M. Night Shyamalan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il pipistrello e il predestinato, l’eroe attore e spettatore https://www.carmillaonline.com/2017/02/16/il-pipistrello-e-il-predestinato-leroe-attore-e-spettatore/ Thu, 16 Feb 2017 22:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36312 di Mazzino Montinari

batman-the-dark-knight-rises-theme-06-700x437Riflettere sull’eroe all’interno della più ampia questione dello spettatore e dell’attore, significa indagare sulla nostra doppia condizione di individui: da un lato, come attori, siamo continuamente coinvolti nell’agire quotidiano, in un’incessante dinamica che non permette di risalire al senso dell’esistenza in comune con gli altri; dall’altro, come spettatori, proprio per risalire a quel senso, avvertiamo la necessità di un distacco per osservare dove e con chi siamo. Queste due figure che dimorano presso di noi, sono in grado di comunicare e di riconoscersi? E possono abitare nella stessa persona? Sollecitati [...]]]> di Mazzino Montinari

batman-the-dark-knight-rises-theme-06-700x437Riflettere sull’eroe all’interno della più ampia questione dello spettatore e dell’attore, significa indagare sulla nostra doppia condizione di individui: da un lato, come attori, siamo continuamente coinvolti nell’agire quotidiano, in un’incessante dinamica che non permette di risalire al senso dell’esistenza in comune con gli altri; dall’altro, come spettatori, proprio per risalire a quel senso, avvertiamo la necessità di un distacco per osservare dove e con chi siamo. Queste due figure che dimorano presso di noi, sono in grado di comunicare e di riconoscersi? E possono abitare nella stessa persona?
Sollecitati da queste domande prendiamo in considerazione due film con protagonisti supereroi: uno più noto e raccontato in una storia dai toni cupi; l’altro invece immaginato nel momento della sua presa di coscienza.

Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan
Batman e il Joker, l’uno opposto all’altro, sono “eroi” che agiscono e che, al tempo stesso, comprendono il mondo a distanza. Si perdono entrambi nel caos provocato anche dal loro agire e, però, riescono ad allontanarsi per osservare, per comprendere ciò che accade, per risalire di volta in volta, mai definitivamente, il senso di quel mondo.
Sia Batman che il Joker hanno uno sguardo sul mondo e non agiscono per un interesse strettamente personale ma per uno collettivo, il primo a difesa della città, il secondo invece per distruggerla. Questa specularità non è fine a se stessa, non è semplicemente tesa a teorizzare l’identità dei poli opposti, ma sta a indicare che nel mondo delle vicende umane non esiste uno sguardo giusto in quanto tale. Ossia, non è prendendo le distanze e osservando fuori dagli interessi personali che si percorre automaticamente la retta via. L’attore e lo spettatore vivono nello stesso mondo e hanno a che fare con la contingenza e la fragilità connaturata all’esistere.
Sia Batman che il Joker, nonostante questa capacità di sguardo, non riescono a essere “cittadini del mondo”, cioè non possono stare ovunque, forse non hanno proprio alcun diritto di residenza. E se per il Joker questo è abbastanza comprensibile, dal momento che il suo obiettivo è dar fuoco alla città, per Batman è meno giustificabile, almeno in apparenza. Il cavaliere oscuro da questo punto di vista è un film radicalmente pessimista. Non c’è spazio per gli eroi, non c’è ricompensa per chi sa dove guardare. Nel mondo degli affari umani, e Gotham ne è una rappresentazione, nessuno è fuori dalla contesa e può porsi al di sopra degli altri, nemmeno chi ha una visione chiara delle cose, perché è con la pluralità dei punti di vista che ci si deve inevitabilmente confrontare.
La congiunzione di attore e spettatore poteva trovare nell’uomo pipistrello la sua realizzazione, ma le cose sono andate storte, Batman è costretto al sacrificio, a farsi da parte per consegnare alla collettività un’altra figura di eroe, quella del martire, del procuratore Harvey Dent, che non vede e non agisce più, che da morto non è più sottoposto alla fragilità degli accadimenti umani, alle debolezze che in vita lo avevano portato a stretto contatto col male. È lui, l’esempio da seguire, l’eroe designato, almeno fino al giorno in cui qualcuno non deciderà di ridisegnarne il profilo. Ma fino a quel momento e forse anche oltre, Batman, nell’invisibilità dell’esilio per essersi assunto delle colpe non sue, non sarà più d’esempio per gli altri.
Il Joker nella sua mostruosità a volto scoperto, invece, porta alla luce l’inconsistenza del mondo fondato sulla ricchezza e le vane ambizioni di dominio. E anche se alla fine sembra essere stato sconfitto, in realtà è riuscito a incendiare la città e quindi a interpretare la radicalità del caos.

Unbreakable – Il predestinato (Unbreakable, 2000) di M. Night Shyamalan
È il 1961 a Philadelphia, un bambino afroamericano è appena nato. C’è un problema però, le sue gambe e braccia sono rotte, fratture procurate prima ancora di uscire dal grembo materno. Un dottore lo visita e dichiara di non aver mai visto una cosa simile.
Ai giorni nostri, sempre a Philadelphia, un uomo è su un treno. Ha un momento d’inquietudine apparentemente immotivata. Il treno ha un incidente, muoiono tutti tranne lui che esce illeso senza un graffio. Ancora un dottore che non può fare altro che ammettere di non aver mai visto una cosa simile.
Il bambino è cresciuto. Elijah Price è l’uomo di “vetro” a causa delle sue ossa che si rompono al minimo contatto con la realtà circostante. Elijah cerca di capire quale sia il suo ruolo nel mondo. È diventato un esperto di fumetti e di supereroi. Non si accontenta di fantasticare, quello che legge vuole trovarlo nella vita. David Dunn, il sopravvissuto, è invece una guardia in uno stadio di football, rassegnato a una vita modesta, e anche per questo in crisi con se stesso, con la moglie e il figlio.
Unbreakable permette uno sguardo originale sul tema del supereroe. Alla questione del rapporto tra attore e spettatore, relazione che nel corso della storia si trasforma in modo significativo, si aggiunge quello della domanda intorno alla propria destinazione, al ruolo da interpretare. E in questo processo di formazione, Elijah, il fragile, è il mentore che sta all’esatto opposto di David, l’indistruttibile. È l’uomo di vetro a far scoprire a David quello che da sempre era senza che ne fosse a conoscenza, un eroe dotato di superpoteri.
Fino a questo punto sembra chiaro che Elijah è lo spettatore e David l’attore. Uno pare essere consapevole della realtà circostante, delle minacce e dei miracoli che si annidano nel mondo, l’altro si muove alla cieca insieme a una moglie che ha paura di perderlo e che interpreta l’incidente del treno come una seconda opportunità per la loro relazione, e a un figlio che invece vorrebbe tanto credere alla figura del padre come supereroe. Poi accade qualcosa e tutto si ribalta.
David acquista consapevolezza dei suoi poteri. Non solo con la sua forza può proteggere le future vittime, riesce a percepire il destino di chi tocca accidentalmente. Anche lui ha la sua kryptonite, il suo tallone d’Achille è l’acqua. Non è più un semplice attore inserito in una trama che non comprende. Ora può essere d’esempio per gli altri e soprattutto è in grado di osservare il mondo.
E come tutte le storie di supereroi, anche questa ha il “cattivo” per eccellenza. Si manifesta alla fine ed è Elijah che rivela il suo ruolo di attore e non di osservatore imparziale. È lui ad aver provocato gli incidenti al treno e in precedenza l’esplosione di un aereo e l’incendio di un hotel, al solo scopo di scoprire l’esistenza di un supereroe. E alla fine trovandolo si pone definitivamente agli antipodi di David.
«Sai qual è la cosa più spaventosa? – rivela Elijah -. Non sapere qual è il tuo posto nel mondo. Non sapere perché sei qui. È una sensazione terribile. Quasi non ci speravo più. Ho dubitato di me talmente tante volte. Ma ti ho trovato. Così tanti sacrifici solo per trovarti. Ora che sappiamo chi sei tu, so chi sono io. Non sono uno sbaglio».
Il sodalizio tra i due protagonisti si rompe perché le domande esistenziali che Elijah e David si pongono, seppur simili, hanno motivazioni profondamente diverse. Il primo vuole conoscere il suo ruolo nel mondo prescindendo dal mondo stesso. La ricerca forsennata del supereroe lo ha portato a compiere atti disumani, il suo potere si risolve nell’essere il negativo di David. È una risposta che cerca esclusivamente per sé. Mentre David, indossato il mantello, consapevole dei suoi poteri, al contrario di Batman, può calarsi tra le persone per comprendere i loro atti e proteggerle, invisibile, senza ostentazione, a parte un piccolo strappo alla regola quando mostra al figlio ciò che ha fatto e forse farà in avvenire. Il poter essere “per” e “tra” gli altri, questa la risposta che David cercava per sconfiggere la sua tristezza e che oggi come ieri in questa terra sembra un miraggio sbiadito.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti e Fabio Ciabatti (qui e qui)]

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 58 https://www.carmillaonline.com/2014/04/24/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-58/ Thu, 24 Apr 2014 21:46:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14199 di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e [...]]]> di Dziga Cacace 

Adesso trovo interessante perfino un ignorante

DDV5801 darko574 – Donnie Darko di Richard Kelly, USA 2001 e Cacace groupie
Il caso cinematografico degli ultimi anni, uscito dopo l’11 settembre, malcagato da pubblico e critica e poi riscoperto come stracult qualche anno dopo. In effetti qualcosa di intrigante c’è. Mi ha divertito, però poi ho ripensato a loop, a universi paralleli e al coniglione, seduto di fianco al protagonista al cinema, diventato l’immagine icastica del film, e l’impressione s’è trasformata nella nebulosa certezza di una supercazzola di cui sarei stato vittima in tempi normali, figuriamoci ora, dopo gravidanza e paternità. Non so, non ho più gli strumenti per capire. O forse non ho voglia di scrivere perché son stanco e giocare e fare il papà ti lascia poco tempo per giocare a fare il critico. Vedo pochi film e allora mi concedo ancora qualche concerto, specie se si tiene a 400 metri da casa, come tre sere fa, quando al Transilvania ho intervistato un gruppo di quattro biondazze svedesi che – altro che il pop trinariciuto degli Abba o il metal tricotico degli Europe – indulgono in un ottuso, innocuo e tutto sommato divertente hard rock. Si tratta delle Crucified Barbara: in slang svedese le “Barbara” sono le bambole gonfiabili da pornoshop, loro, in realtà, sono annoiate da continue domande sessiste e decise a dimostrare sul palco il loro valore, presentando il primo album In Distortion We Trust. Le incontro in un angusto camerino e prima di vederle mi balenano in testa i classici pensieri da galletto italico in mezzo all’orda di scandinave in caccia sulla costa romagnola. L’approccio è abbastanza neutro e le quattro stanghe sono disponibili alla chiacchiera.
DDV5802 Crucified BarbaraSguazzo felice nei luoghi comuni sciorinando il repertorio che mi è proprio e cito Bjorn Borg, Stenmark e Volvo e loro mi apostrofano (giuro) “maskiaccijo, spagetti, parmesano e piza”. Gliene vengono recapitate poi otto in camerino. Dopo aver cianciato di chitarre e ampli provo il diversivo politico e finisco sulla guerra in Iraq. La svolta: la chitarrista Klara dai sinceri occhioni blu sembra l’unica vogliosa di darmi retta e mi mette le mani sulle ginocchia quando dà appassionatamente del sacco di merda a Bush, definito “evidentemente un cretino, vero?”. Le altre tre Crucified Barbara democriste preferiscono chiarire che tengono separate le opinioni politiche dai loro testi. Che parlano di crapula, libero scambio sessuale e generale godimento dei piaceri della vita, come dimostra in un angolo del camerino il mucchio di lattine di birra vuote. A questo punto rimane a parlare con me solo Klara. Le altre si truccano o si preparano per il concerto, lei mi invita a bere assieme qualcosa, “together alone”, sottolineando con occhiate ammiccanti. Ammazza. Rispondo come un poliziotto: sul lavoro, no grazie, non bevo. E poi, cazzo, sono un neopapà! Per chi mi hai preso, per un groupie? Sul palco il quartetto è un uragano platinato, ancora acerbo per il metallaro intransigente, un sogno fattosi realtà per quello dalla bocca buona, magari impastata dagli alcolici. A guardarle siamo però una ventina di spettatori (il promoter dà la colpa alla neve… mah!). Alzo comunque il mio boccale verso Klara, lei risponde skol e mi fa segni eloquenti di fermarmi dopo i bis. Saluto la vichinga con stolida refrattarietà e torno a casa di corsa: non ho mai avuto l’età per certe cose, neanche quando l’avevo. (Dvd; 1/2/06)

DDV5803 manchurian575 – The Manchurian Candidate di Jonathan Demme, USA 2004
Ma sì, dài: film più che gradevole, ben costruito, recitato e fotografato. Demme è come sempre molto politico, anche quando fa il thriller per le massaie e gioca con le teorie del complotto: in fondo – se si hanno orecchie disposte a sentire – ci dice molto più lui in queste due orette che certa stampa italiana nell’ultimo decennio. (Dvd; 4/2/06)

DDV5804 Sideways576 – Solleticante al palato, Sideways di Alexander Payne, USA 2004
Due compari, il precisino Miles e il farfallone Jack, si concedono una settimana di golf e degustazione di vini, prima che il secondo convoli a nozze. Ma Jack ha la religione della pussy e combina un casino dopo l’altro, di cui subisce sempre le conseguenze anche il povero Miles che si accontenterebbe solo di qualche buona bottiglia… Commedia carina, delicata, recitata bene, ben musicata, ben dialogata, con ambientazioni e argomenti interessanti. Okay, poi esco dalla mia borghesia interiore, mi guardo da fuori, mi disprezzo e aggiungo: un filmetto così ti riconcilia con la vita, ma so anche che tra due anni non me lo ricorderò più né avrò voglia di rivederlo. È un film sincero, direi, ma è anche troppo facilone il pubblico. (Dvd; 11/2/06)

DDV5805Heat577 – Io non capisco Heat, di Michael Mann, USA 1995
Anni fa era stato un caso, con ampio battage pubblicitario per vendere l’evento: finalmente Pacino e De Niro in una stessa scena. Un can can mediatico insopportabile coi critici prezzolati a riempire le pagine degli spettacoli ripercorrendo le carriere dei due attori. Stavolta il rigoroso e straight Bob fa il delinquente, mentre il dissipatore di talento finalmente tornato all’ovile Al è un poliziotto tutto d’un pezzo. Poi, assunto il film e incassato l’anticlimax della scena in comune con campi e controcampi insipidi, ero rimasto abbastanza indifferente: pellicola discreta, ma niente di che, colpito solo dal momento immenso in cui De Niro rivela alla sua compagna di non essere quello che lei credeva. Rivisto – so di dire una cosa grossa – m’è sembrato una porcata muscolare, noiosissima e asinina. Tutto spiattellato in scena in modo evidente, senza profondità, e con un Val Kilmer che pensa di essere ancora in Top Secret. Mah. Non ho mai amato granché Mann, per cui il mio parere val quel che vale (nel senso che non ritrovo una poetica condivisibile né mi sforzo di farlo). Però Heat ha fan sfegatati, ma proprio tantissimi, che – sbaglierò – compatisco sinceramente. (Dvd; 18/2/06)

DDV5806 The Village578 – Il trappolone The Village di M. Night Shyamalan, USA 2004
Un villaggio dell’Ottocento in Pennsylvania, dove si vive isolati dal mondo, terrorizzati da qualunque contatto esterno. Ma c’è un però… La ricetta è la solita: costruzione lenta, incantamento, progressiva perdita di controllo sensoriale dello spettatore, ipnosi e poi – ta-dah! – colpo di scena che ti lascia lì, come un imbecille, a prendere ceffoni logici per i prossimi cinque minuti di film, continuando a dirsi: ah, ma quindi…. Oh: ‘sto maledetto Shyamalan m’ha fregato anche stavolta. Bel cast, regia pulita, obiettivo raggiunto (anche se pigliare per il culo uno che dorme 4 ore a notte e già di suo tanto sveglio non è, non so quanto sia onesto) e interessanti possibilità di lettura: la regia mette in scena neanche troppo metaforicamente la sindrome d’accerchiamento di un’America che rimanda ai padri pellegrini, rinchiusa su se stessa, che rifiuta l’incontro col diverso e sogna un ritorno edenico a un mondo premoderno. Shyamalan fa sempre il finto tonto, e poi, invece. (Dvd; 26/2/06)

DDV5807 Crash579 – Troppo perfetto, Crash di Paul Haggis, USA 2005
Premio Oscar niente male. Una riflessione sul razzismo e sui rapporti umani, graziata da bellissima fotografia, ottimi attori e montaggio intelligente. Ed è un film scritto talmente bene (con l’incrocio post-altmaniano di diverse vicende) da risultare paradossalmente anche un po’ falso, troppo meccanico, come se il regista ammirasse narcisisticamente la sua bravura nel mescolare le vicende per portarle con tempismo preciso al crash finale (che vediamo in testa alla vicenda). Però, dài, non lamentiamoci. (Dvd; 11/3/06)

DDV5808 Jefferson Airplane580 – Fly Jefferson Airplane di Bob Sarles, USA 2004 e, voilà, i Toto
Se non siete già a conoscenza dei Jefferson Airplane, ecco il filmetto che potrebbe farvi scattare la passionaccia. In un’ora e venti ripercorriamo le tappe fondamentali di uno dei gruppi che (assieme a Grateful Dead, Big Brother and the Holding Company e Quicksilver Messenger Service) ha fatto la storia del costume e del sound di San Francisco a fine anni Sessanta, quando tutti i giovani andavano a perdersi a Haight Hasbury. Con un racconto succinto e anarchico, trovate il sapore di quell’epoca e di un gruppo contraddittorio che, per primo, venne ingaggiato da una major pur cantando di pillole e funghetti che espandevano la conoscenza. E non era finita: vennero gli album destrutturati e anche i proclami politici guevaristi, tanto che Godard li filmò a cantare la rivoluzione su un tetto di New York (ben prima che lo facessero i Beatles). I reduci hanno le idee tuttora chiarissime e non hanno perso il gusto per la provocazione (si veda Grace Slick – faccia d’angelo e voce che trasuda sesso – pittata di nero in prima serata televisiva all’alba dei Settanta). A Woodstock erano fuori fase, ad Altamont presero delle botte, ma nel primo pop festival di Monterey fecero capire che il mondo stava per cambiare. La rievocazione è pacifica (anche se i Jefferson furono litigiosissimi) e la regia si concentra sulle immagini piuttosto che sulle parole. Ed è un bel vedere, tra liquid show e grafiche psichedeliche. Sottotitoli in italiano approssimativo, ma sono musica e colori a emozionare (anche nei ricchi bonus). Feed your heeeead! Passando ad altro, in settimana incontro Steve Lukather dei Toto, chitarrista celeberrimo eppure bistrattato dalla critica. Io, del gruppone da classifica, ho ricordi frustranti: una festa di terza media, la notte artificiale alle quattro del pomeriggio con le tapparelle abbassate, nello stereo la Rettore (Kamikaze Rock’n’Roll Suicide, oh: bellissimo!), i Queen (Hot Space, ‘nzomma) e i Toto (IV, ‘na palla). Rosanna era il singolo ballabile e le ragazze attuavano la tremenda tattica del braccio a squadra, rigido, che rendeva impossibile qualunque avvicinamento oltre il lecito. Ecco. Cos’altro so di loro? Niente! Perché i Toto, pur vendendo qualche milionata di dischi, hanno sempre sofferto d’invisibilità. Pericolosamente propensi alla canzone dedicata (non scherzo: Anna, Lorraine, Angela, Pamela, Carmen, Lea), indulgevano nel ballatone da classifica. Ergo: presi per il culo a più riprese dalla stampa che voleva eroi marci di cui spettegolare, non stucchevoli professionisti. Incontro Lukather all’Hilton di Milano e subito chiarisce che non ce l’ha con me e la stampa in generale. Lo chiarisce più e più volte, perché invece gli rode ancora il culo da impazzire (“Sono trent’anni che devo scusarmi… ma di che cosa?”). Singolarmente i membri dei Toto hanno suonato nei dischi più venduti della storia della musica e Steve ha prestato la sua chitarra a un migliaio di progetti, gli mancano solo il sirtaki e il ballo del mattone. “Dicevano che eravamo peggio della chemioterapia, hanno pure chiesto che i nostri genitori fossero sterilizzati… ma si può?”. Ecco il punto dolente: “Nel 1983 Rolling Stone ci ha offerto la copertina e noi, dopo tutti i maltrattamenti subiti, ci siamo rifiutati… 8 Grammy Award e neanche una citazione!”. Poverino, offeso. Non so che dire. La sera sono al PalaMazda, tutto esaurito, come diversi dei diecimila presenti. Il repertorio del gruppo è in bilico tra rock e fusion ma sempre in una cornice pop, con voci in armonia a rischio diabete. Arriva il momento degli assoli, dove si sciorina la tecnica della band. Il batterista Simon Phillips conclude un quaresimale lavoro sui tamburi che non mi ha dato alcuna emozione e poco lontano da me si alza uno spettatore che comincia a battere ostentatamente le mani facendosi vedere da tutta la gradinata, segue scroscio entusiasta di applausi, con tutti che fanno sì con la testa come a testimoniare l’apprezzamento tecnico. Sono fuori luogo: seppur parzialmente impedito da un clamoroso attacco di orchite piazzo il fugone prima che arrivino le hit. Mi sa che la critica, caro Lukather, qualche ragione ce l’aveva, eh. (Dvd; 15/3/06)

DDV5809 Roma581 – Il lercio Roma di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005 e la 4 stagioni di Uli Jon Roth
Ottimo prodottino televisivo sulla Roma di Giulio Cesare, con bassezze, tradimenti e sesso e azione a profusione. Tra mille polemiche, la versione di RaiDue è stata tagliata (immagino nelle parti genitali) ma ci ha comunque divertito assai. Probabilmente siamo stati gli unici a vederla, infatti la share televisiva è risultata miserabile e non vedremo mai sulla tivù generalista la seconda serie, scommettiamo? (Ehi: NOI – la Rai, intendo – siamo quelli che hanno finanziato Il regno 2 di Lars von Trier e non l’abbiamo MAI mandato in onda né distribuito, capito il genio italico?). Mentre Roma era in onda ho incontrato un altro dei miei musicisti strambi, Uli Jon Roth, chitarrista originale degli Scorpions quando non avevano ancora fatto la fortuna dei venditori di accendini con le loro ballad emetiche. Si presenta alle prove al Black Horse di Cermenate in zoccoli bianchi da paramedico, capelli radi davanti ma chioma fluente dietro, l’aria vagamente assente. Avrebbe dovuto essere in Italia ieri, ma ha perso l’aereo. È un vecchio hippie, pacifista e pragmatico, contento di suonare per pochi ciò che piace a lui. Cioè un mischione tra Hendrix e Vivaldi, Beethoven e Mussorgski. È in un momento un po’ difficile: gli hanno pignorato il castello in cui viveva e mi chiede se so di qualche affare in Italia, vuole i merli e le torri, lui. Il promoter mi confessa sconsolato che ha in garage, da anni, degli orrendi cigni di gesso che Uli ha comprato in un precedente tour. Quando siamo a cena, forse perché ispirato dalla denominazione vivaldiana, mi chiede cosa contenga la 4 stagioni. Mi faccio capire e allora sceglie una funghi. È vegetariano e non vuole le acciughe. Lo accompagno in albergo, dove va a cambiarsi per il concerto e al ritorno siamo su un furgoncino, vicino al collasso strutturale, sparato a palla sulla Milano Laghi: dietro di me, in concentrazione ascetica, Roth a occhi chiusi, le mani appoggiate a due chitarre ai suoi lati, in pellicciotto arabescato, pantolone con argenteo effetto graticciato e stivali scamosciati. Se ci ferma la Polstrada finiamo in manicomio per direttissima. Poi, quando è sul palco, Uli Jon fa impallidire molti chitarristi rinomati. Occhi chiusi a inseguire i guizzi della creatività, sa essere velocissimo ma preferisce il buon gusto dell’interpretazione (nei limiti del genere) e concede ai fedeli accorsi il repertorio storico degli Scorpions e diverse divagazioni blues fluide e barocche. A me sembra di essere in una candid camera. Però piacevole, sai? (Diretta su RaiDue; 17, 24, 31/3/06 e 7, 21, 28/4/06)

DDV5810 Profondo rosso582 – Profondo rosso di Dario Argento, Italia 1974
Ennesima visione, sempre molto soddisfacente. Noto un impercettibile rallentamento nel secondo tempo e le tante parti di commedia ad alleggerire l’orrore vero delle parti de paura. Che sono sempre grandiose, e la musica è geniale: quanto autentico terrore può farti provare una filastrocca infantile, eh? Ah, già che ci sono: prima di Natale vado a Roma in aereo e il caso vuole che di fianco a me sia seduta (o meglio: sciolta) Asia Argento, praticamente in coma, le mani sporche con scritti su dei nomi e dei numeri di telefono. Dormicchia rantolando per tutto il viaggio e io, perbenista dentro e fuori, mi dico: “Adesso ‘sta qui vomita, vedrai”. A un certo punto si sveglia all’improvviso facendomi venire un colpo, si mette dritta e prende il libro che stavo leggendo per vederne il titolo: lo legge (Ogni cosa è illuminata, mica cazzi), si alza gli occhiali scuri, mi guarda e crolla di nuovo nel sonno, bofonchiando. A un certo punto mi sembra che non respiri più e ho un flash: Dario Argento intervistato in tivù che mi accusa di aver lasciato morire sua figlia. Poi, quando arriviamo a Fiumicino, scende dall’aereo come se nulla fosse, ovviamente. Questo il mio grande incontro con Asia, probabilmente una fantasia. (Dvd; 1/4/06)

DDV5811 The COnversation583 – Il misconosciuto The Conversation di Francis Ford Coppola, USA 1974
Mooolto bello e spesso dimenticato, tra i vari Padrini dell’epoca. È un thriller angosciante, chilled out, sottile, recitato alla grande da Hackman e dove è protagonista la paranoia. Chi ascolta chi? E – al di là del plot – si può sempre rimanere neutrali? Film amaro come un blues al sax, ha dalla sua anche un clamoroso score pianistico di David Shire (l’ex marito di Talia Shire, Adrianaaaaa!). (Dvd; 9/4/06)

584 – Killer’s Kiss di Stanley Kubrick, USA 1955
Ottimo! Secondo film di Kubrick, espressionista, ritmato e fotografato da dio, con quel gusto realistico che il regista aveva già dimostrato nel suo lavoro di reportage per Look. Il pugilato come andrebbe ripreso e il noir come andrebbe raccontato (salvo la fine, direi): Barbara e io al tappeto. (Dvd; 16/4/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 58)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 03/04) – 48 https://www.carmillaonline.com/2013/05/22/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0304-48/ Tue, 21 May 2013 22:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5865 di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare [...]]]> di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan
Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare le prese scart senza far casino e alla fine ce la faccio. Infilo una vecchia videocassetta, schiaccio rec e già che ci sono mi vedo pure il film in diretta. Ed è un buon prodotto dove si racconta un periodo solitamente travolto dalla semplificazione storiografica, punitiva e negazionista, che preferisce parlare di generici Anni di piombo o che, in perfetta e speculare banalizzazione, li sputtana beandosi del riflusso (come col fazioso Anima mia, e de li mortacci sua). Era una stagione ricca, di lotta politica, certo, e di generosità, dove la voglia di confronto e di esperienze erano lontane da ciò che la società voleva imporre. Reducismo e vittimismo hanno fatto un cattivo servizio alla memoria ma il bel documentario di Rastelli – che utilizza materiali diversi, tra cui i famosi nastri di Alberto Grifi – evita questi sentieri fuorvianti e restituisce il sapore di quell’elettricità raccontando il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro del 1976. Si parla di ideologia, di utopia e della sua morte. Nudi verso la follia però non è un film concerto e la musica è un mezzo di comunicazione politica e sensuale. Tra gli intervistati Stefania Maggio (che all’epoca era giovanissima, autonoma, e naturalmente nuda), Fabrizio Passarella (uno degli organizzatori), Alberto Camerini, Eugenio Finardi e lo splendido Patrizio Fariselli degli Area. Bello! La mia testolina passa repente ad altro: ieri è morto Ronald Reagan, un mio nemico. Non vinse affatto la Guerra Fredda, come titola Repubblica, con una falsificazione emblematica (non son sicuro di cosa, ci devo pensare). Era invece un caprone manicheo, un assassino, un bugiardo, uno spione e pure un attore cane. Però aveva nel suo staff dei buoni battutisti: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. Non mi mancherà per niente: adesso aspetto sulla riva del fiume la Thatcher e Andreotti e poi posso spirare tranquillo. (Diretta su Canal Jimmy; 6/6/04)

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472 – Sempre un piacere, Angel Heart, di Alan Parker, USA 1987
Questo è un mio personalissimo cult: all’uscita lo vidi tre volte in sala. La prima con Pier Paolo, dopo il Natale 1987. Poi, poco dopo, con Ferro e l’ultima volta a Champoluc, con la consueta compagnia di amici vacanzieri: degenerò in lite finale su senso e qualità del film. La vicenda, all’epoca, ci sembrava un rompicapo, oggi è limpidissima, quasi lampante nella sua evidenza, ma il film non ha perso un briciolo del suo fascino malato, ricco di temi visivi ossessivi: scale, ventole, pioggia, sangue. Harry Angel è di Brooklyn e non sopporta i polli: a New Orleans lo aspettano tip tap sinistri e incesto, l’aspra cultura cajun e il potere ambiguo della radice di Guglielmo il Conquistatore. Siamo catapultati in una Louisiana umida e sensuale, al suono del blues, tra riti voodoo e patti col diavolo: cosa voglio di più? In più c’è un cast da infarto: De Niro – manierato, sardonico, inquietante – si presenta subito come Louis Chyphre, citando i Rolling Stones. Lisa Bonet è di una bellezza stratosferica e cancella ogni ricordo televisivo dei Robinson: il destino le riserverà qualche pestaggio da parte di Lenny Kravitz e l’oblio, purtroppo. E infine c’è Mickey Rourke, l’attore in cui avevamo riposto ogni fiducia: un corpaccione pesante, ancora lontano da chirurgia estetica e orchidee selvagge. Diede presto segni di squilibrio consegnandosi alla Cavani per il tremendo Francesco e la conferma che c’era qualcosa di sbagliato arrivò con la strampalata carriera pugilistica. Ma era e rimane un grande, anche suonato. Il film è un pastiche di diversi generi (noir, thriller, horror), ma funziona ancora e pur conoscendolo a memoria (e non lo vedevo da 15 anni!), m’è filato veloce come un treno. A voler essere pignoli, forse Lucifero poteva escogitare un modo più semplice e veloce per ottenere il tributo dovutogli, ma evidentemente gli piacciono le cose ben fatte e adesso Harry Angel brucerà all’inferno (arrivandoci in ascensore). Visto in lingua originale: grandissimo film e grandissimo regista, capace sempre di lavorare su più registri. (Dvd; 16/6/04)

ddv4803473 – Molta Sympathy For The Devil, ci mancherebbe, di Jean-Luc Godard, Gran Bretagna 1970
Credo in poche cose e Keith Richards è una di queste. Giusto per chiarire. Poi: ho cominciato da poco a scribacchiare delle veloci recensioni per un mensile chiamato Rodeo che si occupa di fashion e arte e viene distribuito gratuitamente a Milano. Il diretùr è Massimo Torrigiani, lo stesso di Boiler, magazine estremamente hip dove invece vengo tradotto in inglese e distribuito su scala planetaria a fianco di contributors come Pete Townshend e Madonna: Massimo mi ha chiamato e anche stavolta non ho saputo dire di no. Ecco cosa gli ho rifilato. “L’estrema coolness del rock: Keith Richards. Pantalone di velluto attillato, piedi nudi, foulard, collana e sigaretta perennemente in bilico dal labbro. E la chiara visione di come dev’essere inciso un brano leggendario. Jean-Luc Godard, uno che non batte mai strade risapute, mette in parallelo la nascita di uno dei capolavori del rock, l’inno Sympathy For The Devil, con le istanze cinemarxiste di fine anni Sessanta. Ne esce un film logorroico, confusionario ed estenuante, tra piani sequenza interminabili e inafferrabili discorsi concettuosi. Ma poi arrivano i nostri e Jagger insegna gli accordi a un Brian Jones visibilmente stordito. Il pezzo non decolla e allora Keith imbraccia il basso e in mano a Bill Wyman lascia le maracas. Il Fender Precision diventa il propellente ritmico del pezzo che ormai è un sabba musicale sottolineato dalle voci degli amici che fischiano “woo wooo” come un treno. Ciliegina sulla torta, un assolo bruciante che esce da una Les Paul Black Beauty. Film indigeribile per molti, ma di straordinario appeal visivo e sonoro. Come nasce la Rivoluzione? Come nasce un capolavoro? Ineffabile, anche Godard alla fine avrà canticchiato It’s Only Rock’n’Roll”. Un po’ leccatino, eh? Vabbeh: qualcos’altro da aggiungere a questa miniatura? Se non è già abbastanza chiaro, gli sproloqui di Jean-Luc risultano micidiali: ho resistito mezz’ora poi ho lasciato il mezzo svizzero al suo delirante collage sonoro e ho smesso di vedere, guardavo soltanto: una fotografia notevole al servizio delle interminabile inquadrature; un’edicola come paradigma del consumo contemporaneo; tanti black panthers arrabbiati; Anna Wiazemsky intervistata che risponde per monosillabi; slogan come “Freudemocracy” e “Sovietcong” scritti per le strade. Film antinarrativo, non è sottotitolato, ma non vedo come potrebbe. In settimana volo per lavoro a Roma e seduto due posti davanti a me c’è l’onorevole Ugo Intini, un acerrimo nemico dei miei vent’anni, quando era ogni sera in tivù a commentare entusiasticamente ogni uscita del cinghialone. Oggi è eletto nelle fila dell’Ulivo. Vorrei aprire uno sportellone e buttarmi giù. (Dvd; 2/7/04)

ddv4804474 – Nido di vespe, una vaccata di Florent-Emilio Siri, Francia 2002
È il colpo perfetto: un deposito nella banlieue di Strasburgo, pronto da svaligiare. Santino, Nasser e company si sentono già ricchi quando, inseguito da una milionata di balcanici incazzati e armati fino ai denti, arriva un blindato con dentro quattro flic e il loro preziosissimo prigioniero: il boss totale della mafia albanese. Diventa Fort Apache, con rapinatori e “buoni” che devono unirsi per salvare la pellaccia. Sparatorie, adrenalina e una discreta costruzione. Però il film crolla quando dovrebbe tirar fuori le palle: gli assediati costruiscono una sorta di fortino con dei container e questo momento epico viene buttato via, dimenticando la lezione di tutti i film d’assedio. E fin qui, passi. Ma lo scempio si compie con la liberazione. Secondo i sacri manuali tutto il film dovrebbe essere una lenta e sapiente costruzione dell’orgasmico “arrivano i nostri”. L’intelligenza del bravo sceneggiatore sta nel saper giocare con la prevedibilità della ricetta, inventando qualche variazione e aggiungendo qualche ingrediente nuovo. Qui – oltre a rubacchiare fin troppo da Carpenter – si fa presto: si evita la liberazione e si vede direttamente il dopo, dovendoci bastare il sacrificio di uno dei resistenti che si immola ammazzando un po’ di avversari. E chi sa se li ha fatti fuori tutti o no. Boh: la polizia è arrivata e i nostri eroi sono pronti per il ricovero. Zero psicologia, zero relazione tra i personaggi, neanche qualche banale legame o chimica interpersonale, niente. E i dialoghi fanno paura per pigrizia inventiva. Peccato. Film a parer mio scarsuccio, di cui ricordo invece ottime recensioni da parte di critici distratti o disperati. In questi giorni ho anche visto diversi episodi di Friends: c’è stato uno scambio tra drogati (con Nuria, che ha ricevuto i miei Sex and The City) e ho messo le mani sui Dvd della prima serie dell’epocale sit-com. Con la scusa dell’esercizio linguistico e qualche non meglio precisato interesse professionale del sottoscritto, Barbara e io abbiamo polverizzato i 4 dischetti. Oggi, delle ultime serie del telefilm, m’importa poco: vicende stanche e ripetitive, chiaramente aggrappate al bisogno di soddisfare l’audience e onorare contratti milionari. Conosco la solfa: the show must go on e Misery non deve morire. I protagonisti sono diventati insopportabili, ma nel 1994 erano dei twentysomething – non sempre credibili – alla ricerca di un lavoro e di una posizione sociale e sessuale. Gli episodi sono scoppiettanti e il kick off è da manuale: la viziata Rachel è in fuga dal matrimonio e piomba a New York, dall’amica Monica, il cui fratello Ross è appena stato lasciato dalla moglie scopertasi lesbica. Di contorno gli altri tre amici: il professionista Chandler, l’attore Joey e la scapestrata hippie Phoebe. I tic, le manie, i sogni, i timori di sei ragazzi che rappresentano perfettamente la nazione americana, eterna fanciulla che rifiuta di crescere e deve fare i conti con l’età adulta. E che la rappresentano anche come vorrebbe essere: sempre giovane, generosamente ingenua, bianca, lavoratrice, positiva, felice. Anche se nella versione originale le risate sono molto presenti, ci si abitua presto e – vi assicuro – è una gioia ottusa ridere in tanti. (Dvd; 11/7/04)

ddv4805475 – Keep calm, raga, ma ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003, stavolta a Mantova
Mentre a Milano Fame chimica resiste in sala, la demenziale logica distributiva della Lucky Red è continuamente smentita dalle richieste di rassegne e cineclub: stasera sono assieme al regista Paolo a presentare il film a Mantova, in un attivissimo cinema d’essai, il Mignon. Lo anima Agostino, vecchio amico del mio mentore Davide Parenti, col quale anni fa organizzava rassegne. In qualche modo sembra di tornare a casa e la proiezione è all’aperto, con uno schermo che ricorda quello di Strategia del ragno. L’atmosfera è del resto bertolucciana fin dall’entrata del Mignon, con le foto di scena di Novecento, girato nei dintorni. Assieme ad Agostino c’è Claudio, suo compagno di ricognizioni cinematografiche. Questa è gente che vive di cinema: lo mangia, lo respira, lo sogna e non s’è ancora disillusa, nonostante distributori, produttori e spettatori distratti provino a rendergli la vita impossibile in ogni maniera. La sala resiste ed è un gioiellino, dove non è solo di prima qualità la scelta dei titoli ma anche la proiezione e il sonoro. E i mantovani devono saperlo: la città è deserta e fa un caldo sudanese, ma non c’è un posto libero. Durante la proiezione andiamo a mangiarci una pizza con gli organizzatori e si parte coi classici racconti da cineclub: le pellicole non arrivate o sbagliate, le tipologie di spettatori e le modalità di visione, gli abbagli critici, quell’esilarante volta che… e così via. Non posso esimermi dal raccontare della traduzione simultanea dei gelidi film tedeschi al Lumière (l’interprete, con la cadenza del Gabibbo, ci metteva una partecipazione nulla e aveva sempre la stessa intonazione, sia che fosse una scena comica o una sparatoria) o della volta che ho visto Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov con le didascalie in cirillico e la voce affranta da fondo sala che continuava a chiedere: “ma non c’è qualcuno che sa il russo?”. Torniamo in tempo per i titoli di coda e il dibattito, quanto mai piacevole. Pubblico attento, curioso e pieno di domande. Ed è bello, perché si conosce della gente e le loro motivazioni: come si viene a sapere di un titolo, perché si decide di vederlo, come lo si commenta. Viva il pubblico, perché suo è il regno dei cinema! (Cinema Mignon, Mantova; 20/7/04)

ddv4806476 – Il fragile Unbreakable di M. Night Shyamalan, USA 2000
Se non l’avete visto, non leggete oltre. David (Bruce Willis) vive come narcotizzato: non comprende il mondo che lo circonda, è ai ferri corti con la moglie, non riesce a stabilire un ruolo nei confronti del figlio. Ed è l’unico sopravvissuto in un incidente ferroviario con un pacco di morti. Il culo, eh? Lo rintraccia un collezionista di fumetti (Samuel L. Jackson) che crede che la mitologia dei comics abbia più di qualche aggancio alla realtà e gli chiede quanti infortuni abbia avuto in vita sua. E David si rende conto che non è mai stato male. Il suo interlocutore, invece, è il più debole possibile: lo chiamano Mr. Glass perché le sue ossa si spezzano soltanto a guardarle. David non vuole essere scocciato da questo matto, ma il dubbio è stato instillato: e se fosse veramente un super eroe, come insinua l’uomo di vetro? Perché, quando sfiora qualcuno, ha delle premonizioni e capisce se faranno del male o no? È pura suggestione? È vero che anche lui ha un punto debole (l’acqua), come l’epica (anche fumettistica) insegna? Shyamalan tenta una cosa molto difficile: ragionare sui meccanismi della narrazione popolare costruendo al contempo una vicenda che possa essere fruita come tale, secondo gli archetipi della cultura media, comprensibile da tutti. Gioca con le ossessioni americane, con la cultura popolare yankee, con le leggende metropolitane, col Caso che non è mai casuale. Il film risulta più sciocco delle idee che lo animano e ha alti e bassi (una certa lentezza, tra l’altro), ma l’idea mi piace, per cui lo promuovo. Forse David è un super eroe: potrebbe, gli elementi ci sono tutti. Ma forse no: l’unico momento che non ha giustificazione logica è quando intuisce che l’addetto alla pulizia della stazione dei treni è un assassino. Tutti gli altri casi (quando individua un attentatore o sospetta di altri) risultano plausibili, vuoi per intuito, fortuna o mera possibilità: questo invece è il solo momento in cui la regia non trova una motivazione attendibile per l’operato del protagonista. E quindi il dubbio rimane: non è un errore, è un’incertezza voluta, direi. Bruce Willis è abbastanza ligneo, come da trademark, pur tuttavia simpatico in questi ruoli dolenti, dove soffre perché non capisce che cazzo ci stia a fare lì, con un regista che una volta lo fa morto e l’altra superman. (Dvd; 24/7/04)

ddv4807477 – Neanche troppe, Sei donne per l’assassino, di Mario Bava, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1964
Siamo a Brisino per una settimana, prima di dedicarci al Tour de Corse, e le serate sono perfette per quella straordinaria invenzione che è il Dvd. Considerato sia il primo body count che il primo slasher della storia del cinema, Sei donne per l’assassino è una sinfonia di morte, colori e musica clamorosamente orchestrata dal talento visivo di Mario Bava. Il plot è lineare e perverso ed è stato concepito e sceneggiato da quel Marcello Fondato già co-autore di Tutti a casa e poi insuperato regista di …Altrimenti ci arrabbiamo (un uomo, un genio, insomma): in una fashion house romana vengono fatte secche una modella dopo l’altra. Chi è stato, tra i tanti (uomini) che razzolano l’ambiente? Il mistero attizza e Bava sa come tenerti sulla corda: ogni uccisione è inventiva e raggiunge un nuovo grado di efferatezza. Dario Argento deve essere cresciuto su questo sacro testo che usa tutto alla perfezione per costruire un universo allucinato veramente de paura. Due anni fa mi aveva colpito l’incredibile irrealistica fotografia de La frusta e il corpo; qui il lavoro di Ubaldo Terzano è a livelli spaziali e ogni inquadratura è studiata nei minimi particolari cromatici, una tavolozza accesa da rossi violentissimi ma anche ammorbidita da luci di contrasto perfette. Rustichelli poi sottolinea il tutto con una musica inquietante e ineludibile. Certo, gli attori non son granché e la storia va via veloce, ma che pacchia per gli occhi e le orecchie: Bava si dimostra uno stilista eccezionale. Satisfaction! (Dvd; 25/7/04)

ddv4808478 – Il capolavoro, cosa te lo dico a fare?, Rear Window, di Alfred Hitchcock, USA 1954
Questo La finestra sul cortile me lo rivedo ogni volta che posso e la versione restaurata in lingua originale su Dvd è occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Il film è splendido e intelligentissimo (io molto meno e potrei contestare solo due o tre scelte di montaggio, con delle giunte sgradevoli) ed è molto più di un semplice thrilling. È un’incontestabile difesa della scopofilia: Jeff (James Stewart), altrimenti fotoreporter scavezzacollo, è immobilizzato su una sedia a rotelle e passa il tempo osservando i suoi vicini di casa che gravitano sul cortile del retro. È insofferente, vuole liberarsi del gesso e ricominciare a girare per il mondo. Ma c’è un altro ostacolo: l’altolocata ed elegantissima fidanzata Lisa (Grace Kelly) vuole impalmarlo e addomesticarlo. L’ossessione guardona distoglie la coppia dai bisticci: la massaggiatrice Stella e Lisa sono all’inizio indignate della curiosità di Jeff, poi vengono tirate dentro: c’è un delitto da smascherare! Ma il delitto è l’occasione per riflettere anche sul matrimonio e sui rapporti di coppia. Tutti i vicini rappresentano una diversa tipologia di vita condivisa (o meno): c’è la triste donna sola; ci sono gli sposini che ci danno dentro, la petulante zitella e la desideratissima ballerina. E poi c’è Burr che risolve il suo matrimonio in maniera drastica, dandoci letteralmente un taglio. Hitchcock è malizioso e tutto il rapporto tra Jeff e Lisa è attraversato da una forte tensione erotica. Lei se lo magnerebbe vivo, ma lui è immobilizzato, impotente, ingessato. E il premio per l’intraprendenza di Lisa (che aiuterà a risolvere attivamente il caso) saranno ben due gessi, con Jeff (forse) definitivamente prigioniero. Hitch misogino? Mah! Forse sul set, ma nei suoi film si divertiva un mondo a prendere per il naso il pubblico maschile, blandendolo e compiacendolo, per poi dimostrargli l’incontestabile superiorità femminile. Certo: la coppia Kelly/Stewart è un po’ improbabile… lei è una macrognocca, angelica nell’aspetto ma col fuoco nelle vene. Lui un vecchio gatto di ghisa, dal ciuffo tinto, per nulla ipotizzabile come avventuroso fotoreporter. Com’è possibile che lei sia innamorata di lui? E com’è che di fronte a questa irreale possibilità, lui, impiazzabile sul mercato, offra ancora delle titubanze? Che gran cosa il cinema! Film superlativo, buon Dvd, ottimi extra. (Dvd; 26/7/04)

ddv4809479 – Purtroppo, L’amore è eterno finché dura, di Carlo Verdone, Italia 2004
La residenza estiva a Champoluc viene santificata con una visitina al cinema che mi ha regalato capolavori come Fantozzi, Anche gli angeli mangiano fagioli e …Altrimenti ci arrabbiamo. L’unico film decente è l’ultimo di Verdone e andiamo a subire una cocente delusione. Intendiamoci: in quasi due ore di film ci sono almeno cinque scene molto divertenti, perché Carlo sa far ridere, eccome. Però punta più in alto: non gli basta il comico, vuole la commedia di contenuto, che sappia indagare il costume. Ci prova, ma non gli riesce: dopo la prima azzeccata mezz’ora L’amore è eterno… va spegnendosi, come il rapporto tra Verdone e la moglie Laura Morante, che è (tanto per cambiare) isterica, bidonata e imbidonita. Verdone la lascia e trova una nuova compagna (Stefania Rocca). Ma anche lì non filerà tutto liscio, perché le relazioni affettive sono terribilmente complicate. Verdone è attore fantastico, capace di tic, facce, espressioni assolutamente comiche. Come regista però è meno felice: musiche, montaggio, fotografia, direzione degli attori e soprattutto controllo della sceneggiatura e del ritmo della messa in scena sono molto discontinui, con frequenti cadute di tensione. Peccato. E da carogna noto anche l’utilizzo mal dissimulato di tappo di sughero in testa. Durante il mese d’agosto, mentre eravamo in Corsica, abbiamo anche visto la cerimonia olimpica inaugurale ad Atene, con invenzioni scenografiche semplici ma d’effetto. Emozionante la sfilata degli atleti: io mi commuovo sempre anche perché credo ancora a cazzate come la pace nel mondo, la solidarietà, l’onore sportivo etc. Poi, una sera abbiamo visto mezz’ora di Paz! e ci è parso tremendo, tutto sopra le righe: la regia insegue la geniale anarchia fumettistica di Andrea Pazienza. Ma se ci sono i fumetti che sono dei capolavori, che senso ha rifarli – e male – al cinema? Potrà mai venire bene un balletto di Béjart scolpito? (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 18/8/04)

ddv4810480 – Maestosi Rush In Rio, di Daniel E. Catullo III, Brasile/Canada 2003
Siccome a metà settembre i Rush arrivano in Italia, mi metto avanti col lavoro, guardandomi un recente doppio Dvd che li riprende in concerto. Musicalmente è eccezionale, da un punto di vista produttivo è invece troppo montato. Il palco è buietto e non sempre la definizione è al massimo, ma è tale il coinvolgimento che chi se ne frega? A corredo c’è il bel documentario The Boys in Brazil che racconta come sia nata questa tournée carioca. Conosciamo la segreta alchimia del gruppo (al trio piace la zuppetta!), gli hobby personali e come venga vissuta l’estenuante routine del tour. Tra stadi zeppi, acquazzoni tropicali e commossi fan argentini e cileni, un bel modo di raccontare la musica. Ma chi sono i Rush? Eccovi il pezzo che scriverò tra un mese per Rolling Stone dopo averli visti in concerto a Milano (è un cortocircuito spazio-temporale, lo so: faccio miracoli, embeh?). “È l’ultima sera d’estate e 8000 persone hanno deciso di passarla assieme: sono progster, metalhead e nerd assortiti. Sono fan dei Rush: non una band, una fede. Cieca. Come dimostra anche il passato atteggiamento sartoriale del trio canadese: kimono, caffetani, pantacollant, vezzosi foulard e eyeliner. Oggi vestono come persone normali e vantano un’invidiabile autoironia, sconosciuta ad altri dinosauri del rock: si presentano sul palco con delle lavatrici (!), a centrifugare trent’anni di un repertorio che spazia schizofrenicamente dall’hard anni 70 fino al nu-rock (qualunque cosa significhi) del nuovo millennio, avendo costeggiato il pop synth anni 80 e soprattutto il progressive più fantascientifico. Geddy Lee è forse il frontman meno glamourous della storia del rock: brutto come pochi (sembra la strega Nocciola), segaligno e dotato di una voce incredibile, come se avesse i testicoli in una pressa. Mette subito le cose in chiaro: “suoneremo un milione di canzoni”. Lo accompagnano il pingue e pacioccone chitarrista Alex Lifeson e il very cool Neil Peart, tecnicissimo batterista attorniato da un kit rotante che sembra una centrale termoelettrica e farebbe la gioia di una decina di garage band. Amati in USA, di culto in Europa, i Rush devono la loro gloria a concept visionari (talvolta amabilmente cialtroni) e a una miriade di canzoni, ormai classici, decisamente imprevedibili. Come quella che racconta della lite nel bosco tra aceri e querce, per dire. Bellissima. Ma la vita è dura e al buon Peart, nel giro di un anno sono morte figlia e moglie. Dopo una comprensibile pausa lavorativa i tre amici si son guardati in faccia: questo san fare, suonare. E allora, via!: vai di tour, dischi e dvd. Loro si divertono e il pubblico – a giudicare anche dal successo della data milanese – anche di più: un vero show, generosissimo, divertente, vario, ricco di luci e immagini dai mega schermi. E tra i tanti loghi della band ne spunta anche uno vecchio come loro, ma altrettanto attuale: fate l’amore, non fate la guerra. Ed eviterete l’estinzione.” Bel Dvd, grandissimi musicisti e belle persone. Ma occupiamoci dell’Italia, va’! Cesare Battisti s’è dato alla macchia e ci son grandi polemiche, con la sinistra che – adesso – se la piglia con Castelli perché non è stato abbastanza cane da guardia. Siamo proprio un paese di merda. In Iraq è stato assassinato il prigioniero italiano Enzo Baldoni, pubblicitario, traduttore di fumetti, blogger, viaggiatore, reporter, volontario. Una persona curiosa che si intuisce splendida dal ricordo addolorato di tutti gli amici e conoscenti. Il foglio di merda che è Libero si distingue come al solito e non nasconde la soddisfazione che un pacifista sia finito ammazzato, un “amico dei terroristi”, uno “che se l’era andata a cercare”. Uno, aggiungo io, che il giornalista non lo faceva dalla poltroncina al soldo del padrone e con le agenzie embedded, ma andandoci, in Iraq, anche e soprattutto per aiutare. E à la guerre comme à la guerre, tutte le vite dei giornalisti di Libero non valgono dieci minuti dell’esistenza di Baldoni. Con rancore. (Dvd; 23/8/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 48)

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