Lynyrd Skynyrd – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 10 Apr 2025 22:05:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2017/02/21/hard-working-men-alle-radici-del-fascismo-trump-non-solo/ Mon, 20 Feb 2017 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36493 di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta [...]]]> di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta giudiziaria, un’esagerazione smodata, un comportamento censurabile, un tweet deplorevole, uno strafalcione possano minare il consenso da loro accumulato […] E non riescono, proprio non riescono con tutta la buona volontà, a capire qual è il rapporto di identificazione emotiva tra questi alieni e il popolo che si entusiasma per loro”.1

E’ un tema che Alessandra Daniele ha già affrontato con ben altra verve qui su Carmilla, ma le parole dell’editorialista del quotidiano milanese possono servire da spunto per una riflessione sulle modalità con cui, a livello internazionale, la classe dirigente affronta il problema dello s/mascheramento dei suoi obiettivi. Donald Trump appare infatti fin troppo esplicito nelle sue affermazioni mentre il suo programma si riduce a pochi, fondamentali obiettivi: protezionismo e barriere non solo commerciali (con tutto il corollario di esclusioni anche razziali che da ciò derivano), guerra commerciale (prima) e guerreggiata (poi) ai principali competitori (Cina ed Europa germanica)2 anche se non è possibile escludere con sicurezza qualsiasi altra alternativa di carattere militare, salvaguardia dei posti di lavoro e in particolare dei manufatti americani. A farne le spese sono già stati intanto TTP e WTO,3 ovvero due capisaldi della cosiddetta globalizzazione, oltre che tutta la diplomazia americana degli ultimi quarant’anni.4

der spiegel trump 1 Nei punti qui sinteticamente esposti sembra infatti essere messa in evidenza una politica piuttosto aggressiva sia dal punto di vista economico che geopolitico e militare. Se, nella narrazione del nuovo inquilino della Casa Bianca, l’America di Obama e dei precedenti governi ha perso quella che già in altri interventi su Carmilla è stata definita Terza guerra mondiale per la ripartizione delle rovine lasciate dal crollo dell’Urss e delle risorse petrolifere mediorientali fin dalla prima guerra del Golfo, Trump ha l’obiettivo di vincere, e per tale motivo impostarne regole ed indirizzi, la Quarta. Che non sarà più combattuta per interposte persone o alleanze e in cui the Land of the Free non dovrà più fingere di combattere per la libertà altrui o per ipotetici diritti umani. Questa volta gli Stati Uniti combatteranno dichiaratamente per se stessi e per i propri interessi. Senza quell’ingombrante bagaglio ideologico che alla fine sembre essersi ingarbugliato troppo nelle mani di Obama e della consorteria clintoniana liberal/democratica.

Però resta la domanda iniziale, ovvero cosa ci sia di così affascinante nel progetto, fin qui grossolanamente delineato, tanto da attirare il voto di milioni di cittadini americani. La risposta a tale domanda potrebbe essere efficacemente sintetizzata da un’intervista ad un gruppo di operai bianchi, andata in onda in un telegiornale RAI il giorno successivo alla vittoria di Trump, sulle ragioni del loro voto e su quale fosse l’aspetto che piacesse loro di più del neoeletto presidente, ed essa è stata ferma, sintetica, chiara e inequivocabile: “Hard work!”.

Probabilmente altri milioni di operai, farmers ed ex-occupati della rust belt e delle aree industriali ed agricole provate e provati da anni di crisi economica, decrescita industriale e perdita di garanzie e privilegi legati al ruolo di aristocrazia operaia e classe media WASP che sembrava per decenni aver garantito quella stessa classe sociale, avrebbero risposto allo stesso modo. Il duro lavoro scambiato per condizione esistenziale naturale, lo scambio tra forza lavoro e salario in cambio della produzione di plusvalore, la fatica stakanovista del minatore e dell’operaio che si sente orgoglioso del proprio ruolo nel processo di valorizzazione del capitale e nella crescita economica della propria nazione: ecco cosa li ha affascinati nel discorso del più becero degli speculatori trasformatosi in capo popolo nazionalista. E fascista, senza ombra di dubbio alcuna.

der spiegel trump 2 Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo.

Tutti elementi che permettevano a Jack London, già nel 1907 nel suo Tallone di ferro, di ipotizzare una società autoritaria e tirannica in cui “al di sopra delle masse dei diseredati s’innalzano le caste dell’aristocrazia operaia, dell’armata pretoriana, dell’apparato poliziesco onnipresente e dell’oligarchia finanziaria[…]Leggendo queste righe non si cree ai propri occhi; è un quadro del fascismo, della sua economia, della sua tecnica di governo e della sua psicologia“.5

Da questa classe operaia, anche qui da noi in Italia e in Europa, è stata sradicata l’idea del rifiuto del lavoro inteso come sfruttamento, è stata spazzata via l’idea che la vita umana si realizzi pienamente soltanto all’interno di una comunità di intenti antagonista all’esistente, in cui il lavoro torni ad essere una forza creativa collettiva non solamente destinata a produrre ricchezza monetaria e merci. Ed è, occorre dirlo, un’umanità triste e impoverita oltre che impaurita. Un’umanità in cui ogni desiderio è reificabile sotto forma di merci e prodotti oltretutto di qualità sempre più scadente e il cui immaginario è stato interamente colonizzato dal Capitale e dallo Stato.

Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia. Oggi il jihadista, domani il tedesco e il cinese e più in là magari anche il giapponese o qualsiasi altro europeo. Ma tutto questo era già presente, soltanto in maniera più mascherata e nascosta, in tutto il discorso della presidenza o delle presidenze precedenti. Non solo per le capacità mimetiche dei singoli individui che si sono succeduti alla Casa Bianca, ma perché intrinseco a tutte le scelte fatte dall’espansionismo imperiale statunitense. Liberali o liberiste che fossero.

der spiegel trump 3 La responsabilità di Trump agli occhi dell’establishment è così, principalmente, quella di aver reso esplicito ciò che per il bon ton liberal-democratico deve rimanere accantonato: l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo.

Non due entità separate e nemiche, l’una in concorrenza con l’altra, come la vulgata esposta negli ultimi settant’anni ha potuto affermare dopo che le controrivoluzioni totalitarie e stataliste avevano spazzato via qualsiasi discorso sull’autonomia di classe mentre la seconda guerra mondiale era riuscita a piegare le esigenze di liberazione dalla schiavitù capitalistica agli interessi degli imperialismi in lotta. Soprattutto dopo che l’intervento dello Stato nell’economia, sia in chiave fascista, stalinista o keynesiana, aveva contribuito a sviluppare una sorta di statolatria nel seno di quelle stesse masse che lo Stato avrebbero dovuto percepire come nemico in quanto unico garante degli interessi della classe sfruttatrice.

Non si scandalizzi dunque chi ancora oggi è convinto che le politiche keynesiane siano un prodotto dell’azione delle lotte e dei sindacati sull’operato dello Stato a favore dei ceti meno abbienti. La teorizzazione di Keynes è infatti racchiusa nella sua opera più celebre, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936, ma già prima della sua pubblicazione sia Roosvelt con il New Deal che Hitler e Mussolini stavano operando nel senso di un intervento statale dedito al rilancio delle economie e delle industrie nazionali, anche a tappe forzate.6

In ordine cronologico, però, era stato proprio il fascismo italiano ad inaugurare un piano di azione centralizzata senza precedenti nella storia del capitalismo moderno per la costruzione di più di cento nuove città,7 tra gli anni Venti e l’entrata in guerra del 1940, e allo stesso tempo ad inaugurare una nuova stagione di provvedimenti statali “a favore dei lavoratori”: nel 1933 la CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali) aveva assunto la denominazione di Istituto nazionale fascista della previdenza sociale che, dal 1943, divenne definitivamente Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS). Nel 1939 erano state istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari. Ed erano state, altresì, introdotte le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto. Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia ridotto a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne e istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato.8

Mentre “l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – Inail – nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione. Il nuovo Istituto è destinato a crescere in dimensione e importanza nei decenni successivi, con l’estensione della platea degli eventi assicurati e l’assorbimento di enti minori, che gestiscono l’assicurazione infortuni per particolari categorie di lavoratori. È del 1935 l’introduzione dei principi cardine che determinano il carattere pubblicistico dell’assicurazione infortuni e malattie professionali: la «costituzione automatica del rapporto assicurativo, l’automaticità delle prestazioni, l’erogazione di prestazioni sanitarie, la revisione delle rendite e una nuova disciplina nell’assistenza ai grandi invalidi»”.9

Sempre nell’italietta, però fascista originale, il tutto era stato preceduto, nell’aprile del 1927, dalla Carta del lavoro in cui si esprimevano i principi sociali, la dottrina del corporativismo, l’etica del sindacalismo fascista e la politica economica fascista. Portava le firme del capo del governo, dei ministri, dei sottosegretari, dei dirigenti del partito, dei presidenti delle confederazioni professionali fasciste dei datori di lavoro e dei lavoratori e dichiarava che “il lavoro è un dovere sociale e che il suo fine è assicurare, assai più che la giustizia, la potenza della Nazione“.

Giovanni Gentile, nel commentarla sulla rivista mensile “Educazione fascista”, avrebbe così avuto modo di affermare: “Nessun documento ufficiale ha mai affermato così chiaramente questa natura etica dello Stato in generale ed in specie rispetto all’attività economica, come la Carta del Lavoro nelle sue premesse fondamentali e in tutto lo spirito che la governa. La Nazione è una unità morale, politica ed economica […]. Noi crediamo di poter liberamente commentare aggiungendo: Unità politica ed economica, in quanto unità morale” (…). Così si integra e si illumina il concetto dello Stato…; così pure si integra e si illumina la figura del cittadino… che non è più una entità statica e uniforme…, ma agisce.. e nel lavoro trova la sua concreta funzione e il suo posto nella vita, l’uomo è cittadino: al cospetto di quello stesso valore morale in cui consiste la sua unità10

Si dimostra così come uno dei cardini del fascismo consista proprio nell’integrazione dell’ideologia lavorista con il nazionalismo e che ciò costituisce un aspetto fondamentale di quell’esigenza di superamento del concetto di lotta di classe che sia il fascismo che il liberalismo “democratico” hanno in comune. Con la differenza che, mentre nell’ideologia e nella pratica fascista lo Stato aspira ad essere percepito come supremo regolatore di una “serena convivenza” degli interessi, nel liberalismo/liberismo questi sono lasciati fluttuare sulla base degli interessi del capitale finanziario. In entrambi i casi, comunque, il tutto funziona soltanto a seguito di una totale rimozione o repressione delle espressioni autonome della classe o delle classi antagoniste al capitale.

Secondo il Casini, su Gerarchia del 1927, i punti fondamentali e più innovativi della Carta del Lavoro erano tre. Innanzitutto il riconoscimento delle Corporazioni, della proprietà privata e il contratto collettivo di lavoro reso obbligatorio. Mentre per Giuseppe Bottai la conquista delle ferie pagate e delle indennità in caso di morte o di licenziamento erano da considerare come: “pratici benefici che i lavoratori non erano mai riusciti a raggiungere attraverso i cartelloni demagogici della democrazia e che invece allora essi realizzavano, nella perfetta soddisfazione dei datori di lavoro”.11

der spiegel trump 4 Formalmente la differenza non era poca, ma in entrambi i casi non si usciva (e si continua a non uscire) da una logica che metteva, e mette tutt’ora, il profitto privato e nazionale innanzi a tutto. Una logica che ha costretto così la lotta antifascista di carattere democratico, e non rivoluzionaria, a parteggiare per una delle due parti in lotta a discapito dell’interesse della maggioranza dell’umanità che sarebbe stato, e rimane, quello di uscire dalle spire di un modo di produzione iniquo, devastante, soffocante, inquinante qualsiasi sia la forma che tende ad assumere nella sua rappresentazione. Soprattutto oggi, in un mondo in cui lo slogan “Siamo il 99%” si avvicina sempre di più a rappresentare efficacemente una realtà socio-economica in cui i primi otto miliardari del pianeta posseggono esattamente la stessa quantità di ricchezza degli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e uomini. Mentre anche solo qui in Italia i primi sette hanno una ricchezza corrispondente a quella del 30% della popolazione.12

In questo senso dunque il diffuso cordoglio e la grande agitazione anti-Trump che manifestano i media liberal dalla Repubblica all’Huffington Post, passando per L’Unità e la CNN, solo per citarne alcuni, oppure il mondo incanaglito di Hollywood e la stampa europea alla Der Spiegel ,13 altro non fanno che chiamare a una lotta patinata, in cui ogni espressione di Melania Trump sembra valere più di qualsiasi considerazione di carattere socio-economico, un pubblico che spesso non li ascolta o li ignora, per una battaglia che in quei termini proprio non gli appartiene. Mentre lo scontro vero tra due fazioni capitalistiche altrettanto assassine e assetate di sfruttamento procede intanto a livello di intelligence e Federal Bureau of Investigation.14

Con buona pace di chi si è lasciato troppo irretire dalle sirene dei diritti (di genere, civili, di cittadinanza) senza capire che, quando il discorso che li riguarda resta separato da una critica più generale del modo di produzione capitalistico ed ancorato ad una visione esclusivamente legalitaria e statalista, tale battaglia finisce spesso con il dividere, indebolire e creare nuove contrapposizioni più che contribuire ad un reale progresso.15

Born in the usa Creando talvolta autentici cortocircuiti e paradossi culturali; come nel caso di Bruce Springsteen che con tutto il suo strillare contro Trump sembra voler ignorare che una delle sue canzoni più famose, Born In The USA, potrebbe costituire davvero un inno dell’America di Donal Trump e dei suoi elettori, con il suo rimpianto per il lavoro perso e la chiusura delle fabbriche nelle centinaia di small town di cui parla spesso nei suoi versi, tanto quanto il lamento sugli stessi argomenti contenuto nel disco Endagered Species, con la sua copertina di rovine industriali, dei pur repubblicanissimi Lynyrd Skynyrd.16

Skynyrd_species Ma se l’esempio discografico/musicale appena riportato potrebbe apparire ad alcuni come frivolo e insignificante, ben altra rilevanza dovrebbe avere il fatto che tutte le politiche laburiste della Sinistra istituzionale europea, dal secondo dopoguerra in poi, abbiano di fatto insistito sull’intima connessione esistente tra lavoro salariato e benessere nazionale, trasformando così le contraddizioni di classe in un semplice accidente del e per il PIL. A guardarle bene, però, ci si accorge che tale discorso non è stato portato avanti e difeso soltanto da chi un tempo era definito come socialdemocratico, ma anche da quelli che fino a qualche decennio fa si definivano ancora come partiti comunisti.

La malattia, se così si può definire, ebbe infatti origine, oltre che nell’Italia fascista, nella Russia della controrivoluzione staliniana dove non solo i dirigenti fascisti andarono ad apprendere le forme di organizzazione del lavoro e a contrattare l’apertura di nuovi stabilimenti,17 ma in cui l’operaio produttore divenne oggetto di culto con lo stakanovismo.18 Non c’è da stupirsi quindi se, anche negli Stati Uniti dell’ultima campagna elettorale, l’unico avversario di Trump che avrebbe potuto attingere allo stesso bacino elettorale è stato Bernie Sanders, il cui programma economico e protezionistico aveva molti punti in comune con quello del vincitore.19

Marx ed Engels affermavano che la classe operaia o lotta o non è e che nel negare il capitalismo avrebbe dovuto dialetticamente negare se stessa (Negazione della negazione). Discorsi lontani anni luce oramai da una concezione operaista e lavorista che, nel fondare la propria protesta soltanto sulla richiesta di lavoro (e non sulla sua negazione o almeno riduzione in termini di tempo) e di interventi dello Stato in sua difesa, altro non fa che rafforzare l’idea della collaborazione tra capitale e lavoro e il sempre più evidente fascino esercitato dalle destre su ampi strati di lavoratori. Ben al di là delle convinzioni religiose e del tradizionalismo cui spesso questo effetto viene spesso principalmente imputato.

Come se questo non bastasse gran parte delle “lotte” attuali, estremamente settorializzate, rischiano di corporativizzare le dinamiche dello scontro sociale, allontanandosi le une dalle altre e troppo spesso dai bisogni più generali dei lavoratori, occupati o meno che siano; attenendosi ad un discorso liberal/liberista soltanto apparentemente inclusivo ma che, in realtà, persegue implacabilmente una sempre maggiore proletarizzazione della società. Il fatto di non cogliere ciò può soltanto portare ad un aumento, invece di una riduzione, dell’influenza di una mentalità intrinsecamente fascista nelle lotte per il lavoro.

( 1 – continua)


  1. Pierluigi Battista, Il consenso dei leader alieni, Corriere della sera, 11 febbraio 2017  

  2. Si veda in proposito, come possibile esempio tra i tanti che si potrebbero fare, l’articolo di Mario Platero, Nel mirino i grandi competitor economici, Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2017, dove si cita un’intervista a Donald Trump in cui egli afferma: “«L’Europa unita è stata formata per battere l’America sul piano commerciale» […] Poi aggiunge che l’Europa è stata formata in modo germanocentrico per favorire commercialmente la Germania”  

  3. Si veda https://it.businessinsider.com/dazi-e-addio-al-wto-trump-va-alla-guerra-commerciale-globale/  

  4. Si vedano, per esempio, le affermazioni di Trump sulle responsabilità americane e russe nelle ultime guerre: “«Vladimir Putin non è un killer?», chiede Bill O’Reilly, il conduttore più famoso della tv conservatrice Fox News. Sono le 16 di domenica: gli americani si preparano a vivere il Super Bowl, la partita di football e lo show di contorno più seguiti dell’anno. L’intervista a Donald Trump fa parte della grande attesa. Questa la risposta del presidente degli Stati Uniti: «Pensi che l’America sia così innocente? Anche da noi ci sono molti assassini». «Sì, ma qui stiamo parlando di un leader», replica il giornalista. Trump non arretra: «Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra dell’Iraq. Quanta gente è morta». Ecco fatto: in due minuti Trump ha messo insieme un’equazione esplosiva. Le responsabilità di Putin sono, di fatto, accostabili a quelle di George W. Bush, il presidente che ordinò l’invasione dell’Iraq.” in http://www.corriere.it/esteri/17_febbraio_05/trump-attacca-giudici-difende-putin-anche-noi-usa-siamo-assassini-706c90da-ebed-11e6-91eb-31433eb4de41.shtml  

  5. Lev Trochij in una lettera a Joan London, figlia dello scrittore, dell’ottobre del 1937  

  6. Si veda, in tal senso, Wolfgang Schivelbusch, Tre New Deal. Parallelismi fra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939, Marco Tropea Editore2008  

  7. 147 per la precisione. Si veda Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Laterza 2008  

  8. fonte https://www.inps.it/portale/default.aspx?iMenu=11  

  9. fonte https://www.inail.it/cs/internet/istituto/chi-siamo/la-storia.html  

  10. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_del_Lavoro  

  11. idem  

  12. fonte Rapporto annuale 2016 Oxfam, una delle più antiche società di beneficenza con sede a Londra citato in Barbara Ardù, Disuguaglianze in aumento, otto super Paperoni hanno la stessa ricchezza di metà dell’umanità, 16 gennaio 2017  

  13. Le cui copertine rendono efficacemente l’idea di quale sia ormai il livello di tensione raggiunto tra Stati Uniti e Germania. Trump viene definito gentilmente come “La fine del mondo” in una , come terrorista anti-liberale in un’altra e come “una completa follia” in un’altra ancora: Wahnsinn  

  14. Impossibile non notare la profondità dello scontro a cui il novello presidente è arrivato con l’FBI e le rivelazioni fatte da settori dell’intelligence americana e dello stesso Partito Repubblicano sull’affaire Putin al fine di indebolire l’attuale compagine governativa  

  15. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/cosa-resta-dei-diritti-umani/  

  16. Si veda John C. Hulsman, Gli eroi di Bruce Springsteen si vendicano. Addio pax americana, in Limes n° 11/2016, L’agenda di Trump, pp. 111-116  

  17. Si veda in proposito il sempre utile Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  18. Che poi l’autonomia operaia si manifestasse colà con l’impiccagione degli operai stakanovisti alle travi delle fabbriche è una storia che si può leggere in Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970, Milano 2016  

  19. Si veda https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

]]>
Hard Rock Cafone #4 https://www.carmillaonline.com/2016/01/14/hard-rock-cafone-4/ Thu, 14 Jan 2016 20:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27782 di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo [...]]]> di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda
Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo in croce. Avevo anche difficoltà a considerarlo un grande poeta, James Douglas, specie se mi capitava di leggere versi come “Non si può camminare attraverso specchi o nuotare attraverso finestre” o di incappare in rifritture liriche da liceale in fregola con la tragedia greca. Ma vabbeh, problemi miei. Salvo che i Doors continuavano e continuano – in un eterno presente – a riproporsi come una volgare peperonata all’aglio per perseguitarmi senza tregua. Del resto abbiamo i Queen senza Freddie Mercury, i Lynyrd Skynyrd senza Ronnie Van Zant e, l’anno scorso, i Faces senza Rod Stewart (che è un po’ come se fosse morto). L’utilizzo redditizio del brand e la fame di nostalgia non hanno stoppato i componenti della band rimasti, gli eredi e i discografici, nonostante l’identificazione univoca del gruppo con il suo estinto membro (non uso il termine “membro” a caso). I Doors morrisonless decisero di continuare fin da subito, sfornando due dischi sicuramente sinceri ma francamente imbarazzanti. Non indecentissimi, sia chiaro, pure con qualche ideuzza, però schiacciati dal confronto monumentale coi precedenti in quartetto, peraltro non tutti eccelsi (penso a The Soft Parade, per dire), ma al Mito non si comanda. Passo indietro: il panzuto e barbuto Jim era a Parigi in fase bohème, stanco di rock e incapricciato come un quindicenne di scapigliatura a base di droga. Forse fatale, chissà. Frequentava Agnes Varda e da lontano Bernardo Bertolucci che stava colà concependo un ultimo tango. L’ultimo per Morrison fu il 3 luglio 1971: da 40 anni circolano diverse ipotesi, tra cui quella più probabile della “fine dell’aragosta”, per la quale il collasso decisivo in vasca fu dovuto a temperatura eccessiva dell’acqua. In USA si stava già lavoricchiando a un nuovo disco ma il poetastro, comprensibilmente, a quel punto non si fa più vivo e i superstiti attoniti reagiscono registrando furiosamente, tanto che a neanche tre mesi dalla morte dell’enfio bardo, nell’ottobre 1971, pubblicano Other Voices. Voci che però non beneficiano del classico “effetto salma fresca” che renderà felici gli eredi di Hendrix, Marley e Mercury: l’album si vende poco ma gli orfani dello sciamano hanno le idee chiare come Bersani quando parla a più di cinque persone e danno sfogo a ulteriori voglie canterine con Full Circle. L’ulteriore prova discografica bordeggia prog e jazz rock ed esce nell’estate ’72: è una fetecchia ma se ne accorgono di nuovo in pochi. Sinché nel 1978, pensa che ti ripensa, i tre non azzeccano la giusta trovata, “47 morto che parla”: si suona infatti musica soffusa intorno alla voce registrata di Jim che recita tronfie poesiuole. Ne viene fuori An American Prayer, questo sì vendutissimo e ispiratore di altre operazioni extracorporee, tipo il duetto di Natalie Cole col papà secco o i Beatles che accompagnano la voce effettata del trapassato Lennon in Free As A Bird. Bene, gli avanzi dei Doors si mettono finalmente il cuore e il portafogli in pace? Macché: nel 2002 Ray Manzarek, all’organetto Bontempi, e Robbie Krieger, alla chitarra, tornano in concerto coll’ex cantante dei tamarrissimi Cult, Ian Astbury. Il batterista John Densmore, offeso, li diffida e la faccenda finisce in tribunale. Ma anche se non possono usare più il nome Doors, Manzarek, Krieger e Astbury sono ancora in tour per la gioia dei necrofili. Tiè. (Dicembre 2011)

hrc402Crimini galattici: i Rockets
Erano anni strani, quelli sul finire dei Settanta: ricordo un sedicente Actarus cantare Ufo Robot (quella dove Goldrake si ciba di insalata di matematica, per intenderci) a Superclassifica Show, tra il Telegattone e Maurizio Seymandi. Quest’Actarus era vestito proprio come il cartone animato, con la faccia celata dall’elmetto, modo geniale per fare il playback senza neanche la fatica del lip synch. E la canzone era suonata da Ares Tavolazzi (ex Area, poi con Guccini e tanti altri) e il grande Vince Tempera, mica cazzetti… Anni strani che premiavano in classifica cose così. O come i Rockets, un gruppo di zarri francesi che, visto il successo planetario dei Kiss, si dovevano essere detti: e noi chi siamo, i figli della serva? Per il look si affidarono a costumi spaziali, make up argenteo, inquietanti pelate mussoliniane e chitarre dal design futuristico. La musica invece abbondava di voci filtrate su ritmiche sintetiche; ma c’era pure qualche retaggio space rock e pinkfloydiano. Risultato? Personalmente abominevole, ma di grande successo: pezzi ipnotici lunghissimi, nonché ottimi tappeti da remixare in discoteca. E del resto i Kiss stavano giungendo alle stesse conclusioni con I Was Made For Lovin’ You. Il tutto era venduto in album con immagini e lettering degne di un Urania d’accatto. Il gruppo fece il botto e sfido a trovare qualcuno della mia generazione che non abbia ballato Galactica mimando le movenze di un robot. Il fenomeno poi sfumò malinconicamente e cominciò a circolare l’inverificabile ma suggestiva notizia che i Rockets fossero scomparsi dalle scene vittime del make up tossico, storia che faceva il paio con quella di Daniela Goggi ferita dall’esplosione in faccia dall’enorme bolla rosa di un Big Bubble (che – sempre per rimanere in ambito di leggende – si diceva fossero prodotti con grasso di coda di topo). Comunque la memoria è una brutta bestia e i Rockets hanno continuato ad avere accesissimi fan anche qui da noi e basta vedere in Rete i siti meticolosi che gli sono dedicati. E per omaggiare questi strampalati eroi, Elio e le Storie Tese nel 1996 hanno pure vinto il Festival di Sanremo (vinto eccome, c’è una sentenza) presentandosi sul palco conciati come loro. Beh, se avete nostalgia anche voi, gratificatevi con l’oggetto volante non identificato arrivato nei negozi di dischi questo inverno: un lussuoso cofanettone con l’opera omnia di ‘sti pazzi, assolutamente galattico. (Ottobre 2008)

hrc403Lucio Battisti: Amore e non amore
Comodo parlare di Battisti solo nelle feste comandate, attingendo alle stesse bio e dicendo sempre le stesse cose. Voglio vedere chi ricorderà questo mese i quarant’anni di Amore e non amore, un album oscurato da ciò che Lucio avrebbe prodotto dopo, col genio cantautorale pop dei Settanta e l’ermetismo gelido e avantissimo degli Ottanta. Ma senza quel Battisti lì, no Vasco, no Liga, no Zucchero e potrei andare avanti, includendo tantissimi altri, dai vari finto-indie fino a Marco Mengoni. Perché lui, Lucio, in fondo all’animo, era uno hippie di Poggio Bustone che in tivù cantava a squarciagola Let the Sunshine In da Hair (e di cui qualcosa avrebbe ripreso in Due mondi, su Anima latina) o Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, e che nel piano quinquennale 69/74, assieme a Mogol, ha fatto tanto rock, anche hard, pure cafone, sempre bellissimo. Psichedelico con tocchi di Doors e Led Zeppelin (il triangolo alla Rashomon de Le tre verità), hendrixiano (Insieme a te sto bene), jammato con la futura PFM (Dio mio no, Supermarket), bluesato (Il tempo di morire) o metropolitano (la misconosciuta e bellissima Elena no). E al fido Alberto Radius ha prodotto pure un disco di session unico in questo paese poco ritmico e molto melodico. In Amore e non amore ci sono quattro brani più o meno canonici (oltre alle storte Dio mio no e Supermarket, il rock alla Little Richard di Se la mia pelle vuoi e il r&b di Una) e poi quattro composizioni di musica pura, orchestrale ed intrigante, cui Mogol ha messo il marchio con titoli narrativi, tipo Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore. 35 morti ai confini di Israele e Giordania. Sulla copertina agreste (cavallo e donna gnuda sullo sfondo) Lucio sfodera una tuba, dieci anni prima di Rino Gaetano e trenta prima di Capossela, ma è nella musica che trovate la modernità di questo capolavoro dimenticato. Comunque: gli hanno scassato la minchia perché era tirchio, per una foto negata o un autografo non firmato. E perché era sempre primo in classifica e perché lo volevano fascista, per quanto amico di Demetrio Stratos e di tutta l’Area musicale milanese sinistrorsa. Invece era un genio, magari burino e scontroso, ma un genio. Ho troppo poco spazio per dimostrarvelo, ma i dischi son lì, basta ascoltarli. Qualche critico, anni fa, non l’ha fatto e oggi lo dà per assodato, senza però sbattersi a capire perché o per ricordarvelo. Sciocco. (Luglio 2011)

hrc05Zio Ted
Ted Nugent, quale fantastico cialtrone! Chi vent’anni fa aveva vent’anni, se lo filò poco: in anni di cantautori impegnati e punk rockers nichilisti come dar retta all’istrionico chitarrista che si presentava a torso nudo sul palco, indossando pantacollant di lurex e coda di procione tra le chiappe? La sua chitarra macinava riff granitici urlacchiando dal Marshall a palla e l’ironia del Motor City Madman non era neanche vagamente considerata: per i giovani impegnati italiani quello era un’autentica bestemmia, un dannato yankee che professava il ritorno allo stato di natura, arrivava sul palco pendendo da una liana e predicando l’arte venatoria. Inoltre il nostro esibiva una capigliatura leonina, rifiutava droghe e alcol, si esibiva in pose machistiche trattando le donne (nelle canzoni e sulle copertine degli album) come minus habens in estatica adorazione e sfidava altri chitarristi in duelli che si concludevano immancabilmente con la sua vittoria. Il circo, né più né meno, e Nugent era il nuovo Buffalo Bill. Beh: passano gli anni, cadono gli steccati tra generi musicali, il metal si coniuga con il rap, si rimescola tutto, istanze poetiche e anche politiche: vuoi vedere che anche Nugent, con la maturità, è diventato potabile? Il recentissimo (e tutto sommato godibile) DVD Full Bluntal Nugity Live fuga ogni dubbio e speranza: il vecchio zio Ted non è cambiato per niente, anzi. Lo show parte con il nostro eroe a cavalcioni di un pacifico bisonte. Dopo aver liberato la scena dal ruminante bestione, Ted aizza la folla coi suoi proclami sulla natura virile del vero uomo nordamericano e si scatena massacrando il suo repertorio storico. Ma non è tutto: la mazzata finale arriva dal satellite. Su VH1 è in onda il reality show Surviving Nugent: sette partecipanti (apostrofati affettuosamente “monkey”) devono sopravvivere nel micidiale ranch Nugent vicino Detroit. Partecipano anche un vegetariano, un gay e una animalista, vittime predestinate dell’incorreggibile guitar man. Se però poi uno pensa ad Adriano Pappalardo sull’Isola dei famosi, conclude che, sì: in fondo il momento della rivalutazione di Ted Nugent è effettivamente arrivato, alla faccia del Guccini dei nostri vent’anni. Amen. (Gennaio 2004)

hrc04Lunga vita ai New Trolls
Non date retta a chi vi spaccia per dischi della vita quelli con protagonisti che hanno il solo merito di essersi accoppiati con una top model ed essere finiti in overdose, senza neanche il buon gusto di levarsi definitivamente di torno (siete voi che avete pensato a Pete Doherty, io non ho detto nulla). Il rock, quello buono, non ha età e capita che uno dei migliori dischi dell’anno venga da un gruppo con 40 anni di storia alle spalle, i New Trolls. L’impresa sembrava impossibile, ma i due leader storici Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi hanno messo da parte vecchie ruggini e battaglie giudiziarie risibili per l’utilizzo del nome del gruppo e si sono impegnati a scrivere il definitivo Concerto grosso, erede dei primi due usciti negli anni Settanta. The Seven Season è il perfetto connubio di sapori antichi e sonorità moderne, con l’orchestra barocca diretta dal violoncellista hard Stefano Cabrera che accompagna, contrasta o risponde a un esuberante sestetto rock. Il risultato finale è una goduria e si sente che hanno lavorato “con lentezza” e grazie all’amore certosino dei produttori Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio (instancabile, appena festeggiati i 35 anni della PFM ha anche licenziato un album degli Slow Feet, proprio con De Scalzi). Certo, io sarò parziale, ma non posso farci niente: se cresci ascoltando sul paterno vinile originale Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta rimani indelebilmente segnato (era l’intero secondo lato del primo storico Concerto Grosso, scritto e diretto da Luis Enriquéz Bacalov). E poteva anche andarmi peggio perché mio padre aveva pure un Lp di Stephen Schlacks (a sua discolpa, era un regalo). Comunque oggi Vittorio e Nico sono in gran forma: li incontro e mi ricordano quando al Vigorelli nel 1971, prima che coi Led Zeppelin andasse tutto in vacca, presero i complimenti di Jimmy Page. E non solo: hanno suonato coi Rolling Stones, Nina Simone, Stevie Wonder e Fabrizio De André, hanno scritto pezzi commoventi come Una miniera, hanno sperimentato tempi dispari e voci alla Bee Gees, partecipando pure al film Terzo canale, un misconosciuto gioiello cinematografico flower-pop italiano: sono la nostra storia, insomma, e se quest’estate ve li siete persi dal vivo, è in uscita un Dvd registrato con orchestra a Trieste che documenta il tour che li ha portati in Messico, Giappone e Corea, con scene di tripudio imbarazzanti. Che dire d’altro? Questi ragazzacci che non vogliono smettere hanno un solo difetto: sono genovesi e tifano per una squadra di Sampierdarena. Ma tutto tutto non si può pretendere, no? (Dicembre 2007)

hrc06Il blues cacirro di Eric Sardinas
Pistoia Blues 2004. Metà pomeriggio della seconda giornata; sale sul palco tale Eric Sardinas e sembra un incrocio tra uno zombie, un cowboy e Slash. Primi mugugni nel selezionato pubblico di puristi cagacazzo che ricordano ancora la prima volta che hanno visto Mayall e sembrano non essersi ripresi, tanto da non tollerare alcuna innovazione. Dopo qualche minuto – in cui il suddetto Eric maltratta un dobro ricavandone note lancinanti e urla ferine, autentiche coltellate nella carne viva del blues – i cagacazzo cominciano ad interessarsi sinché si arriva in un amen alla chitarra flambée, trovata scenica sempre apprezzata, specie se la chitarra viene spenta e suonata ancora (è in metallo, non brucia. Scotta però) in un finale in tutti sensi incandescente. Pubblico conquistato. Bene, questo bel figuro lo incontro in una seratina gelida di marzo a Trezzo sull’Adda, nel nuovo locale Live che se ancora non l’avete visitato, merita: è una splendida roadhouse pensata per la musica da gente che la musica la ama e lotta in questo paese di caproni dove se dici “melodia” la gente pensa alla suoneria del telefonino. Con Eric chiacchiero amabilmente di blues, genere dato sempre per morto, relegato a bettole fumose eppure sempre pronto a rinascere. Negli ultimi anni lo han rivitalizzato il debordante Popa Chubby, i crudissimi Black Keys e anche i nostrani adorabili Bud Spencer Blues Explosion si son dati da fare. Sardinas, con stivale a punta, cappellaccio, boccoli neri e pizzetto luciferino, rinverdisce il mito dell’indimenticato John Campbell ed è l’ultimo erede della nobile arte dello scorticamento chitarristico tramite slide. Nei camerini il giovane è tranquillo, pacioso, sorridente, ma sul palco si trasforma in una belva e soggioga il pubblico dopo poche note, con un boogie blues urlato, demoniaco nell’inneggiare ad alcol e donne: un invito al deboscio generalizzato, col ghigno perverso e l’esagerazione istrionica di uno Screamin’ Jay Hawkins. Sponsorizzato da Steve Vai, Sardinas ricorda proprio il guitar hero come appariva nella fetenzia di film che era Crossroads, con l’incedere da sbulaccone e la chitarra puntata come un mitra. Torna da ‘ste parti a fine giugno al Torrita Blues festival e a Treviso e non me lo lascerei scappare: quando il blues torna alla sua verità nuda e cruda e viene giù come la grandine, ci fa dimenticare bluff come John Mayer – per dirne uno, presto scomparso – annebbiato da troppi soldi e showbiz. (Maggio 2010)

UNSPECIFIED - MARCH 01: Photo of DEEP PURPLE and Ritchie BLACKMORE; Guitarist with Deep Purple, smashing guitar against speakers on US tour, (Photo by Fin Costello/Redferns)Fumo sull’acqua e altre storie
Montreux è una ridente località elvetica, sul lago di Ginevra. Ha 22mila abitanti, è chiaramente ordinata e pulita e sulla passeggiata del lungolago è esposta una mostruosa statua di Freddie Mercury nano con a contorno una cafonissima scritta in metallo sbalzato lunga dieci metri: “Smoke on the Water”. Infatti nel dicembre 1971 i Deep Purple erano lì per registrare l’album capolavoro Machine Head, ma un petardo lanciato durante un concerto al casinò delle Mothers di Frank Zappa ridusse il locale in cenere. Smoke on the Water racconta con asciutto lirismo i fatti pari pari e venne inserita nell’album senza convinzione. Nessuno prevedeva il futuro da riff universale per qualunque aspirante chitarrista. Né, tantomeno, che sarebbe diventata la sigla di Lucignolo, il buco del culo di Italia1. Montreux, comunque, ospita da quarant’anni un jazz festival molto rock & roll e recentemente il patron Claude Nobs (il “funky Claude” citato nella suddetta Smoke) ha cominciato a licenziare in Dvd i concerti che hanno fatto la storia di questa manifestazione. Come quello appena uscito in cui i Deep Purple festeggiano i 25 anni del loro inno. Un Dvd splendido che fa finalmente giustizia, giacché i nostri hanno sempre avuto un rapporto bestiale con le immagini: hanno cominciato nel 1968, in tour in USA, finendo a esibirsi al Gioco delle coppie, giuro. In Rete una volta ho trovato poi un’altra apparizione televisiva incredibile, con Blackmore che, in playback, fingeva ostentatamente di suonare la chitarra sul legno, tenendola al contrario, con le corde sulla pancia. Ma la migliore Ritchie se l’era tenuta per la California Jam del 1974, concerto con mezzo milione di presenti e un cameraman un po’ invasivo. L’uomo in nero decise di saggiare la resistenza della telecamera e voi – in immagini ormai storiche – potete vedere in soggettiva l’effetto che fa il manico di una Strato dentro un obbiettivo. Poi anni di videoclip che facevano letteralmente cagare hanno portato i Deep Purple alla drastica decisione di affidarsi solo a riprese live e non sapere se l’imprevedibile Blackmore avrebbe tirato un gavettone o fatto un assolo rendeva ogni ripresa più saporita. L’ultimo scazzo con un cameraman è del 1993, quando il chitarrista lanciò bicchierate di birra e abbandonò il palco imbufalito. Da allora la frattura col gruppo è diventata insanabile: Blackmore si è felicemente smarrito in una fiaba dei fratelli Grimm e ha preteso che i superstiti non usassero la sua immagine nel merchandising. Fino alla prossima reunion, si spera. (Agosto 2007)

(Continua – 4)

@DzigaCacace usa Twitter come un tumblr

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 60 https://www.carmillaonline.com/2014/06/13/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-60/ Thu, 12 Jun 2014 22:01:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15193 di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani! (Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005 Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto [...]]]> di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani!
(Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005
Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto film come Gola profonda, diventato “importante” per una botta di culo, o di altre parti anatomiche – fosse nei primissimi anni Settanta vissuto con leggerezza e avventura, cercando veramente una liberazione (interessata, nel caso della pornografia, nessuno lo nega), combattendo contro una morale corrente ipocrita e bacchettona. Che ha stravinto. E quella che all’epoca era una scommessa per fare qualche soldo oggi è diventata un’industria globale che macina soldi e macella carne a getto continuo e non ha liberato un bel cazzo, se non quello di qualche superdotato. Inside Deep Throat è la dimostrazione del clima odierno: un documentario freddo firmato da tali Fenton Bailey e Randy Barbato, con una ricostruzione storica da cinegiornale Luce, senza entusiasmo e con – e qui non ci si poteva far nulla – l’attore Harry Reems, l’attrice Linda Lovelace (in immagini di repertorio) e il regista Gerard Damiano appassiti, con problemi di ogni tipo ma soprattutto senza una storia da raccontare attivamente perché tutti vittime e mai veri consapevoli protagonisti: non scatta affezione o partecipazione, semmai pena. La Lovelace è morta nel 2002, avendo più volte denunciato la sua condizione di sfruttata, cosa che getta un’ulteriore luce ambigua sulla celebrazione del film. Ragazzi: Gola profonda (in Italia La vera gola profonda) era una fetecchia senza grandi pretese, in linea con certa produzione coeva, e che per le imperscrutabili coincidenze della storia è diventato un cult. Ma non c’era un pensiero dietro e non possiamo pretendere adesso che ci fosse, anche se puoi attribuire al film tutti i significati che vuoi (vedi le testimonianze di Gore Vidal, Erika Jong, pure John Waters). L’operazione del documentario mi risulta falsa e fragile, viziata oltretutto da un linguaggio paratelevisivo. Zero invenzioni, nessun rischio, nessun guizzo, e alla fine altro che eccitazione, ti viene il membro interno. E guai a vedere un porno, adesso, senza complessi di colpa. Film inerte sponsorizzato da critici che sbagliano. (Dvd; 23/9/06)

ddv6002Capturing599 – Che botta, Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki, USA 2003
Fastidio, fastidio, fastidio. Perché questo è un gran bel documentario, tremendo e spietato, dove si parla di abusi su minori. Giusto per chiarire: vera famiglia americana (agghiacciante), i Friedman appunto, con padre accusato di pedofilia e uno dei figli presto coinvolto (l’altro fa l’intrattenitore e il clown a feste di compleanno di bambini…). Lo scandalo travolge tutto e tutti, in un clima delirante da caccia alle streghe, con giudici e avvocati che mettono genitori e figli l’uno contro l’altro. Ammissioni e denunce sono chiaramente finalizzate a guadagnare sconti processuali o evitare altre condanne, non per appurare la verità che rimane infatti vaga, lasciandoci un’insopportabile senso di ingiustizia e disagio. E noi sappiamo tutto ciò perché in famiglia c’è pure il vizietto di filmare morbosamente ogni cosa, discussioni comprese. Per cui Jarecki s’è trovato tra le mani una vicenda incredibile da non dover ricostruire, ma da raccontare col conforto delle immagini autentiche. Devastante. Se uno sceneggiatore concepisse una storia così tutti gli direbbero: ma non ci crederà mai nessuno, ‘a scemmu! Ah: e se qualcuno pensa che la giustizia americana abbia un senso, questo è il suo film. (Dvd; 23/9/06)

ddv6003Three Burials600 – Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, USA 2005
Chissà perché, ma mi ricorda Peckinpah. La sofferenza che nasce lungo il border, la fatica della vita, la stessa voglia di farla finita alla grande. Tommy Lee Jones dirige in modo classico, elegiaco, senza tempo, una vicenda per nulla glamour: Melquiades Estrada è un immigrato messicano illegale e una guardia di frontiera lo secca per errore. Un ranchero texano amico di Estrada (lo stesso attore e regista) lo scopre e vuole dargli la promessa degna sepoltura in Messico. Non vi dico come va a finire, ma il percorso alla ricerca di un po’ di giustizia e di redenzione è imprevedibile e commovente. Film coraggioso, premiato a Cannes e per niente attuale per cui doveroso e attualissimo. Bravi gli attori e pure i paesaggi. (Dvd; 24/9/06)

DDV6004 Grand Illusion601 – La grande illusione di Jean Renoir, Francia 1937
Buttare via una vhs è doloroso. Se contiene un Renoir, un abominio. Ma lo spazio latita anche in questa nuova casa che pagherò fino al 2730. E allora mi costringo a rivedere questo classico, come se fosse una terapia per disincrostare lo sguardo dalle troppe brutture che subisco in tivù. Ed è un film così bello che non riesco neanche a esprimerlo. Comodo, eh? Capolavoro di poesia, eroismo, fratellanza, libertà e voglia di futuro e pace: può bastare? (Vhs da RaiTre; 29/9/06)

ddv6005 Joey TempestJoey Tempest, per dire
Era il momento della festa del liceo che aspettavamo tutti: quando sulla consolle passava il vinile degli Europe, il gruppo svedese che aveva conquistato il mondo con un’aberrazione musicale, il pop metal. Prima arrivava The Final Countdown, pezzo zarro come pochi che però si cantava tutti assieme con consapevolezza autoironica, e poi Carrie, il lentazzo smielato per far capire che in fondo avevamo un cuore d’oro anche noi. Il risultato era che comunque le ragazze non ci filavano, ma nella nostra beata innocenza aspettare quei momenti era già qualcosa. Ecco, tra le tante cose che avrebbero potuto capitarmi nella vita a venire, mai avrei pensato di incontrare vent’anni dopo, in carne e boccoli, Joey Tempest. Quello che allora, all’epoca della festa del liceo, si agitava sui palchi di tutto il mondo immerso in una nube di lacca. Con jeans strappati ad arte e foulard, esibiva su un faccino da Barbie un testone di capelli degno del Cugino di campagna afro. Al punto che, confesso, la prima volta che vidi un videoclip degli Europe rimasi col conturbante dubbio se il cantante fosse una donna. Vabbeh, ho già detto che di ragazze (per mancanza di interscambio microbiotico) si capiva poco. Ad ogni modo oggi il gruppo s’è riformato e l’ultimo album Secret Agent non è malaccio, anche se l’ho ascoltato per meri motivi professionali e mai più mi capiterà. L’intervista allo svedese è nella suite imperiale dello Scandinavia Hotel (ovvio, no?) e Tempest, con la faccia da ragazzino e il capello mosso ma di media lunghezza, è un bell’ometto di quarant’anni che ne dimostra meno, felice, realizzato e ansioso di sapere, lui, un sacco di cose. Per esempio che colazione ho fatto. Caffè, dico. E come lo fate qui? E allora gli spiego la differenza tra moka, espresso e all’americana, giocandomi il termine “percolazione”, cosa che mi deve avere accreditato professionalmente. Nero vestito, asciutto, risponde felice sull’ultima fatica della band: finito il suo periodo solista country rock, ha solo voglia di musica potente che, per risultare ottimale, presenti anche qualche bel chorus cantabile dal pubblico. Ovviamente Secret Agent, il settimo disco come Europe, è il migliore della loro carriera (mai trovato un artista che dicesse una cosa diversa), ma il buon Joey auspica ulteriori novità, magari svolte inaspettate: del resto gli piacerebbe collaborare con David Bowie. Oggi nel suo iPod ci sono Audioslave, Hellacopters, Hives e (giacché è il migliore etc. etc.) l’ultimo Europe, ma nel cuore porta Rainbow, Deep Purple e Whitesnake e quando faccio il ganassa dichiarando che ho intervistato Blackmore comincia il controinterrogatorio. Vuole sapere tutto e allora racconto io. Poi contrattacco e gli chiedo degli italiani che conosce. Ammira la Nannini e gli è rimasto impresso un pezzo di Ramazzotti: Se bastasse una canzone. Son passati quasi vent’anni e canta perfettamente la frase melodica. Poi però chiarisce che non ama il pop: guai a deludere i fan che potranno vederlo in concerto in Italia a fine gennaio. Magari viene anche Eros, chissà. (Live, 5/10/06)

Ddv6006 Alice602 – Ha i suoi annetti Alice’s Restaurant di Arthur Penn, USA 1969
Film epocale, per la musica e i significati, ma che visto oggi fa simpatia perché è un brutto anatroccolo che mai diverrà cigno. Esaltante come vedere crescere un rampicante, dialogato (e tradotto) in maniera ingenua, sconclusionato negli avvenimenti e con poco mordente, è un’opera di alcun cinismo che nel bene e nel male rappresenta le speranze di un’epoca e l’impossibilità a buttare via (metaforicamente e non solo) tutta la spazzatura fisica e morale che produciamo. Barbara si è inesorabilmente addormentata, io ho resistito fino in fondo perché sono un romantico cazzone facile all’intenerimento, ma l’ho visto più per dovere che per piacere. (Vhs da Tele+, 12/10/06)

ddv6007 Kinski603 – Lo splendido Mein liebster Feind – Kinski di Werner Herzog, Germania/Gran Bretagna 1999
Klaus Kinski, da paura. Folle, spiritato, dolcissimo, violento: questo singolare atto d’amore in pellicola ci mostra come si possa amare una persona nonostante la persona stessa sia insopportabile e ripugnante. Si parte con l’attore tedesco a teatro che litiga ferocemente col pubblico, facendo passare Carmelo Bene per un lord. E poi lo vediamo sui diversi set di Werner, talmente nella parte da sfasciare con un colpo di spada l’elmo di metallo di una comparsa india durante Aguirre. Tutti fuori controllo, come sempre nel cinema di Herzog, tutto che alla fine ha una sua sbalestrata coerenza. E per questo Kinski era l’attore perfetto. Per-fet-to. Negli extra del dvd prestato da Roberto (visto perché nella mia vhs mancavano gli ultimi 5 minuti) c’è anche un grandioso corto di Les Blank in cui Herzog si mangia (realmente, giuro) una scarpa per aver perso una scommessa col regista Errol Morris, quello del futuro Fog of War. E ditemi voi se non poteva essere uno come Werner Herzog ad eleggere il demoniaco Klaus a suo feticcio. (Vhs da RaiTre; 18/10/06)

ddv6008 Springtime604 – Buddhistico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-Duk, Corea del Sud, 2003
Immoto (il film e io), ma i sentimenti girano a mille. La semplicità ha del miracoloso, la messa in scena è di una purezza abbacinante. Kim Ki-Duk asserisce di non avere mai visto film prima di farne lui. Forse è vero, sicuramente questa narrazione compassionevole e fuori dal tempo è veramente fuori dal tempo e commuove. Moooolto bello. (Dvd; 22/10/06)

ddv6009 Ice Age 2605 – Freddino con Ice Age 2 di Carlos Saldanha, USA 2006
Mi mancavano Syd & company, al punto che vedo il nuovo episodio senza neanche avere obblighi paterni, ma proprio per infantile piacere mio. E il film è caruccio ma meno riuscito del primo episodio, molto meno. Stavolta alla ghenga formata da mammut, tigre dai denti a sciabola e bradipo si unisce una mammutona, ma la storia d’amore tra i due pachidermi non è ‘sta gran cosa, con lei un po’ sciacchella e che si crede sorella di due opossum odiosi. Intanto Scrat continua imperterrito a inseguire la sua ghianda, mentre Syd affronta lo scioglimento dei ghiacci con stolida saggezza e speranza. Però, però… Sufficienza abbondante, dài, ma non il capolavoro che avrei voluto e di cui parlano i critici che si erano evidentemente persi il primo L’era glaciale e ora fanno i gggiovani, perché tra nuovi Pixar, Miyazaki e il resto bisogna far finta di conoscere anche il mondo dei cartoni. Di cui vi rullerei. (Dvd; 29/10/06)

ddv6010 DevilsRejects606 – Sbaglierò, ma per me The Devil’s Rejects di Rob Zombie è un capolavoro, USA 2005
Premessa: La casa del diavolo è semplicemente grandioso e questo pezzullo contiene più spoiler, vi ho avvertito. Dunque, questo è un horror (dissimulato, ma costruito citando a più non posso per esegeti e cultori) che parla del presente, delle follie dell’America, del culto delle armi, delle ossessioni pop (musicali e non solo), della divisione capitalistica in classi, coi gendarmi delle forze dell’ordine a tenere tutti al loro posto. Non dite a Zombie che è marxista (non ci crederebbe) ma qui – meglio che in tanti altri film perbene, sanificati e moralmente accettabili – abbiamo i buoni veramente cattivi e i cattivi in fin dei conti umanamente comprensibili (perdonabili no, ma nessuno lo è). E alla fine, piuttosto che schiavi, meglio morti, come Peckinpah ci ha insegnato tanto tempo fa. Colonna sonora southern da orgasmo, fotografia seventies abbacinante, facce perfette, regia abilissima capace di qualche momento di autentico genio (l’esecuzione del poliziotto col colpo alla testa, col silenzio dilatato e quella detonazione che ti fa fare il classico salto sulla sedia). E quando nella sequenza finale parte la Freebird dei Lynyrd Skynyrd, ho pensato: come in Forrest Gump adesso ci sarà un atroce taglio e amen. Invece il pezzo c’è tutto, nella gloria dei suoi 9 minuti, allungando epicamente all’inverosimile questa magnifica scena, con le chitarre che si inseguono in uno stampede solistico. E un’idea così, da sola, farebbe già del film un’opera unica. Capolavoro. (Dvd; 1/11/06)

ddv6011 V for Vendetta607 – L’equivoco di V for Vendetta di James McTeigue, UK/USA 2005
Cercavo il coreano Vendetta e basta ma sono totalmente rincoglionito che affitto per errore un film forse più adatto ancora a svoltare la serata da divano, copertona di flanella e rutto libero. Trovo qualche scompenso narrativo, ma come opera ludica V fa il suo sporco mestiere e diverte, alimentando tensioni anti Sistema nel momento adatto, con rimandi neanche troppo occulti al G8 e a Seattle. Ideologicamente, non provo neanche ad affrontare la vicenda, però: non ne sarei stato capace anni fa, figuriamoci adesso che ho ancora l’ormone sballato per la paternità. Il fumetto di Alan Moore da cui è tratto il film, invece, m’ha fatto schifo ma è colpa mia che vorrei di nuovo leggere Manara sceneggiato da Pratt, non so voi. (Dvd; 2/11/06)

ddv6012 the-departed-608 – The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese, USA 2006
Ci concediamo un cinema e becchiamo un Martin cattivello, che ci trascina in una storia di malavita irlandese dove bene e male si confondono fino a un finale che non ti aspetti. Ma è anche l’unica cosa che mi piace veramente del film. Gli attori sono azzeccati (Mark Wahlberg, Peppino DiCaprio, un Baldwin ciccio, pure il bambolo Matt Damon) e il cast funziona nonostante un Jack Nicholson gigione da farsa e una comprimaria donna (tale Vera Farmiga, vera cagna) che mi pare un inno funebre alla chirurgia plastica e che immagino non rivedrete mai più sul grande schermo da quanto è scarsa. Musica discreta, montaggio anonimo e fotografia lattiginosa orrenda. Alla fine, che dire di ‘sto Departed? Mah, sono un po’ deluso, ma non posso prendere a pugni un uomo solo perché stato un po’ Scorsese, eh. (Cinema Orfeo, Milano; 3/11/06)

ddv6013 Heimat 2609 – Uno dei film della (mia) vita: Heimat 2 di Edgar Reitz, Germania 1993
Servirebbe una recensione vera, coi controcazzi, per manifestare la mia commozione e felicità nell’aver rivisto, dodici anni dopo, una delle opere cinematografiche più belle e complete mai realizzate. Qui dentro ci sono la giovinezza, la speranza, la musica, l’arte, la scoperta, l’amore, il tradimento, l’illusione… c’è la vita, come poche volte può capitare di esperire al cinema (l’angelo custode mi suggerisce: “Capirai: dura anche 26 ore, eh…”). Più riuscito del già splendido Heimat 1 (questo è più fluviale, meno ostico linguisticamente, più vicino come argomenti), Heimat 2 è un capolavoro – credo – inarrivabile. Dopo il primo episodio ho passato i giorni seguenti a tre metri da terra, raggiante: è un film che parla di studenti universitari che scoprono il loro ruolo nel mondo e io ho avuto la fortuna di vederlo mentre credevo di essere uno studente universitario che scopriva il suo ruolo nel mondo. Ambientato lungo tutti gli anni Sessanta fino all’alba dei Settanta, c’è tutto quello che ti aspetteresti, ma con una prospettiva intima e personale che riesce a essere universale senza mai scadere nella ricostruzione nostalgica: Kennedy, i Beatles, la rivoluzione sessuale, la lotta armata, la musica sperimentale, l’assunzione di responsabilità, Venezia come non l’avete vista mai, i campi di sterminio, il passato nazista e la sua riemersione sotto altre forme, il velleitarismo politico, la chiacchiere artistoidi, l’aria fritta e la vita concreta… Sono un cialtrone, è evidente, ma su questo film ho ragione da vendere: è unico e imprescindibile e comunica con straordinaria semplicità il senso della vita: imparare ad aspettare (dalle mie parti, più volgarmente: ghe voe tanta pasiensa). E poi, perdonatemi lo spoilerino, ma anche adesso – come dodici anni fa – continuo a pensare che alla fine Ansgar non sia veramente morto: accadrà come nei telefilm americani e si scoprirà che invece è vivo ma nascosto da qualche parte… Ridatemi Ansgar, per piacere! (Dvd; da novembre 2006 ad aprile 2007)

ddv6014 devil-wears-prada610 – L’immondo Il diavolo veste Prada di un delinquente, USA 2006
Una solenne cazzata: siamo andati al cinema di sabato e ben ci sta. I film decenti hanno le sale piccole strapiene per cui – una volta usciti, parcheggiato, preso pure la pioggia – si è costretti a vedere una schifezza come questa che ha un pubblico fittizio, costretto da martellamento pubblicitario e critici comprati con un cocktail blandamente alcolico al buffet dell’anteprima. L’immondo film è un Eva contro Eva dei giorni nostri, dove la cattiveria è tramutata in farsa e tutto sommato le porcate lavorative sono accettate con una strizzatina d’occhi perché così va il mondo. Salvo giusto Meryl Streep per antica fedeltà e  gli occhioni da cerbiatto della pettoruta Anne Hathaway – a tanto son ridotto – e rilevo che il finale orrendo è l’adeguato coronamento di questa gigantesca stronzata commessa da tale David Frankel, una di quelle che ti arrecano dolore al momento dell’espulsione, scusate il francesismo. (Cinema Ducale, Milano; 11/11/06)

ddv6016 lost625 – Lost – Seconda serie di J.J. AbramsDamon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2005
Barbara mi ha fatto questo esatto sintetico suntino: “C’è della gente su un’isola”. Ah beh, come Selvaggi, dei Vanzina, quindi. “No: io non so e loro non sanno che cosa stia succedendo”. Punto. Per quanto la traduzione italica sia fastidiosa lo vedo godendomelo abbastanza fino a che (cfr. il parere #630, nella prossima puntata di questo sciagurato cinediario) non mi guardo la prima serie al confronto della quale questa seconda risulta decisamente inferiore, specialmente verso il finale quando l’apparizione di un enorme piede litico a sei dita mi getta nella più totale costernazione: gli sceneggiatori ci stanno mica a coglionare? Comunque, dài, anche Lost 2 è un bel prodottino che esalta la potenza del flashback, dà dipendenza e fa lavorare gli emisferi per capire cosa stia accadendo su ‘sta cazzo di isoletta. (Vhs da RaiDue; da febbraio a maggio ‘07)

ddv6017 Freddie Mercury628 – Queen Live at Wembley Stadium di Gavin Taylor, GB 1986
Visto (innumerevoli volte) non solo per ottusa passione musicale ma anche perché la piccola Sofia è rimasta folgorata dalla performance di Freddie Mercury, subito ribattezzato “omo nudo” a causa delle sue esibizioni a torace scoperto. La hit preferita è Bohemien Rhapsody che contiene il memorabile verso “oh mama mia”. Grande cornice di pubblico, cori a go-go, assolazzi come si deve, fumi e Freddie incontenibile: si straccia la maglietta, si fa incoronare con tanto di mantello d’ermellino e non risparmia una stilla di sudore per un pubblico che tiene in pugno (da cui anche l’accusa un po’ confusa di fascismo di Dave Marsh, su Rolling Stone…). Certo, i Queen sono stata l’ultima grande band edonistica degli anni Settanta, uber-cafona, sicuramente kitsch, senza menate e falsi moralismi (erano a Live Aid per gli etiopi? Ma va’!), ma capaci di scrivere grandissimi canzoni, spaziando dall’hard più terremotante al funk, al pop, al gospel e al vaudeville. È una mia debolezza e ho l’incubo dei Take That: Sofia non ha neanche due anni e va tirata su come si deve, eh. (Dvd; febbraio e marzo ‘07)

(Continua – 60)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>
Free Bird https://www.carmillaonline.com/2013/08/04/free-bird-2/ Sat, 03 Aug 2013 22:01:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7169 di Filippo Casaccia

Then I Saw Black, And My Face Splashed In The Sky (Neil Young, Powderfinger)

ls01

La premessa è irrituale ma doverosa: vi invito, amabili lettori, – chi può – a procedere nella lettura di questo pezzo con una mano sulle palle, esattamente come sto facendo io che arranco sulla tastiera con la sola destra. Il fatto è che la storia dei Lynyrd Skynyrd, magnifico gruppo rock della metà degli anni 70, è costellata di sfighe inimmaginabili. Ed è la storia di una band che avrebbe potuto dominare [...]]]> di Filippo Casaccia

Then I Saw Black, And My Face Splashed In The Sky (Neil Young, Powderfinger)

ls01

La premessa è irrituale ma doverosa: vi invito, amabili lettori, – chi può – a procedere nella lettura di questo pezzo con una mano sulle palle, esattamente come sto facendo io che arranco sulla tastiera con la sola destra. Il fatto è che la storia dei Lynyrd Skynyrd, magnifico gruppo rock della metà degli anni 70, è costellata di sfighe inimmaginabili.
Ed è la storia di una band che avrebbe potuto dominare le classifiche e gli stadi per molti anni a venire e che nel momento del salto verso lo stardom assoluto è stata decimata da una tragedia che nella storia del rock ha il solo precedente della morte di Buddy Holly: il 20 ottobre 1977 li ferma infatti un incidente aereo che mena gran strage tra le fila del gruppo, privandolo soprattutto del leader Ronnie Van Zant, i Lynyrd Skynyrd fatti persona.

Era appena uscito il disco della consacrazione, Street Survivors, uno dei loro migliori. Il futuro gli sorrideva, la band era ripulita da dipendenze varie e girava di nuovo a mille. Per arrivare a quel momento aveva lottato a lungo e più che una band era una gang, legata da affetto viscerale, rissosa ma unitissima, la classifica famigliola disfunzionale e orgogliosa del Sud degli States che crede nell’etica del lavoro e vuole farcela decidendo di testa propria. I Lynyrd Skynyrd nascono a inizio decennio con negli occhi il successo degli inarrivabili Allman Brothers (altri che hanno resistito a disgrazie a non finire e sono ancora in giro con onore) e nelle orecchie il sound della terza British Invasion, specialmente quello dei rocciosi Free: un incedere blues che sa di bootleg whiskey, ma con una sensibilità pop. Attorno a Van Zant si coagulano i loser della parte sbagliata di Jacksonville, Florida. Non li fermano i loro capelli lunghi, l’atteggiamento hippie e l’ostilità dei redneck che li vedono troppo in confidenza coi neri del luogo, quelli che gli insegnano il blues. L’apprendistato è lungo e faticoso (il nucleo era nato addirittura alla high school, nel 1965), in locali che avete visto satireggiati nei Blues Brothers ma che nella realtà sono anche peggio e dove gli oggetti tirati sul palco sono la norma. La leggenda vuole che il chitarrista Allen Collins, una volta colpito in testa da una bottigliata, sia sceso in mezzo al pubblico per calmare a ceffoni l’esuberante spettatore. Tornò sul palco con tempismo perfetto, esattamente dopo dodici battute, in tempo per pigliarsi il suo assolo. (Con una Gibson Firebird; Gary Rossington, invece, suonava una Les Paul; questo per riconoscerli nelle foto e per dare soddisfazione ai guitar addicted).

ls04Il gruppo si esercita nella comunitaria Hell House, il cui nome dice già tutto: una cabina in legno e lamiera confortevole come una fornace, poco fuori Jacksonville. Lì, diventano presto una formazione che beve benzina, mastica tabacco e caca fulmini, suonando da dio, unita, dinamica e travolgente. Li guida con pugno di ferro Ronnie Van Zant. Voleva essere pugile, poteva essere camionista (come il padre), era diventato un frontman eccezionale: pancetta da bevitore, berretto da cowboy e un’inquietante somiglianza con l’attuale Zucchero. Ronnie canta sul palco a piedi nudi, per chiamare gli assoli fischia come Trapattoni e sprona i suoi uomini puntandogli contro l’asta del microfono, come se fossero una mandria di puledri da domare. Si dice che diriga la band come Stalin l’Unione Sovietica: esige disciplina assoluta e il pianista Billy Powell lo capisce perfettamente dopo aver perso due incisivi.
Però per sfondare serve una botta di culo, che arriva personificata in un borghese ebreo di New York, già nel pantheon rock assieme a Bob Dylan (suona l’organo in Like A Rolling Stone su Highway 61 Revisited), Mike Bloomfield (Super Sessions), Stones (su Let It Bleed), Hendrix (su Electric Ladyland) e i suoi Blood, Sweat & Tears: si chiama Al Kooper.
La gavetta dei Lynyrd finisce quando Al li vede esibirsi in una bettola di Atlanta dal nome che sembra un insulto omofobico siculo, il Funocchio’s. Kooper capisce che ha davanti qualcosa di unico e provvede subito a contrattare la band che – prodotta da lui – esordisce nel 1973 con Pronounced Leh-nerd Skin-nerd, giusto per chiarire quel nome che è una presa per il culo dell’insegnante di ginnastica che tiranneggiava i ragazzi alla high school (e immagino che lo Skinner dei Simpson, preside della scuola di Springfield, sia un omaggio di Matt Groening).
LS02L’album è splendido e mescola blues, hard rock e un pizzico di country, e – assieme alle commoventi Simple Man e Tuesday’s Gone (ma se comincio con gli elenchi non la smetto più) – c’è un brano che spicca e nel tempo diverrà un inno universale, repertorio obbligatorio per qualunque cover band USA: Free Bird, ballatona strazzacore dedicata a Duane Allman e che parte dolente e melanconica e poi si trasforma in una maratona feroce della sei corde, con assoli a profusione in un crescendo inarrestabile e maestoso. Del resto, sul palco la formazione diventa presto a tre chitarre (con Ed King, Fender Stratocaster) e vi assicuro che c’è da goderne e molto. Se ne accorgono in diversi e i Lynyrd ottengono di aprire per gli Who in tour con Quadrophenia: il loro comportamento on the road fa sembrare Keith Moon & company dei boy scout (e parliamo di gente che ha devastato cittadine). Ma il consueto repertorio di stanze d’albergo sfasciate e di liti sul palco o nei camerini, porta anche la grande stampa americana a giocare con una immagine degli Skynyrd sempliciotta e aggressiva, di inurbati rurali un po’ tonti.

Ls03Le vendite non sono granché e ci si gioca il futuro col classico difficile secondo album. Che è l’ottimo Second Helping del 1974, con la consueta formula che mescola tutti gli umori del Sud. E dove c’è anche il pezzo che consegna gli Skynyrd alla storia: Sweet Home Alabama, dal riff inconfondibile e dagli assoli iconici che – parole sue – il chitarrista Ed King avrebbe appreso in sogno. Un pezzo che anche il più schifosamente giovane tra voi conosce, grazie al furbetto Kid Rock che l’ha ripresa qualche estate fa in All Summer Long.
Come tanti successi, la nascita del brano è un po’ casuale e il testo vuole essere una risposta a Neil Young che aveva attaccato lo stato dell’Alabama nell’omonima canzone e in Southern Man. I ragazzi non ci stanno: qui non siamo tutti razzisti. E allora gliela cantano e non mancano di far sentire il coro “Booo Booo Booo” al governatore segregazionista George Wallace. Però il verso, prima, dice: “A Birmingham tutti amano il governatore” e non tutti colgono l’ironia.
I Lynyrd suoneranno pure al concerto per la candidatura definitiva di “Nocciolina” Jimmy Carter (più democratici di così, eccheccazzo) ma è più facile far passare la canzone come un inno sciovinista, orgoglioso della propria burinaggine, tanto più che la casa discografica MCA li fa esibire con un bandierone confederato alle spalle. E così, anche qui da noi, per molti gli Skynyrd passano per dei razzisti bifolchi e a nulla varranno le spiegazioni negli anni a seguire o il fatto che spesso Ronnie si esibisca indossando magliette con foto di Neil Young e che il vecchio canadese scriva Powderfinger proprio per loro (che non la incideranno mai).
Il mercato preferisce il sudista che non si arrende e si definisce addirittura un genere di cui malvolentieri il gruppo di Jacksonville diventa la punta di diamante, quel Southern Rock di cui gli Allman sono i nobili progenitori. È il boom, dalla Florida fino al Texas, e da fenomeno regionale si passa al successo nazionale, con Marshall Tucker Band, Charlie Daniels Band, Outlaws, Wet Willie, Grinderswitch, Black Oak Arkansas, Molly Hatchet, ZZ Top, Blackfoot e tanti altri, in un ideale arco parlamentare che va dal country all’heavy, passando dal soul al jazz, tra cascami hippie e qualche avvisaglia reazionaria.

ls04bIl successo ha un sapore particolare. I cafoni assaporano il senso della rivincita su chiunque li avesse ostacolati e si esibisce la ricchezza ottenuta, si beve whiskey migliore e si accettano date a non finire. Ovviamente scoppiano scazzi feroci e cominciano le defezioni: Ed King scappa letteralmente una notte, a metà del cosiddetto Torture Tour (61 date in 90 giorni), mentre il batterista Bob Burns viene rimandato a casa dall’Inghilterra, dove, esauritissimo, ha gettato un gatto dalla finestra della sua camera d’albergo perché lo riteneva posseduto dal demonio (aveva appena visto L’esorcista… il cinema, alle volte).
Si arriva al terzo album incattiviti ed esausti e, al grido che il Sud ce la farà ancora, si procede, anche se le performance sono meno buone e talvolta ci si esibisce con la mani fasciate o gli occhiali da sole per nascondere gli occhi neri frutto di reciproci pestaggi in camerino. Nuthin’ Fancy (niente di divertente, emblematico) fa fatica e l’inno contro l’uso delle pistole, Saturday Night Special, viene trattato come se le esaltasse. Non ha miglior fortuna il quarto album, del 1976, il pur bello Gimme Back My Bullets. Anche qui polemiche: i “proiettili” che Ronnie vuole indietro sono quelli che scalano le classifiche, come Sweet Home Alabama o Free Bird. Finisce che invece ad ogni concerto il palco venga invaso da una gragnuolata di cartucce vuote o da esplodere. Sembra una commedia degli equivoci.
Tra i pezzi memorabili dell’album c’è Double Trouble che racconta degli undici arresti di Van Zant. Il disco non fa in tempo ad uscire che gli arresti diventano dodici. Ma si distingue anche il nuovo batterista Artimus Pyle che finisce sotto processo perché dopo un concerto viene spintonato da un poliziotto: ovviamente reagisce e lo fa nero. Accorrono rinforzi e lo fanno nero: arrestato.
Il momento di crisi viene superato assoldando una nuova terza chitarra. Dopo tanto cercare, una delle Honkettes (le coriste che accompagnano il gruppo) propone timidamente il fratello, Steve Gaines, che lascia tutti a bocca aperta e mette il pepe ar culo alla band. Il ritrovato smalto sul palco (a Knebworth rubano lo show agli headliner e Ronnie si esibisce con una maglietta che chiede: “Ma chi cazzo sono questi Rolling Stones, dopotutto?”) e il successo imprevedibile di Frampton Comes Alive convincono tutti della necessità di un doppio dal vivo. A fine 1976 ne esce uno di quelli monumentali, One More From The Road, dalla scaletta perfetta e dalle esecuzioni fulmicotoniche, che vende benissimo e rilancia la band.

ls05Il 1977 è l’anno cruciale e il nuovo album Street Survivors nasce sotto cattivi auspici: nello stesso giorno del settembre 1976 (Labor Day, il 6) i chitarristi Allen Collins e Gary Rossington, a causa di droghe e alcol, centrano degli alberi con le loro macchine, separatamente. Van Zant scrive allora la profetica That Smell, sente cioè puzza di morte e non sa quanto ha ragione. Ma l’album è vitale, gioioso, ricco dell’energia portata da Gaines. Il tour parte in contemporanea all’uscita del disco e dopo cinque date, nella serata del 20 ottobre 1977, c’è da viaggiare sul Convair 240 del gruppo, da Greenville, South Carolina, fino a Baton Rouge, Louisiana.
La benzina finisce troppo presto e i motori vanno in vacca uno dopo l’altro: si va in picchiata libera sulle paludi del Mississippi, infestate da serpenti e alligatori. L’impatto è devastante, l’aereo a pezzi. Muoiono sul colpo pilota e copilota, il road manager, Steve Gaines e la sorella corista Cassie.
Van Zant viene sbalzato fuori dalla carlinga e prende un albero con la testa. Per una volta ha la peggio lui.
I sopravvissuti brancolano nel buio in uno scenario da incubo. Artimus Pyle, con sterno rotto e tre costole che gli escono dal petto, cerca soccorso e incontra un bifolco stile Tranquillo week end di paura che lo accoglie – non scherzo – a fucilate ma poi gli dà retta e fa partire i soccorsi che scatenano anche fan (o presunti tali): in mezzo ai soccorritori e ai superstiti urlanti si mescolano avvoltoi che recuperano vestiti, strumenti, gioielli, soldi e qualunque memorabilia sia possibile raccattare dal pantano.
Una volta ricoverato, Artimus ce la farà. Come il bassista Leon Wilkeson che ha la mascella rotta, il torace a pezzi e varie emorragie interne, tanto che viene dichiarato morto ben tre volte. Powell se la cava semplicemente col naso staccato dal volto. Glielo riattaccano. Rossington ha braccia, gambe, polsi, anca e bacino fratturati. Collins due vertebre del collo rotte e il braccio destro ridotto da consigliarne l’amputazione. Che rifiuta.

ls06Cala il sipario e il terribile incidente pone significativamente fine al periodo migliore del Southern Rock. La band si riunisce dieci anni dopo per un tour di tributo e – visto l’enorme successo – non si ferma più: dischi non memorabili seppur dignitosi e una line up che perde i pezzi pian piano. Allen Collins rimane su una sedia a rotelle dopo un incidente d’auto in cui muore la fidanzata. La moglie ci aveva già lasciato nel 1981, incinta, per improvvisa emorragia interna. Lui muore nel 1991 per polmonite cronica. Billy Powell muore il gennaio 2009 per un probabile attacco cardiaco, mentre stava chiamando con intuito il medico. A Leon Wilkeson qualcuno taglia la gola nel sonno nel 1990, mentre è a bordo del tour bus del gruppo (!). Non schiatta ma mai s’è saputo chi fosse il colpevole (la fidanzata e il chitarrista Ed King – all’epoca di nuovo nella band – si accusano reciprocamente: bell’ambientino). Muore nel 2001, a 49 anni, per cause più o meno naturali: cirrosi ed enfisema cronici.
Dal 1987 il nuovo cantante è il fratellino Johnnie Van Zant (voce identica a Ronnie, carisma molto inferiore), che però salta solo alcune date nel 2006 per una banale appendicite, il pivello. Ed King rientra nella band dall’’87 al ’96 quando molla per ripetuti collassi cardiaci. È felicemente ritirato, e lo credo bene: è vivo. Gli subentra Hughie Thomasson, già chitarra rovente degli Outlaws. Che poi lascia per morire nel 2007 causa infarto. Bob Burns è ancora incredibilmente tra noi (e, infatti, non suona più).

I Lynyrd Skynyrd di oggi sono un’esemplare tribute band, diventata reazionaria, musicalmente e politicamente. Non c’è più alcuna contestazione dell’establishment, anzi si moltiplicano le iniziative per appoggiare “i nostri ragazzi” in Afghanistan e Iraq. Ogni tanto viene pubblicato qualche disco che – per forza di cose – non ha alcuna forza propulsiva o inventività. La band suona bene, come sempre, ed è perfetta per le convention dei bikers o per raduni di nostalgici in tutto il mondo. Il solo membro originale è il povero Gary Rossington, uno che convive con 5 bypass cardiaci e diverse placche metalliche disseminate sullo scheletro, cosa che farà la gioia sua e dei controllori ad ogni metal detector aeroportuale.
Insomma, dopo 40 anni, alla band è purtroppo subentrato il brand.
Detto questo: potete levare la mano.
Amen.

(Questo post è stato pubblicato diversi anni fa su Carmilla; lo ripubblichiamo nella speranza che nessuno caschi nell’equivoco su chi siano i Lynyrd Skynyrd oggi).

]]>