lupi mannari – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le tristi storie delle morti dei re (II) https://www.carmillaonline.com/2024/09/09/le-tristi-storie-delle-morti-dei-re-ii/ Mon, 09 Sep 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84185 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Il leoncino d’inverno

Worcester, agosto. “Di Giovanni il Re tra un millennio e più / ancor si parlerà / non certo per le sue virtù / né per la sua bontà…”: niente, questa canzoncina dal Robin Hood di Walt Disney, 1973, continua a tornarmi in mente mentre attraversiamo il vivace centro città pieno di negozi e turisti.

“La mamma ha sempre preferito Riccardo” geme nel cartone animato il principe Giovanni (doppiato in originale da Peter Ustinov), prima di succhiarsi il pollice di fronte al serpentino consigliere Sir Biss (doppiato da Terry-Thomas) e al [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Il leoncino d’inverno

Worcester, agosto. “Di Giovanni il Re tra un millennio e più / ancor si parlerà / non certo per le sue virtù / né per la sua bontà…”: niente, questa canzoncina dal Robin Hood di Walt Disney, 1973, continua a tornarmi in mente mentre attraversiamo il vivace centro città pieno di negozi e turisti.

“La mamma ha sempre preferito Riccardo” geme nel cartone animato il principe Giovanni (doppiato in originale da Peter Ustinov), prima di succhiarsi il pollice di fronte al serpentino consigliere Sir Biss (doppiato da Terry-Thomas) e al lupo obeso sceriffo di Nottingham, tra una vessazione e l’altra a una variegata popolazione animale del medioevo britannico. Giovanni vi figura come un leone spelacchiato e privo di criniera, mentre il legittimo re Riccardo Cuordileone ne vanta naturalmente una fluente e un’espressione regale. Siamo un po’ in zona Libro della giungla.

La mamma citata – che non incontriamo – è naturalmente Eleonora d’Aquitania (1122-1204): divertente vedere il cartone di Disney a confronto con il meraviglioso Il leone d’inverno (The Lion in Winter) di Anthony Harvey, 1968, tratto dall’omonima opera teatrale di James Goldman, 1966. Lì lo scambio teso tra il personaggio del titolo, il vitalistico ed egocentrico Enrico II Plantageneto (un grandioso Peter O’Toole), appunto la moglie Eleonora (Katharine Hepburn, realmente regale) e i figli ribelli Riccardo, Goffredo e Giovanni, vedrà uscire lei pienamente vincitrice. Il film, che vanta una sceneggiatura di classe, un’ottima fotografia e un cast scintillante (Anthony Hopkins è Riccardo, futuro Cuordileone, dai rovelli freudiani e dalle tormentate ambiguità sessuali; John Castle è Goffredo; Nigel Terry incarna un Giovanni spiacevole e codardo; Timothy Dalton porta la corona di Filippo Augusto di Francia; l’affascinante Jane Merrow è Alais, amante di Enrico; Nigel Stock è Guglielmo il Maresciallo) mostra tutte le fragilità e le divisioni del casato dei Plantageneti, che avranno conseguenze drammatiche alla malinconica fine del regno di Enrico per esplodere molto più tardi e paradigmaticamente nel sistematico massacro delle Due Rose.

La cultura popolare, tramite le riscritture della storia di Robin Hood (ma anche nell’Ivanhoe di Scott), ci ha abituati a contrapporre al buon re Riccardo il cattivo Giovanni. Ma da un lato non c’è alcuna certezza che Robin Hood sia mai vissuto (cfr. qui e qui) e comunque se vada collocato tra i regni di Riccardo (1189-1199) e Giovanni (1199-1216), e non per esempio sotto Edoardo I (1272-1307) come in effetti emergerebbe da una delle ballate; e d’altro canto un’ampia rilettura ha riguardato le figure dei due re, buono e cattivo. Sicuramente cavalleresco e gran guerriero il primo, ma Cuordileone anche in tutti i sensi più spiacevoli: feroce per indole, brutale antisemita, pronto a tradire il proprio padre… Memorabile il ritratto febbricitante – a suo modo cavalleresco ma ottuso, crudele e avido – che ne offre Richard Harris nel bellissimo, malinconico Robin e Marian (Robin and Marian) di Richard Lester, 1976: dove a interpretare un Robin Hood maturo e crepuscolare è nientemeno che Sean Connery. Che sarà interprete dello stesso Riccardo nel deludente Robin Hood – Principe dei ladri (Robin Hood: Prince of Thieves) di Kevin Reynolds, 1991: quasi a ricordare ai vari pallidi Kevin Costner & Co., che il vero Robin Hood resta lui.

Mentre il malfamato Giovanni – che si era fatto strada verso la corona alla morte (precoce e di causa discussa) di un altro personaggino inquieto, il fratello ribelle e irreligioso Goffredo – vanta, pare, qualche virtù non disprezzabile. Per esempio è un uomo di cultura: ama musica e letteratura, istituisce una biblioteca. Sa essere – quando vuole – umanamente simpatico. Ma soprattutto risulterà alla fine il portatore, sia pure non spontaneo, di uno dei primissimi e importanti esempi di carta costituzionale, la Magna Carta del 1215. Oltre a prefigurare negli scontri con la Chiesa – per tutto un filone anticattolico culminato nel The Life and Death of King John di Shakespeare (1587-1598) – se non proprio un proto-protestante, almeno una sorta di nevrotico anticipatore dello scisma anglicano.

Poi certo, dell’uomo Giovanni normalmente non si parla bene. Destinato forse in origine alla carriera ecclesiastica, si troverà insieme danneggiato (sul piano psicologico) e favorito (su quello della carriera) dalle cospirazioni incrociate nell’ambito della sua irrequieta famiglia. Non è un gigante (m. 1,68 di altezza), ma un fisico robusto poi ingrossato (“corpo potente, un torace a botte”) e di pelo rosso scuro, anche se diverrà calvo con gli anni: più il Paul Giamatti di Ironclad (2011) che lo Ian Holm di Robin e Marian. Quanto al suo viso, è ovale con gli occhi a mandorla e bocca sensuale, se le descrizioni d’epoca non peccano di manierismo nel descrivere un bon vivant amante dell’ozio, della tavola, del sesso (due mogli, una pletora di amanti) e della buona compagnia. Gli piace il gioco d’azzardo (specialmente il backgammon), è un gran cacciatore, sviluppa una competenza in materia di pietre preziose di cui si procura una bella collezione, ama sfoggiare abiti vistosi e frequenterebbe il vino anche di cattiva qualità. Talora presentato come brillante, spiritoso, generoso, ospitale, sembra mostrare in altri momenti tratti da nevrotico ipersensibile, geloso e soggetto a crisi di rabbia. È un melanconico capace di alternare a cupe apatie accessi di esaltazione sopra le righe: astuto, tecnicamente preparato sul piano giuridico ed economico, risulta però disastroso nei rapporti umani, ai vari livelli a cui deve coltivarli. Ma diciamo che in casa plantageneta non alberga Maria Montessori.

Prediletto dal padre, dopo la guerra tra Enrico e Riccardo – subentrato al primo sul trono – riceve dal fratello vincitore una serie di benefici rilasciando promesse tranquillizzanti: per tre anni sarebbe rimasto fuori dall’Inghilterra. Ma poi invece eccolo tornare sull’isola, soppiantare gli incaricati di Riccardo partito per la crociata e cercare di assicurarsi il trono con la falsa notizia della morte di lui, in realtà prigioniero del duca d’Austria. Tutto questo lo sa chiunque abbia frequentato le storie di Robin Hood.

Giovanni insomma come furbetto del quartierino, a dirla alla moderna. Fuggito in Francia senza attendere il ritorno dell’indignato Cuordileone che lo disereda e gli confisca i beni, riesce però a succedergli quando il celebrato fratello si fa ammazzare banalmente sotto le mura di un castello francese. In scontro con l’erede del defunto fratello Goffredo, Arturo I di Bretagna, non trova di meglio che farlo sparire (pare in realtà che, ebrius et daemonio plenus, lo assassini di persona: quanto a una dama che anni dopo lo accuserà dell’omicidio, Giovanni la lascerà morire di fame col figlio nel castello di Windsor). Persi parte dei domini francesi, tutela le comunità ebraiche, imponendo però loro tassazioni esosissime; si scontra con il papa finendo umiliato; trova accordi sui fronti di Scozia e Galles, ma viene sconfitto in Francia, e costretto dai baroni a firmare la Magna carta – poi annullata con bolla pontificia da Innocenzo III per i legami un po’ equivoci tra sovranità del sovrano e della Chiesa – vede i ribelli offrire il trono al figlio di Filippo Augusto di Francia, Luigi poi VIII di Francia detto il Leone (in una storia dove i leoni si sprecano). Questi sbarca, viene incoronato a Londra: così Giovanni cerca di reagire, facendo tesoro delle titubanze dell’avversario, ma nell’ottobre 1816, in piena guerra coi baroni, mentre si trova al castello di Newark, nello stesso Nottinghamshire di Robin Hood, a stroncarlo è infine una brutta dissenteria. Una morte triste (“le tristi storie delle morti dei re”) e miserabile, nella solitudine delle proprie feci. Per inciso anche Luigi il Leone morirà di dissenteria, ma in Francia, nel 1226.

Comunque sulle tracce di Giovanni mi trovo qui a Worcester (città graziosa, vivace – immagino – soprattutto d’estate), per visitarne la tomba nella cattedrale: una tomba un tantino agitata, il che giustifica l’indagine. Come sintetizza un testo vittoriano, Curiosities of Indo European Tradition And Folk-lore di Walter K. Kelly (1863),

 

Si dice che il re Giovanni d’Inghilterra sia andato in giro come un lupo mannaro dopo la sua morte. Un’antica cronaca normanna afferma che i monaci di Worcester furono costretti dagli spaventosi rumori provenienti dalla sua tomba, a dissotterrare il suo corpo e gettarlo fuori dalla terra consacrata. “Così il fosco presagio del suo soprannome Senza Terra si realizzò completamente, poiché perse durante la propria vita quasi tutti i domini sotto la sua sovranità, e anche dopo la morte non poté mantenere il pacifico possesso della sua tomba”.

 

Arrivando all’edificio sacro, mi sembra di essere uno di quegli eruditi di Montague Rhodes James che in grazia dei loro interessi per antiche cappellanie e tombe sfuggite finiscono col cacciarsi nei guai. Apprendo che la cattedrale è aperta quel giorno solo fino alle 13 (non contavo di visitarla la notte), ma constato con preoccupazione che in un’ampia parte resta occupata per l’organizzazione di un concerto. Molto bello, ma non sono lì per quello. Con sollievo, mi sento però rispondere che la tomba di Giovanni è nella parte libera, e vi punto direttamente. Trovandomi, con un velo di commozione, al cospetto di un personaggio che mi insegue fin da bambino.

La leggenda che il lussurioso e infido Giovanni possa essersi infine mutato in lupo è stato collegata con un dato specifico della sua carriera, la signoria sull’Irlanda e il soggiorno – peraltro non felice – sull’isola. In Irlanda leggende piuttosto radicate considerano lupi mannari tutti i discendenti dei pagani di Ossory colpiti dall’apposita maledizione di san Patrizio e del santo abate Natalis: il birichino Giovanni che probabilmente rimorchiava signorine locali avrebbe insomma avuto ampio modo di farsi infettare – e questo, a detta dei beninformati, potrebbe spiegare alcune caratteristiche del suo profilo. Ma la leggenda parla di una mutazione in lupo dopo la morte, con conseguenti uscite in pelliccia dalla tomba, in un edificio sacro dove per inciso si commemora il ricordo di San (guarda caso) Wulfstan, vescovo della città. D’altra parte lupi (e leoni, e lonze per sovrapprezzo) fanno parte, ci insegna il padre Dante, del triste bestiario delle anime sgarrupate.

Che secondo vox populi alcune figure particolarmente odiate conoscessero una simile metamorfosi post mortem è documentato da occorrenze anche più recenti: l’odiato Michael Leicht, borgomastro di Ansbach in Media Franconia, nel 1685, sarebbe similmente uscito dalla tomba terrorizzando la cittadinanza in forma di lupo – e in prosieguo si proporrà di vedere in questi revenant-lupi altrettanti vampiri (o piuttosto sanguisugae o bloodsucker, creature pre-vampyr del medioevo inglese). In realtà non occorre, come attestano antiche testimonianze di nessi tra il lupo – animale infero associato agli dei d’oltretomba, che bazzica per cimiteri e sbrana cadaveri malamente tumulati – e il corpo morto: la trasformazione in un lupo che salta fuori dalla tomba, attestano leggende altomedievali, interesserebbe già l’eretico Pietro capo dei Fundagiagiti (metà V sec.) di ambito bogomilo. Del resto il nesso tra canide – già compagno della pre-Ecate neolitica – e cadavere si riscontra anche in senso opposto, del dormire più pacificamente: del famoso pirata Khayr al-Dīn Barbarossa, morto di febbre gialla nel 1546, si racconta che tornasse fuori a più riprese dalla sua tomba presso Istanbul, “finché uno stregone non trovò il rimedio, facendolo sotterrare in compagnia di un cane nero” evidentemente psicopompo (Vezio Melegari, Pirati, corsari e filibustieri, 1964). In fondo Cerbero – ipostasi della pluralità uggiolante dei cani della dea – non era deputato a impedire l’ingresso, quanto la fuga dei morti: ma quel che rileva è anzitutto la costellazione mitica, non tanto come i singoli elementi vengono gestiti.

Ci si può immaginare che dopo l’ennesimo evento spiacevole nella cattedrale (a parte gli “spaventosi rumori”, quante comparsate del lupo ci sarebbero state?), il successore Enrico III – sul trono 1216-1272, che dovrà fronteggiare i soliti baroni, i Francesi, i Gallesi, per sovrapprezzo i Mori in Terrasanta, ma era un tipo tranquillo, d’animo semplice e amante delle belle arti – avrà pensato qualcosa come “oh, no, di nuovo papà…”. Ma in fondo lo sapeva: apparteneva anche lui ai Plantageneti (da planta genistae, la pianta di ginestra), la stirpe del diavolo in cui i figli tradivano i padri, questi li combattevano e poi gli uni e gli altri morivano male. In fondo lo sapeva: ma a lui, tranquillo e bonario, andò meglio, perché anche un destino non è mai ferreamente fissato. Si guadagnerà persino un ruolo nel Purgatorio dantesco.

Mentre suo padre… beh, abbiamo visto come la vecchia leggenda e il profilo del cattivaccio permettano di recuperare un lascito assai arcaico, sepolto al fondo della nostra cultura: e se non è il sepolcro che ho davanti, massiccio e chiuso, la tomba da cui un lupo potesse uscirsene (possiamo immaginare si trattasse di una prima sepoltura non ancora definitiva, poco dopo la tumulazione) fa un certo effetto la vertigine di tempo, credenze e paure che esala da un monumento del genere. In una cattedrale peraltro di grande bellezza e dal sentore di pace. Riposa, Giovanni.

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Lo schermo mannaro https://www.carmillaonline.com/2019/11/25/lo-schermo-mannaro/ Mon, 25 Nov 2019 22:08:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56433 di Franco Pezzini

Stefano Leonforte, Guardatevi dalla luna. Il cinema dei licantropi, pp. 463, € 24, LEIMA, Palermo 2019

(Questi giorni di Torino Film Festival, in cui un’ampia retrospettiva è dedicata all’horror/gotico e varie pellicole toccano proprio il tema della mutazione, sembrano una giusta cornice per segnalare il volume in esame, in effetti appena uscito. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

È abbastanza chiaro che una percentuale importante dei miti ascrivibili alla nebulosa del gotico riguardi in qualche modo la questione dell’identità; o per meglio dire delle sue crisi, dei turbamenti [...]]]> di Franco Pezzini

Stefano Leonforte, Guardatevi dalla luna. Il cinema dei licantropi, pp. 463, € 24, LEIMA, Palermo 2019

(Questi giorni di Torino Film Festival, in cui un’ampia retrospettiva è dedicata all’horror/gotico e varie pellicole toccano proprio il tema della mutazione, sembrano una giusta cornice per segnalare il volume in esame, in effetti appena uscito. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

È abbastanza chiaro che una percentuale importante dei miti ascrivibili alla nebulosa del gotico riguardi in qualche modo la questione dell’identità; o per meglio dire delle sue crisi, dei turbamenti e delle perversioni, dei dubbi e delle domande che il rapporto con l’io e con le sue umbratili dimensioni “sorelle” (Es, Ombra, Doppio… teniamoci larghi) spalanca nella percezione dell’uomo moderno. Suggestioni come quella – essenzialmente stokeriana, sulla base di spunti folklorici piuttosto vaghi – del vampiro che non si rifrange nello specchio, a implicare che forse non ci riconosciamo in quella nostra rifrazione vampiresca, ne rappresentano solo la punta dell’iceberg.

Il bel libro che avete tra le mani incalza appassionatamente, con ricchezza di dati, uno dei filoni di questa inquietudine. Il modo cioè in cui una delle arti che già in radice ammiccano con più forza alla dimensione dello specchio – cioè il cinema, attraverso una quantità di elementi come luci, schermi, la stessa riproduzione del movimento che mima il nostro – affronta uno di questi dedali identitari, il rapporto sofferto tra uomo e bestia: non una bestia esterna, ma quella che l’uomo stesso può essere nel suo profondo o diventare.

Però attenzione, non una bestia a caso: e gli antropologi hanno dedicato ampi studi alla “strana” scelta di attribuire la parte del villain per eccellenza proprio al lupo – e non ad animali in fondo più pericolosi, come l’orso che invece pare tanto carino e coccolabile o quel leone che in antico s’incontrava in tutta Europa, e in effetti risulta ben presente nell’immaginario ma con altre valenze simboliche. Un lupo oggetto di un mix di odio (fino a connotazioni di vero e proprio sadismo nel tipo di caccia riservatogli) e di ammirazione: e per capire qualcosa di più dobbiamo risalire a un passato davvero remoto, quando questo bellissimo ed elegante animale appariva accreditato come il predatore per antonomasia – a cui dunque guardare quale modello nell’ambito di comunità umane altrettanto predatorie –, fratello libero del fedele e sottomesso cane, associato per assonanze onomastiche alla luce (lupo/λύκος, luce/λευκ-, λυκ-, cfr. λευκός, “brillante, chiaro, bianco”) e addirittura assunto a icona totemica, divina o eroica d’eccellenza. Non stupisce che per molto tempo l’assimilazione al lupo venisse cercata, in quelle che sono le prime esperienze attestate di licantropia come fenomeno rituale (in certi arcaici culti arcadi, per esempio); anche se già in antico l’immaginario poteva prevedere casi di “mutazione” non voluta. L’ingresso in un mondo diverso, prima quello classico e postclassico – che vede sopravvivere alcune esperienze come eccezionali – e poi quello cristiano, marginalizzerà fino a rendere penose forme di “diversità” o condannabili collusioni con le tenebre le tensioni verso una mutazione in lupo (o in altri animali). Tramite suggestioni folkloriche e vaghi echi dei processi a presunti mannari tra Cinque e Seicento il tema passerà nella narrativa gotica e romantica e in ultimo al cinema.

Fin qui sembra tutto facile: un lascito di tempi remoti, qualcosa che in fondo coinvolgerebbe poco le nostre emozioni di gente che i lupi li vede solo nei documentari, o al massimo vive la dialettica “pro o contro” tra ambientalisti e cacciatori. Ma è davvero tutto qui? Non proprio. Il fatto è che per capire un po’ meglio gli aspetti duplici dell’icona lupesca dobbiamo scavare più a fondo: perché il lupo non era solo immagine, odiata o ammirata di volta in volta, del predatore di capi di bestiame, accidentalmente spinto da contesti estremi ad attaccare gli uomini. È ben più ampia e oscura la dimensione implicata: e per esempio alla sfera simbolica e alla stessa etimologia del lupo rimanda la dea Lissa (Λύσσα), nata dalla Notte e dal sangue dell’evirato Urano, patrona del furore cieco negli esseri umani e anche della rabbia canina, che farebbe diventare il cane feroce come un lupo – cioè appunto mutare in lupo.

Di più: sulla base di una lunga elaborazione fin dal neolitico, il lupo e lo stesso cane sono associati alla sfera infera, nell’ampio spettro delle sue declinazioni. Di solito pensiamo al canino Anubi (dal sembiante non di sciacallo ma di un canide selvatico nordafricano imparentato proprio con il lupo), o agli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, effigiati con il capo coperto da una pelle di lupo; oppure alle mitologie norrene che proietteranno quest’ombra di morte addirittura a livello cosmico ed escatologico, quando i lupi Hati e Skǫll si ingoieranno Luna e Sole e il padre dei due, l’arcilupo Fenrir, divorerà Odino. Ma lupesco è il mostro che emerge da un puteale – forse l’Olta sconfitto da Porsenna secondo Plinio il vecchio – effigiato su urne etrusche nei musei toscani; e non manca l’ipotesi che lo stesso sfuggente demone Caco ucciso da Ercole nell’area della futura Roma possa identificarsi nella figura con corpo umano e testa di lupo dell’arte villanoviana ed etrusca. Emblematica è poi la cosiddetta Tarasque di Noves, statua di un mostro antropofago dalle fauci di lupo ritto su due teste umane, conservata nel Museo Calvet di Avignone, e che nell’aspetto può richiamare la sagoma irsuta attribuita tanti secoli dopo alla Bestia del Gévaudan. La si è attribuita ai celtoliguri Cavari, associandola alla violenza delle acque della Durance al guado del Maupas (malus passus), ma è plausibile che la sua valenza mitica rimandi una predazione assai più generale e di carattere infero.

Se la discesa agli inferi può essere – lo sappiamo bene – una dimensione esistenziale concretissima nel corso del nostro itinerario terreno, l’incontro con questo lupo nelle profondità di noi stessi si rivela qualcosa di terribilmente serio: qualcosa che offre al pathos del Larry Talbot di turno – e la maschera sofferta di Lon Chaney Jr. può in fondo testimoniarlo – un sapore assai più autentico e vicino. L’immagine del puteale che pone in comunicazione la nostra vita quotidiana con i suoi abissi continua a parlare a distanza di tanti secoli: la bestia lupesca è pronta a eruttarne, per assidersi nella terribile maestosità dell’icona al Museo Calvet e infine straziarci. Possiamo chiamarla in tanti modi, lutto, dimensione di perdita, male di vivere: qualcosa comunque che rimanda a una forza infera che lacera e divora, che muove dalle nostre profondità e si apposta al malus passus di qualche momento dell’esistenza. Non abbiamo bisogno di coprirci di peli per sentir irrompere il lupo interiore, come specchiato ritualmente dalla liturgia profana del film horror. E il mito gotico torna a gettare qualche (livida) luce su ciò che abbiamo dentro, su ciò che siamo.

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