Macron – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

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Se si va con un ladro… https://www.carmillaonline.com/2024/09/03/84298/ Tue, 03 Sep 2024 21:55:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84298 di Nico Maccentelli

… non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste. Questo argomento l’avevo già affrontato qui. Infatti, scrivevo riguardo:“… al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa [...]]]> di Nico Maccentelli

… non ci si può poi stupire se non trovi più il portafoglio. L’intera operazione del Nouveau Front Populaire delle sinistre francesi alle scorse elezioni è stato un potente assist a Macron, che è il nemico principale per le classi subalterne poiché diretta espressione delle oligarchie imperialiste atlantiste.
Questo argomento l’avevo già affrontato qui.
Infatti, scrivevo riguardo:“… al Front Populaire costituitosi in Francia, è ben evidente che il cuore del progetto guerrafondaio della NATO resta tutto ed è quello che per il nemico di classe conta realmente, in mezzo alla fuffa che la guerra stessa e la sua economia farà sparire come neve al sole. Questa è la tonnara di cui parlavo all’inizio. Una tonnara politica dove, spiace dirlo, gli attori finali sono degli utili idioti.”

A questo punto, sarebbe interessante sapere che ne pensa la base sociale che ha votato per il FP, i lavoratori, la gente delle banlieu, le componenti sociali scese in piazza contro Macron e le sue politiche, dagli aumenti del gasolio alle pensioni. Cosa ne pensa chi avrebbe vinto, riguardo la parte finale del copione macroniano: ossia del blocco anticostituzionale messo in atto contro il partito maggioritario della coalizione elettorale vincente? Questa base, composta da milioni di francesi, sarebbe stupita di questo?

In realtà tutto è andato secondo i piani dell’oligarchia imperialista espressa dal governo precedente, che poi è quello attuale degli”affari correnti”, e quindi nulla di cui stupirsi, come mostra di esserlo invece il Marrucci nel suo pippone su Ottolina tv. La scoperta dell’acqua calda. Pippone che tuttavia merita comunque di essere visto poiché fa una cronistoria puntale di tutta la vicenda francese del dopo elezioni europee e, per chi volesse saperne di più, rimando a questo contributo.

France Insoumise avrebbe dovuto correre da sola e non dare troppa importanza alla Le Pen, la cui vittoria, checchè ne dicano gli “antifascisti” di facciata, quelli che compaiono nei salotti solo nelle tornate elettorali, non sarebbe stato il male peggiore. Anzi, la linea francese sulla guerra in Ucraina con tutta probabilità avrebbe avuto un segno diverso dai desiderata imposti dal Washington consensus.

Una metodologia politica realmente marxista insegna che tra i nemici di classe esistono un nemico principale e uno secondario. E che ciò non ha nulla a che vedere con il sostrato ideologico, ma con i rapporti di dominio classista. Le oligarchie atlantiste ben espresse politicamente dalle sinistre dem e socialdemocratiche sono le frazioni di borghesia imperialista dominanti nell’Occidente collettivo, sono il nemico principale. Vedere l’orbace e il gagliardetto come grande pericolo per una democrazia che in Occidente non esiste, è un po’ come vedere il dito che indica la luna. È lo specchietto per allodole. In altre parole non è politica di classe e rivoluzionaria. È bene che qualuno lo ricordi ai vari Melenchon, così come alla nostra sinistra radicale che ripete un inciucio dietro l’altro senza sganciarsi dal treno dell’euroimperialismo di sinistra.

Se il metodo fosse stato questo, invece di scimmiottare il fronte popolare degli anni ’30, avremmo avuto il rafforzamento di un vero fronte di classe e non l’illusione di andare a governare con il vero nemico principale, o di esserne trombati come utili idioti. Ma soprattutto non si sarebbe servito lo scopo principale delle oligarchie imperialiste, ossia fare la guerra. Il che definisce anche lo scopo che dovrebbe avere qualsiasi forza realmente di classe e antimperialista: scongiurare la guerra, ostacolarla con ogni mezzo. Non ostacolare anche il peggiore dei fascisti se questi manda a carte e quarantotto il processo guerrafondaio USA-NATO. E che lo facesse pure per meri interessi meschini di volontà di potenza nel riprendere il gas russo. Senza radioattività e città devastate avremmo comunque la possibilità di rivolgerci contro questo nuovo nemico principale. Questo ci dice il leninismo (1). È con questo metro che va vista una certa destra trumpiana, orbaniana, lepenista. Utili nemici, non certo alleati, ma fermare la guerra nel nostro continente anche per interessi nazionali, serve anche la rivoluzione, servendo nel contempo le umane aspirazioni a non essere distrutti, a non far pagare il conto a noi europei per soddisfare i profitti di un’eventuale ma penso poco probabile ricostruzione da parte dei famelici speculatori di Wall Street.

E invece, se ci pensate bene, gli ultimi passaggi politici di certa sinistra nostrana che dicesi comunista, sono andati esattamente nella direzione opposta, andando a pestare i calli di chi da Putin per aprire un confronto ci è andato sul serio, prendendosi gli strali degli “antifascisti”(2) che governano a Bruxelles, quelli che danno armi e sostegno ai nazisti di Kiev, imponendo insieme a USA il grande macello guerrafondaio del popolo ucraino.

Dunque, se poi ci pensate ancor meglio, i risvolti della vicenda politica nazionale francese sono un messaggio anche per la nostra sinistra radicale, anche per i comunisti nostrani più incalliti, capaci solo di ripetere le eterne verità sul piano ideologico, senza però fare alcun passo politico che li porti fuori da una deriva che ormai dura da decenni.

Occorre sganciarsi da una sinistra ormai neoliberale, filo-imperialista, che oggi serve devastazione sociale e guerra servendosi del paravento antifascista, buono per i gonzi, e dei “diritti umani” che però se al governo calpesta costantemente con misure economiche draconiane, che non favoriscono certo le classi popolari e chi arriva con i barconi. Occorre scegliere da che parte stare, multipolarsimo e non europeismo, decolonizzazione anche del nostro paese e non suprematismo per censo, anglocentrismo camuffato da mistificazione woke e cancel culture.

Fortunatamente in Germania la situazione è già un po’ diversa e con il BSW di Sahra Wagenknecht ci sono maggiori possibilità di affermazione di un’opposizione popolare antimperialista e antimilitarista. Nelle elezioni regionali in Sassonia e Turingia BSW è arrivato terzo, superando la sinistra neoliberale della ztl, socialdemocratici e verdi. La sua politica paga sul piano di un consenso crescente proprio perché fuori e contro la sinistra zerbino del neoliberismo atlantista, proprio perché recepisce tutto il disagio sociale dei settori meno abbienti, senza infingimenti, senza la falsa ideologia del politically correct, perché si pone contro la guerra non a chiacchiere, mettendo tutti i borghesi, le loro frazioni sullo stesso piano, ma facendo appunto politica (ho ampliato il ragionamento qui).  Sarà interessante vedere le scelte politiche che BSW farà, se di coalizione, oppure di opposizione. Ma certamente la formula delle “sinistre unite” è poprio in Germania che si rivela inadeguata e controproducente.

C’è più leninismo (anche se elettoralistico) in una ex Die Linke come la Wagenknecht (3), che in un qualsiasi falcemartellaro dogmatico, con le iconcine di Marx, Stalin o Trotsky usate come i santini scacciamaligno. O in qualsiasi centrosocialaro dirittumanitarista che vota una Rackete che poi sposa la versione imperialista sul Venezuela bolivariano.

Quello che la sinistra “antagonista” nel suo complesso non comprende è proprio l’urgenza di andare oltre i giochi politici condotti dal mondo dem e dalle sue armi culturali di distrazione di micro-massa. Urgenza dettata da un ruolino di marcia che ci porta sempre di più dentro la guerra imperialista.
È inutile stupirsi come fa anche il pur acuto e bravo Marrucci del golpe di Macron. Il colpo di stato internazionale da parte dei signori di Davos è già in atto da anni: la fase del COVID, come annichilimento delle masse in un controllo distopico e biopolitico, ne è stato un passaggio che solo dei pesci in barile ostinati vogliono non vedere. E tutta la chiave di lettura di questa traiettoria si falsa.

La differenza sta nel fatto che Macron non deve più nemmeno fingere e costituzionalmente impedisce a una coalizione che ha vinto le elezioni di governare, pone dei veti illegali alla forza maggioritaria di questa coalizione, trombando France Insoumise nel nome di un presunto quanto inesistente antisemitismo. Una scusa vale al’altra, alla bisogna.
Ma già i parlamenti vengono bypassati in tutto l’Occidente atlantista, e i luoghi decisionali sono di fatto quelli tecnocratici del potere profondo, che hanno sede altrove, nei palazzi della finanza, e negli organismi che uniscono finanzieri e tycoon delle porte girevoli, economisti, politici, think tank, uomini d’apparato con tutti i massmediatici al seguito.

Forse l’operazione dovrebbe essere un’altra: denunciare questo passaggio francese del golpe permanente globale, dando un quadro complessivo della situazione, collegando tutti i puntini del disegno sovranazionale. Troppo per chi non ha ancora capito dove sia il nemico e cosa sia il suo piano o, per lo meno, nella migliore delle ipotesi, non ha inquadrato ancora bene la situazione.
Altro che fascismo: qui mancano solo le “leggi fascistissime” del 1925 in salsa francese. E domani è un altro giorno come se niente fosse, nella falsa realtà della comunicazione di massa drogata.

Questa traiettoria verso un bellicismo neoliberale che non ammette altri aggregati e contesti decisionali che non siano quelli voluti nelle stanze dei poteri più profondi, è proprio il passaggio odierno di questa guerra, che spiega l’accelerazione autoritaria decisa dai think tank imperialisti. La differenza con lo stillicidio del togliere spazi di democrazia e ambiti di decisionalità parlamentare un po’ per volta, sta nel fatto che proprio per il must guerrafondaio a tutti i costi, deciso dal Washington consensus e dai suoi satrapi, viene gestito in modo extra-costituzionale con le cannoniere dei media, che fabbricano nemici da criminalizzare e imbastiscono campagne basate su mezogne e sulla distorsione dei fatti. Un metaverso rovesciato, dove il genocidio del popolo palestinese è lotta al terrorismo, la guerra della NATO preparata in anni di espansionismo e aggressioni militariste contro la Russia è sostegno a una nazione invasa, i nazisti sono lettori di Kant, le vittime sono carnefici e viceversa, la guerra è pace… ricorda qualcosa?

Dov’è finito l’orbace di Orban? Se si uscisse solo per qualche istante da questa narrazione drogata che influenza persino le menti presuntuosamente più antagoniste al potere borghese, forse si inizierebbe a capire l’eurolager dell’indottrinamento di massa, la propaganda ossessiva che ci trasformerà in carne da macello.

E qui veniamo alla pars construens. Quello che i miopi non hanno compreso dalle loro torri d’avorio dell’avaguardismo politicante invisibile alla massa della popolazione italiana, è l’insegnamento che si deve trarre dal grande se pur breve movimento di popolo che si è avuto nei tre anni e passa di restrizioni biopolitiche e dall’uso delle tecnologie sioniste del controllo già sperimentate sui palestinesi (4), nei tre anni di cui sopra (5).
In presenza di un’avanguardia vera, le cose sarebbero andate diversamente, perché se la controparte ha capito che fino a che punto puoi restringere gli spazi di vita e socialità della popolazione, lo dovrebbe aver capito anche questa avanguardia. E una massa così vasta, se organizzata anche solo in parte, avrebbe dato dei bei problemi al nemico imperialista e colonizzatore del nostro territorio, delle nostre attività sociali ed economiche, della nostra cultura e della nostra mente.

Organizzazione, linea politica, programma, obbiettivi e un’egemonia da conquistare nel movimento stesso. Cosa c’è di tanto diverso da un impianto leniniano? Nulla, se si considera finalmente la situazione concreta. Con un’avvertenza che ci dà lo stesso Lenin. Non lo cito, ma il succo è questo: non esiste la rivoluzione che vorremmo nei nostri pii desideri, ma i movimenti sono quello che sono storicamente e il nostro compito è quello di organizzarli e orientarli verso obiettivi realistici. La politica è l’arte del possibile e non una lista della spesa delle migliori utopie. E se i ceti medi d’Occidente vengono devastati dalle tecnocrazie degli oligopoli finanziari e multinazionali, occorre capire che senza questi ceti in via di proletarizzazione e precarizzazione, defraudati di lavoro, risparmi, immobili e censo, non si andrà da nessuna parte. E che il problema semmai è lavorare per costruire un’egemonia che sappia affrontare una lunga fase che insieme al multipolarismo porrà nella lotta di classe questioni che oggi neppure possiamo immaginarci.

E ora passiamo alla guerra imperialista che stanno preparando nel continente, conducendoci dentro questa a passi da gigante. Una popolazione che vive uno stato di guerra da sempre ha più attitudine ad accettarlo. Ma provate a pensare a popolazioni che non l’hanno vissuta, dove da ottant’anni e passa vivono non come le generazioni che l’hanno subita, come la prenderebbero?
Come l’ha presa la situazione distopica delle limitazioni da covid gran parte della popolazione? Cominciate a capire? Comprendete a cosa è servito quel passaggio sociale, antropologico, non certo determinato da un pangolino amoroso? (6)

Per questo occorre prepararsi per la futura situazione in cui ci sarà il ripristino di una leva obbligatoria, di giovani e meno giovani a crepare nelle pianure ucraine, leggi d’emergenza, addirittura la realtà di un territorio messo a ferro e fuoco: tutto ciò che concerne una situazione di guerra. Ecco il nostro compito. Il loro problema è abituare le masse a tutto questo. Il nostro è quello di organizzare rivolte sociali nella massa critica che si formerà in opposizione a tutto questo, di fronte al dato di fatto che la democrazia liberale è morta, che un Macron qualsiasi, uomo dell’entourage di Rothschild, del simulacro della democrazia, ossia di ciò che resta, ne fa spazzatura.
Rendere ingovernabile il loro sistema e il loro ruolino di marcia, inceppare i loro dispositivi di comando in ogni ambito sociale, politico, mediatico, vertenziale e sindacale.

Non siamo di fronte a un attacco alla scala mobile o all’art. 18. In questi ultimi anni i mutamenti che stanno avvenendo sulla vita di milioni di persone, che sia l’economia di guerra, della quale abbiamo già iniziato a provarne i morsi, o uno stato di guerra vera e propria, non saranno così semplici da farli ingoiare a questo tipo di popolazione, agli abitanti dei paesi a capitalismo avanzato. La battaglia sociale va preparata in modo adeguato, poiché di questo si tratterà, quando le masse popolari si troveranno ancora di più in questa sorta di distopia antropologica. Anche se oggi ancora non se ne rende ancora bene conto, questa massa farà in fretta a divenire critica quando verranno superati certi limiti. La censura di regime, che ci parla di un popolo ucraino solidale e resistente, quando invece c’è una situazione di diserzione di massa e i civili scappano per non diventare carne da cannone per nazisti e angloamericani, è una censura che serve anche a occultare la traiettoria della guerra imperialista nell’Occidente europeo. Quello che ci aspetta.

Questa è la questione. E prima lo capiremo utilizzando ogni arma disponibile e opportuna, ogni possibile interlocutore pur di ostacolare il loro progetto criminale, di veri criminali di guerra, e meglio sarà.

 

§§§§§§§§§

 

NOTE:

1) Per approfondire questa questione di tattica leninista si legga:

di Mao Tse Tung: “Il ruolo del Partito Comunista Cinese nella guerra nazionale”, otttobre 1938, Opere di Mao Tse Tung, volume 7

e l’intervista a Lev Trotsky fatta da Mateo Fossa il 23 settembre 1938 farà tremare le vene ai polsi di chi definisce fascisti, intrisi di pensiero borghese e reazionari coloro dei quali non sanno dare una collocazione politica (tanto meno sociale) secondo l’analisi concreta della situazione concreta e dei movimenti di massa:
In Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese potrebbe condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!

I vari “ismi” dottrinari di oggi, caricature del comunismo e vere e proprie tifoserie demagogiche, hanno in comune tra loro l’inconsistenza politica, quanto i padri della Terza e Quarta Internazionale hanno avuto invece come denominatore comune i fondamentali della strategia politica leniniana. Le divisioni e i conflitti interni al movimento comunsta non erano certo su delle stronzate come oggi.

 

2) Esilarante, se non ci fosse da piangere lacrime di sangue, il Borrell a Ventotene, che celebra Spinelli, lui che ha definito “giardino” l’Europa e “giungla” il resto del mondo, quello delle “autocrazie”

 

3) Giusto per capire la “rossobruna” Sahra, rimando al suo saggio: “Contro la sinistra neoliberale” Fazi Editore, e citando un post di Vallepiano, evidenzio una breve biografia e alcune prese di posizione nel tempo che ci fanno capire che solo dei dementi o in mala fede possona tacciarla di rossobrunismo. La Wagenknecht uno dei massimi quadri politici della sinistra tedesca, definita da sempre da lavoratori, disoccupati e semischiavi del sistema Hartz “Die Rote Sahra”. Cresciuta nella DDR, fu dirigente giovanile del Partito Socialista Unificato, Il suo idolo era Walter Ulbricht, leader della Repubblica Democratica Tedesca e fiduciario di Stalin, che nel 1953 sedò una rivolta fomentata dagli USA armando le milizie operaie e con l’aiuto dei carri armati sovietici. Ecco alcune sue frasi più che eloquenti:

Per lei la caduta del Muro di Berlino fu:”Il momento più difficile che avesse mai affrontato”.

Nel suoprimo discorso al Bundestag disse della DDR: “Cinque anni fa è morto un Paese in cui c’era almeno un tentativo di costruire una società non guidata dal profitto. Oggi vediamo di nuovo il dominio del capitalismo. Per me questo è un chiaro passo indietro. La DDR è stata la Germania più pacifica, più sociale, più umana in ogni fase del suo sviluppo, a dispetto delle critiche specifiche che si possono muovere nei suoi confronti

Nel 2004 ha pubblicato il saggio: “Al Presidente: Hugo Chávez e il futuro del Venezuela” dove tratta la rivoluzione bolivariana come modello rivoluzionario per il Socialismo, definendo Chavez come “Un grande Presidente che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per la giustizia e la dignità”

Di Fidel Castro ha detto: “Si è battuto per un mondo migliore, è un democratico in tutto e per tutto. Ha amato il suo popolo e il suo popolo ama lui”

Su posizioni filo-palestinesi, viene espulsa per “antisemitismo” dalla Die Linke, ossia la sinistra liberale delle ztl. Contro la guerra della NATO e per un Europa fatta di stati nazionali e sovrani, quando  Zelensky è fu invitato a parlare al Bundestag, Sahra lasciò l’aula e organizzò una contestazione.

 

4) Utile è la lettura di “Laboratorio Palestina, come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto i mondo”, di Antony Loewenstein, Fazi Editore, che oggi è certamente tecnologia dello sterminio

 

5) Per un’analisi di classe su quelli che non sono movimenti prettamente e soltanto proletari, ma trasversali a una società, a settori sociali che si ribellano alla dittatura biopolitica, alla guerra sociale dall’altro contro il basso e come probabilemnte sarà all’epoca di guerra che ci aspetta, di ceti sociali devastati dalla distruzione creativa draghiana, dalla amazonizzazione delle filiere produttive e del terziario, rimando al mio contributo su Carmillaonline qui e qui.

6) A tal proposito riprendo l’analisi di R.M. un compagno dell’Assemblea Militante, che definisce piuttosto bene il passaggio epocale che stiamo vivendo:

Dal Covid in poi continuando con Nord Stream 2, guerre ed elezioni varie nella sfera occidentale è diventato lapalissiano che il patto sociale su cui si fondavano gli stati borghesi,comprese le istituzioni consociative tipo EU, FMI, NATO, ONU, multinazionali monetarie, nati dopo la rivoluzione francese e le due guerre mondiali è definitivamente saltato. Si è aperta una fase di conflitto civile e sociale prodromo di una imminente guerra. La società è a brandelli e c’è chi ne approfitta economicamente e politicamente per imporre un nuovo fascismo e militarizzare le nostre società.

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Avanti barbari!/2 – Estranei al centro https://www.carmillaonline.com/2024/08/14/estranei-al-centro/ Wed, 14 Aug 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83235 di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa Ounga ounga, la mia Glock punta la spia Ounga ounga, nigga wawawawa Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate So di non essere integrato Cerco il mio interesse (PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia [...]]]> di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa
Ounga ounga, la mia Glock punta la spia
Ounga ounga, nigga wawawawa
Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate
So di non essere integrato
Cerco il mio interesse

(PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia qualche perplessità sulla “grande mobilitazione popolare antifascista”, si è deciso di pubblicare qui di seguito un estratto da una delle due postfazioni poste a chiusura del testo di Gioacchino Toni e Paolo Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, edito da Milieu, 2024.

***

[…] Il conflitto moderno, almeno a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è sviluppato a partire dai quartieri periferici per terminare poi con occupazioni momentanee o assalti dei centri amministrativi e commerciali delle metropoli. Basti pensare all’importanza che ebbe la battaglia di corso Traiano a Torino, nel luglio 1969, nel determinare in seguito non solo lo sviluppo delle lotte operaie e delle avanguardie politiche interne al ciclo dell’auto e non della sola FIAT, ma anche le modalità della conduzione delle lotte stesse. Il ghetto degli immigrati recenti, il quartiere Mirafiori, si era trasformato nel centro della lotta e delle rivendicazioni, non solo operaiste o di fabbrica, che avrebbero caratterizzato gli anni successivi (occupazione di case, richiesta di servizi alle autorità amministrative locali e nazionali, ricostruzione di un tessuto sociale che, seppur distrutto nel Sud da cui molti partecipanti a quelle battaglie avevano dovuto allontanarsi per trovare lavoro, si era ricostituito su nuove e più moderne basi nelle periferie delle grandi città del Nord).

[…] Ciò che abbiamo visto, e vediamo avvenire, nelle attuali banlieue non è, tutto sommato, molto diverso, anche se con protagonisti e modalità nuove oltre che in un panorama politico, economico, nazionale e internazionale molto cambiato.

[…] Le illusioni dei padri e dei nonni degli attuali giovani banlieusards sull’integrazione attraverso il lavoro o la lotta sindacale, nonostante il conflitto coloniale franco-algerino che si era macchiato di crimini orrendi anche in terra di Francia, sono finite con la disoccupazione, il razzismo dilagante anche tra le classi lavoratrici francesi, la crescita demografica di algerini e magrebini che da sempre spaventa le classi medie, e non solo, bianche.

Ecco allora che il centro-città può essere soltanto più lo scenario per scorrerie “vandaliche” in cui, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi anni, da Torino a Londra; durante le quali i giovani si appropriano della merce esposta nei negozi di lusso, rendendo esplicito ciò che Amitav Ghosh ha affermato, nel suo romanzo L’Isola dei fucili, a propositi del nuovo rapporto istituitosi tra nuovi migranti, o discendenti di tali, e Occidente.

I giovani migranti che avevo conosciuto non erano stati trasportati da un continente all’altro per diventare una rotella in un ingranaggio gigantesco che, come nel caso delle piantagioni, esisteva al solo scopo di appagare desideri altrui. Gli schiavi e i coolie lavoravano per produrre beni – la canna da zucchero, il tabacco, il caffè, il tè o la gomma -destinati alla madre patria dei colonizzatori. Erano i desideri, gli appetiti delle metropoli a spostare le persone da un continente all’altro. Allo scopo di sfornare a getto continuo le merci più richieste. In tale meccanismo gli schiavi erano produttori, non consumatori; per loro era impossibile concepire gli stessi desideri dei padroni.
Adesso invece ragazzi come Rafi, Tipu e Bilal volevano le stesse cose di chiunque altro: smartphone, computer, automobili. Né avrebbe potuto essere altrimenti: fin dall’infanzia, le immagini più allettanti che avevano visto non erano i fiumi o i campi che [un tempo – NdR] li circondavano, bensì gli oggetti sullo schermo dei loro cellulari.
Ora capivo perché i giovanotti arrabbiati sulle imbarcazioni intorno a noi avevano tanta paura di quel miserando barcone di rifugiati: quella minuscola imbarcazione simboleggiava il ribaltamento di un progetto secolare, decisivo per il formarsi dell’Europa. […] quel piccolo peschereccio simboleggiava il venir meno del secolare progetto che aveva garantito loro enormi privilegi. Dentro di sé sapevano che quei privilegi non gli sarebbero più stati garantiti dalle persone e dalle istituzioni in cui un tempo confidavano.
Il mondo era cambiato troppo, e troppo in fretta; i sistemi attualmente in vigore non obbedivano più ad alcun padrone umano, ma, imperscrutabili come demoni, seguivano imperativi tutti loro1.

Aggiungendo poi ancora nelle stesse pagine:

Fin dagli albori della tratta degli schiavi, le potenze imperiali europee avevano intrapreso il più grandioso e crudele esperimento di rimodellamento planetario che la storia avesse mai conosciuto: in nome del commercio, avevano spostato le persone fra i continenti su una scala quasi inimmaginabile, finendo per cambiare il profilo demografico dell’intero pianeta. Ma pur ripopolando altri continenti, avevano sempre cercato di preservare la bianchezza dei territori europei.
Adesso quel progetto veniva sovvertito: i sistemi e le tecnologie – dagli armamenti al monopolio delle informazioni – che avevano reso possibili quei giganteschi interventi demografici avevano ormai raggiunto la velocità di fuga, e nessuno li controllava più2.

Questa citazione letteraria serve a focalizzare l’attenzione sul tema vero che è sotteso alla narrazione delle rivolte delle banlieue oppure dell’azione urbana dei banlieusards: quella della scomparsa del centro. Inteso qui sia in senso urbanistico che politico-economico e geopolitico. Vediamo come e perché.

Mentre gli intellettuali a la Tomaso Montanari di turno piangono ancora sullo scempio delle città d’arte come Firenze ad opera del turismo digitalizzato di Airbnb, […] la distinzione classica tra centro e periferia è saltata definitivamente.
E’ fallita a livello geopolitico, in un mondo in cui la centralità dell’Occidente rispetto al resto del mondo si è andata lentamente, all’inizio, e poi sempre più rapidamente sgretolando come le cronache militari, politiche ed economiche degli ultimi anni (dal ritiro dall’Afghanistan fino alla guerra in Ucraina e alla crisi militare e umanitaria di Gaza) confermano quasi quotidianamente.

E’ fallita a livello tecnologico ed economico, in un mondo in cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto quelle digitali, non ha più un centro preciso di riferimento poiché tale produzione necessita di terre rare spesso in possesso quasi esclusivo di paesi terzi rispetto a quello che fino a pochi anni fa era ancora ritenuto il centro mondiale dell’innovazione tecnologica e scientifica, mentre gli sviluppatori delle stesse spesso si trovano in continenti posti “fuori” dal fortino bianco di provenienza dei marchi. Mentre gli stessi marchi occidentali sono ormai subissati in tutti gli ambiti da quelli di origine asiatica. Senza tener conto della rapida obsolescenza cui sono condannate tutte le novità proposte per tener vivo e competitivo il mercato delle stesse.

E’ fallita a livello statale, nel momento in cui ogni decisione dei parlamenti deve sottostare, soprattutto qui in Europa, a decisioni emanate da organismi sovranazionali e sovraparlamentari che rendono quasi inutili le farse elettorali e le inutili scelte tra destra, sinistra e novelli populismi. Tutti, una volta giunti al governo, egualmente ricattabili con la scusa della necessità di rispondere a parametri stabiliti sovranazionalmente.

E’ fallita a livello urbano, là dove la rivendicazione al diritto alla città ha perso negli anni un reale peso specifico, poiché ogni parte della città si è trasformata in ghetto. Ghetto per i turisti il centro urbano antico o d’arte, trasformato ormai in vetrina per merci di diverso valore, dal lusso alle miserie di H&M; ghetto per i ricchi nei quartieri residenziali sempre più esclusivi e separati dal resto della città; ghetto per le classi disagiate o medie impoverite tutto il resto.

Ma allora ha ancora senso parlare di ghetto, quando tutta la città, per un’infinità di motivi che sarebbe ancora qui troppo lungo elencare, ma in cui la mancanza di lavori regolari e regolarmente retribuiti gioca un ruolo fondamentale di trasformazione sociale, si è trasformata in un insieme di “ghetti”?

E in questa perdita di “centro” ha ancora senso parlare di “classe operaia” e della sua centralità?
Sono questi i temi sui quali il miglior cinema della banlieue obbliga a ragionare, avendone anticipato tempi, temi e sguardo sul “reale”.

In fin dei conti, nel film Athena, l’assedio e l’assalto militare della polizia al quartiere difeso dai giovani, che per primi avevano preso l’iniziativa assaltando le stazioni di polizia dopo l’ennesimo omicidio di un giovane magrebino, non ha forse anticipato simbolicamente tutto quanto è successo nella striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 e l’irriducibilità degli abitanti della Striscia?

E questa presa di coscienza, dei giovani protagonisti dei film citati, della distanza e della estraneità incolmabile che li separa dal centro urbano, economico e politico delle città in cui vivono, non produce forse una forma di identitarismo collettivo più ampio di quello caratterizzato dall’etnia, dalla politica oppure dalla religione che spinge milioni o miliardi di abitanti del cosiddetto Sud globale ad odiare sempre di più il Nord e il suo centralismo perduto?

Non sono forse questi “nuovi barbari”, tutt’altro che semplicemente ghettizzati come vorrebbe la pietà di stampo cristiano e liberal, i nuovi vampiri, come nel romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, destinati consapevolmente ad ereditare e contemporaneamente distruggere il vecchio ordine del mondo?

Un mondo in cui, ormai, centro e periferia si confondono anche in ordine di importanza, ma che non è capace di fare altro che continuare a mostrare la propria autentica barbarie, spesso travestita da ecumenismo, e il proprio autentico vampirismo nei confronti degli altri “mondi”, oggi decisamente più giovani e motivati nella loro furia e dal loro desiderio di riscatto.


  1. A. Ghosh, L’Isola dei fucili, Neri Pozza Editore, Vicenza 2019, pp. 307-309.  

  2. A. Ghosh, op. cit., p. 308.  

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Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

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Cronache marsigliesi /8: la guerra civile in Francia. Un tentativo di bilancio https://www.carmillaonline.com/2023/07/13/cronache-marsigliesi-8-la-guerra-civile-in-francia-un-tentativo-di-bilancio/ Thu, 13 Jul 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78242 di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una [...]]]> di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una lettura politica di quanto andato in scena. Una lettura che, senza una base empirica, diventa puro esercizio retorico. “Solo chi fa inchiesta, ha diritto di parola” e a partire da Mao, ma si potrebbe aggiungere tranquillamente da tutta la storia dello “operaismo”, abbiamo cercato in tutti i nostri articoli di mantenere questa “linea di condotta”.
Diamo pertanto, senza fronzoli di troppo, la parola a M. R., operaio precario dell’edilizia attivo nel Collectif Chomeurs Precaries.

Che percezione c’è nei “quartieri” a Marsiglia dopo la rivolta?
Allora, in linea di massima, c’è un senso di soddisfazione abbastanza generalizzata. Questo è ampiamente comprensibile perché, almeno per sei giorni, i “quartieri” sono stati in grado di riversare, e con gli interessi, ciò che abitualmente subiscono. Questo è un fatto che puoi facilmente constatare attraversando una qualunque zona ghetto. La polizia, almeno per il momento, sta tenendo un profilo basso il che rafforza l’orgoglio della banlieue anche se questa calma, più che essere la ratifica di un mutamento dei rapporti di forza, appare come la classica calma che precede la tempesta. Questo è il timore che cogli se esci dalle fasce giovanili. Mentre i petit sono decisamente esaltati perché ritengono di aver vinto, gli altri, che sono passati più volte per l’inferno pensano che le ricadute repressive potrebbero essere molto pesanti.

Ma questo significa che nei “quartieri” vi è una rottura interna?
No, questo no diciamo che, piuttosto, mentre i più giovani focalizzano lo sguardo sull’immediato, gli altri cercano anche di pensare a cosa accadrà a breve. Questa non è una cosa sbagliata ma che rimanda, per quanto magari non esplicitata in maniera chiara, a una visione e consapevolezza politica che ha più di una ragione di essere. In qualche modo molti nei “quartieri” si chiedono: “Adesso cosa facciamo, adesso cosa succede?” Credo che la sintesi esatta di quanto è accaduto possa sintetizzarsi così: una vittoria militare a fronte di una sostanziale debolezza politica. Il che non è proprio una novità, a fronte di una capacità militare e volontà di combattimento che non trovi da nessuna altra parte, ti ritrovi sempre dentro una difficoltà a trasformare in forza permanente, come esercizio di contro potere effettivo, tutto ciò che è stato messo in campo nella battaglia di strada.

Questo vuol dire che la rivolta, almeno sul piano organizzativo, ha lasciato tutto come prima?
Non è facile dare una risposta a questa domanda. Non lo è perché l’internità politica, anche la nostra per carità, a tutto quello che è successo è stata veramente minima per cui quello che possiamo dire con onestà è solo il frutto di alcune relazioni e contaminazioni periferiche con questi mondi. Sulla base di queste possiamo dire che le gang dei petit ne escono notevolmente rinforzate e agguerrite. Non bisogna dimenticare la quantità di armi che sono state sottratte nel corso delle sei giornate il che significa che, di fatto, c’è un livello di armamento operaio e proletario non proprio irrisorio ma è anche vero che, al momento, nessuno è in grado di dire come verranno utilizzate queste armi. Diciamo che l’ipotesi più probabile è che si scivoli dentro, uso un termine che non ha bisogno di molte spiegazioni, un militarismo tanto eroico quanto suicida. Questo, ovviamente, non è scontato, ma se su tutto ciò non si innesta una prospettiva di lotta di lunga durata il rischio c’è anche perché i petit, di loro, hanno una mentalità più affine all’insurrezione, intesa come spallata, che a una lotta che comprende tattica, strategia e disciplina. Per molti versi possiamo dire che vi è una situazione che non si è ancora cristallizzata e quindi un vero bilancio è veramente difficile farlo. In tutto ciò non bisogna sottovalutare il modo in cui, nel suo insieme, la società legittima ha reagito e sta reagendo. Forse è dai tempi dell’Algeria, almeno a memoria d’uomo, che non si vedevano livelli repressivi militari così alti e il richiamo all’Algeria ha a che fare anche con un altro aspetto, in campo sta scendendo, anche sul piano militare, un intero fronte di classe. L’apparire delle “ronde fasciste” va considerato e osservato non come qualcosa che rimanda al passato perché questi non sono i fascisti di ieri ,che cercano di avere un po’ di notorietà nel presente, ma un fronte di classe nazionalista che rappresenta ampi strati di società francese.

Quindi, se quanto affermi è vero, è stato giusto dire, come abbiamo fatto, che siamo di fronte all’incipit della guerra civile?
Penso proprio di sì ma questo non deve stupire. L’epoca attuale è contrassegnata da crisi, guerre dentro uno scenario che vede un obiettivo tramonto dell’occidente, questo riaffiorare del nazionalismo ha ben poco di nostalgico, questo nazionalismo è un frutto moderno e contemporaneo che allinea un fronte di classe anche variegato. Contro la rivolta non vi è solo la grande borghesia ma tutte le classi intermedie e pezzi di classe operaia. La solidarietà mostrata nei confronti del poliziotto omicida non deve essere presa sotto gamba perché mostra come intorno alla polizia e a ciò che rappresenta, si coagulano diverse forze sociali. Qua non si tratta di gridare al fascismo e neppure Le Pen, per essere chiari, pensa di restaurare Vichy, ma di cogliere la messa in atto di una guerra civile su basi nazionaliste intorno alla quale si coagulano diversi pezzi di società. Questo meccanismo è in atto e, come sempre, a un certo punto le cose cominciano a marciare da sole. Questo fa capire anche la cautela che c’è tra la gente dei “quartieri”. Però questo indica anche un’altra cosa, la possibilità che questa situazione offre alle forze rivoluzionarie ma, e lo ripeto sino alla noia, bisogna uscire dall’estetica del conflitto e dalla logica della spallata. In Francia, oggi, va sperimentata una forma organizzativa, su più piani, che sia in grado di instaurare un dualismo politico a tutti gli effetti. Chiaramente questa scommessa è tutto tranne che facile e scontata. Quello che sta andando in scena in Francia, nonostante le indubbie particolarità che ovviamente vi sono e vengono da lontano, ha a che fare con un modello politico e sociale che appartiene al mondo capitalista contemporaneo e, proprio per questo, credo che sia un errore, come spesso accade, ridurre il tutto al “caso francese”. Io credo che in quanto sta accadendo dobbiamo leggere una tendenza in atto del comando capitalista e non il frutto di ciò che viene comunemente definita “frattura coloniale”. Se guardiamo bene la Francia, in realtà, è il laboratorio europeo del modello americano e quindi del punto più avanzato dello sviluppo capitalista.

Questo mi sembra veramente il cuore della questione e mi spiego. Tutti hanno osservato come il livello di scontro di questi sei giorni sia stato di un tale portato da far impallidire persino le rivolte del 2005 e del 2006 le quali non erano state certamente una bagatella. Questo sembra essere vero sia per come si sono mossi i “quartieri”, sia per la risposta militare messa in atto dallo stato. Nel 2005 e 2006 lo stato si è mosso ponendo in atto, accanto alla repressione militare e poliziesca, un tentativo di politiche sociali finalizzate a gestire, non solo in termini di guerra e conflitto, la questione banlieue. Al proposito basta ricordare la quantità di interventi di politologi, sociologi e intellettuali che si erano riversati sul popolo dei quartieri e, insieme a questi, anche il proliferare di organismi sociali in banlieue. Oggi, invece, sembra che l’unico linguaggio che lo stato è disposto a parlare è quello della guerra. Allora, se tutto questo è vero, questa rivolta più che in continuità con il passato sembra incarnare una rottura del presente. Le cose possono essere viste in questo modo?
Cominciamo con il dire che sicuramente lo scontro posto in atto da entrambe le parti è sicuramente incommensurabile a quanto visto nel 2005 e nel 2006 ed è sicuramente giusto rilevare come, questa volta, la risposta statuale sia stata unicamente militare. Sono passati diciotto anni e in questo periodo sono cambiate parecchie cose. La crisi del 2008, che in qualche modo è ancora lì, la guerra come linea strategica del comando capitalista a livello internazionale, la necessità, quindi, di pacificare le retrovie, la guerra preventiva a quella composizione di classe che incarna, in tutto e per tutto, la non possibilità di un patto sociale con il comando. Questo non ha più nulla di francese, secondo noi sbagliano quelli che leggono quanto sta accadendo come un continuum del colonialismo francese. Certo, questo c’è, ma quello che deve essere colto è come questa particolarità francese oggi si inserisce dentro un modello che caratterizza un po’ tutte le metropoli imperialiste occidentali che si stanno sempre più plasmando sul modello americano. Paradigmatico il modo in cui Macron ha attaccato le donne di banlieue. Di questo ne parlerai dopo con M. B.

Ciò che, in qualche modo, prefiguri è uno scontro a tutto tondo tra questo nuovo soggetto proletario e ciò che si sta coagulando intorno alla polizia. Abbiamo letto tutti il comunicato dei sindacati di polizia così come abbiamo dovuto constatare come la solidarietà, che poi in realtà è il dichiararsi favorevole con l’esecuzione di Nanterre, nei confronti del poliziotto omicida abbia trovato consensi non proprio irrilevanti infine, ma certamente non per ultimo, quanto le cosiddette ronde fasciste riscuotano un notevole consenso. Tutto questo, per la società francese, cosa significa? Cosa dobbiamo aspettarci?
Io credo che dobbiamo aspettarci una realtà sociale plasmata sul modello della società americana dove guerra di classe e guerra di razza si intersecano in continuazione anche se è molto utile precisare che quando si parla di razza bisogna precisare che si è neri perché si è poveri. Al fianco della polizia e dello stato non vi sono solo i bianchi, per questo ho più volte detto che qua non siamo dentro a alcun remake fascista, ma anche tutta quella popolazione, soprattutto araba che nel tempo ha acquisito un certo status sociale, che odia il nuovo proletariato. Impostare la lotta sul’antirazzismo significa non vedere che cosa concretamente è diventata questa società. Il fallimento a cui sono andate incontro tutte le associazioni di questo tipo presenti nei quartieri ne sono una buona esemplificazione.

Scusa se ti interrompo. Queste associazioni che ruolo hanno avuto nel corso della rivolta?
Ne sono state travolte e non poteva essere altrimenti. Sono diventate, e non da oggi, una struttura superflua e questo indica anche il mutamento di passo che c’è stato dentro la società francese. Ora provo a spiegarti. Tutte queste organizzazioni, nate anche con buoni propositi, facevano, direttamente o meno, parte di quel “pacchetto sociale” finalizzato a gestire i quartieri non solo in maniera militare. Ben presto, però, queste realtà, la cui esistenza dipende dai finanziamenti pubblici cosa che non bisogna dimenticare, si sono trovate di fronte a un bivio: o cercare di assolvere sino in fondo il loro ruolo di addomesticatori di una situazione sociale la quale, giorno dopo giorno, diventava sempre più esplosiva oppure farsi carico di questa. Farsi carico di questa, però, significava affrontare di petto alcuni nodi che chiaramente entravano direttamente in rotta di collisione con le politiche statali e cittadine nei confronti dei quartieri. Chi ha provato a farlo si è ritrovato con i fondi tagliati e con la quasi impossibilità di svolgere una qualche attività. Chi, per capirsi, si è del tutto integrato con la “linea dello stato” è stato foraggiato ma, in contemporanea, ha iniziato a essere odiato dentro i quartieri perché considerato, e con ampia ragione, come l’altra faccia della polizia. Durante la rivolta queste associazioni sono state attaccate e distrutte. Le poche associazioni non allineate sono semplicemente state scavalcate dagli eventi. La rivolta ha fatto tabula rasa un po’ di tutto di per sé, il fatto che vi siano solo macerie non è un male, bisogna vedere che cosa si sarà in grado di ricostruire.

Questa tabula rasa ha comportato anche l’azzeramento delle strutture islamiche?
Le uniche cose che sono rimaste in piedi delle realtà islamiche sono state le moschee, per il resto i petit non hanno fatto sconti a nessuno. Non sono state risparmiate le macellerie islamiche, le tabaccherie gestite da arabi o i negozi. Quelli che parlano di islamizzazione dei quartieri dicono solo cazzate. Per quello che ci è dato sapere molti Imam hanno cercato di fare da pacificatori ma nessuno è stato ad ascoltarli. Quella che si chiama , in giro c’è anche, è un discorso che appartiene prevalentemente alla vecchia destra, la reazione in atto è contro il proletariato non è di destra e borghese, questo è ciò che va compreso.

Grazie per averci fornito una lettura ben poco convenzionale di ciò che sta accadendo ora, però, torniamo a cosa succede adesso nei “quartieri”.Vi è una possibilità di interazione con questo settore proletario oppure tutto ciò che ha un qualche sapore di politico, dai petit, viene rifiutato a priori?
No, un rifiuto a priori non c’è, parlo almeno per quanto riguarda noi, però è anche vero che esiste una difficoltà enorme di comunicazione e di lettura della cornice diciamo culturale e esistenziale dei petit. Sicuramente rileviamo che gran parte di tutto il nostro armamentario politico e teorico con questi ha ben poco a che fare e che, quindi, occorre un grosso sforzo da parte di chi si ritiene avanguardia di ricalibrare la teoria comunista a partire da ciò che il movimento reale esprime. Su questo, però, occorre essere chiari per non finire in ciò che, di fatto, è l’intellettualismo del movimento. Qua non si tratta di sfornare analisi sociologiche o di fare delle interpretazioni più o meno fantasiose su ciò che accade, si tratta di stare dentro a ciò che il movimento reale esprime. In altre parole si tratta di andare sempre a scuola dalle masse e tenere sempre ben a mente che le masse del presente non possono mai essere uguali e neppure simili alle masse di ieri. Le masse, come noi tutti del resto, siamo il frutto di una realtà in perenne trasformazione. Il marxismo è un metodo non una verità assoluta e rivelata. Noi nei quartieri un po’ ci siamo, delle cose le stiamo facendo e sappiamo che dovremmo continuare, con pazienza, a percorrere questa strada. Solo l’internità alla classe può dare dei frutti, poi si vedrà.

Nel corso dell’intervista si è accennato alle donne di banlieue e come proprio contro di loro si sia riversato l’odio delle istituzioni in quanto considerate dirette responsabili dei comportamenti dei petit. Su questo aspetto riportiamo un sintetico ma molto significativo punto di vista di M.B., una giovane donna di banlieue, pugile agonista e attiva all’interno del Collectif boxe Massilia

Macron ha chiaramente tirato in ballo le famiglie e le donne di banlieue ree di non saper educare i figli. Di fronte a ciò il movimento femminista ha preso posizione?
Diciamo che su questo si è veramente toccato il fondo. Un attacco di questo tipo non si era mai visto, qua siamo veramente alla messa al bando di interi pezzi di società. In questo passaggio si consuma, sul piano formale, la stessa idea dell’esistenza della République. Questo attacco ci racconta di quanto sempre più la banlieue sia stata del tutto assimilata al modello dei ghetti americani. In questi sono le donne a vivere la condizione di maggiore oppressione e sfruttamento oltre a essere, quasi sempre, sole a gestire i figli. Su questo andrebbero dette e scritte una marea di cose, ma non è questo il momento. Ciò che va evidenziato è come di fronte a questo attacco specifico e mirato alle donne di banlieue il movimento femminista non abbia aperto bocca, A noi questo non stupisce perché da tempo ripetiamo che il movimento femminista è tutto interno allo stato e da questo è foraggiato. Il movimento femminista è un movimento borghese e non possiamo aspettarci certo da questo la nascita di strutture di autodifesa delle donne di banlieue. Ma le donne di banlieue non sono l’anello debole dei quartieri, semmai il contrario. Non è utopia pensare che proprio da loro possano prendere forme di organizzazione politica particolarmente avanzate. I presupposti, non solo oggettivi, ma soggettivi vi sono tutti e chi ha un qualche rapporto reale con questi mondi lo può facilmente constatare.

Chiusa questa prima parte abbiamo provato attraverso le parole di J. B., militante del Collectif Chomeurs Precaries e redattrice della rivista Revue Supernova, a dare uno sguardo sull’insieme di ciò che si sta muovendo in Francia dove, prima dell’esplosione dei “quartieri”, si era assistito a due grossi movimenti di massa, i gilet gialli e il movimento contro la riforma delle pensioni, per comprendere se e come questi movimenti hanno, in qualche modo interagito con il “popolo dei quartieri”. Infine abbiamo provato a capire in che modo le varie forze politiche hanno interagito con i petit focalizzando lo sguardo anche sui sommovimenti che la rivolta ha prodotto nel fronte borghese.

C’è stata una qualche interazione tra questa rivolta e i segmenti sociali che avevano dato vita al movimento dei “gilet gialli”
Come ben sai io vengo proprio da quella esperienza e ti ho spiegato anche i motivi per i quali, a un certo punto, l’ho abbandonata. D’altra parte quel movimento si è dissolto e oggi di esso non vi è alcuna traccia. Solo alcune delle persone con le quali ero in più in stretta relazione all’epoca dei gilet ha guardato con una qualche simpatia alla rivolta i più, però, mi sono sembrati contrari.

Eppure i gilet avevano mostrato una non secondaria radicalità e non sembravano particolarmente afflitti dal legalitarismo. Sicuramente non con i toni della rivolta attuale però, nel corso dei loro sabati, si era assistito a livelli di scontro di notevole spessore. Come mai, allora, questa distanza?
Mah, il problema è essenzialmente una questione di classe. Il movimento dei gilet era principalmente un movimento di settori sociali in via di proletarizzazione, di lavoratori autonomi in grave difficoltà e, cosa da non dimenticare, sviluppatosi in gran parte in quelle aree che vengono definite come “la Francia profonda”, ovvero molto poco cittadina. Era un movimento che esprimeva un grosso malessere sociale che aveva manifestato anche alcune punte di radicalizzazione, ma non era riuscito a darsi una chiara connotazione di classe tanto che non è mai riuscito a mettere in piedi uno sciopero. Quel movimento, alla fine, è andato per conto suo senza riuscire a collegarsi con altre realtà ma se ci pensi questa è la storia di tutti i movimenti che nell’ultimo periodo si sono espressi.

Questo mi porta inevitabilmente a chiederti se c’è stata una qualche interazione tra il “popolo della rivolta” e la composizione di classe scesa in piazza contro la riforma delle pensioni?
Direi proprio di no e la cosa non deve certo stupire. Si tratta di due ambiti completamente diversi che rimandano a postazioni e visioni del mondo ben difficilmente compatibili. Non esagero se dico che una parte di quelli che sono scesi in piazza per la riforma delle pensioni nei confronti della rivolta si sia posizionata sulla stessa lunghezza d’onda della polizia- Pensare che l’aristocrazia operaia possa inserirsi in massa dentro una prospettiva rivoluzionaria è pura follia, l’aristocrazia è parte dello stato e questo non da oggi. Storicamente l’aristocrazia operaia, nei momenti di crisi, si è sempre schierata, e anche in maniera attiva, con la borghesia. Ciò che mi riesce veramente difficile capire è come in tanti abbiano potuto prendere un simile abbaglio. Come ti ho detto ogni movimento è andato per conto suo, ma le cose sarebbero potute andare in altro modo? Io non credo. Siamo di fronte a una trasformazione complessiva delle condizioni di classe e ogni frazione di classe combatte a partire dal suo punto di vista. La borghesia in via di proletarizzazione non vuole diventare proletaria, l’aristocrazia operaia vuole rimanere tale e il nuovo proletariato combatte eroicamente contro tutto e tutti ma non ha un programma. Ma le cose vanno avanti e la piccola borghesia sarà proletarizzata e la aristocrazia operaia spazzata via e, a quel punto, se il proletariato sarà stato in grado di elaborare un programma, molte cose potrebbero cambiare. In tutto questo mi sembra importante dire che forse il principale problema che ci troviamo a affrontare è l’assenza di una idea–forza. Che cosa significa comunismo? Cosa significa rivoluzione? Cosa vuol dire dittatura operaia? In un passato ormai remoto a queste domande vi erano delle risposte, oggi palesemente no. Questa mi sembra essere la vera strettoia che dobbiamo affrontare. Diciamo che è chiaro contro cosa lottare, molto meno per che cosa. A me sembra molto significativo che, come abbiamo visto qua a Marsiglia, le merci siano state il principale obiettivo della rivolta. Al momento la merce è, chiamiamolo, il programma di questo proletariato il che non è né un bene, né un male ma un fatto. Da questo orizzonte, da questo immaginario occorre partire.

Quindi, è una domanda che ho già fatto ma vorrei tornarci sopra, tutti i discorsi sulla islamizzazione e via dicendo non hanno alcun senso?
Assolutamente. I petit erano interessati a portare via tutto, oltre che a scontrarsi con la polizia, erano quelle merci che a loro sono negate a mandarli all’attacco. Erano tutti quegli oggetti che potevano solo guardare da lontano a smuovere il loro immaginario, le merci erano e sono la loro idea–forza. Da lì, può piacere o meno, devi partire. In questo, però, devi leggere il rifiuto della povertà, il rifiuto di condurre una vita fatta di continue rinunce, di assenza di risorse, insomma il rifiuto all’essere operai e proletari. Qua, ed è qualcosa di completamente diverso da quel passato che ha caratterizzato per lo più il movimento comunista, vi è tutto tranne che l’orgoglio di essere operai e proletari, semmai ciò che si odia è proprio questa condizione. Prendersi le merci è sicuramente una cosa illusoria, ma appare il modo più semplice e immediato per emanciparsi dalla propria condizione. Come puoi capire in tutto questo l’Islam non c’entra niente. Semmai, ma questo è un altro discorso, in certi casi l’Islam può essere assunto in maniera simbolica in quanto antifrancese il che, come puoi capire, è ben diverso da una adesione a questo. Le realtà islamiche presenti nei quartieri hanno provato a svolgere un ruolo di pacificazione nel corso della rivolta, ma non sono stati minimamente ascoltate.

A questo punto vorrei chiederti che rapporto c’è stato, se è avvenuto, tra la frazione proletaria della rivolta e le varie anime del “movimento”?
Intanto diciamo che non c’è stato. Tutti hanno preso una posizione che andava dall’entusiasmo proprio delle aree autonome, anarchiche e maoiste, a quello di appoggio sì ma con dei distinguo delle varie anime trotskyste sino alla condanna propria degli eredi del PCF e dell’associazionismo sociale e pacifista. In linea di massima, però, non si è andati oltre a un atteggiamento da tifosi. Questo il vero problema della situazione. Non mi sto a ripetere sulla nostra, pur modesta, presenza dentro alcuni ambiti di questa composizione di classe, ne abbiamo già ripetutamente parlato ed è inutile tornarci sopra. Potrei dirti, a partire da ciò, che noi siamo stati dentro alla rivolta, ma direi una falsità. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo sta dando anche dei frutti ma ciò non toglie che, anche noi, siamo molto distanti da tutto ciò che è successo. Ora, come sempre accade in queste situazioni, si consumeranno fiumi di inchiostro, ognuno dirà la sua, ognuno si sentirà di essere il vero interprete della rivolta e tutto questo, ovviamente, sino alla prossima volta. Nel frattempo i quartieri continueranno a stare lì e il movimento a stare qua. Da questa situazione se ne esce solo in un modo: alzando il culo e andando a relazionarsi con la classe. Tutto il resto sono parole che lasciano il tempo che trovano. Potrei mettermi qua a fare le pulci a questo e quello ma non credo che sia questo il modo per affrontare la situazione. Ha senso mettersi a polemizzare che so con gli anarchici piuttosto che con i maoisti? Questo ipotetico dibattito sposta forse di una sola virgola la realtà dentro i quartieri e la sua composizione di classe? Se le domande che mi faccio sono queste allora il mio agire non può che assumere tutta un’altra dimensione. Devo partire dalla classe e non dal movimento. La discussione sul movimento e le sue prese di posizioni mi sembra solo una perdita di tempo. Invece, questo sembra essere l’ultimo dei problemi. I vari siti sono già inondati di articoli, saggi, analisi e chi più ne ha più ne metta ma di come relazionarsi a questa composizione di classe proprio non si parla. C’è la gara a chi fa l’analisi più raffinata, anche se non si capisce sulla base di che cosa, e tutto il resto viene messo tra parentesi. Avrai notato come noi e le realtà simili a noi con le quali stiamo cercando di costruire, a partire dal movimento dei precari e dei disoccupati, un rapporto organizzato con questo proletariato siamo stati i più cauti, quelli che hanno scritto di meno e questo perché, a differenza di altri, abbiamo cercato di capire di più.

Vorrei chiudere chiedendoti qual è stato il comportamento di La France Insoumise di fronte alla lotta dei banlieuesards?
Qualcuno ha sentito la sua voce? A parte la battuta no, La France Insoumise è completamente scomparsa, di lei non si è avuto alcuna traccia. Ma la vera domanda da porsi è: “Che cosa avrebbe potuto fare?” La France Insoumise è un cartello elettorale e basta. Un cartello elettorale, in un paese dove la maggioranza non vota, che pensa di essere ancora negli anni ’60 dove le politiche riformiste avevano un notevole spazio e la ricerca di un patto sociale tra le classi era anche nelle corde della borghesia. In una situazione in cui tutto tende a declinarsi dentro un conflitto politico–militare cosa può fare, che ruolo può avere una forza come La France Insoumise ? Palesemente nessuno. Poi, anche volendo, sulla base di cosa avrebbe potuto agire? Non ha strutture territoriali, non ha strutture di lotta, non ha Comitati di quartiere, La France Insoumise è una forza politica virtuale al pari di tutte le altre. Il suo distacco dal paese reale non è poi così diverso da quello di Macron. Il parlamento è un corpo vuoto e questo vale per tutte le forze politiche. Al proposito mi sembra indicativo il fatto che la controffensiva borghese non sia partita da qualche forza politica, ma che a dettare la linea della guerra civile sia stata la polizia. La stessa Le Pen si è accodata alla polizia, il che vuol dire ben qualcosa. Le classi si stanno organizzando, sicuramente questo è vero per il fronte borghese, attorno a corpi e strutture non riconducibili ai partiti politici i quali non hanno alcun legame, se non quello puramente elettoralistico, con la società. Questo è un mondo che, in qualche modo, aveva decretato la fine della società di massa dove, per società di massa, si intende la partecipazione attiva e organizzata delle classi sociali alla vita pubblica. Una convinzione che attraversa tutti gli schieramenti politici i quali, non per caso, non hanno alcuna articolazione di massa. Chiaramente questa è una illusione perché le masse, tutte le masse, finiscono sempre con l’entrare in gioco. Quando questo succede i partiti politici rimangono spiazzati. Qua non si tratta neppure più di tirare a mezzo il “cretinismo parlamentare”, non si tratta di questo, qua si tratta di prendere atto come le masse per affermare il loro protagonismo non possano fare altro che, nel caso della classe operaia e del proletariato, costruire i suoi organismi ex novo, mentre la borghesia fa leva su alcune strutture, come la polizia, le quali iniziano a assolvere un compito politico. La France Insoumise ha dimostrato di non essere altro che un fetido cadavere, fuori dal tempo e dalla storia.

Ma con tutta quell’area sociale che è stata l’anima del successo elettorale de La France Insoumise è possibile costruire delle relazioni in funzione della costruzione di organismi di massa?

Se consideriamo l’ossatura politica de La France Insoumise direi proprio di no. Politicamente questi sono il retaggio di tutte le cose peggiori della vecchia sinistra francese, il PCF e dintorni. Con loro non è possibile neppure parlare, figuriamoci ipotizzare dei percorsi organizzativi comuni. Se il discorso si sposta su quelli che hanno votato il movimento allora le cose possono anche cambiare ma è qualcosa che devi andare a verificare nella pratica, dentro a delle proposte e iniziative concrete, non si può rispondere in astratto. Tieni presente che la gran massa degli elettori de La France Insoumise è riconducibile a quel settore di classe che ha dato vita al movimento contro la riforma delle pensioni. Sui limiti e le contraddizioni di quel movimento mi sembra che abbiamo già discusso a sufficienza. Rispetto a questi ci potranno essere, per un verso, minimi spostamenti soggettivi, dei quali tra l’altro abbiamo già parlato, dall’altro, e si tratta della cosa più importante, degli spostamenti oggettivi ovvero quanta di quella composizione di classe si ritroverà sempre più alle condizioni del soggetto operaio e proletario che ha dato vita alla rivolta. Lo smembramento della aristocrazia operaia è uno dei progetti del governo Macron ed è un progetto che verrà realizzato, a partire da questo si potranno fare altri ragionamenti che però avranno una base materiale e non ideologica. La France Insoumise e tutto il suo ceto politico in tutto questo non possono avere alcun ruolo.

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Cronache marsigliesi /7: la guerra civile in Francia https://www.carmillaonline.com/2023/07/06/cronache-marsigliesi-7-la-guerra-civile-in-francia/ Thu, 06 Jul 2023 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78129 di Emilio Quadrelli

On s’engage ….et puis on voit (Napoleone Bonaparte)

Nel primo articolo su Marsiglia, Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia (Carmillaonline 26 marzo 2023), avevamo evidenziato l’elettricità che faceva da sfondo a questa città, un’elettricità che si respirava nell’aria e che sembrava sempre in procinto di dar fuoco alla metropoli. Avevamo atteso l’irrompere di tutto ciò nel corso delle lotte sulle pensioni, ma avevamo dovuto rilevare che tra quella frazione di classe, sostanzialmente l’aristocrazia operaia, scesa in piazza e la [...]]]> di Emilio Quadrelli

On s’engage ….et puis on voit (Napoleone Bonaparte)

Nel primo articolo su Marsiglia, Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia (Carmillaonline 26 marzo 2023), avevamo evidenziato l’elettricità che faceva da sfondo a questa città, un’elettricità che si respirava nell’aria e che sembrava sempre in procinto di dar fuoco alla metropoli. Avevamo atteso l’irrompere di tutto ciò nel corso delle lotte sulle pensioni, ma avevamo dovuto rilevare che tra quella frazione di classe, sostanzialmente l’aristocrazia operaia, scesa in piazza e la nuova composizione di classe operaia vi erano ben poche possibilità di cooperazione.

La cosa, in realtà, non deve stupire poiché solitamente tra il “mondo di ieri” e il “mondo nuovo” gli aspetti di rottura sono di gran lunga superiori ai possibili elementi di continuità e quanto accaduto negli ultimi giorni ne è stata una evidente conferma. La rabbia e la radicalità messa in campo dal soggetto proletario sceso in strada ben poco poteva avere a che fare con il clima da scampagnata che, nell’insieme, faceva da sfondo alle lotte contro la riforma delle pensioni. A conti fatti i due mondi non potevano incontrarsi e così è stato. Di ciò abbiamo parlato a lungo e non sembra il caso di tornarvi sopra. Semmai, ciò che va ancora una volta rilevato, è come il “mostro sacro” dell’unità di classe può sortire una qualche fascinazione solo tra chi della classe ha una conoscenza tanto astratta quanto libresca e risulti del tutto estraneo alla sua determinazione empirica. Quindi, senza fronzoli di troppo, proviamo a entrare dentro a ciò che, a tutti gli effetti, si mostra come il corposo incipit della guerra civile in Francia.

L’uccisione, una vera e propria esecuzione a freddo come senza ombra di dubbio testimonia il video che ha ripreso la scena dell’omicidio, di un giovane francese di origine algerina consumata a Nanterre il 27 giugno ha dato il la a sei giorni di rivolta la quale, secondo i più, ha reso le rivolte del 2005 e del 2006 poco più che allegre scorribande di scolaresche in festa per la fine dell’anno scolastico. Una affermazione che, chi scrive, fa fatica a metabolizzare visto che era stato presente a quelle rivolte e tutto gli erano sembrate tranne che l’esuberanza di boy scout con qualche birra di troppo in corpo. A bocce ferme, però, l’asserzione appare ben poco prossima all’esagerazione e la reazione dello stato tenderebbe a confermarlo appieno.

Tutto il nostro lavoro è incentrato su Marsiglia per cui, anche in questa occasione, focalizzeremo la nostra attenzione sulla città del Minstral in quanto non vorremmo venir meno al “tratto empirico” che ha contrassegnato tutti i nostri articoli. Per onestà intellettuale dobbiamo immediatamente dichiarare che le informazioni reperite sono di seconda mano poiché gli attori sociali che ci hanno accompagnato nelle puntate precedenti, in questo caso, non hanno avuto alcun ruolo centrale. La rivolta è stata interamente in mano, nonostante la non secondaria presenza di altre fasce di età, di ragazzi tra i 12 e i 20 anni i quali, solo in alcuni casi, possono vantare contaminazioni di natura politica, sindacale e sociale anche se è bene ricordare che tra i petit non sono poi così pochi coloro i quali hanno avuto un qualche ruolo attivo nelle lotte sociali interne ai quartieri. Una presenza giovanile che ha lasciato tra l’attonito e lo stupito i vari commentatori ma che, in realtà, non fa altro che registrare come le condizioni di classe, e in questo caso anche di “razza”, sedimenti approcci alla vita incommensurabili. Solo uno sguardo profondamente razziale può considerare quell’essere giovani per sempre, tipico dei “bimbi minchia” appartenenti al mondo bianco e garantito, una condizione universale. Ma torniamo a Marsiglia.

La prima cosa che va rilevata è come, a differenza che nel 2005 e nel 2006, anche Marsiglia sia scesa pesantemente in campo. Nelle rivolte precedenti Marsiglia era rimasta sostanzialmente in disparte per un motivo molto semplice: il controllo che le organizzazioni criminali erano in grado di esercitare nei confronti della popolazione dei “quartieri” si mostrava pressoché assoluto. Il crimine, come ben aveva evidenziato Foucault con buona pace dei cultori delle varie “corti dei miracoli”, non è che l’altra faccia della polizia il che, come non poche testimonianze sono lì a ricordare, è particolarmente evidente, e non solo a Marsiglia, osservando i ritmi della vita quotidiana dei “quartieri”. Il connubio tra polizia e spacciatori è un dato di fatto, un connubio che ha sullo sfondo tanto il business, nel quale sono entrambi cointeressati, quanto il mantenimento dell’ordine sociale e politico. Questa verità, che è evidente un po’ ovunque, a Marsiglia era, e in parte è, ancora più vera anche se, una qualche rottura vi è stata ed è una rottura non priva di significato della quale è opportuno dare conto poiché foriera di interessanti possibili sviluppi.

Da tempo una parte, neppure secondaria, del proletariato illegale è in rotta con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico nei quartieri. Per quanto strano di primo acchito la cosa possa sembrare, la rottura è avvenuta su basi “sindacali” Ciò che gli illegali lamentano è il tasso di sfruttamento, ossia bassissima remunerazione, che le organizzazioni esercitano nei confronti dei propri salariati, l’eccesso di rischio che il “lavoro” comporta, il dispotismo che caratterizza i “quadri intermedi” del comando criminale, le irrisorie garanzie fornite a chi viene imprigionato e infine, ma certamente non per ultimo, il costante sacrificio di quote di illegali alle forze dell’ordine.

Nello scambio costante tra crimine e polizia, infatti, è compresa una quantità di arresti che le organizzazioni garantiscono alle forze dell’ordine al fine di salvare la facciata dell’azione poliziesca nei “quartieri”. Molti illegali, quindi, tendono a abbandonare il lavoro di spaccio cercando altre vie di sostentamento mentre il loro posto viene preso da immigrati clandestini i quali ben difficilmente sono in grado di sottrarsi agli imperativi del “comando illegale”. In ambito illegale si assiste a un fenomeno del tutto identico a ciò che avviene nel mondo legale, i clandestini vanno a ricoprire i lavori più pericolosi e meno retribuiti.

Detto ciò resta il fatto che, a Marsiglia, i “quartieri” sono stati toccati abbastanza poco e che tutta la rabbia dei petit si è riversata nel centro cittadino. Ciò conferma quanto posto in evidenza negli articoli precedenti ovvero la necessità di intervenire su carcere e illegalità poiché questa condizione è propria di quote non irrilevanti di classe operaia e proletariato nei confronti dei quali, le organizzazioni criminali, svolgono un ruolo di controllo e di ricatto per nulla dissimile da quello che il padrone esercita nei confronti dei lavoratori precari. Lo scontro con lo stato non può che comportare lo scontro contro la criminalità poiché l’uno si regge sull’altro. É significativo il fatto che dai “quartieri” verso il centro cittadino si siano precipitati soprattutto i giovanissimi ovvero coloro che non sono stati ancora del tutto catturati dal ricatto che crimine e polizia mettono in atto nei “quartieri”. Certo questo è solo un dato ma che, a Marsiglia, apre una crepa non secondaria verso quel monolitismo totalizzante che poteri “legittimi” e “illegittimi” sembravano in grado di vantare.

Se, 18 anni fa, Marsiglia poteva essere mostrata come il fiore all’occhiello dell’interazione tra crimine e polizia tutto ciò oggi è in gran parte saltato e questa rottura ha posto problemi non solo, e non tanto, all’ordine pubblico ma ha comportato la messa in crisi il nuovo assetto sociale ed economico della città. Per molti versi, infatti, possiamo asserire che i sei giorni di scontri che hanno paralizzato il centro di Marsiglia possono essere considerati alla stregua di sei giornate di sciopero generale totale. Le ricadute economiche non sono state di certo inferiori a quelle politiche anzi, per molti versi, sono state anche più consistenti e non ci riferiamo ai saccheggi bensì al ciclo economico interamente fondato sul turismo. Una esagerazione? Non proprio se teniamo presente, come posto in evidenza negli articoli pregressi, quanto Marsiglia si sia repentinamente trasformata in città turistica e il peso che il turismo riveste per l’economia della città. Per sei giorni il centro turistico di Marsiglia è stato paralizzato e i turisti invitati a allontanarsi.

Di colpo quella sorta di valore aggiunto, Marsiglia la città pericolosa, che le agenzie turistiche sbandierano nei loro “pacchetti turistici” per attrarre un pubblico affamato di “colore” al quale, al contempo, garantiscono che questo “colore” è ben confinato e presidiato da una militarizzazione permanente, si è riversato proprio in quei non – luoghi dove croceristi di infimo ordine giocano alla “classe agiata”. Con ciò l’intero “pacchetto turistico” è venuto meno, le sbarre dello zoo sono state divelte e la fuga rapida e repentina è stata la sola via possibile per i turisti. Un enorme danno economico immediato con ricadute non secondarie sul futuro poiché nulla garantisce che quanto accaduto una volta, torni a ripetersi e, con ogni probabilità, in forma ancor più radicale.

Paradossalmente, dopo tanti libri e seminari sulla “gentrificazione” e la “turistizzazione” della città, i petit hanno portato in strada ciò che sembrava destinato a essere sepolto nelle biblioteche o in qualche angusta aula accademica del resto, nella battaglia, di professori e studenti universitari non si è avuto traccia il che, fatte le tare del caso, ci conduce a una consuetudine molto italiana, professori e studenti universitari riempiono le aule per i corsi e i seminari sulla Autonomia operaia ma non si vedono mai nei “picchetti operai” il che non fa che ricordarci come tutto il mondo sia paese.

Negli articoli precedenti avevamo individuato come la trasformazione di Marsiglia in città turistica fosse uno degli aspetti centrali dell’attuale ciclo di accumulazione e come proprio il proletariato dei “quartieri” incarnasse la forza lavoro sulla quale farlo prosperare. Bisogna riconoscere che, per quanto poco cosciente, l’azione dei petit è stata in grado di colpire il cuore del progetto politico ed economico. Non è tutto, ma è certamente qualcosa. In tutto ciò vi è un’altra particolarità che ha caratterizzato Marsiglia rispetto al resto della Francia, qua l’assalto alle merci è stato predominante.

I petit più che i simboli del potere hanno preso di mira la ricchezza. Ogni tipo di merce, dalle auto alle moto, dalle scarpe ai cellulari, dai vari brand alla moda senza tralasciare tabaccherie e supermercati è stato prima razziato e subito dopo venduto. Chi era presente agli espropri racconta di come, nelle vie immediatamente adiacenti agli esercizi commerciali presi di mira dai petit, venissero immediatamente allestiti dei “mercati” dove gli oggetti in eccedenza venivano subito monetizzati. Tutto ciò ci porta a affrontare una questione che colpevolmente abbiamo del tutto tralasciato nei nostri articoli, la “questione della merce”, un tema centrale della teoria marxiana che, e non da oggi, è stato costantemente ignorato.

Liquidato come “civetteria hegeliana” il paragrafo del Primo libro del Capitale a proposito del carattere di feticcio della merce è stato raramente oggetto di un qualche interesse poiché farlo avrebbe obbligato a una lettura del testo marxiano ben distante dallo “oggettivismo” e “scientismo” che ne ha caratterizzato lettura e divulgazione. Relegato a dotta nuance il paragrafo sulla merce se una qualche fortuna ha avuto lo deve a autori dichiaratamente apocrifi quali, per esempio, Benjamin, il giovane Lukács, la Scuola di Francoforte o alcuni ambiti della “critica ultra radicale” come il situazionismo. Eppure la merce incarna il regno del capitale nella sua totalità e sarebbe impensabile che il suo potere e il suo “fascino” lasciasse immuni proprio coloro che la merce producono.

Certo, la merce è alienazione ma l’alienazione è la cornice esistenziale all’interno della quale si dipanano le vite dei proletari, il legame contraddittorio con la merce non può che essere il frame totalizzante della vita proletaria. Non deve stupire, per tanto, che la bramosia per il possesso delle merci infiammi il desiderio proletario. Una storia che quanto andato in scena a Marsiglia ha ben poco di nuovo poiché, solo tenendo a mente la storia dei vari riots dell’era attuale, si presenta come una costante.

Ma tutto questo cosa ci racconta? Molto prosaicamente che il proletariato ha ben poco a che spartire con il “socialismo francescano” e che , in tutto ciò, il rapporto con la merce assume un ruolo centrale. Per molti versi occorre riconoscere che, al pari della religione e, almeno nei nostri mondi, in maniera ancora più dirompente la merce è , al contempo, tanto l’oppio dei popoli quanto il gemito degli oppressi. Solo tenendo a mente la relazione dialettica presente nella “forma merce”, come del resto Marx aveva ben spiegato, diventa possibile interagire con il proletariato poiché. come non è possibile sconfiggere il pensiero religioso facendo leva sul razionalismo illuminista, così non è possibile liberarsi del fascino delle Adidas attraverso dotti sermoni sull’alienazione.

Un secondo aspetto che sembra difficilmente contestabile è l’organizzazione della “forza” su base territoriale. I petit si muovono a partire dalla loro appartenenza territoriale, da quella “forma gang” che sembra essere la loro principale forma di aggregazione e socializzazione. Non siamo in grado di dire molto su ciò perciò, evitando di ricalcare le orme consuete dei sociologi la cui occupazione principale è discettare su ciò che non conoscono, ci limitiamo a rilevare come questa forma organizzativa, sul piano del confronto militare, sia stata in grado di porre letteralmente in crisi la polizia che non riusciva mai a entrare direttamente in contatto con gli autori delle azioni i quali, una volta portato a termine l’obiettivo prefissato, riuscivano facilmente a dileguarsi ponendo in atto il noto principio maoista di apparire all’improvviso per poi ripiegare velocemente.

Certo, è ben difficile che i petit conoscano Mao o le varie tecniche di guerriglia urbana o meglio non le hanno studiate ma le hanno apprese attraverso quella trasmissione di “sapere orale” presente nei “quartieri”. Appare esattamente qua quella “memoria delle lotte” che attraversa varie generazioni di petit e che sembra essere un elemento fondativo del loro “romanzo di formazione” . Un aspetto del tutto ignorato dalle scienze sociali con la sola eccezione dei lavori di Bugliari Goggia, Rosso banlieue e La santa canaglia, che sembrano essere tra i pochi, se non unici, lavori di ricerca in grado di raccontare qualcosa di sensato e reale sulle vite e le storie del “popolo dei quartieri”. Testi che mi permetto di consigliare a chi è interessato a una lettura “empirica” di questi mondi deprivata dall’insieme di “ismi” che, per lo più, accompagnano le “profonde riflessioni” sociologiche sui mondi della banlieue insieme a tutte le amenità che si portano appresso.

Sul territorio e il suo ruolo, non per caso, ci siamo soffermati in numerosi passaggi degli articoli precedenti all’interno dei quali evidenziavamo come, in virtù delle trasformazioni radicali avvenute all’interno delle relazioni industriali contemporanee, il territorio, più che il luogo di lavoro fosse in grado di assolvere al ruolo strategico di contenitore della “forza” operaia e proletaria. Quanto andato in scena in questi giorni ne rappresenta più di una conferma. Appare del tutto irrealistico pensare, cosa abituale in un passato ormai lontano, a decine di migliaia di operai che escono dalla fabbrica per marciare verso il centro cittadino o i quartieri della borghesia piuttosto a masse operaie e proletarie che dal “quartiere” si riversano su centri del consumo, della ricchezza e del potere. Quanto andato in scena, di ciò, ne è una prosaica conferma.

Veniamo infine alla “questione polizia” e militarizzazione del territorio. Su questo aspetto ci siamo a lungo soffermati negli articoli precedenti evidenziando come, per la “popolazione dei quartieri” la polizia e il suo fare dispotico, razzista e colonialista rappresentasse una questione di vita o di morte. La rivolta ha avuto la polizia, insieme alle merci, come obiettivo principale e il bilancio che i petit offrono, almeno ciò è quanto abbiamo appreso dai nostri corrispondenti, delle battaglie è quanto mai positivo. La polizia è stata sostanzialmente ridicolizzata e posta sotto scacco. I petit hanno letteralmente svuotato il centro e la polizia non è stata in grado di impedire neppure un esproprio. Con ogni probabilità, in tutto ciò, vi è sicuramente qualche enfasi di troppo ma indubbiamente, al momento, i petit hanno vinto la battaglia, che però, è ancora molto lunga ed è palese che la risposta dello stato non si farà attendere.

La guerra civile è iniziata e le sue avvisaglie sono ampiamente in atto. Di ciò il comunicato dei sindacati di polizia che riportiamo non lascia ombre di dubbio. Senza troppi rigiri di parole la polizia dichiara: “Questa è una guerra e noi siamo in guerra”. Ciò che si è visto nelle strade, del resto, lo conferma appieno. Avevamo notato come, in relazione al movimento sulle pensioni, la polizia operasse con “il freno a mano tirato” mentre, questa volta, non solo ha tolto il freno a mano ma abbia innestato, sin da subito, il turbo. La cosa non deve stupire poiché siamo “semplicemente” di fronte alla declinazione interna del frame bellico che fa da sfondo all’agire degli stati imperialisti contemporanei.

La Francia è un paese in guerra e non solo per il suo coinvolgimento nel conflitto ucraino bensì perché il suo esercito è impegnato in tutta una serie di conflitti, soprattutto in Africa. La guerra è la cifra del presente e, per forza di cose, alla guerra esterna fa da contraltare la guerra interna. La pacificazione a ogni costo, non a caso il governo ha preso seriamente in considerazione il passaggio allo “stato di eccezione”, è l’obiettivo dello stato. Su ciò non bisogna cullare mene democratiche, non solo lo stato utilizzerà appieno la forza, ma la stessa società francese si sta attrezzando per la controrivoluzione preventiva.

La discesa in campo delle “ronde fasciste” ha ben poco di nostalgico e folclorico ma incarna l’organizzazione militare dei civili che si stanno attrezzando per condurre la loro battaglia di classe. Le “ronde fasciste” sono una storia del presente poiché siamo a “classe contro classe”. Punto. Come si potrà facilmente capire, il comunicato dei sindacati di polizia che segue non ha bisogno di interpretazioni in quanto ha l’indubbio merito di una chiarezza e una progettualità cristallina. Soprattutto là dove si afferma:

Alliance Police Nationale e UNSA Police indignate per la stigmatizzazione di cui sono vittime gli agenti di polizia e le loro rappresentanze sindacali, responsabili e rappresentative, confermano che non accetteranno più calunnie e insulti da parte di certi rappresentanti del mondo politico che hanno cercato di deformare le affermazioni contenute nel comunicato del 30 giugno 2023.
L’affermazione «Noi siamo in guerra» costituisce un’immagine reale delle condizioni in cui si trovano ogni giorno i nostri colleghi sul campo. Siamo ormai posti di fronte ad una vera guerriglia urbana e non a semplici violenze urbane, motivo per cui i nostri colleghi fanno fronte ad un’autentica guerra urbana che intendiamo vincere.
Questa espressione è stata utilizzata in prima persona dal presidente Macron ai tempi del Covid, ma pochi allora si indignarono per il suo contenuto.
Quando le nostre organizzazioni evocano la resistenza intendono parlare di resistenza sindacale, di future battaglie sindacali, della resistenza di cui danno prova i nostri colleghi quando fronteggiano coloro che intendono seminare il caos. Caos voluto da coloro che intendono nuocere ai valori della nostra repubblica.
Alliance Police Nationale e UNSA Police continueranno la battaglia per difendere i valori della Repubblica, le istituzioni e per difendere gli agenti di polizia da tutti coloro che intendono annientarli.

Intorno a questo documento, come testimoniano le “ronde” ma forse ancor più l’oltre milione e mezzo di Euro raccolti in pochi giorni per sostenere il poliziotto killer, si vanno coagulando non le “forze della reazione” bensì il fronte di classe della borghesia. Non abbiamo parlato di guerra civile per dare aria ai denti, ma avendo chiaramente a mente come, quando il conflitto di classe raggiunge una certa soglia, è l’intera società borghese che si militarizza e la formazione di novelli “corpi franchi” risponde esattamente alle esigenze dello “stato di eccezione”. A Marsiglia, nel frattempo, si registra un morto, colpito al petto qualche sera fa da un “proiettile di gomma”, mentre un altro, sempre vittima della medesima arma, è in fin di vita.

Concludiamo questo nostro intervento riportando il testo prodotto dai militanti che sono stati i principali artefici degli “articoli marsigliesi”. Un testo che, chi scrive, condivide in gran parte perché convinto, come più volte asserito, che ciò che ci aspetta è una lotta di lunga durata e che solo una sintesi organizzativa capace di trasportare la soggettività di classe dentro l’azione della soggettività politica sia garanzia di successo. Sappiamo anche che, la prossima volta, sarà peggio su entrambi i lati della barricata. La guerra civile è iniziata e dentro questa “porta stretta” saremo obbligati a passare.

Per i giovani teppisti della lotta di classe

In questi giorni la Francia è attraversata da rivolte e saccheggi. La scintilla è stata l’uccisione di un giovane (17 anni, di origine algerina) da parte di un poliziotto (un ex militare). Questa morte ha scatenato un’ondata di mobilitazioni in tutte le principali città della Francia. Giovani, giovanissimi (tra i 10 e i 20 anni) sono scesi in strada. Si susseguono saccheggi, assalti di edifici pubblici e privati, distruzione di auto e veicoli della polizia. La rivolta ha costretto il governo a imprigionare il poliziotto che ha ucciso il ragazzo. È interessante notare che la polizia si lamenta della tecnica di guerriglia urbana utilizzata dai rivoltosi (piccoli gruppi che si muovono e non cercano di affrontare la polizia), che consente una maggiore “libertà di movimento” da parte dei rivoltosi. Ciò non ha impedito alla polizia di arrestare più di 3.000 persone. Sul piano politico, ciò che è accaduto è il risultato di una de-integrazione sociale in Francia e di una proletarizzazione più generale della società. Una tendenza che, secondo noi, si estende a tutta l’Europa. La particolarità francese è che ci troviamo in una zona in cui la dimensione di classe è intrecciata con la dimensione “razziale” legata alle logiche coloniali vecchie e nuove. I giovani che hanno partecipato alla rivolta e ai saccheggi erano per lo più giovani francesi di origine africana. Le risposte del governo sono state disordinate, superate dalla velocità con cui si sono svolte le manifestazioni, l’attacco di Macron contro le famiglie in Francia che non sorvegliano i loro figli è significativo…. . Non solo i giovani sono stati criminalizzati, ma anche i genitori sono stati accusati. È una confessione involontaria del governo sulla frattura sociale nella società francese. Quando la stessa istituzione borghese della famiglia è rimessa in discussione dal governo… Alcuni sindacati di polizia hanno chiamato alla guerra civile, sebbene queste proposte siano contestate dal governo, hanno evidenziato una tendenza interna alla polizia in Francia. Se l’esercito diventa sempre più una forza di polizia da inviare all’estero, la polizia diventa una forza militare per controllare e «conquistare» il territorio interno. Il governo e le diverse forze politiche hanno invocato la pace e il dialogo, usando un po’ di tutto, dalla squadra di calcio nazionale francese ai tifosi organizzati come quello dell’OM a Marsiglia… l’importante è il ritorno alla calma borghese. Il nostro ruolo come comunisti rivoluzionari, non deve essere quello di gridare, di utilizzare le vittime, ci sono già molte organizzazioni in Francia che lo fanno (riformisti e religiosi). Una rivolta è un fatto politico, ma manca ancora di “forza” se non c’è una frazione rivoluzionaria capace di utilizzare questa “forza” in relazione alla lotta di classe (scontro contro l’apparato di potere della borghesia). È dunque importante per noi rimettere al centro la questione dell’organizzazione, il ruolo della sintesi politica (del programma) e il radicamento reale di una frazione di comunisti in seno alla classe (classe vista come reale forza sociale, con tutte le sue differenze e contraddizioni interne). Che si traduce nel nostro ruolo e nella nostra partecipazione ai sindacati, comitati di quartiere, associazioni culturali e sportive, ecc… costruire e partecipare a forme concrete di organizzazione e di solidarietà proletaria. Difendere la legittimità di questa rivolta e le implicazioni politiche, comprendere le ragioni della vendetta di una parte della gioventù francese è indispensabile per coloro che si dichiarano comunisti. Le radicali fratture sociali sono processi inevitabili in una società che si basa sul profitto e lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. I saccheggi, le distruzioni, non sono il socialismo, ma il segno delle contraddizioni di questa vecchia società e del bisogno e dell’emergere di una nuova1.


  1. Redazione di «Supernova», rivista comunista 02 07 2023 revuesupernova.blogspot.com/  

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Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

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Cronache marsigliesi / 5: un bilancio. https://www.carmillaonline.com/2023/06/08/cronache-marsigliesi-5-un-bilancio/ Thu, 08 Jun 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77498 di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

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La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.

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Cronache marsigliesi / 4: l’alba verrà, provate a ripassare https://www.carmillaonline.com/2023/06/01/cronache-marsigliesi-4-lalba-verra-provate-a-ripassare/ Thu, 01 Jun 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77311 di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i [...]]]> di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i materiali raccolti nelle puntate di “Lotte organizzazione dei dannati di Marsiglia” che Carmilla ha ospitato.

Detto ciò, andiamo subito al sodo. Questa puntata ruota tutta intorno agli esiti dell’incontro nazionale, del 6 e 7 maggio, organizzato dalla rete marsigliese dei precari e dei disoccupati. Un incontro che se da un lato ha evidenziato la concreta possibilità della “messa in forma” di un’organizzazione complessiva della nuova composizione di classe, dall’altro ha altresì posto in luce la non linearità di questo passaggio. A partire da ciò abbiamo costruito l’articolo su due interviste che, a ragione, possono ben esemplificare il senso e i toni del dibattito in corso. Tagliando le cose un po’ con l’accetta possiamo dire che a delinearsi sono due ipotesi le quali, pur condividendo la medesima base analitica, tendono a optare per due ipotesi politiche non proprio identiche. In realtà, ma questa è l’opinione di chi scrive, più che in contrapposizione dovrebbero essere complementari anche se, a prescindere dal punto di vista dell’autore, occorre dare conto di dette differenze.

Per semplificare possiamo dire che da un lato vi è una visione molto più “partitica” e “ortodossa”, dall’altra una “movimentista” ed “eretica”. Cominciamo con l’ascoltare L. R. , infermiera precaria e avanguardia politica a tutto tondo della rete dei precari e dei disoccupati, la quale, nel dibattito in corso, incarna significativamente la tendenza maggiormente ortodossa. Per riprendere il filo del discorso siamo ripartiti da quanto andato in scena in Francia e le prospettive di quel movimento per calarci, subito dopo, sulle giornate del 6 e 7 maggio e le ipotesi che da queste sono scaturite.

Sono passati venticinque giorni dal Primo maggio e, a quanto pare, non sembra esservi più alcuna traccia di tutta quella mobilitazione che sembrava dover rovesciare Macron e il suo progetto. Voi siete stati sempre molto cauti sulle reali possibilità di questo movimento e i fatti sembrano darvi ragione. Molto sinteticamente puoi provare a fare un bilancio di tutto ciò?

Direi che si è avuta una conferma di ciò che noi, pur standoci dentro e cercando di far convergere nelle manifestazione anche quella fetta di classe operaia e proletariato rimasta in disparte, abbiamo detto sin da subito sulla natura di questo movimento. In piazza è scesa sostanzialmente l’aristocrazia operaia in difesa di una sua condizione. Questa lotta aveva almeno due limiti, da un lato non era in grado di parlare al resto della classe operaia e del proletariato, e diciamo anche che non ha provato a farlo, dall’altro non ha compreso minimamente la cornice nella quale si muoveva. L’attacco di Macron era un attacco tutto politico finalizzato ad azzerare le postazioni di forza e di potere che questi settori di classe erano, e in parte sono, in condizione di esercitare. La cornice non era quella dello scontro sindacale ma del conflitto politico, insomma una questione di potere. Ciò era, ed è, molto chiaro al governo ma non lo è stato per nulla per chi è sceso in piazza. L’idea, per spiegarsi, da parte di chi è sceso era un po’ questa: Ora gli facciamo vedere che siamo incazzati e questi fanno marcia indietro. Il governo, invece, è andato avanti e chiaramente, di fronte a ciò, si sarebbero dovute fare altre cose, bloccare, e non per un giorno, la Francia, si sarebbe dovuto generalizzare la lotta e prendere atto che si andava incontro a uno scontro di potere e quindi costruire degli organismi di potere in aperta rottura con lo stato. Che questi settori di classe potessero approdare a scelte simili era, però, del tutto improbabile. Questi settori di classe non sono anticapitalisti e non lo sono per natura quindi era, come si è dimostrato, del tutto improbabile che potessero arrivare a simili conclusioni. Diciamo che l’errore è stato un errore di fondo, non aver compreso che lo scenario politico è del tutto cambiato e che la borghesia imperialista non ha più alcuna intenzione di governare attraverso una perenne mediazione. La fermezza di Macron è stata quanto mai significativa. Con la riforma delle pensioni ha aperto una breccia enorme e a partire da questa sarà in grado di dilagare e, passo dopo passo, fare fuori tutta quella forza e rigidità operaia che è propria del mondo dei garantiti. Si diceva: Non diventeremo come l’Italia, ma il progetto di Macron è proprio quello di modellare la Francia sull’Italia. Al momento sembra riuscirvi. L’azzeramento della aristocrazia operaia, o di un suo corposo ridimensionamento, è un processo oggettivo dell’attuale sistema capitalista. I tempi di questa destrutturazione non sono certi anche perché molto dipenderà dalle lotte di resistenza che verranno messe in campo ma, questo mi sembra essere il dato obiettivo, la linea del comando è chiara.

Processo, quindi, irreversibile? Dentro questo movimento non si sono avuti segnali che le cose potrebbero andare in altro modo? Insomma i giochi sono fatti?

Non necessariamente. Qualche rottura, non di grandi dimensioni, ma significativa c’è stata. Qua a Marsiglia un gruppo di ferrovieri ha bloccato, nonostante l’opposizione della CGT, la stazione. Questo gruppo ha iniziato a relazionarsi con noi e a discutere il passaggio dentro un’altra struttura sindacale che noi abbiamo individuato nel SUD dove siamo riusciti a costruire un nostro solido gruppo tra i precari della sanità, degli educatori sociali e della ristorazione. Questo, quello della ristorazione, è stato un passaggio molto importante perché, come dirò più avanti, ha posto le premesse per l’organizzazione di un settore di classe che a Marsiglia è molto ampio. Oltre ai ferrovieri vi è anche un gruppo di postali che, nel corso di questa lotta, ha rotto con la CGT e ha iniziato a parlare con noi, non per fare la rivoluzione, sia chiaro, ma per trovare una struttura dove poter difendere la propria condizione. Quello che è successo a Marsiglia è successo anche altrove, Lione tanto per dire ma anche a Lille e pur Parigi anche se di Parigi non ne sappiamo molto, dobbiamo però tenere presente che, al momento, si tratta di rotture di gruppi di avanguardie non ancora in grado di tirarsi dietro la gran massa interna alla CGT. La cosa che non bisogna fare è crearsi delle facili illusioni ma avere la consapevolezza che ciò che dobbiamo svolgere è una attività il cui scenario è la lotta di lunga durata senza illuderci che di colpo vi siano delle spallate o almeno delle spallate in grado di incrinare il potere imperialista. Se pensi a cosa sono state la banlieues nel 2005 e nel 2006 e cosa, in concreto, ne è uscito fuori diventa evidente che senza organizzazione e progettualità politica anche le più radicali insorgenze di massa sono destinate al fallimento. Quindi ciò che oggi va privilegiato è un costante processo di lotta e organizzazione finalizzato a costruire quadri politici a tutti gli effetti. Un altro aspetto che occorre tener presente è la prossima scadenza di settembre. Con le pensioni il governo ha inserito un cuneo che proverà a utilizzare, un fronte dietro l’altro. Il prossimo passaggio, una riforma della sanità all’italiana per capirsi, è già in programma per settembre. Lì potrebbero prodursi fratture anche più consistenti, vedremo.

La tua descrizione appare convincente e i fatti, per di più, sembrano confermarlo. A fronte di ciò, tuttavia, rimane irrisolta la “linea di condotta” del resto della classe operaia e del proletariato non garantiti. Questi non sono entrati in gioco ma non hanno neppure mostrato di avere una qualche progettualità alternativa. Come si risolve questo impasse?

Il cuore della questione è, come ti ho accennato, l’assenza di un progetto politico in grado di unificare le lotte e i comportamenti di questi settori di classe. Sotto questo aspetto possiamo prendere Marsiglia come vero e proprio paradigma. Questa città, insieme a tutte le sue piccole città satelliti, incarna completamente la realtà di classe contemporanea. Una realtà che vede sempre meno una classe operaia strutturata e un dilagare di forme di esistenza proletaria che oscillano tra le varie tipologie di precariato, alla condizione di disoccupato senza trascurare le quote di proletariato che entrano continuamente nei circuiti illegali. Questa è la fotografia di Marsiglia che, secondo noi, rappresenta, sicuramente non da sola, il destino delle masse proletarie francesi. Marsiglia non è una città facile tanto che, come certificano un po’ tutti i documenti polizieschi, è considerata una città estremamente pericolosa. Su questo è importante dire qualcosa poiché, la svolta propriamente turistica di Marsiglia, ha comportato processi di militarizzazione del territorio non proprio irrilevanti. Apro questa parentesi perché mi sembra molto significativa. Marsiglia ha sempre avuto questo primato di città pericolosa in Europa anche se qualcuno, sicuramente esagerando, la colloca tra le aree urbane più insicure del mondo. Ciò che è sicuramente vero è che questa città è attraversata da una tensione costante con periodiche esplosioni di rabbia. Rabbia sicuramente impolitica insieme a tutto un insieme di comportamenti illegali che la rendono sicuramente molto poco rassicurante soprattutto se, a differenza del passato, il turismo diventa una delle principali voci economiche della città. Qua si aprono una serie di questioni. Mi accorgo che non sto seguendo il filo della tua domanda. Vorrei dilungarmi su questo perché ha molto a che vedere con ciò che noi facciamo o almeno ci proviamo. Ok?

Sicuramente sì, quello che dici mi pare di estremo interesse, quindi affrontare il tema della militarizzazione, ma non da meno quello di Marsiglia città turistica, mi pare essenziale per comprendere dei passaggi che non sono sicuramente locali. Io vivo a Genova e qua siamo del tutto immersi in uno scenario simile.

Bene. Intanto cominciamo con il dire che cosa significa città turistica e a quale tipo di turismo si fa riferimento. Un certo tipo di turismo di élite vi è sempre stato e questo, per forza di cose, è sempre stato racchiuso in determinati perimetri. Se guardi, la stessa zona centrale di Marsiglia, mi riferisco all’area del Vieux – Port, è sempre stata una zona un po’ a sé che poco o nulla aveva a che spartire con il resto della città. Basta pensare che la zona di Noailles, considerata una zona particolarmente insicura e abitata principalmente da algerini e comoriani, è praticamente a ridosso del Vieux – Port. Questo turismo interagiva poco o nulla con la città. Aveva e ha i suoi locali, i suoi yacht, i suoi alberghi di lusso, gli appartamenti da film e le sue ville. Accanto a questo c’era un turismo diciamo di nicchia, persone attratte da Marsiglia le quali arrivavano intenzionate magari a rimanervi. A questi, volendo, possiamo aggiungervi i francesi poveri, soprattutto di Parigi, che venivano al mare a Marsiglia appoggiandosi ai parenti di qua. Questo turismo, sotto tutti i suoi aspetti, incideva molto poco sulla vita della città. Mi pare abbastanza indicativo ricordare che, un po’ da sempre, in estate Marsiglia, per il suo clima, diventa la meta di molti senza fissa dimora. Vedere persone accampate per le vie della città è abbastanza normale e questo non in qualche luogo fuori dalla vista, ma nel centro stesso della città. Chi, nella bella stagione, arriva a Marsiglia con il treno o il bus e scende per la scalinata di Saint – Charles si ritroverà nel viale adiacente dove incontrerà non pochi accampamenti. Non sto scherzando. Vi sono interi nuclei familiari che, di fatto, vi abitano. Sotto questo aspetto Marsiglia è sempre stata una città molto tollerante nonostante le sue amministrazioni di destra. Questo clima sta ormai decisamente cambiando e la causa è il turismo di massa. Turismo di massa vuol dire trasformare il più possibile la città in una vetrina omologata agli standard propri del turismo di massa. Questo, tra l’altro, comporta due cose. Da una parte rimodellare, sotto il profilo urbano e architettonica, la città su quello che è pensato come modello globale della città ovvero far perdere l’identità storica di una città al fine di renderla simile a tutte le altre; dall’altro inventare e costruire luoghi caratteristici, come nel caso del quartiere Le Panier, del tutto inventati e completamente estranei alla sua storia. A differenza del turismo di élite, che non ama sicuramente dilatarsi ma, al contrario, mira a essere del tutto esclusivo quello di massa deve continuamente espandersi. Questo vuol dire che sempre più aree della città devono essere messe a valore, la militarizzazione del territorio soggiace esattamente a questo passaggio che va colto come passaggio tutto interno al ciclo della produzione. La sicurezza non è un totem fascista ma parte integrante di questo ciclo economico. Se, in tendenza, tutta o gran parte della città deve diventare una meta turistica, la messa in sicurezza del territorio è il presupposto dell’organizzazione capitalista della e sulla città. Se oggi, chi dorme per strada, non è oggetto di scandalo perché non sono i turisti che attraversano quelle strade domani, che è già oggi, lo diventa. Messa in sicurezza del territorio da un lato, ma anche disciplinamento della popolazione e della forza lavoro dall’altro. Questo è l’altro aspetto che il turismo di massa si porta appresso. Militarizzazione significa spingere sempre più a nord coloro i quali sono individuati come classi pericolose ma anche essere un potente deterrente per quella forza lavoro impiegata nel turismo alla quale è negata ogni visibilità politica e sociale a partire, e non è proprio cosa da poco, alla libertà di organizzarsi sindacalmente. L’abbiamo presa un po’ alla lontana ma siamo tornati al nostro tema, il problema dell’organizzazione politica di questi enormi settori operai e proletari. Molti affrontano la questione della militarizzazione come aspetto puramente repressivo e non colgono il nesso ciclo economico – repressione. Lo stato non attua la militarizzazione perché ha l’ansia della repressione, ma militarizza perché questa è funzionale a un determinato tipo di economia. Qua a Marsiglia le amministrazioni di destra avevano determinate forme di tolleranza che l’attuale di sinistra non ha. Questo cosa vuol dire che la destra è tollerante e la sinistra no? La trasformazione di Marsiglia in città turistica obbliga, dal punto di vista del comando, a determinati passaggi e questi passaggi diventano di fatto obbligati per chi è chiamato a gestire la trasformazione.

Stiamo andando oltre il nostro spazio per cui torno su quello che, almeno inizialmente, mi ero prefisso di chiederti. Nel precedente articolo mi avevate parlato di questo incontro nazionale con un insieme di realtà con le quali condividevate molti aspetti. Questo incontro si è svolto il 6 e il 7 maggio. Puoi farmene, per quanto difficile, un resoconto esauriente e sintetico?

Ci provo. Prima, però, vorrei aggiungere una cosa che mi sembra rilevante. Non so se in Italia avete idea di ciò che sta succedendo a Mayotte, che è un dipartimento francese d’Oltremare delle isole Comore. Lì è in corso un conflitto piuttosto duro tra la popolazione e la frazione di comoriani legati alla Francia. A Marsiglia vi è una grossa fetta di comoriani. Questi vivono, per lo più, nella zona di Noailles che è anche una delle zone più povere e considerate insicure di Marsiglia e il conflitto a Mayotte li ha messi in movimento facendo emergere tutta una memoria anticoloniale e antimperialista. Con alcuni di questi, che ovviamente sono per lo più disoccupati e illegali, siamo entrati in contatto e la cosa, oltre a permetterci di entrare dentro Noailles come forza politica e sindacale ci ha rinforzata la convinzione di quanto importante sia un discorso politico sull’imperialismo. Ora provo a rispondere alla tua domanda. Questo incontro ha visto la presenza di compagni provenienti da una quindicina di città. Le realtà più significative sono quelle di Lione, Lille, Grenoble e Saint Etienne perché sono quelle con un maggior radicamento dentro le realtà sociali. In queste quattro città, infatti, sono presenti dei comitati popolari di quartiere che svolgono attività del tutto simili quelle che stiamo portando avanti noi qua a Marsiglia. Non sto a ripeterti delle cose che, in gran parte, ti sono state dette nel corso degli articoli che hai scritto. Diciamo che, grosso modo, per quanto riguarda l’analisi della composizione di classe, la fase politica che stiamo vivendo e così via abbiamo riscontrato punti di vista sostanzialmente comuni. Ci sembrava, e questa è stata la nostra proposta politica, che una delle principali carenze che riscontriamo è l’assenza di una dimensione politica. Mi spiego. Manca una analisi complessiva sulla fase imperialista contemporanea, un discorso chiaro sulla guerra e la Nato, sulla militarizzazione dei territori, sulla questione femminile. Manca una teoria politica senza la quale pensiamo impossibile costruire organizzazione. Allora il primo passaggio che ci siamo dati è fare una rivista che assolva a questo compito. Un giornale non è sicuramente tutto, ma è lo strumento indispensabile per costruire organizzazione. Questo è quanto principalmente è uscito fuori dalla riunione del 6 e 7 maggio. Ora si tratta di andare a una verifica di tutto ciò.

Il punto di vista ascoltato non è il solo emerso nel corso della riunione. Qualcosa di diverso, anche se non apertamente contrastante, emerge attraverso le parole di S. D. una attivista già protagonista nel corso delle Corrispondenze precedenti. S. D., pur condividendo pressoché in toto le argomentazioni analitiche esposte da L. R., sembra propendere per uno sviluppo organizzativo abbastanza diverso. Le sue argomentazioni ci appaiono particolarmente utili, nonché interessanti, poiché, come si ricorderà S. D., sta svolgendo un ruolo importante nell’occupazione abitativa nel Terzo. Le sue sono le parole di “una avanguardia di lotta” la quale, forse più di altri, è in grado di comprendere le varie sfaccettature che fanno da sfondo alla vita delle masse. Il suo essere “empirico” sembra essere ben distante da un empirismo incapace di cogliere la complessità ma, al contrario, proprio in virtù di questo empirismo appare in grado di calarsi per intero dentro la classe, coglierne gli umori e le immancabili contraddizioni così come, proprio grazie a questo empirismo, pone in evidenza quanta importanza abbiano gli immaginari, le culture e le sub culture per le masse subalterne. Se, come noto, non di solo pane vive l’uomo i “punti di vista” dei subalterni vanno colti, interpretati e fatti propri. Questo, del resto, non è una novità. Se pensiamo all’Italia e al peso che, negli anni ’60, hanno avuto le “culture underground” nel definire una certa idea della rivoluzione, nella quale l’antiautoritarismo era diventato il collante unitario di tutto ciò che si apprestava a mettere radicalmente in discussione gli assetti sociali (il che aveva ben poco a che vedere con la tradizione del movimento operaio), diventa non solo ovvio, ma persino banale, tenere presente il punto di vista di S. D. Non ce ne vogliano i comunisti ad hoc ma è indubbio che per una intera generazione operaia i Rolling Stones siano stati molto più importanti di Stalin e i Teddy Boys dei Soviet. Perché oggi dovrebbe essere diverso? Perché oggi lo sfondo culturale o sub culturale che dir si voglia dei subalterni dovrebbe essere ignorato? Pur con tutte le sue contraddizioni, delle quali non è possibile rendere conto nel contesto, la generazione che negli anni ’70, in Italia. ha portato l’assalto al cielo è sicuramente rintracciabile più dentro Parco Lambro che nelle anguste sedi dei vari partitini comunisti già pronti a farsi nuova polizia. Sulla scia di questi presupposti ascoltiamo S. D.

Ciao, a quanto ho capito tu hai una visione delle cose che non coincide esattamente con quanto abbiamo appena sentito. In che cosa tu e non solo ti differenzi?

Allora, intanto faccio una premessa, da un punto di vista dell’analisi concordo interamente con quanto detto da L. R. per cui non starò a ripetere cose già dette. Veniamo invece alle cose sulle quali mi ritrovo meno. L’idea di una rivista, un giornale quello che è va sicuramente bene, ma è sul taglio che ho dei dubbi. Dubbi che finiscono con l’avere a che fare sulla nostra pratica. Ecco la prima cosa che non vorrei fare è un giornale dei e per i comunisti. Di cosa ce ne facciamo? Lo leggiamo tra di noi? Serve al movimento di massa? Non credo. Certo mettere dei punti fermi è importante , non è che si può andare avanti senza avere un’idea il più chiara possibile su dove siamo, cosa succede complessivamente e via dicendo questo è sicuramente un aspetto fondamentale ma non possiamo privilegiare questo aspetto perché così veniamo a perdere la dimensione reale delle masse. Così si finisce con il parlare una lingua che rimane estranea insomma a me sembra che così si finisca con il partire da noi per arrivare a noi e questo sicuramente non va bene. Certo, in questo modo, diventa tutto più facile ma questa scorciatoia che effetti ha? Come si relazione con il movimento reale? Quanto è in grado di raccogliere ciò che, sicuramente in maniera estremamente contraddittoria, proviene dalle masse? La compagna ha parlato delle ipotesi teoriche del giornale/rivista mentre io mi focalizzerei maggiormente sull’iniziativa che stiamo costruendo dentro al Terzo, ovvero aprire una sala boxe anche dentro a quel quartiere. Se siamo arrivati a questo punto, e credo che il bilancio di ciò che abbiamo fatto sia estremamente positivo, è perché siamo partiti dalla classe e abbiamo sempre avuto la classe, nella sua concretezza e non come astrazione, come punto di riferimento. Ecco, per certi versi, mi sembra che corriamo il rischio di rincorrere l’astrazione dimenticandoci della dimensione concreta la quale, come abbiamo visto anche di recente, non è per nulla facile. Sarò un po’ minimalista, ma ciò che maggiormente mi ha convinto della riunione che abbiamo fatto il 6 e il 7 maggio è il collegamento con i comitati popolari di quartiere, i collettivi operai di Saint – Etienne e Lione. Credo che è a partire da queste realtà che diventa possibile costruire organizzazione perché è dentro a queste situazioni che è possibile avere costantemente il polso della classe e interagire positivamente con questa.

Vorrei portare l’intervista su due aspetti. Il primo è perché e in quale prospettiva state cercando di aprire una sala boxe nel Terzo? Il secondo riguarda i problemi , che hai brevemente accennato, che riguardano la complessità e anche la difficoltà che comporta stare costantemente dentro la concretezza della classe.

L’apertura della sala boxe nel Terzo indica la riuscita che l’occupazione abitativa che stiamo portando avanti in cooperazione con gli abitanti del quartiere sta dando dei risultati che vanno di gran lunga oltre le aspettative che potevamo immaginare. Il Terzo, come un po’ tutti sanno, è un quartiere difficile e complicato dove non vi era alcuna presenza politica e sociale. Per molti versi possiamo dire che il Terzo rappresenta l’esclusione tra l’esclusione. Oggi possiamo dire che lì è in atto una sperimentazione politica e organizzativa che potrebbe trasformare questo luogo considerato un po’ da tutti come il quartiere reietto in quartiere di avanguardia. Oggi, a Marsiglia, il Terzo può essere considerato, almeno dal punto di vista territoriale, il punto più avanzato del conflitto sociale. Ciò dimostra come sia necessario andare tra gli strati più profondi della popolazione e per farlo occorre, per prima cosa, essere in grado di ascoltare ciò che da quegli strati proviene. L’apertura della sala boxe è un passaggio che abbiamo discusso dentro al Comitato di quartiere a partire dal fatto che il poter disporre di uno spazio sociale e sportivo è una necessità politica del quartiere e infatti avrà la connotazione di Casa del popolo e non semplicemente quella di Collectif Boxe Massilia. Il fatto che questa richiesta sia stata portata avanti da non poche donne mi pare decisamente importante e qua vorrei aprire una parentesi. Noi stiamo riscontrando un notevole successo tra le donne proletarie. Questo è vero nel Terzo e un po’ ovunque. Questo significa che vi sono tutti i presupposti per costruire una rete femminista operaia e proletaria in aperta opposizione al discorso del femminismo borghese. Uno dei punti centrali di questa organizzazione dovrà essere l’autodifesa e il rifiuto della delega di se stesse agli apparati statali. Sotto questo aspetto alcune indicazioni che provengono dalle esperienze delle donne curde mi sembrano decisamente importanti. Con questo voglio dire che dobbiamo essere in grado di recepire tutto ciò che proviene sia dalla classe, sia dalle esperienze rivoluzionarie del presente. Anche il Black Panther Party quando è sorto era visto come una specie di eresia mentre oggi, tutti e proprio tutti, lo considerano un’icona non dissimile dal partito di Lenin il quale, dal canto suo, ai suoi tempi non è che fosse considerato uno proprio in linea.

Mi hai parlato di contraddizioni e problemi che avete incontrato nel lavoro di massa i quali sono stati oggetto di notevoli discussioni.

Ti parlo di un solo episodio perché mi sembra che sia quello che ha portato al pettine tutta una serie di nodi. Mi riferisco al meeting di boxe, Ladies Boxing Perf’ Marseille che abbiamo organizzato nei Quartieri Nord. Lì sono emerse una serie di contraddizioni non proprio da poco. Il primo è stata la questione del velo. Alcune volevano combattere con il velo. Questo la Federazione non lo consente e quindi è successo un casino. Inutile che stia a entrare nei dettagli della giornata, ciò che importa è come ci rapportiamo alla questione del velo perché è una cosa che, ovviamente, non ci ritroviamo solo nella boxe. Molte ragazze giovani indossano il velo, questo è un fatto. Il velo, poi si può discutere sino a domani su questo, è una forma di identità anticoloniale e antistatuale che le giovani donne, almeno alcune, utilizzano. Possiamo liquidare questa prassi come arcaicità, come aspetto reazionario o addirittura come un comportamento filo-fondamentalista o dobbiamo vederla in un altro modo, ma se optiamo per questo non è che possiamo risolverla con una bella lezione di marxismo. A Marsiglia l’islamismo non ha preso molto ma un po’ ha preso e lo ha fatto perché noi, dico noi comunisti, non siamo in grado di affrontare la questione in profondità e finiamo, anche senza volerlo, con l’approdare nell’islamofobia. Ovviamente dentro il Collectif questo ha aperto un dibattito che non è ancora risolto.
Il secondo casino che è emerso è stato causato dalla sessualizzazione, chiamiamola così, che soprattutto le pugili lesbiche hanno impresso ai combattimenti. In poche parole, così come alcune donne musulmane hanno voluto rimarcare attraverso il velo la loro identità, le pugili lesbiche hanno voluto rimarcare il loro essere lesbiche in un contesto prevalentemente omofobo. E qua un altro bel casino. Certo, ed è la cosa più facile da dire, si può intervenire dicendo: “Questo è un incontro di boxe e tutto il resto non c’entra”, lo si può dire, ma la cosa chiaramente non funziona. Così come il velo è un modo, discutibile sin che si vuole, è un modo per contrastare una discriminazione, ostentare determinati comportamenti sessuali è un modo per rifiutare il ghetto. Ultima cosa lo scontro tra gang. Al meeting erano chiaramente presenti gran parte delle gang e evitare il peggio non è stata certo una passeggiata. Velo, omosessualità, gang possiamo ignorarli avendo per ciascuno di questi aspetti una bella formuletta che risolve tutto, ma così rinunciamo a quote non irrilevanti di classe oppure entriamo in relazione dialettica con questi aspetti. Per farlo devi stare con continuità e costanza dentro le situazioni e con questo torno e chiudo con l’esperienza che stiamo maturando nel Terzo. Non è che lì tutte queste cose non esistano, non è che lì abbiamo trovato la classe fatta a nostra immagine e somiglianza, semplicemente abbiamo cercato di comprendere, interagire, far emergere delle contraddizioni e soprattutto abbiamo posto in atto dei percorsi di lotta perché dentro la lotta le cose si modificano. Questo è ciò che continueremo a fare.

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Cronache marsigliesi / 3: a che punto è la notte? https://www.carmillaonline.com/2023/05/07/cronache-marsigliesi-3-a-che-punto-e-la-notte/ Sun, 07 May 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77138 di Emilio Quadrelli

Eppur si muove! B. Brecht , Vita di Galileo

Ci siamo lasciati il 30 aprile in attesa del Primo maggio, al fine di verificare che cosa avesse in serbo la situazione francese. Nei due precedenti articoli avevamo evidenziato come non fosse proprio tutto oro ciò che brillava insieme alla quantità di ombre e abbagli che le pur non secondarie luci provenienti dalla Francia finivano per celare. Il Primo maggio è passato e, a sto punto, diventa forse possibile iniziare a trarre un primo, per quanto provvisorio, [...]]]> di Emilio Quadrelli

Eppur si muove! B. Brecht , Vita di Galileo

Ci siamo lasciati il 30 aprile in attesa del Primo maggio, al fine di verificare che cosa avesse in serbo la situazione francese. Nei due precedenti articoli avevamo evidenziato come non fosse proprio tutto oro ciò che brillava insieme alla quantità di ombre e abbagli che le pur non secondarie luci provenienti dalla Francia finivano per celare. Il Primo maggio è passato e, a sto punto, diventa forse possibile iniziare a trarre un primo, per quanto provvisorio, bilancio sul movimento francese. Lo facciamo attraverso le parole di M. L., un uomo del Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille il quale è sicuramente una delle figure politiche maggiormente significative del Collectif e quella di S. D., del Collectif Boxe Marseilles ma attiva, soprattutto, nel lavoro territoriale la quale, almeno a parere di chi scrive, incarna al meglio quella figura della “avanguardia di lotta” fuoriuscita direttamente dalle esperienze del conflitto proletario. Le interviste possono essere considerate come significative esemplificazioni sia dello “astratto” e del “concreto” sia del “generale” e del “particolare”. Per questi motivi è sembrato più utile e funzionale farle interagire alternandole. Detto ciò partiamo con la prima domanda a M.L.

Per prima cosa vorrei chiederti un giudizio complessivo, quindi tenendo conto di quanto accaduto in tutta la Francia, della giornata del Primo maggio, Parto da qua perché le immagini e i filmati di Parigi ma anche di Lione, in Italia, hanno dato addito a non pochi entusiasmi tanto che, in non pochi casi, si è parlato apertamente di rivolta generalizzata. Questo giudizio, da Marsiglia e dalla Francia, è condivisibile?

No, nella maniera più assoluta. Il Primo maggio francese del 2023 è stato pressoché identico ai normali primi maggi francesi anzi, per molti versi, vi è stato anche un arretramento. Ora provo a spiegarmi. Ci sono stati i soliti scontri con la polizia, le solite vetrine infrante e qualche incendio di auto, una o due a Lione non molte di più. Questa è una cosa che in Francia rientra, e da tempo, in qualcosa che è diventato un rituale. Se prendi i filmati degli altri anni ti accorgerai che sono praticamente sovrapponibili. Dopo poche ore era tutto finito e quindi parlare di rivolta generalizzata mi pare veramente fuori luogo. Mi sembra che siamo completamente dentro alla logica dell’evento e dello spettacolo nello spettacolo. In Francia ci sono gruppi e aree, anche consistenti, che hanno fatto dell’estetica del conflitto il loro orizzonte. In ogni circostanza il problema diventa fare gli scontri, attaccare simbolicamente qualche simulacro del potere per ottenere il massimo effetto mediatico. Queste cose, alle quali noi siamo ormai abituati da anni, lasciano comunque il tempo che trovano perché hanno ben poco a che vedere con la costruzione della forza operaia e proletaria. Del resto questo è un problema che loro neanche si pongono. Il loro agire non è rivolto alla costruzione effettiva di una forza politico – militare operaia e proletaria perché, alla fine, la classe non gli interessa del resto, non per caso, si definiscono ribelli piuttosto che rivoluzionari. Rivolta generalizzata? Il 2 maggio tutta la Francia era al lavoro, ci vuole molta fantasia per chiamare tutto questo rivolta generalizzata. Rendetevi conto, in Italia, che siamo del tutto dentro al mondo del simbolico, un mondo che è proprio del potere e che ha finito con il contaminare anche gran parte del movimento. Se vogliamo, queste cose, almeno come senso non sono molto diverse da quello che si è visto andare in scena in parlamento. L’opposizione si è alzata in piedi a cantare la Marsigliese peccato che si sia guardata bene dal marciare verso Versailles, prendere la Bastiglia e tagliare la testa al re. Mi sembra che Macron non solo goda di ottima salute ma sia anche saldamente in sella. Poi certo c’è anche tutta una parte del movimento che è contro la violenza per principio e che aspira a farsi nuova polizia. Di questi non mi sembra neppure il caso di parlare. Quindi chiudiamo qui la leggenda della e sulla rivolta.

Mi dicevi che, secondo te, vi è stato addirittura un arretramento, perché?

Il fatto che il corteo di Parigi sia stato aperto insieme da CGT e CFDT (Confédération française démocratique du travail)1, è molto significativo. Anche su questo, da quello che leggo, in Italia sono in molti a prendere un abbaglio colossale. Questa esaltazione della CGT, contrapposta alla CGIL, non si può sentire. Ciò a cui punta la CGT è diventare come la visto molto bene nell’ultimo congresso . L’obiettivo, al di là di qualche frase di circostanza, era asfaltare la sinistra e estromettere tutti quei compagni che, sfruttando il vuoto di quadri intermedi che si era prodotto, avevano utilizzato le strutture della CGT per portare avanti pratiche e discorsi che con la linea ufficiale della CGT non c’entravano nulla. Anche noi, quelli che adesso hanno messo in piedi l’organizzazione dei precari, dei disoccupati, delle donne proletarie e le diverse reti interni ai quartieriCGIL e l’abbraccio alla CFDT, sotto questo aspetto, dice tanto. Questo, per chi magari poteva avere ancora dei dubbi, lo si è, per un certo periodo abbiamo sfruttato l’opportunità che nella CGT si era creata ma è stata una esperienza durata solo qualche mese. Sino a quando ci siamo limitati al lavoro sociale, cioè la sala boxe e poco più, abbiamo potuto usufruire dei loro spazi, infatti il Collectif boxe era in una sede della CGT, ma quando abbiamo iniziato a fare un lavoro più politico e sindacale, organizzando appunto i precari e i disoccupati oppure abbiamo iniziato a porre alcune questioni sui quartieri, non ultimo il problema della e con la polizia, siamo arrivati ai ferri corti e per essere del tutto chiari, alle mani. Tra noi e loro non è finita con una espulsione ma con una rissa dove oltre che ai pugni sono volate le sedie e i tavoli. Quello che è successo con noi, in questi giorni, è successo un po’ ovunque. La sinistra è stata fatta fuori e il riallineamento intorno alla CFDT è il dato che emerge. In qualche modo diventa evidente come la CGT intenda accettare il dialogo proposto da Macron il quale, con ogni probabilità, concederà qualcosa ma non certo sulle pensioni e tutto in qualche modo potrà rientrare. D’altra parte credo che sia un passaggio abbastanza obbligato perché vi è una sproporzione enorme tra, chiamiamolo, il “piano di Macron” e le possibilità di risposte che i settori di classe colpiti sono in grado di dare.

In che senso? La cosa non mi è chiara?

Inutile tornare su cosa già dette. Questa lotta è una lotta di un determinato settore operaio e proletario che possiamo definire garantito o aristocrazia operaia. Per sua natura, questo settore di classe, è del tutto interno al modello capitalista anche se, la sua condizione, se la è conquistata dentro lotte e battaglie anche dure ma senza oltrepassare mai un certo limite. La linea di confine di questo settore di classe è ed era la legalità. Per legalità intendo che non si è mai posto il problema del conflitto con lo stato il che non vuol dire che, in termini diciamo sindacali, non abbiano espresso lotte anche molto dure. Però questo è un limite che cozza non poco con ciò che ha in grembo, per semplificare, Macron. Macron vuole azzerare e polverizzare tutte le posizioni di forza e di rendita di questo segmento di classe e, come ha ampiamente mostrato, è disposto a giocare in maniera particolarmente dura. È evidente che la risposta dovrebbe essere di pari livello, ma è proprio qua che nascono i problemi. Può un segmento di classe come questo, che tra l’altro si percepisce come ceto medio, portare lo scontro al livello di Macron? Dovrebbe utilizzare forme, mezzi e strumenti che non stanno assolutamente nella sua ottica. Certo, ed è una cosa importante, anche all’interno di questi settori si vanno delineando alcune piccole fratture le quali, però, al momento non sembrano in grado di contrastare sul serio la gran massa scesa nelle piazze. Tornando al Primo maggio è abbastanza facile osservare come la stragrande maggioranza sia scesa in piazza come se andasse a una festa, una sfilata non certo a innescare una rivolta.

Quindi, a tuo avviso, il settore operaio e proletario strategico è esattamente quello che voi state organizzando?

Sì e anche su questo occorre essere chiari. Molti ci accusano di avere una sorta di innamoramento verso quello che loro chiamano sottoproletariato non capendo che, quello che loro chiamano sottoproletariato facendosi vanto delle categorie marxiste, in realtà è il nuovo proletariato ed è questa condizione proletaria che il comando capitalista tende a generalizzare. Il sottoproletariato ha sempre rappresentato i residui dei processi di modernizzazione tanto che, al suo interno, sono finiti con il confluire sia pezzi di classi sociali stritolate dai salti organici del capitale, sia comparti operai superati dalla composizione tecnica del capitale ma tutto questo cosa c’entra con la condizione del nuovo soggetto operaio e proletario? Questo soggetto è il frutto più avanzato del modello capitalista non certo un residuo del passato. Sotto questo aspetto anche la tradizionale categoria marxista di “esercito industriale di riserva” va svecchiata. La condizione di disoccupato, oggi, ha ben poco di momentaneo e transitorio, ma è una condizione permanente per almeno due buoni motivi: da una parte vi è sicuramente una parte di classe operaia definitivamente espulsa dalla produzione ma la maggior parte dei disoccupati sono, in realtà, lavoratori che alternano costantemente lavoro e non lavoro a seconda delle esigenze del ciclo economico. Ti faccio un esempio molto concreto. Marsiglia sta diventando sempre più una città turistica. Qua apro una parentesi che mi sembra importante. Questo fenomeno non è solo di Marsiglia ma è abbastanza generalizzato. In Italia questa è una cosa che dovreste conoscere molto bene. Tu sei di Genova, una città che conosco abbastanza bene, e avrai ben chiaro quanto il turismo giochi un ruolo centrale nell’economia della città. Il turismo funziona a ondate e quindi è normale che attragga forza lavoro in maniera diversa a secondo dei periodi. In più, il turismo, presuppone una forza lavoro con scarsissima professionalità, continuamente intercambiabile e a costi moto bassi. Diventa evidente, allora, come questo ciclo produttivo impieghi forza lavoro che oscilla costantemente tra lavoro e non lavoro la cui occupazione inteso come luogo fisico, tra l’altro, muta in continuazione. Il ragionamento mi pare semplice. Questa condizione che troviamo nel turismo è in gran parte analoga a quella che possiamo trovare nell’edilizia ma anche tra i metalmeccanici. Noi, come Collectif, abbiamo compagni inseriti in questi ambiti e anche loro attraversano continuamente la condizione di lavoro e non lavoro. Dopo questa breve descrizione torniamo al Primo maggio e a tutto ciò che si sta muovendo in Francia. Torniamo, soprattutto, a quello che per semplificare abbiamo definito come “progetto Macron”. Non ci vuole molto a capire, anche se i più non sembrano in grado di farlo, che Macron vuole allineare la condizione di tutti quei settori di classe garantiti a quella del nuovo proletariato. L’iniziativa sulle pensioni è il cuneo attraverso il quale questo progetto può dilagare. Una volta infranto il tabù il processo andrà avanti e lo farà, questo è molto chiaro, attraverso la costante contrattazione con la CGT. Probabilmente prima che tutto ciò diventi una vera e propria valanga ci vorrà un po’ di tempo, lotte e resistenze ve ne saranno, ma il percorso è tracciato.

Questo vuol dire che la vittoria del “piano Macron” è scontata?

No, per niente tutto però dipenderà da chi, in termini di settore di classe, sarà in grado di prendere in mano la lotta e esercitare egemonia sull’intero corpo di classe. Questa, poi, non è una grossa novità e, almeno per voi italiani dovrebbe essere decisamente scontato. Se l’Italia, almeno per un periodo, è stata la punta più avanzata della rivoluzione in Europa lo ha dovuto al fatto che determinati settori operai sono stati in grado di esercitare egemonia e direzione politica su tutto il corpo di classe. Se il movimento rimane in mano ai settori garantiti Macron non avrà grosse difficoltà a portare a casa il risultato se, al contrario, quella che possiamo chiamare la nuova composizione di classe riuscirà a imporre il suo punto di vista le cose potrebbero cambiare ma, anche su questo, occorre cautela perché questa classe, diciamolo, è abbastanza un casino.

Proprio su quest’ultima affermazione che fa intravvedere come il lavoro all’interno della nuova composizione di classe sia tutto tranne che una passeggiata, lasciamo momentaneamente da parte M. L., per ascoltare S. D. la quale, attualmente, è particolarmente attiva nelle occupazioni abitative del Terzo.

A te vorrei chiedere che tipo di mobilitazione vi è stata nel Terzo a proposito del Primo maggio e quanto il lavoro organizzativo che state svolgendo nel quartiere ha avuto delle risposte tra gli abitanti ?

Molto realisticamente diciamo che vi è stata una risposta a metà, sicuramente delle luci ma anche molte ombre. In piazza abbiamo portato un buon numero di persone, se tieni a mente che questo settore di classe è rimato sempre quasi del tutto estraneo a questo tipo di manifestazioni e, ed è la cosa che a mio avviso risulta più importante, il numero delle donne scese in piazza è stato considerevole. Ovviamente tenuto conto dell’invisibilità abituale a cui queste donne sono costrette. Potremmo anche cantare vittoria, ma farlo sarebbe stupido. Nel Terzo, come sai, abbiamo in piedi questa occupazione che sta dando sicuramente dei buoni frutti e intorno a questa si è costruita una realtà militante importante. L’occupazione è gestita e difesa dagli abitanti in prima persona ed è diventata un momento di socializzazione e punto di riferimento costante della vita del quartiere. Possiamo anche dire che, grazie alla occupazione, nel quartiere vi è vita politica. Ma questo è solo un lato della questione. In realtà, e qua si capisce la difficoltà reale che c’è a costruire un movimento politico dei precari, dei disoccupati e io non mi farei problemi nel dire anche degli illegali, siamo riusciti a portare in piazza neppure la metà di coloro che, invece, stanno attivamente nell’occupazione e, pur con modalità diverse, partecipano all’attività del Collectif. Questo perché, per loro, queste manifestazioni rimangono estranee, non fanno parte della loro storia, della loro vita e non ne capiscono il senso. Ma è anche vero che, nella lotta, le cose si trasformano ma, questo mi sembra il punto centrale, si trasformano e prendono delle pieghe che non devono per forza di cose seguire vecchi percorsi. Siamo di fronte all’emergere di un nuovo proletariato il quale, per forza di cose, avrà modelli, schemi e immaginari diversi dal passato. Questo è ciò che dobbiamo capire. In fondo si tratta di andare sempre a scuola dalle masse. Poi, ti ripeto, possiamo cogliere anche delle cose molto positive, soprattutto a partire dalla presenza importante delle donne.

Vorrei approfondire due aspetti delle cose che hai detto. Partiamo con gli illegali. Che tipo di intervento è possibile ipotizzare nei loro confronti?

Partiamo da una considerazione che serve per comprendere meglio la situazione. Quando parliamo di illegalità parliamo di una situazione la quale, a parte piccole quote, non è stabile. Potrebbe far ridere, ma anche l’illegalità ha la sua precarietà. La maggior parte degli illegali lo è temporaneamente e per il resto tira avanti con lavoretti, spesso in nero. Sono molti, per esempio, i manovali dell’edilizia che stanno in questa condizione. È anche vero che, in molti casi, a prevalere è l’illegalità sul resto ma questo non è un buon motivo per ignorarli anche perché, il farlo, vorrebbe dire tagliare fuori non proprio una piccola fetta di questo proletariato e, per di più, lasciarlo in mano a strutture criminali organizzate che rappresentano esattamente l’altra faccia del potere statale. I rapporti tra polizia e organizzazioni criminali, del resto, non è certo una novità. Nei confronti di queste situazioni molte realtà, mi riferisco in particolare ai compagni che operano nella banlieue parigina con i quali ho un certo rapporto e confronto, hanno cercato, sicuramente in piena buona fede, con un’ottica chiamiamola da assistenti sociali. Hanno formato collettivi sociali, cercando finanziamenti pubblici, al fine di trovare un modo per legarsi ai petit, sono loro quelli maggiormente interni ai mondi illegali, ma non hanno avuto alcun successo. Il motivo è anche semplice, alla fine, dopo tanti bei discorsi l’unica cosa che potevano offrire ai petit era una qualche forma di lavoro precario e sotto pagato. Esattamente la realtà che avevano abitualmente. Non è un caso, quindi, che i petit, per lo più, continuino per la loro strada. I petit continuano a fare gli illegali, a scontrarsi con i flic, a finire in carcere e spesso a morire o per mano delle BAC (Brigade anti-criminalité, create nel 1994) o per dei regolamenti di conti tra loro. Questo approccio, quindi, non funziona e neppure può funzionare poiché, la condizione dei petit, non è una anomalia ma il modello attraverso il quale il capitale governa sulla forza lavoro. Il problema non è trovare delle soluzioni compatibili con questo modello socio – economico, ma lottarvi contro. Lottare contro vuol dire organizzare delle lotte in grado di garantire, sia in forma diretta che indiretta, il salario. Casa e bollette, ne sono una semplice ma significativa esemplificazione ma anche imporre l’abbassamento dei prezzi per quanto riguarda cibo e vestiti rappresentano un ulteriore passaggio. Queste sono le cose che, sin da subito, è possibile organizzare dentro i quartieri. Dopo di che, ovviamente, esiste la questione del salario diretto e della fine della condizione precaria. Questi sono gli elementi unificanti per la gente dei quartieri. Questo il terreno sul quale dobbiamo muoverci, perché solo con e nella lotta possiamo costruire un’organizzazione operaia e proletaria che faccia ottenere dei risultati. Con questo torno un attimo sul Primo maggio. È normale che a questo proletariato che è figlio diretto delle mutazioni radicali del presente, queste ricorrenze dicano poco a questi interessa cosa e quanto una azione, una partecipazione può modificare le loro condizioni, le sfilate commemorative dicono poco. Occorre sempre dare delle prospettive, delle ipotesi, degli obiettivi. Ci sarebbero ancora centinaia di cose da dire ma voglio solo focalizzarmi sulla questione del carcere. Il carcere, non possiamo nascondercelo, è un luogo normale per questo proletariato e lì noi siamo del tutto assenti, lasciando ampiamente spazio al fondamentalismo il quale, invece, dentro le carceri lavora costantemente. A noi, rispetto al carcere, manca una attività come quella delle Black Panther o delle organizzazioni nate dalle lotte nelle carceri italiane negli anni Settanta.

Veniamo alle donne. Mi sembra che questo sia un ambito che offra, a fronte delle indubbie difficoltà, notevoli prospettive. Me ne parli?

Più che volentieri. Nei quartieri le donne sono, per strano che possa sembrare, il vero anello forte. Mentre la popolazione maschile è più prossima alla disgregazione le donne sono quelle che mantengono, o almeno ci provano, i legami familiari e di gruppo. Sono anche quelle che più lavorano e che, proprio in quanto donne e, nel nostro caso, di donne arabe soffrono maggiormente i vari tipi di discriminazione. Questo fa sì che siano proprio loro a svolgere il ruolo di avanguardie di massa e che mostrano di avere più fame di politica oltre a mostrare di saper ragionare in termini politici e organizzativi. Mentre gli uomini vedono tutto e solo in termini di scontro le donne ragionano sull’accumulo di forza, sulla necessità di costruire delle basi solide e durature senza affidarsi agli entusiasmi del momento. Mi sembra importante sottolineare come queste donne proletarie siano del tutto estranee ai discorsi dei vari femminismi che, nei quartieri, non hanno alcuna presa anche perché questi femminismi puzzano di République e loro sanno benissimo quanto la République le sia nemica. Quindi, non è un caso che, proprio sulle donne stiamo concentrando un grosso sforzo organizzativo e politico non solo come ambiti territoriali ma anche come organizzazione dei precari e dei disoccupati.

Sulla scia di quanto ascoltato torniamo a parlare con M. L. Il “concreto” ha messo sul campo non poche questioni che occorre provare a affrontare.

Hai sentito S. D. che ha posto una serie di questioni importanti. In che maniera, come Collectif, ipotizzate di affrontarli?

Cercherò di essere il più sintetico possibile anche se, sulla base delle cose che hai sentito, sarebbe necessario uno spazio maggiore. Bene, veniamo al dunque. La prima cosa che dobbiamo chiarire è che andiamo incontro a una lotta di lunga durata ed è questa lotta che occorre saper organizzare tenendo a mente che la lotta di lunga durata nella metropoli imperialista attuale ha caratteristiche che non possono essere riprese dalle esperienze del passato. Sotto questo aspetto il maoismo è utile, ma sicuramente non riproducibile. Dire questo è però importante perché fa piazza pulita di tutte quelle ipotesi diciamo insurrezionali che vanno sempre alla ricerca di una qualche spallata decisiva. Queste spallate non ci sono e non ci saranno potranno esserci sicuramente dei momenti di altissimo conflitto ma pensare che su quello, e solo su quello, lo stato e il comando crollino è pura illusione. Dobbiamo pensare, quindi, a una lotta di lunga durata dove la forza organizzata operaia e proletaria esercita il suo potere in contrapposizione al potere borghese e statale. Per capirci e pur con tutte le tare del caso possiamo forse parlare di qualcosa di simile al modello irlandese. Quindi centrale è l’organizzazione, ma di quale organizzazione parliamo? Ci sono due modi di concepire l’organizzazione il primo, ed è quello con cui solitamente abbiamo a che fare, mette insieme un gruppo di militanti i quali, seduti intorno a un tavolo e dopo aver formulato tutta una serie di analisi, dicono: Ecco l’organizzazione. Insomma l’ennesimo piccolo gruppo compatto che scimmiotta Lenin. Di queste organizzazioni ne nascono almeno tre al giorno, ma nessuno se ne accorge. L’altro modo di costruire l’organizzazione è quello che non parte dal tavolino ma dalle lotte. È dalla prassi delle masse che diventa possibile costruire organizzazione. Molti diranno che questo è spontaneismo ma, a noi, questo sembra il solo modo per fare interamente nostra la dialettica di Marx, prassi, teoria, prassi. Con ciò, ed è evidente, non sminuiamo il ruolo dei comunisti e dell’avanguardia politica ma questo ruolo ha senso, e funziona perché questo alla fine è ciò che conta, solo se in costante relazione con ciò che la classe esprime. A partire da ciò stiamo cercando di fare un salto tanto politico, quanto organizzativo. Sabato 6 maggio abbiamo organizzato qua a Marsiglia un incontro con una serie di realtà che, in diverse parti della Francia, si stanno muovendo su un percorso simile al nostro. Non pensiamo, e neppure lo vogliamo, uscire da questo incontro dichiarando al mondo: ecco l’Organizzazione, ma costruire dei legami che ci consentano, nell’immediato, di costruire delle campagne di mobilitazione unitarie. Sicuramente il fronte delle donne e anche quello del carcere rientra fortemente nei nostri orizzonti ma, di tutto questo, spero di potertene parlare con più precisione in futuro. Abbiamo lavorato molto per costruire questo momento e vediamo che cosa siamo in grado di raccogliere.

Chiudiamo così questa “Corrispondenza”. Sono troppe le cose sulle quali, in base a ciò che abbiamo ascoltato, occorrerebbe soffermarsi e riflettere. Ci auguriamo di farlo al più presto.


  1. La Confédération française démocratique du travail, o CFDT (in italiano: Confederazione francese democratica del lavoro) è uno dei più grandi sindacati nazionali francesi. Conta il maggior numero di iscritti, e alle elezioni sindacali è secondo dietro alla Confédération générale du travail (CGT).  

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