Lukács – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 György Lukács, un’eresia ortodossa / 2 — Affinità elettive https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-2-affinita-elettive/ Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85181 di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire verso tutto ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse ancora più significativo, verso quella teoria politica, come nel caso di Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo imperante dentro il mondo comunista non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di Lukács apriva verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava interamente della sovversione marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto, l’attualità della rivoluzione non può che essere l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide con la riscoperta della attualità della rivoluzione e di quel passaggio dalla preistoria alla storia che sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo quel tratto escatologico che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro pamphlet.

Il testo su Lenin è tanto più stupefacente se teniamo a mente che, nel momento in cui viene scritto, l’autore è ben distante dal conoscere gran parte della produzione leniniana, della quale ha, però, una profonda conoscenza empirica. È un Lenin conosciuto nella prassi, dentro quel turbinio di fatti che il treno della rivoluzione scandiva a ogni suo passaggio. Un treno dove le fermate e le ripartenze e la stessa velocità di crociera non poteva essere predeterminata. Solo il fuoco della lotta di classe, di tutte le classi sociali in lotta, offriva il combustibile alla locomotiva. Guerra imperialista, crisi, insurrezione popolare, ancora guerra imperialista, crisi, insurrezione proletaria e contadina, presa del Palazzo d’Inverno, vittoria della rivoluzione, sua crisi e arretramento, dispiegamento della guerra civile, costruzione dell’esercito rosso, vittoria sulla controrivoluzione interna e accerchiamento imperialista sono le varie stazioni che accompagnano il percorso per nulla lineare e scontato del treno bolscevico. È il Lenin che si muove dentro questo percorso, il vero ispiratore del testo lukácsiano; il pamphlet su Lenin è il pamphlet della e sulla prima rivoluzione immediatamente internazionale.

Sono anni in cui rivoluzione e controrivoluzione si affrontano senza più alcuna sorta di mediazione. La gurra civile internazionale è la cornice concreta dell’epoca.1. Per quattro lunghi anni l’ottobre ha dovuto sostenere un conflitto armato contro la reazione bianca e l’intervento imperialista internazionale. La rivoluzione ha conosciuto insieme vittorie momentanee, accompagnate da catastrofiche sconfitte. La rivoluzione, purtroppo, non si è diffusa, contrariamente a quanto fatto sperare inizialmente. La marcia verso Varsavia è stata interrotta, la repubblica sovietica in Ungheria è stata spazzata via, la socialdemocrazia tedesca ha liquidato manu militari l’insorgenza proletaria, i pur eroici tentativi austriaci non hanno avuto seguito, mentre in Italia la sconfitta operaia spalanca le porte al fascismo. Sono anni contrassegnati da una frenetica attività dove, per i militanti rivoluzionari, la linea di confine tra la vita e il patibolo è quanto mai sottile2 e Lukács è attore protagonista di tutto ciò.

Il testo su Lenin, pertanto, non può che risentire e assumere interamente lo spirito del tempo. Paragrafo dopo paragrafo Lukács affronta tutte le questioni che attraversano il movimento rivoluzionario riportando continuamente il concreto dentro l’astrazione. Per questo, alla fine, il pamphlet risulta un testo teoricamente denso dove, in ogni pagina, è possibile cogliere, oltre all’immensa erudizione dell’autore, l’insieme di domande che, volta per volta, il movimento rivoluzionario è costantemente obbligato a porsi. Di più; nel breve saggio Lukács va, senza fronzoli di sorta, al cuore delle questioni che, non solo contestualmente, il movimento comunista si trova ad affrontare. Composizione di classe, forma partito, la questione dello stato, la cornice politica propria dell’imperialismo e via dicendo lo rendono un testo che ha ben poco di datato. Consegnare e rinchiudere questo saggio nell’ipotetico scaffale dei pensatori del passato come tributo al mondo di ieri significa non avere compreso nulla di Lukács e ancor meno del suo Lenin (e in fondo di Lenin stesso), ed è forse qui che la questione lascia i panni della schermaglia teorica per farsi battaglia politica a tutto tondo del e sul presente. Qui si pone la rigida contrapposizione tra l’attualità della rivoluzione e i suoi becchini. Qui si pone la drastica cesura tra la soggettività dei rivoluzionari e l’oggettivismo e il determinismo dei socialdemocratici di ieri e di oggi. Qui si pone la differenza tra l’essere e lo stare sul filo del tempo della rivoluzione e l’assunzione del tempo reificato del capitale come unica dimensione possibile.

In coerenza con ciò questo breve saggio cercherà di esserne all’altezza. Paragrafo per paragrafo si proverà così a stare sul filo del tempo nel tentativo di cogliere nel presente, quanto la complessità del testo è in grado di suggerirci. Nessun accademismo comunista ma una guida per l’azione. Ci sembra infatti che, pur con le ovvie tare del caso, nel mondo attuale le questioni poste da Lukács siano tutt’altro che datate. Qual è il contesto storico in cui ci troviamo? Come si definisce la classe nel presente e in che modo questa è in grado di farsi egemone nei confronti di tutti i subalterni, cristallizzando in tal modo attorno a sé il popolo nella sua concretezza? Quale forma organizzativa deve assumere la soggettività politica nel presente. In che modo l’imperialismo si è trasformato, passando per la centralità della questione dello stato che, detto per inciso, è stata a lungo accantonata dai movimenti rivoluzionari, sino ad arrivare alla complessità che gli scenari geopolitici contemporanei pongono di fronte ai movimenti di classe? Sono tutti temi che mostrano quanto attuale sia la ripresa tra le mani di questo testo. La sua rilettura parte da questa consapevolezza, nell’augurio che tutto ciò possa contribuire a dare qualche traccia di risposte agli interrogativi del presente. Interrogativi che non poco hanno a che vedere con la stringata premessa attraverso cui Lukács presenta il suo Lenin.

Il saggio apre con un breve paragrafo introduttivo tutto incentrato sull’attualità della rivoluzione in quanto unità di misura della fase storica. All’inizio può apparire un punto di vista tanto banale quanto generico: Lenin, cioè, si sarebbe limitato a dire e osservare che il contesto storico in cui vive è gravido di rivoluzioni. A una lettura solo poco più attenta le cose si mostrano in ben altro modo e dietro quella apparente banalità è racchiuso tutto il senso cristallino della dialettica storico materialista interamente restaurata. Proviamo a darne ragione. Lukács, non a caso, apre il suo Lenin con una breve quanto mai densa nota epistemologica. Lenin è il restauratore della teoria marxiana che la Seconda Internazionale ha non tanto modificato e rivisto, ma completamente mistificata. Cosa ha fatto in sostanza la Seconda Internazionale? Una cosa molto semplice: ha scorporato Marx e la filosofia della prassi in un insieme di categorie scientifiche proprie della modellistica nella quale la borghesia cataloga il sapere. Così, volta per volta, Marx si fa filosofo, sociologo, storico, economista mentre, del Marx politico, si tende a eluderne il portato. Operazione, quest’ultima, sicuramente sensata poiché il Marx politico rende pressoché impossibile la precedente classificazione3.

Scomponendo e ascrivendo Marx nei vari ambiti disciplinari, di fatto, lo si ascrive dentro le retoriche proprie del sapere della borghesia e quindi lo si azzera. In questo modo l’inizio della rivoluzione storica marxiana presente sin dalla nota tesi numero undici delle Tesi su Feuerbach: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo.”, è ridotta alla stregua di un curioso aneddoto. Con ciò si oscura l’inizio della rivoluzione della quale, la filosofia della prassi, ne è tanto l’incipit quanto il programma. La Seconda Internazionale mentre da un lato assumeva il marxismo come sua dottrina politica, dall’altro lo collocava nel tranquillizzante ambito della storia delle idee e, con ciò, lo depurava del suo portato storico e sovversivo. Ne esorcizzava la rottura filosofica che, alla scala della storia, incarna l’irrompere politico di una classe in guerra aperta e totale contro l’ordine esistente. Non aveva avuto, forse, un ruolo simile la filosofia dei Lumi nei confronti del mondo antico? Non aveva forse questa scompaginato complessivamente tutta la cornice filosofica del mondo antico? Con la decapitazione del Re non veniva forse decapitato tutto l’ordine discorsivo di un’era? La filosofia della Grande Rivoluzione non si contrapponeva come insieme di saperi ad altri saperi ma rompeva con tutto un modello epistemico. Tra la vecchia e la nuova filosofia non vi era uno scontro di conoscenza bensì uno scontro di potere. La ghigliottina risolse la diatriba. Attraverso quel passaggio la borghesia iniziò a plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza4.

La filosofia della prassi, alla scala della storia, si pone come la filosofia della nuova classe, la filosofia del proletariato. Il suo compito non è competere con la storia, l’economia, la filosofia della borghesia ma esattamente spezzare il dominio di queste discipline. Se Marx si fosse pensato in veste di economista avrebbe potuto titolare il suo capolavoro come critica dell’economia politica? Avrebbe potuto criticare, dove critica significa sparare ad alzo zero, l’economia politica se quella, ovvero la scienza economica, fosse stata veramente la sua dimensione? Se Il capitale, come l’ortodossia socialdemocratica prima e quella comunista dopo hanno continuamente sostenuto, fosse stata un’opera di scienza economica è immaginabile che Marx si sarebbe preso così gioco degli economisti e, per farlo, avrebbe utilizzato un’arma così poco scientista ed economica come la dialettica5? Evidentemente no. Non per caso Marx pone l’accento sulla critica per enfatizzare esattamente il senso della sua operazione. Paradossalmente, trasformare il marxismo in una scienza, è quanto di meno ortodosso si possa fare poiché il problema di Marx non è farsi scienziato ma critico radicale di quello scientismo che è stato posto a fondamento dell’ordine capitalista. La presunta neutralità della scienza è una leggenda che socialdemocrazia e ortodossia comunista hanno coltivato proprio contro Marx.

Qualcosa di ancor più chiaro lo troviamo nella nota asserzione: “Noi (Engels e Marx) riconosciamo una sola scienza: la scienza storica”6. Cosa c’è di meno storico, nel senso di comunanza con la disciplina storica di questa asserzione che, in una sola frase, racchiude un mondo? La scienza storica di Marx ed Engels è la scienza della lotta di classe, la scienza della soggettività di classe. Potrà mai questa essere tranquillamente riposta nell’ambito delle discipline storiche? Evidentemente no poiché, questa scienza storica, non è altro che la scienza della rivoluzione. Non una filosofia tra le molte, non una scuola storica tra le altre, non una teoria economica tra le tante, bensì la critica storico–politica di questi saperi. La critica sovversiva e unitaria della società borghese e dei suoi saperi codificati questa è la filosofia della prassi. Tutto ciò è stato bellamente rimosso dalla Seconda Internazionale in un’operazione di addomesticamento del marxismo tuttora in atto. Lenin rompe esattamente tutto ciò restituendo alla teoria marxiana la sua funzione di radicale rottura storica. Se non si comprende questa operazione rimane impossibile accostarsi a Lenin. Questa è la puntualizzazione e la premessa indispensabile che, come corposo incipit, è posto da Lukács al suo Lenin.

Ma cosa c’entra la dialettica storico–materialista con l’attualità della rivoluzione? Perché Lenin li lega in maniera indissolubile? Perché proprio su ciò Lukács pone un’attenzione quasi maniacale? Perché il metodo, quindi il piano astratto della teoria, ha così tanto a che fare con il concreto storico e quindi con la politica rivoluzionaria? Per un motivo tanto semplice quanto complesso: il metodo consente di leggere la totalità del processo storico e ricavare pertanto ciò che l’analisi separata degli eventi non è assolutamente in grado di cogliere ed è qui che Lukács evidenzia il dato centrale della restaurazione leniniana quella di, grazie alla dialettica storico–materialista, non soffermarsi a quel post festum che la dialettica hegeliana aveva riconosciuto come limite insormontabile della conoscenza del divenire ma di saper cogliere la tendenza. Esattamente dentro questa relazione, lettura dialettico–materialista della storia e la totalità degli eventi storici che si stanno concretamente evidenziando, Lenin coglie il senso dell’epoca, ovvero l’attualità della rivoluzione. Può farlo solo perché, a differenza dei più, è in grado di maneggiare sino in fondo la scienza storica marxiana. A partire da questa indispensabile premessa si snoda l’intero testo lukácsiano. La capacità di cogliere, in ogni circostanza, la totalità del processo in corso è quanto nelle pagine del Lenin verrà continuamente posto in evidenza. Perché battere così tanto su questa premessa filosofica, perché partire dalla necessità di ribadire la totalità come questione centrale della filosofia della prassi e quindi strumento indispensabile alla messa in forma della tattica di partito? Perché è solo questa che consente a Lenin di sovrastare tutti gli altri socialdemocratici i quali, per un verso o per l’altro, avevano amputato il marxismo proprio della totalità.

Scindere il marxismo in più ambiti disciplinari ha comportato perdere di vista il quadro d’insieme e, con questa, la possibilità di cogliere la tendenza. Scindere il marxismo in tanti particolari ha comportato l’impossibilità di leggere i fatti nella loro totalità, di legarli tra loro e comprenderne ciò che è in loro oltre il puro aspetto fenomenico. In questo modo il marxismo da scienza della rivoluzione diventa una delle tante scienze politiche e sociali le quali, a partire dalla loro particolarità, analizzano dei singoli fatti senza essere in grado di legarli tra loro. Un sociologo analizza il conflitto di una lotta ma, se rimane un sociologo, non è in grado di leggere che cosa, in potenza, quella lotta cela; un economista analizza una crisi ma non ne coglie la relazione con gli effetti politici che questa comporta; un politico osserva la guerra dal punto di vista della geopolitica ma non ne vede le forze sociali che quella guerra è in grado di determinare e mettere in movimento e così via. L’ostilità che la Seconda Internazionale nutre verso la rivoluzione è esattamente il frutto dell’impotenza teorica propria del riformismo. Per i più Lenin è solo un visionario e forse non sbagliano poiché lui è il solo ad avere una visione marxiana della realtà storica e quindi la capacità di leggere i fatti nel loro insieme invece che tenerli rigidamente separati. Al riformismo così attento ai fatti, così pragmatico e realista questi finiscono con il non raccontare nulla mentre, alla visionaria totalità leniniana, i fatti raccontano per intero il loro segreto: l’attualità della rivoluzione.

Al proposito non vi è molto da chiosare se non che oggi è proprio questa incapacità nel saper cogliere la totalità che si mostra come grande limite del movimento rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario, in fondo si torna sempre lì e quanto invece la teoria rivoluzionaria fosse costantemente a mente nell’agire di Lenin l’esposizione dei paragrafi del pamphlet ne offrirà una felice constatazione. A noi non resta che, sulla scia del Lenin di Lukács, cercare di riappropriarci della totalità ma ciò non fa che confermare quanto l’inattualità di questo testo sia drasticamente attuale e come risulti impossibile archiviarlo come altri hanno pensato di fare7, forse per non dover fare nuovamente i conti con l’attualità della rivoluzione, nel polveroso museo della storia comunista.

(2continua)


  1. Ciò è molto ben argomentato in, C., Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005.  

  2. Su ciò si veda in particolare, A. V. Tiskov, Dzerzinskij, Il giacobino proletario di Lenin. Una vita per il comunismo, Editore Zambon, Milano 2012.  

  3. Eppure, questo è il solo e vero Marx del quale si possa parlare. Marx è la politica della rivoluzione che non può essere scomposta dentro gli ordinamenti e le classificazioni del sapere borghese. La stessa filosofia marxiana è tutto tranne che una filosofia bensì il superamento stesso di questa.  

  4. Tutto ciò e molto ben descritto dal grande storico controrivoluzionario H. Taine, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, Adelphi, Milano 2008.  

  5. Non è certo un caso che per il marxismo ortodosso e scientista ne Il capitale la dialettica occupi uno spazio estremamente limitato ossia quel paragrafo relativo al carattere di feticcio della merce dove, in una sorta di sfizio intellettuale, Marx avrebbe preso gusto a civettare con Hegel.  

  6. F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2018.  

  7. Significativa al proposito l’Introduzione attraverso la quale viene presentato questo testo nell’edizione dei tipi della Pgreco del 2017. Qua il testo lukacsiano è ridotto a puro cimelio storico una sorta di avventura del pensiero senza alcuna ricaduta concreta sul presente.  

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Dittature democratiche e democrazie dittatoriali https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/dittature-democratiche-e-democrazie-dittatoriali/ Fri, 01 Oct 2021 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68348 di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski [...]]]> di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski (1931) nel suo Introduzione alla politica (La Rosa Editrice, 2002):

La conclusione di tutto ciò è che la natura delle leggi, in un determinato Stato, corrisponde alle effettive domande alle quali lo Stato va incontro; e che queste, a loro volte, dipendono, in generale, dal modo in cui il potere economico è distribuito nella società amministrata da quello Stato. Ne consegue che a una più equa distribuzione del potere economico, corrisponderà una più profonda relazione tra l’interesse generale della comunità e gli imperativi legali imposti dallo Stato. […] Se, quindi, lo Stato è, come in effetti è, una organizzazione capace di dare una risposta alle domande poste dai desideri dei suoi membri, più equa sarà la distribuzione del potere, più integrale sarà la risposta alle varie domande. (p. 12)

A differenza di quanto sostenuto da Norberto Bobbio in Liberalismo e democrazia (Simonelli editore, 2006), il rapporto tra democrazia e principi egualitari sembrava confermato dalla lotta su due binari che veniva portata avanti, da un lato per i diritti e dall’altro per il miglioramento delle condizioni materiali per la democrazia. Tuttavia, l’idea che la democrazia sia una struttura giuridico-politica slegata dal contesto sociale abbastanza da astrarsi dai vincoli materiali dei cittadini ha preso piede a sufficienza da essere alla base dell’interpretazione più in voga nei Paesi come il nostro della democrazia occidentale. Una democrazia che, rinunciando alla lotta sociale, si limita a concedere diritti di facciata, che hanno funzione giuridica ma non reale (poiché non vanno alla radice del problema, e per cui giova ricordare l’intuizione marxista-leninista, ripresa poi da Žižek nel pamphlet pubblicato da Il Saggiatore nel 2005, Contro i diritti umani, secondo cui la pretesa universalità dei diritti umani difesi strenuamente dalle democrazie liberali, in realtà maschera un complesso di “pseudo-scelte” che nella vita di tutti i giorni si riversano nella società a beneficio di una particolare categoria di gente, che quasi sempre può essere identificata con l’uomo bianco ed etero).

È importante notare come la lettura di Alessandroni di queste considerazioni comporta una ripresa, sulla scia del filosofo Domenico Losurdo, dell’approccio sistematico del marxismo che sfidò nel secolo scorso l’irrazionalismo (grazie ad autori come Lenin o Lukács) e oggi, grazie ad Alessandroni, si pone come alternativa al marxismo liquido della filosofia postmodernista. Questo permette ad Alessandroni di costruire l’intero saggio a partire dall’esperienza storica del nostro tempo, in nome di un oggettivismo che ha saputo eliminare l’idealismo (in partire italiano) dall’equazione dell’analisi politica dell’attuale, dove per ‘attuale’ si intende un processo in evoluzione di natura aporetica, ovvero che procede espandendo le possibilità all’interno di una forbice dialettica in cui i concetti non si esauriscono in una delle tue alternative, come avverrebbe nella dialettica diairetica di stampo platonico (che sembra essere tornata in auge proprio con il liberalismo, che opera per tagli netti e arbitrari a favore di un’oggettività artificiosa, scomponente, che non sa leggere la storia). Questo è il nucleo centrale del saggio filosofico di Alessandroni, suggerito dal titolo stesso, che acquista un carattere dialettico.

La tesi è chiara: “Si tratta allora, per chi abbia a cuore le sorti della democrazia, di riuscire a individuare di volta in volta, nel coacervo delle contraddizioni reali, quali siano le forze oggettive attraverso cui passa la concretizzazione dell’Universale.” (Democrazie dittatoriali e dittature democratica, cit., p. 14). E per farlo si tratta la dinamica tra individuo e universalità in tre autori classici, Hegel, Marx, Lenin, per arrivare ad applicare i principi dialettici all’attualità. Da Hegel si riprende necessariamente l’idea che l’universalità si esplichi al di là delle differenze, in un tutti che riguarda l’uomo, non l’ebreo, il cattolico, il protestante, ecc. In quest’ottica la libertà diventa una libertà sotto il segno dell’Universale, che si esplica, per Hegel, nello Stato (e nella concezione hegeliana di popolo). Ma non lo Stato liberale, che nulla ha a che vedere con la trattazione materialista dell’idea di Stato (idea che si è evoluta per toccare vari modelli alternativi di Stato, compreso il modello della Comune di Parigi, escludendo però sempre e in modo risoluto la proposta liberale di Stato esclusivamente giuridico).

Dopo Hegel, arriva il turno di Marx, che viene preso in considerazione, oltre che come stella polare dell’intero saggio, per la sua critica al colonialismo e alla ragione razzista. Così si torna a quanto si diceva nel primo paragrafo e si comprende uno dei punti di contatto tra Alessandroni e il pamphlet di Žižek. La democrazia occidentale è intrinsecamente razzista, un sistema di esclusione che ragiona in termini tribali, a dispetto dell’individualismo di cui si vanta. O meglio: proprio quell’individualismo che non si risolve nell’Universale, cerca un’universalità di riserva da difendere. Così la classe operaia irlandese emigrata in Inghilterra viene discriminata dalla classe operaia inglese, e a sua volta la classe operaia irlandese in America discrimina gli afroamericani, e tutti insieme i cinesi che vennero costretti a emigrare per la costruzione delle ferrovie.

Marx denuncia tale principio di disgregazione in atto nella società liberale che genera la proverbiale “guerra tra poveri”, danneggiando la coscienza di classe e quindi l’orientamento verso l’Universale. E nel frattempo a trarne beneficio è la classe al livello superiore dell’asimmetria di potere nella società capitalistica. Appunto, il proprietario dei mezzi di produzione, l’uomo bianco etero (che, si noti, non deve essere necessariamente l’uomo biologicamente bianco ed etero, ma può diventare un tipo, un atteggiamento verso l’esistenza e verso i rapporti con le classi subalterne).

A dimostrazione di quanto sia attuale la tesi marxista nella riproposizione di Alessandroni, basti pensare a ciò che è avvenuto negli Stati Uniti con i Black Lives Matter. Nel libro In Defence of Looting di Vicky Osterweil (Bold Type Books, 2020), l’autrice utilizza l’analisi di stampo marxista per interpretare i casi di saccheggio a opera dei BLM. La conclusione è che il saccheggio colpisca la storia “dei bianchi” e della proprietà privata, fondata sulla supremazia razzista nel periodo dello schiavismo. E questo legittima un’azione di delegittimazione di quella storia di violenza e sopraffazione. Una conferma arriva anche da uno studio uscito per l’«American Pshycologist» sul razzismo endemico negli Stati Uniti, e su come la società della competitività abbia bisogno di un canale di sfogo che quasi sempre coincide con le minoranze stigmatizzate, o le classi più povere (o, per via dell’intersezionalità dei problemi di ordine sociale, le classi povere costituite dalle minoranze).

La domanda che ci si pone in uno dei capitoli più interessanti del libro (cap. 4, Said: La democrazia dell’Occidente), riguarda la possibilità che il razzismo endemico abbia una forma e un nome anche nella politica estera delle democrazie occidentali. Purtroppo esiste un termine e un fenomeno chiaramente ancora in atto, come testimoniato dalla situazione palestinese: il colonialismo. Un’altra volta la democrazia liberale viene smascherata grazie al modo in cui si pone nella realtà, a dispetto della teoria giuridica, delle norme, della libertà di autodeterminazione (questa sconosciuta). Proprio di recente, per quel che riguarda l’Afghanistan, è stato Žižek a sottolineare questa contraddizione, mostrando come il liberalismo tenda a praticare non solo il colonialismo (che può non essere visto più come il principale nemico da parte dei talebani) ma soprattutto l’immoralismo, ovvero l’esplicita contraddizione rispetto a ciò che il liberalismo apparentemente sostiene, e secoli fa enunciò come teoria dei diritti.

Si arriva così, dopo aver destituito nella pratica storica la democrazia occidentale dall’altare del modello perfetto (o semplicemente migliore), al secondo concetto presente nel titolo, ovvero riguardo alla natura dei giudizi di stampo liberale verso ciò che non può essere compreso in un’ottica non dialettica, che può essere soggettivista e dogmatica di volta in volta. Così come giudicare l’esperienza cinese? O le condizioni di vita della Germania dell’Ovest? Il discorso di Alessandroni mira a sconvolgere l’abituale separazione dicotomica tra democrazia e dittatura, per lasciare che i concetti si compenetrino (e in effetti si compenetrano storicamente) per non risolversi in un giudizio assoluto con cui interpretare il mondo alla luce di una falsa opposizione (o meglio, un’opposizione monca, che manca del proprio momento di sintesi). Tuttavia non è solo la mancanza di un approccio dialettico a bloccare in superficie i giudizi sulle realtà non liberali presenti nel mondo, ma anche l’enorme capacità dei media occidentali di sconvolgere l’informazione, fino a deformarla e a orientare il giudizio dei lettori tanto da rendere l’esperienza comunicativa dei social un’arma per le elezioni. E di questo aveva già parlato nell’ormai classico La fabbrica del consenso Noam Chomsky, insieme a Edward S. Hermann (1998), con ingente quantità di dati alla mano.

Democrazie dittatoriali e dittature democratiche propone una ricognizione dei nostri tempi alla luce della teoria marxista-leninista autenticamente interessata alla storia e, più che ai diritti, alla giustizia sociale (che va ben oltre la semplicistica concezione giuridica che i liberali vorrebbero difendere, e rivanga le zolle della democrazia occidentale per sradicarne i semi velenosi). E lo fa proponendo un’alternativa all’americanismo politico, a favore di un europeismo autenticamente democratico all’interno del quale sia possibile che si compi il cammino verso l’Universale.

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