccezione quella di Christophe Boursellier, Vie et mort de Guy Debord (1999) – ad uso e consumo della sterminata orda di “pro-situs”, vale a dire i fans, i tifosi, gli imitatori delle gesta di quella che è stata da molti considerata l’ultima avanguardia politico/artistica della [...]]]> di Gianfranco Marelli*

guy-debord Jean-Marie Apostolidès, DEBORD. Le naufrageur, Flammarion, Paris 2015, p.592

Le biografie, si sa, sono appannaggio di illustri personaggi, e Guy Debord (1931 – 1994) – nel suo piccolo – ne ha meritata ben più d’una, anzi cinque. Quasi sempre, però, più che vere e proprie biografie sono state dei panegirici – unica eccezione quella di Christophe Boursellier, Vie et mort de Guy Debord (1999) – ad uso e consumo della sterminata orda di “pro-situs”, vale a dire i fans, i tifosi, gli imitatori delle gesta di quella che è stata da molti considerata l’ultima avanguardia politico/artistica della seconda metà del secolo scorso.

L’imponente lavoro di Jean-Marie Apostolidès – professore di letteratura francese all’università di Stanford, da sempre studioso appassionato del concetto di “spettacolo” e delle sue implicazioni politiche con la storia sociale , nonché autore di un precedente studio sul situazionista parigino (Les tombeaux de Guy Debord) – è tutto tranne che un monumento innalzato alla gloria e al coraggio di colui che comunemente viene considerato il profeta del Maggio francese, il “cardinale di Retz” della rivolta situazionista, l’intellettuale colto e raffinato che ha saputo interpretare meglio di qualunque altro la società del secondo dopoguerra, le sue contraddizioni ideologiche apparentemente antagoniste fra capitalismo diffuso (le democrazie occidentali) e capitalismo concentrato (l’Urss e gli stati ad essa satelliti), e le sue possibilità tecnologiche capaci di un radicale superamento dello stato di cose presenti.

Lo si comprende subito leggendo il sostantivo che accompagna il titolo dell’opera: Le naufrageur, traducibile soltanto con una proposizione relativa esplicita: chi provoca il naufragio. Debord, il “naufragatore”: colui che, di fronte a una tempesta di mare, volutamente con false indicazioni convince i passeggeri a dirigersi tutti da un lato mettendo in pericolo la stabilità dell’imbarcazione al punto da provocare il suo rovesciamento. Che dire di una simile impresa? Perfidia dell’autore del libro, o cinismo del suo protagonista principale?

In verità, dovremmo essere avvezzi ad un’interpretazione di tal fatta. Dopotutto lo stesso Debord ci ha abituati a considerarlo e raffigurarlo fra «i naufrageur che non scrivono il loro nome se non sull’acqua», come possiamo leggere nella sceneggiatura del suo ultimo film, In giro imus nocte et consumimur igni, proprio nei frames in cui racconta di sé e della sua amicizia con il situazionista Ivan Chtcheglov (alias Gilles Ivain, a cui per altro si deve uno dei primi studi psicogeografici di Parigi che consentiranno a Debord di precisare meglio il concetto, fondamentale per il pensiero situazionista, di “deriva”).

Pertanto se l’autore della “Società dello spettacolo” è un naufrageur, è per sua scelta. Del resto, uno dei suoi più cari e intimi amici, Asger Jorn, ne disegnò la celebre icona, quando di lui scrisse che se non può non essere conosciuto che come il Male, Debord è tuttavia mal connu. Ecco: il libro di Apostolidés toglie il velo maligno che avvolge la figura di Debord, ma non procede al fine di denigrarne l’immagine che il personaggio medesimo si è creato, quasi che l’intera sua opera non abbia avuto altro motivo se non quello di inventarsi quale mito maligno e pestifero che attacca dalle fondamenta la società dello spettacolo e trascina con sé nella lotta sino all’annientamento i suoi fedeli seguaci.

No, nel tratteggiare l’ “io-mitologico” che Debord inscenò nel corso dell’intera vita – sognando, di volta in volta, di poter essere un grande criminale à la Lacenaire, un imperatore folle come Nerone, un capo banda al pari di Fu Manchu, un agitatore rivoluzionario (naturalmente, lui stesso), un generale con l’acume di Clausewitz – Apostolidès minuziosamente ricompone i pezzi dello specchio in cui il parigino amava rimirarsi, offrendone un’immagine complessa, tutt’altro che monolitica, sicura di sé, delle sue idee, del suo destino; anzi, presentandocelo come un sognatore che insegue il suo sogno mitico fino alle estreme conseguenze, ne tratteggia i lineamenti di «un uomo fragile, più abile a dissimulare le proprie debolezze che a correggere i propri difetti».

Cosa rimane del “noto” situazionista? Molto di più di quanto siamo stati abituati a leggere, soprattutto il suo lato umano, troppo umano, se volessimo soltanto soffermarci all’aspetto che forse solleticherà il conoscere i gusti sessuali di Debord, delle sue mogli, delle sue amanti (e amanti delle mogli), e delle ambigue figure misogine partecipanti ai giochini erotici nelle vesti di marsupial (a voi scoprirlo con la lettura del libro). Ma non solo questo.

Debord – così come lo ricostruisce Apostolidés, basandosi anche su un’ampia documentazione inedita depositata presso l’Università di Yale – è soprattutto un homme de groupe, la cui singolarità s’incarna nell’azione collettiva, quasi che abbia bisogno di affermare un’esistenza collettiva per poter vivere la propria individualità. Ecco spiegarsi, fin da piccolo, l’esigenza di appartenere ad un insieme per ergersi suo protagonista indiscusso; in questa dialettica fra singolare e plurale si snoda la sua storia personale e quella dei gruppi che lo hanno visto artefice principale, ad incominciare dal gruppo familiare eteroclito, alla banda di giovinastri scapestrati, per poi passare al movimento situazionista, trasformato in una setta religiosa con tanto di dogmi e disciplina, che una volta dissoltasi verrà ricomposta in una nuova identità, l’orda pro-situs, le cui caratteristiche esacerberanno ancor più l’assoluta obbedienza ai voleri del capo, pena la morte civile nell’olimpo dei rivoluzionari.

Di questa ciclopica biografia, frutto di «quarant’anni di letture, dieci anni di ricerche, e tre anni di stesura», non si può certo sostenere che la figura di Guy Debord si staglierà nitida e maestosa come alcuni pretendono che sia, ed altri hanno cercato in tutti modi che fosse, vantando di esser stati stretti collaboratori del situazionista parigino. Non crediamo, però, che il compito prefissatosi dall’autore sia stato di distruggere l’immagine dell’individuo che più di ogni altro ha fatto della sua opera l’immagine di se stesso; piuttosto riteniamo che lo studio di Jean-Marie Apostolidès abbia messo in pratica quanto l’Internazionale lettrista, a firma anche di Guy Debord, scrisse nel 1952: «Crediamo che l’esercizio più urgente della libertà è la distruzione degli idoli, soprattutto quando loro stessi ci spronano alla libertà».
C’è riuscito, non c’è che dire.

*Gianfranco Marelli è l’autore di: L’amara vittoria del situazionismo, BFS 1996; L’ultima Internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica. Bollati Boringhieri 2000; della voce Internazionale Situazionista nel secondo volume di L’Altronovecento. Il sistema e i movimenti [Europa 1945 – 1989] ( a cura di Pier Paolo Poggio), Jaca Book 2011 e di Una bibita mescolata alla sete, BFS 2015

]]>
Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/estetiche-del-potere-i-manifesti-dopo-il-68/ Fri, 04 Sep 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24241 di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono [...]]]> di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.
1969-operai-studenti-unitiLa prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistra rivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dalla produzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazione essenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spesso provocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simboli e modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze e contraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosi alle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spetta anche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffonde negli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altre fonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo di matrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazione grafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cinese viene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedi politiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente la sinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quanto riguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla “comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicative dei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politica istituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono ad incidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

tesseramento pci 1979__1980Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politica istituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alle tecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative dei movimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad una sostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Il sistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere la trasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed il ritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine del paese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domande che si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposte istituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistema capitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzione radicale.
L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio degli anni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo La Malfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di uno stile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispetto all’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista al fine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppur rinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie con l’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano la tradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.
Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative dei partiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panorama politico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali che animano la scena: giovani, operai e donne.

psi 1972Il mondo giovanile, sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinito graficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fine anni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loro autorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vista grafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverli rappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurata attraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente il Partito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendo a fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente, a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nella continuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano ad utilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma, tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschio risulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa ad esaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, in sostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi la medesima immagine viene utilizzata con finalità opposte. Fgci1977_tesseraGambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto di Uliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzata dalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvare l’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana per ricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorrono alle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quello specifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsi attraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, ad esempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifesti vuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intende associare il partito alla giovinezza.

1968_fabbrica_pciGli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partiti politici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare il mondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia, preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamente un cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio, adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partiti della sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede un lavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi da lavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandona l’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio in marcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del ’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomo maturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenze dell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione di conflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteo conflittuale ed allo sciopero.
Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi di fantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo la caricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questa viene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

manifesto_dcLa donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistema politico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta di una rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da una parte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra a depotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempi antichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale, raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventano consumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processo di “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruita dall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per vendere merci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsi all’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando non esclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglie nell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, molti manifesti politici ripropongono la tradizionale associazione “donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengono contestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto alla sinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presa di parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simboli femministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa, l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature e fotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni di questa nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette a divulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versi partito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immagine femminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

manifesto_psi_00Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e, successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile non solo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e il volto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8 marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a una giornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979, quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forza politica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua a mantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo diviene quello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflitto per renderla narrazione epica”.
Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni ’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

pci 1975 donna_jpgIn un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invito esterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nel manifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anche mio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonista del suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In un manifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti per la prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immagine mostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena è associato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche in questo caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che, agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.
La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a parte l’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali) nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifesti femministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni alla famiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessun partito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpo femminile”.

1975_violenza_jpgParlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese.
La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.
dc_76_violenzaMolti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni, fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte ad una comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e della conflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politica si avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tanto che, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusi attraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

 

 

__________________

Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)
– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)
– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)
– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)
– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)
– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)
– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)
– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)
– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)
– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)
– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)

]]>