Luigi Cadorna – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cent’anni fa a Caporetto https://www.carmillaonline.com/2017/11/12/centanni-fa-a-caporetto/ Sat, 11 Nov 2017 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41468 di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo [...]]]> di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo che fece sentire i suoi effetti per un lungo periodo di tempo successivo alla sua conclusione: la battaglia, la disfatta e la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917.

Lo studio di questa pagina così determinante della storia italiana del ‘900 viene affrontato dallo storico e docente dell’Università di Siena in un saggio volutamente più “agile” e “snello” delle ponderose monografie già disponibili sull’argomento e/o di recente e quasi contemporanea uscita ed attingendo cospicuamente ad un materiale di archivio tanto ricco quanto spesso poco considerato dagli studiosi nei cento anni che ci separano dai giorni dell’attacco austro-ungarico e tedesco alle linee italiane sull’alto Isonzo: i verbali di centinaia di interrogatori di semplici soldati, sottufficiali, ufficiali ed alti ufficiali compiuti dopo la guerra da una apposita Commissione di inchiesta, di cui sono stati spesso esaminati – ricorda Labanca – i due volumi della Relazione finale, ma non tutte le carte e tutto il materiale dalla Commissione raccolti.

Come già nel libro scritto e curato qualche anno fa insieme a Oswald Überegger sulla guerra italo-austriaca [su Carmilla], Labanca intraprende strade di ricerca più originali e meno praticate di altre, riuscendo a ricomporre in sole duecento pagine un quadro della disfatta di Caporetto completo, ricco di spunti per successivi approfondimenti e scritto con una prosa efficace e piacevole.

Labanca prende a prestito dallo storico militare inglese John Keegan il concetto di “nebbia di guerra”, che efficacemente spiega come per il soldato che combatte la percezione di ciò che accade in battaglia sia qualcosa di confuso, di caotico ed impreciso, essendo il combattente totalmente preso dalla preoccupazione per la propria sopravvivenza, dallo scompiglio della battaglia, dall’impressione provocata dal sangue e dalla morte che lo circondano e lo incalzano. La sua visione delle cose è come quella di chi osserva la realtà a sé circostante avvolta da una fitta nebbia o di chi fissa un oggetto da una prospettiva troppo ravvicinata. Trascende, quindi, le possibilità del soldato direttamente coinvolto nello scontro la comprensione d’insieme della battaglia e a maggior ragione della guerra nel suo complesso; ma l’effetto della “nebbia di guerra” si produce anche per chi comanda la truppa e pure per gli alti ufficiali, che, anche se non partecipano direttamente alla battaglia armi in pugno e la osservano da una diversa prospettiva, spesso non ne colgono però il senso complessivo; anche la loro è una prospettiva “annebbiata” e parziale.

Questo concetto, sostiene Labanca, si può certamente applicare ai soldati italiani coinvolti nella battaglia e nella rotta di Caporetto, dal 24 ottobre fino al 9 novembre 1917, quando l’esercito riuscì a riorganizzare una linea difensiva lungo il Piave, «di essa i combattenti, e spesso i comandanti, conoscevano quello che vedevano, ma avevano difficoltà a raffigurarsi l’insieme» (p. 9).

Per diradare questa nebbia occorre – come sempre richiede il lavoro storiografico – la presa di distanza dall’oggetto, la ricostruzione del quadro complessivo, la composizione delle differenti prospettive, l’accumulo di riflessioni, analisi e studi e la considerazione delle loro diversificazioni e stratificazioni nel corso del tempo. L’idea dell’autore è allora quella di pensare Caporetto a cent’anni di distanza, prima considerando l’infittirsi di quella coltre di “nebbia di guerra” che calò sul tratto di fronte dell’alto Isonzo tra Plezzo e Tolmino e non solo nei giorni della sconfitta, della rotta e della ricostituzione della linea difensiva sul Piave, ma anche per molto tempo ancora dopo la battaglia, per poi procedere al diradamento di quelle brume, reso possibile dal lavoro di un secolo di storiografia.

La prima interessante parte del volume è dedicata proprio alla lettura, all’ascolto, delle tante voci dei protagonisti della battaglia e della rotta di Caporetto – i militari – attraverso il materiale della Commissione di inchiesta. Ne esce un quadro estremamente ricco e diversificato di punti di vista, percezioni e giudizi sull’accaduto, articolato per differenze di grado gerarchico, per estrazione sociale, per istruzione e cultura, per orientamento politico e per livelli di consapevolezza molto eterogenei, sia della battaglia di Caporetto in particolare, sia della guerra italiana ed internazionale nel suo complesso.

L’unico che in quelle convulse giornate sembrò non avere dubbi sulle ragioni dell’accaduto fu Luigi Cadorna, il Comandante supremo delle forze armate italiane, che già il 28 ottobre divulgò un comunicato a tal punto sconcertante che il governo cercò di correggerlo e di edulcorarlo in una seconda versione ufficiale, anche se nel frattempo quella originale era già circolata all’estero e da lì rientrò in Italia. In essa si parlava di soldati “vilmente ritiratisi” ed “ignominiosamente arresisi” al nemico.

Ciò che colpisce – scrive Labanca – del comunicato del 28 ottobre è che «Cadorna sembrava volere dare l’impressione di aver capito e saputo tutto. E di aver trovato subito i colpevoli: non lui stesso, in primo luogo, né il Comando supremo o l’esercito, ma i soldati (di “taluni” reparti, che avevano ceduto, ma in fondo anche delle altre truppe i cui sforzi “non erano riusciti a impedire” la disfatta) e per certi versi il governo (se solo all’esercito, e non a quello, in guerra “sono affidati l’onore e la salvezza della Patria”)» (p. 11). In realtà, come le analisi e le attente ricostruzioni del libro di Labanca dimostrano nei capitoli centrali, le cose non stavano in questi termini e le responsabilità principali della disfatta sono da ricercarsi proprio negli errori e nelle gravissime deficienze dei comandi e quindi di Cadorna in primis. Le ragioni militari, in sostanza, vengono prima di quelle “politiche” (il presunto tradimento e il disfattismo) che, non disinteressatamente, Cadorna lasciava intendere.

Caporetto, seppur quantitativamente non paragonabile alle catastrofiche ecatombi di Verdun o della Somme sul fronte occidentale, per l’Italia fu davvero qualcosa di sconvolgente e pauroso: «Da sole la rottura del fronte e poi la rotta a essa seguita […] portarono all’invasione austrotedesca di più di 20.000 kmq del territorio nazionale e […] arretrarono di 150 km il fronte dal Carso, dall’Isonzo e dalle Alpi Carniche sin giù al Piave. L’Italia lasciò sul campo 11.000 morti e 29.000 feriti. In mano agli avversari restarono 300.000 prigionieri. Forse altri 300.000 uomini rimasero sbandati nella rotta. Dopo l’ottobre del 1917, con Caporetto, la guerra italiana combattuta fin dal maggio 1915 all’offensiva per Trieste e Trento diventò strettamente difensiva» (pp. 86-87).

Anche se «l’immagine che diede origine al più resistente mito di Caporetto: lo “sciopero militare” dei soldati italiani» (p.92), ovverosia la rappresentazione che più si impresse nell’immaginario collettivo fu quella dello sbandamento di una fiumana di soldati che precipitosamente arretravano, spesso gettando il fucile o abbandonando l’uniforme, in realtà le ragioni decisive della disfatta sono da ricercare sul piano strategico-militare, tanto in relazione alla situazione del fronte dell’alto Isonzo nell’autunno del 1917, quanto in relazione all’intera conduzione della guerra da parte dell’alto comando italiano.

È noto che il tratto tra Tolmino e Plezzo era considerato una parte relativamente tranquilla del fronte e che i comandi italiani non sospettavano che gli austro-tedeschi potessero attaccare lì, nonostante che tra settembre ed ottobre fossero arrivate sempre più informazioni circa i preparativi nemici di truppe per un attacco proprio in quel punto. La sottovalutazione del caso particolare si inseriva poi in un quadro strategico generale che considerava il fronte giulio, ma nella sua parte meridionale, come quello centrale e decisivo per le sorti del conflitto italiano e che concepiva ostinatamente la conduzione della guerra sull’Isonzo in un solo modo possibile, che presto trasformò la guerra sul fronte italiano in una assurda carneficina non dissimile a quelle che si consumavano su tutti gli altri fronti: l’offensiva continua, per infliggere al nemico le cosiddette “spallate” (le dodici battaglie dell’Isonzo, l’ultima della quali fu proprio quella di Caporetto). Ma la guerra di trincea dava maggiore «forza alla difesa rispetto ai piani dell’offesa» (p. 99).

Tra gli “errori di valutazione” non vanno certo dimenticati – spiega Labanca – anche la sopravvalutazione delle potenzialità e della forza dell’esercito italiano e la sottovalutazione del fatto che il paese era entrato in guerra tra mille divisioni e contraddizioni politiche. Ancor più nello specifico poi, la ricerca ossessiva della “spallata” offensiva aveva indotto i comandi a concentrare troppe forze sulle prime linee, senza che venissero predisposte truppe di riserva nelle retrovie, linee arretrate ben attrezzate e pronte all’utilizzo in caso di ripiegamento, o che fossero concepiti piani precisi per comandi preparati ad attuarli. Anche gli ordini, tardivi indecisi ed inadeguati, impartiti da Cadorna subito dopo la rottura del fronte lasciano intendere come l’incomprensione della nuova tattica d’attacco degli austro-tedeschi (l’infiltrazione) e l’impreparazione fossero massime. Una inadeguatezza complessiva dell’alto comando italiano che secondo Labanca trovava una spiegazione non secondaria anche nella impostazione data allo Stato Maggiore dal Comandante supremo. «La centralizzazione sulla figura di Cadorna […] della politica di ricompense e promozioni […] contribuiva a creare passività ed induceva al conformismo e al servilismo una parte della più alta ufficialità italiana» (p. 64). Insomma, una scarsa capacità di prendere iniziative indipendenti le cui conseguenze si sarebbero rivelate fatali anche a Caporetto.

Se dal vertice dell’esercito italiano passiamo alla considerazione dei punti di vista e delle prospettive della base del medesimo, il quadro cambia completamente. Dalle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta dai soldati semplici si evince come le trincee italiane fossero «rudimentali, da tracciare, da rafforzare» (p.25) e come fosse di conseguenza forte il malessere patito dalle truppe del Regio Esercito al fronte, che forse anche per questo – osserva ed ipotizza Labanca – nel momento dell’improvviso attacco nemico «cedettero, o non resistettero quanto forse essi stessi avrebbero potuto pensare di saper fare» (p. 25). Nonostante gli sforzi economici, produttivi, industriali per armare adeguatamente l’esercito dopo l’entrata in guerra del ’15, le distanze fra l’esercito italiano e gli eserciti di molte delle altre potenze belligeranti si erano sì ridotte, ma non completamente colmate e di fronte al massiccio, improvviso ed inaspettato attacco nemico, un attacco molto ben preparato e progettato, le truppe italiane si trovarono in grande difficoltà.

Oltre agli aspetti tecnico-militari ci sono poi quelli politici che emergono dalle parole pronunciate dai soldati semplici davanti alla Commissione. Non si trattò tanto di uno “sciopero militare” effettivamente e consapevolmente concepito e realizzato (cosa che Labanca tende decisamente ad escludere che sia accaduto), quello “sciopero militare” cioè che rappresentò lo spauracchio principale per lo Stato maggiore dell’esercito, per la classe politica e dirigente italiana, e non solo quella interventista in senso stretto, ma che in realtà – nonostante Cadorna nel suo comunicato del 28 ottobre lasciasse proprio intendere che la rotta fosse dovuta a questo – non si verificò mai, quanto piuttosto si trattò della “stanchezza” dei soldati, del loro scoramento e della loro sostanziale sfiducia o «presa di distanze dall’esercito, dal governo e dallo Stato liberale che li avevano trascinati in quel conflitto» (p. 27).
Al momento della ritirata e del ripiegamento molti soldati erano sbandati, spesso anche per l’impreparazione dei comandi che non seppero come comportarsi nel momento della rottura del fronte e della rotta, in altri casi per scelta spontanea e personale, in altri ancora forse anche con la speranza che questo significasse finalmente la fine della guerra. Di fatto, molti erano arretrati gettando l’uniforme e il fucile lungo i cigli delle strade o dentro ai fossi. «Quei soldati, almeno in quel momento, fra l’Isonzo e il Piave, non volevano più fare la guerra» (p. 29), nonostante che il “pugno di ferro” della più inflessibile disciplina militare, a cui Cadorna aveva da subito fatto ricorso dopo l’entrata in guerra, colpisse implacabile con soppressioni e fucilazioni sommarie, nel tentativo di arginare lo sfaldamento delle truppe.

La Commissione di inchiesta, scrive Labanca, riservò «qualche attenzione […] anche al comportamento degli ufficiali inferiori, tenenti e capitani, perché si voleva essere rassicurati che aveva tenuto la borghesia italiana, la quale aveva riempito i gradi dell’ufficialità di complemento» (p. 34). Dalle testimonianze raccolte – conclude lo storico – risulta chiaro che anche per i sottufficiali di complemento le ragioni della rotta fossero sostanzialmente militari, anche se poi certi aspetti della reazione e del comportamento dei soldati avrebbero potuto anche fare supporre o temere ci fosse dell’altro.

Salendo i gradi della gerarchia militare, Labanca considera le testimonianze rese alla Commissione dagli ufficiali subalterni (sottotenenti, tenenti) e da quelli superiori. In questo caso si trattava di uomini con un sufficiente livello di istruzione e di cultura, che consentiva loro di avere, rispetto alla truppa, una visione d’insieme ben più articolata di quanto accaduto a Caporetto e della guerra in generale, una guerra di cui condividevano le ragioni e di cui sostenevano la necessità, avendo sposato le ragioni dell’interventismo italiano. Nonostante questo, fa notare Labanca, è necessario distinguere tra le posizioni dei subalterni, solitamente più vicine a quelle dei semplici soldati, nonostante qualche accusa “cadornista” di disfattismo o di codardia, e quelle degli ufficiali superiori, nelle quali l’addossamento delle responsabilità ai combattenti ritenuti imbelli e vigliacchi è decisamente più frequente, anche se non mancano lucide analisi tecnico-militari sull’efficacia della nuova strategia dell’infiltrazione messa in atto dagli austro-tedeschi e sulle carenze delle linee difensive italiane. Insomma, mano a mano che si sale di grado nella catena di comando militare, la spiegazione “militare” (cioè innanzi tutto la responsabilità dei comandi) lascia il posto alla spiegazione “politica” (cioè la responsabilità dei soldati disfattisti e di chi ne avrebbe traviato lo spirito patriottico).

La Commissione di inchiesta coinvolse infine anche i generali e gli alti comandi dell’esercito italiano, che direttamente (Cadorna, Capello, Cavaciocchi, ecc) o indirettamente erano stati investiti dalla disfatta e dalla rotta di Caporetto.
Innanzi tutto, fa notare Labanca, i generali facevano parte (e così si consideravano) della élite del paese ed inoltre la loro prospettiva sull’accaduto era di molto diversa e “distante” da quella non solo dei semplici soldati, ma anche da quella degli ufficiali inferiori. In linea di massima, osserva Labanca, nelle dichiarazioni degli alti ufficiali emergono la tendenza alla spiegazione giustificazionista della disfatta di Caporetto, che viene spesso derubricata a livello di una delle tante pesanti sconfitte subite da tutti gli eserciti combattenti, o il ridimensionamento dell’impatto politico della rotta. A questi argomenti si aggiunge poi il tentativo degli alti comandi di “scaricare” verso il basso le responsabilità dell’accaduto, non solo in direzione della truppa, ma anche degli ufficiali di complemento o comunque subordinati.
«È in questo quadro, di una élite militare che, nel segreto della deposizione a una commissione d’inchiesta, prova a scaricare su altri responsabilità anche proprie, che vanno lette le ripetute accuse ai soldati. Qui, il cadornismo si rivela più diffuso di quanto si potesse pensare” (pp. 54-55).

Certo non mancarono anche le voci che registrarono e denunciarono tanto l’efficacia delle strategie nemiche quanto l’insufficienza e le carenze delle forze e delle difese italiane, ma la propensione alla spiegazione cadornista era prevalente. Forse, fa notare Labanca, solo pochi avrebbero sottoscritto le esatte parole dello sconcertante comunicato del Comandante supremo del 28 ottobre, ma l’idea che la disfatta fosse stata facilitata, se non proprio causata, dalla propaganda neutralista o disfattista e da uno strisciante pacifismo, che poteva aver portato se non proprio allo “sciopero militare” quanto meno all’arrendevolezza dei soldati, al crollo morale delle truppe, fino addirittura alla vigliaccheria, emerge dalle parole degli alti ufficiali e dei generali del nostro esercito.

Per quanto riguarda le accuse di ignominia e di viltà di fronte al nemico, gli alti comandi poi divergevano al momento di individuarne la causa scatenante ed il fattore determinante: chi accusava i “rossi”, chi i “neri”, chi cioè i socialisti e chi i cattolici, chi il Psi, che aveva adottato la linea del “né aderire né sabotare” senza mai sposare quella dell’”unione sacra”, chi la Chiesa cattolica, su posizioni di ostruzione verso lo Stato liberale sin dall’unità e neutraliste e critiche verso la guerra, come quelle espresse dal discorso del Papa sull’”inutile strage”. Gli scioperi operai di Torino e la rivoluzione in Russia non facilitavano certo le cose, dal punto di vista dello Stato maggiore.

«Insomma», conclude Labanca, «non si può dire che tutti i generali fossero chiusi in un cieco antisocialismo (o anticlericalismo). Vi erano posizioni differenziate, o quanto meno sfumature importanti, nei loro ragionamenti sulle ragioni della rotta. Qualunque fosse la graduatoria dei sospetti e delle analisi, però, forse tutti questi generali avrebbero condiviso […] la stessa sensazione: “Nell’autunno del 1917 l’esercito era maturo per la disfatta”» (p. 73). Infine, su tutte queste analisi e conseguenti valutazioni sulle cause dell’accaduto «svettavano soltanto i portatori di un giudizio, o meglio di un pregiudizio, convinti di sapere cosa era successo: erano gli interventisti più accesi, i sostenitori della tesi dello “sciopero generale”, Cadorna con il suo comunicato del 28 ottobre. Tra gli alti ufficiali interrogati dalla Commissione a distanza di mesi da quando era stato emesso, e pur consapevoli che Cadorna era stato di fatto ormai destituito e accantonato, non pochi si dimostrarono ancora pienamente convinti della giustezza di quel comunicato» (p. 78).

Il quadro che emerge dalla lettura delle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta è quindi quanto mai composito e complesso, come complessa e difficile era la situazione del paese e non solo della sua parte combattente, ma anche della società civile; Caporetto risvegliò ed acuì contrasti e criticità che attraversavano trasversalmente il paese. Senza pretendere di riassumere in poche righe le ricche argomentazioni e le accurate ricostruzioni del libro di Labanca, ricordiamo che Caporetto, oltre a trasformare la guerra italiana da offensiva in difensiva e a lasciare nelle mani del nemico una quantità ingente di territorio nazionale, di armi e materiale bellico di ogni tipo, col pericolo concreto di perdere definitivamente la guerra qualora gli austro-tedeschi fossero riusciti a sfondare anche sul Piave e a penetrare in Pianura Padana, causò, tra le tante cose, anche la caduta del governo, la sostituzione di Cadorna con Diaz, l’adozione di una nuova strategia militare, la predisposizione di un moderno apparato di propaganda, la radicalizzazione delle contrapposizioni politiche che poi avrebbero contribuito, dopo la guerra, all’avvio del processo che condusse alla crisi e al crollo dello stato liberale.

La disfatta e la rotta di Caporetto toccarono i nervi scoperti di un paese che nella Grande Guerra era entrato tra mille contraddizioni: quelle di uno stato che inviava milioni di uomini, ed in particolare contadini, a combattere per una nazione dalla quale nei precedenti cinquant’anni di vita unitaria quelle medesime masse popolari erano rimaste escluse e non integrate; quelle di un governo e di un capo dello stato che guidavano il paese in guerra attraverso una “forzatura” politica che riusciva a scavalcare l’ostacolo di un parlamento e di una società civile in maggioranza neutralisti. Ovvero quelle di due fronti, neutralisti ed interventisti, non solo tra loro contrapposti, ma estremamente eterogenei al proprio interno, cosicché l’interventismo rivoluzionario, quello irredentista e quello nazionalista, a ben guardare, non potevano aver molto in comune tra loro, come, sull’opposto fronte, il neutralismo cattolico, quello socialista e quello giolittiano. E così poco avevano in comune che alla fine giolittiani e cattolici ad una sorta di molto incompleta “unione sacra” italiana parteciparono (a maggior ragione dopo Caporetto), ma mai i socialisti; mentre nell’altro campo, chi pensava di combattere per Trento e Trieste rischiava la vita e moriva per gli obiettivi imperialistici segretamente fissati dal governo con il Patto di Londra. Lacerazioni che sarebbero riemerse poi nel clima del dopoguerra, infuocato anche dalla questione della “vittoria mutilata”, la cui “mutilazione” – osserva Labanca – fu in buona parte dovuta anche alla pesante disfatta di Caporetto, che poneva l’Italia, agli occhi dei suoi alleati, nella posizione dell’ultima delle potenze vincitrici. E tutto questo, a cui si aggiungevano speranze e delusioni, illusioni e frustrazioni sociali e politiche prodotte dalla guerra, fu un carburante potente ed abbondante per il motore del fascismo che in pochi anni prese in mano il paese.

Insomma se il 1917, come si è soliti affermare, fu un cruciale anno di svolta all’interno di quell’evento, la Grande Guerra, che viene assunto come punto di inizio del “secolo breve”, allora il 1917 italiano il suo punto di non ritorno lo conobbe sull’alto Isonzo, tra Tolmino e Plezzo, ed è forse corretto dire che il “secolo breve” italiano sia iniziato con Caporetto.

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L’Officina del macello: la “decimazione” nella Grande Guerra italiana raccontata da un graphic novel https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/lofficina-del-macello-la-decimazione-nella-grande-guerra-italiana-raccontata-da-un-graphic-novel/ Tue, 12 Jan 2016 22:30:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27732 di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta [...]]]> di Armando Lancellotti

officina del macellobluGianluca Costantini, Elettra Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Eris, Torino, 2014, 127 pagine, € 15,00

Il graphic novel Officina del macello, di Gianluca Costantini, artista visivo e disegnatore e di Elettra Stamboulis, autrice del testo e i quattro brevi saggi che lo accompagnano riportano alla luce un episodio tanto tragico quanto poco conosciuto della storia italiana di un secolo fa: la decimazione, avvenuta nell’estate del 1917 a Santa Maria la Longa, nelle immediate retrovie del Carso, della Brigata Catanzaro, rea di rivolta armata e ammutinamento.

Si tratta di vicende storiche al contempo note e sconosciute, come avviene per molte delle pagine più cupe e negative della storia italiana: si pensi alla brutale repressione militare “piemontese” del brigantaggio meridionale, alle campagne coloniali in Libia o nel Corno d’Africa, al razzismo d’oltremare e metropolitano, alle stragi efferate conseguenti alle operazioni di polizia coloniale, ai campi di concentramento del duce, ai crimini di guerra in Jugoslavia, ecc.
“Note e sconosciute”, si diceva e – si badi bene – l’incongruenza ossimorica è solo apparente, trattandosi di tracce mnestiche che giacciono semi-inconsce in un angolo buio della coscienza collettiva, che solo in rare occasioni vengono strappate alla latenza dell’oblio per riapparire all’orizzonte della consapevolezza.
E così è noto agli studiosi e si legge nei saggi specialistici come in quelli manualistici che il Regio Esercito italiano – unico tra gli eserciti belligeranti – ricorse più volte alla barbara pratica punitiva della decimazione dei suoi stessi soldati, ma poi questa primitiva concezione della disciplina militare, che meriterebbe studi ed analisi approfondite, passa in subordine a vantaggio di altri aspetti della Grande Guerra che maggiormente richiamano l’attenzione di studiosi ed opinione pubblica negli anni del centenario del primo conflitto mondiale ed altrettanto dicasi di questioni quali la diserzione, la renitenza alla leva o il destino dei prigionieri di guerra italiani, ecc.

officinamacello2La Brigata Catanzaro, ricordano Giulia Sattolo e Matteo Polo nelle pagine che aprono il volume, era formata dal 141^ e dal 142^ reggimento di fanteria, costituiti rispettivamente a Catanzaro e a Vibo Valentia nel gennaio e nel marzo del 1915. I fanti della Brigata erano prevalentemente calabresi e di seguito anche siciliani, pugliesi, lucani e molisani, insomma meridionali e contadini – estrazione sociale questa che accomunava le fanterie di tutti gli eserciti belligeranti – strappati dai campi e dalle loro povere case, arruolati e spediti al fronte dalla ferale decisione di un governo e di un sovrano interventisti in un paese in maggioranza neutralista e per combattere sul fronte del Carso, in una regione non meno lontana e sconosciuta dei paesi da cui provenivano i nemici a cui sparare e per ragioni non meno incomprensibili di quelle che portarono Cadorna a concepire ed ordinare le interminabili (ben dodici), inutili e sanguinosissime battaglie sull’Isonzo.
Insomma buona “carne da cannone”, mandata verso un macello quasi certo, evitabile solo con una consistente dose di fortuna e conseguenza di una guerra immaginata e propagandata come veloce ed immediata e trasformatasi invece in una gigantesca immobile fornace che inghiottiva vittime a milioni su tutti i fronti.

«La Brigata Catanzaro all’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 […] fu inviata in Friuli dove fu inquadrata nella Terza Armata, la famosa “Armata del Carso”, agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta. Infatti la Brigata fu impiegata per oltre due anni sul fronte del Carso, salvo due periodi, prima a Oslavia, nell’inverno del 1915, poi sull’Altopiano di Asiago, durante la Strafexpedition» (p. 12).
I fanti della Brigata Catanzaro combatterono quasi sempre in prima linea, rendendosi protagonisti di atti di grande coraggio e valore che portarono al conferimento della Medaglia d’oro e della Medaglia d’argento al valor militare rispettivamente al 141^ e al 142^ reggimento, ma quei medesimi soldati subirono ben due brutali decimazioni e furono i protagonisti del più importante episodio di rivolta armata nell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale.

La prima decimazione avvenne come conseguenza di uno “sbandamento” della 4^ compagnia del 141^ reggimento, durante la battaglia sul monte Mosciagh nel maggio del 1916 sul fronte degli Altipiani di Asiago e Folgaria, dove la Brigata era stata trasferita per rafforzare la difesa contro la Strafexpedition austriaca. Lo sbandamento avvenne a seguito di «una azione di guerra senza esiti positivi causata anche dalla confusione generata da un improvviso temporale che fece disperdere i soldati nel bosco nei pressi del monte Mosciagh» (p. 9). Ma il codice penale militare prevedeva la punizione esemplare ed inflessibile – come preteso da Cadorna – dello sbandamento delle truppe in battaglia e pertanto «il colonnello Attilio Thermes […] ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un 1 sottotenente, 3 sergenti e 8 militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di 1 a 10» (p. 13), esecuzione che avvenne il 29 maggio 1916.

officina del macello 4La seconda decimazione fu invece conseguenza della rivolta armata verificatasi il 15 luglio del 1917 a Santa Maria la Longa, dove la Brigata Catanzaro era stata trasferita il 25 giugno per un periodo di riposo. Sono soldati sfiniti da due anni di combattimenti e di vita indecente nelle trincee, stravolti dalla fatica e dall’incubo della morte sempre incipiente; sono uomini raggirati dalle retoriche parole dei superiori ormai rivelatesi vuote di senso e dalle promesse mai mantenute di politici e politicanti; sono contadini esasperati che decidono di sostituire alla rassegnazione l’insurrezione quando – ancora una volta al contrario di quanto a loro prospettato – arriva l’ordine di ritornare a combattere nelle trincee di prima linea.

L’episodio di Santa Maria la Longa può essere interpretato come paradigmatico epifenomeno di un malessere strisciante e crescente che non conosce frontiere o confini, che corre veloce di trincea in trincea, attraversando la “terra di nessuno” e scavalcando il filo spinato, che passa da un esercito all’altro in quel cruciale, epocale 1917. «In Europa c’erano focolai politici di ispirazione socialista. Che anche i fanti» della Brigata Catanzaro «potessero essere a conoscenza di quanto stesse accadendo non lo sappiamo. Sappiamo solo che la maggior parte di loro era analfabeta, che la politica sicuramente era l’ultimo dei loro pensieri, ma non per questo che fossero degli sciocchi, anzi» (p. 9).
Una situazione comune a molti fanti dei diversi eserciti stipati dentro alle trincee, che sempre più frequentemente andavano ribellandosi, ammutinandosi, rifiutando di eseguire gli ordini o, come nel caso della Brigata Catanzaro, rivolgendo le armi contro quegli stessi ordini. Questi atti, anche quando non dettati da precise e consapevoli scelte politiche – situazione in assoluto più frequente nelle trincee della Grande Guerra, se si ritiene che la spontanea ribellione di masse di soldati disperati ed esasperati per le promesse tradite da alti comandi e governi non possa ricevere patente di politicità – venivano brutalmente repressi dai codici penali militari di tutti i paesi belligeranti, nessuno escluso, anche da quelli dei nemici che si fronteggiavano sul fronte del Carso: italiani ed austriaci.

Come apprendiamo dagli studi sull’argomento – tra i più recenti segnaliamo Nicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014 ed in particolare i saggi di Christa Hämmerle e Federico Mazzini (capp. V, VI, pp. 141-183) [recensione su Carmilla] – il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza delle punizioni erano elementi comuni ai due schieramenti, ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (Nicola Labanca, Oswald Überegger, op. cit, p.175).

Ricostruiamo sommariamente i fatti avvenuti tra la notte del 15 e il mattino del 16 luglio 1917 con le parole di un testimone degli stessi, Giuseppe Mimmi (1885-1966), sottotenente della 2^ compagnia del 142^ reggimento di fanteria della Brigata Catanzaro. [la testimonianza è tratta da La Grande Guerra. 1914-1918, gruppo editoriale L’Espresso]

«Come ho già detto, ci avevano promesso un lungo riposo, dopo gli ultimi eventi bellici, del quale avevamo assolutamente necessità, se non che improvvisamente, il 3 luglio venne l’ordine di ritornare in linea, durante la notte, per riparare ancora una volta, alle deficienze altrui. Il fante non apprese la comunicazione con il consueto rassegnato stoicismo e passò all’offensiva».

Risulta chiaro dalle parole del sottotenente quali siano le cause immediate della rivolta: la stanchezza, l’esaurimento delle forze e la delusione per l’ennesima promessa tradita. Si evince poi, dalle parole che seguono, che l’insurrezione avrebbe dovuto avere soprattutto un significato dimostrativo.

«La sera, eravamo ancora alla mensa, quando giunse trafelato un porta ordini del comando di reggimento, ad avvertire, che la truppa si era ammutinata nei baraccamenti del 141°. Accorremmo subito, mentre una nutrita sparatoria si udiva dalla parte dove era scoppiata la rivolta. Nella baracca della mia compagnia, trovai ancora un discreto numero di uomini, che al buio, radunai dietro un greppo, per evitare i colpi, che ininterrotti partivano dall’altro lato della strada, ma nella confusione del momento, non mi fu possibile procedere ad un appello, neppure sommario dei presenti. Molti ne mancavano e si erano uniti ai rivoltosi. Intanto la sparatoria aumentava di intensità ed alla fucileria, si erano aggiunti gli scoppi delle bombe a mano e degli spezzoni di gelatina, ma doveva trattarsi di una dimostrazione senza scopi più cruenti, perché non si udiva il sibilo radente delle pallottole, segno evidente, che sparavano in aria. […]
Nel frattempo la notizia era giunta ai comandi di divisione e di corpo d’armata e numerosi ufficiali si erano precipitati a S. Maria la Longa, per rendersi conto della situazione».

Da Udine il Comando d’Armata fece arrivare una compagnia di carabinieri, 4 mitragliatrici, 2 autocannoni ed iniziò una battaglia che causò una decina di morti e una trentina di feriti. Riportato l’ordine, prese il via la repressione punitiva.

officina del macello 99«Per tutta la notte la sparatoria continuò violenta, per diminuire verso l’alba, fino a cessare del tutto. Alla distribuzione del caffè, ognuno era tornato al suo posto, come se nulla fosse accaduto e nessuno dei militari della mia compagnia fu trovato negli accantonamenti del 141°.
L’increscioso episodio di indisciplina era così venuto a cessare, ma le ripercussioni troppo gravi, per la forma e per il luogo dove era avvenuto, perché non dovesse avere conseguenze severamente tragiche ed esemplari. Il Comando Supremo dispose infatti l’immediata decimazione. […] Quello che avvenne di poi, non posso descriverlo con esattezza nei macabri particolari, perché fortunatamente non fui obbligato ad assistervi, ma so che i designati vennero ammassati nel recinto del cimitero, con la faccia rivolta al muro e dietro di essi, ad una ventina di passi, i plotoni di esecuzione. Alle spalle di questi, sezioni di mitragliatrici dei carabinieri, pronti a far fuoco se i giustizieri non avessero seguito gli ordini perentori. Alle prime scariche, non tutti caddero e gli scampati cercarono di fuggire, tentando di scavalcare il muro; ne seguirono le scene più selvagge, poiché entrarono in azione le armi automatiche, che con le loro raffiche raggiunsero i fuggiaschi. Alla fine dell’autentico macello, un ufficiale dei carabinieri, diede con la rivoltella il colpo di grazia agli agonizzanti».

Ventotto furono le vittime della decimazione e conseguente fucilazione. Significative, infine, le riflessioni complessive dello stesso Mimmi sull’accaduto.

«Penso invece, che sarebbe stato necessario indagare sulle cause che hanno determinato le rivolte, avvenute tutte nelle unità dislocate nel basso Isonzo e sul Carso, le quali non hanno mai dato segno di pusillanimità e si sono battute sempre eroicamente. Se gli alti comandi non si fossero limitati a vedere le cose dal trincerone del caffè Dorta, ma avessero ascoltato le giuste lamentele dei combattenti, sarebbe stato facile impedire tanti deplorevoli eccessi».

Il saggio di Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Fucilazione e decimazione nel diritto italiano del 1915-1918, che nella parte conclusiva del volume (pp. 103-114) segue la “narrazione grafica” degli avvenimenti appena ricostruiti, chiarisce quali fossero (o non fossero) i presupposti giuridici delle feroci procedure punitive adottate dall’esercito italiano durante la Grande Guerra.
In un paese che col Codice Zanardelli del 1889 l’aveva cancellata dal codice penale ordinario, la pena di morte rimaneva nel codice penale militare, come avveniva in tutti gli altri paesi di inizio Novecento. Le tipologie e le procedure della pena capitale all’interno del Regio Esercito possono essere così articolate: «fucilazione per sentenze emanate da tribunali militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo; fucilazioni costituenti esecuzioni sommarie da parte direttamente di ufficiali o per ordine degli stessi nella flagranza di particolari reati; fucilazioni eseguite con il metodo della “decimazione”». (p. 104)

La fucilazione a seguito di un regolare processo avveniva poi con un colpo al petto nel caso di reati giudicati gravi, ma non infamanti o con un colpo alla schiena in caso di reati non solo gravi, ma anche disonorevoli, come il tradimento o lo spionaggio.
Decisamente più ardua è la legittimazione della fondatezza giuridica delle fucilazioni sommarie, per le quali l’inappellabile giudizio del superiore gerarchico, dell’ufficiale che reprimeva in loco e sul momento reati quali lo sbandamento, l’ammutinamento, la diserzione o simili valeva come verbo assoluto e «la morte discendeva dalla decisione insindacabile di un solo uomo, quasi come se un singolo fosse eretto a Dio, da solo assumendo la responsabilità di stabilire che un altro individuo meritava la morte». (p. 106)

officinamacello1Ma ciò che sfugge ad ogni possibilità di giustificazione o comprensione è la pratica della decimazione. «In forza dell’art. 251 del codice penale per l’esercito, al Comandante Supremo era conferita la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra», facoltà di cui si servì Cadorna per introdurre surrettiziamente la decimazione all’interno del codice penale militare italiano. Si tratta di un palese caso di “militarizzazione” del potere legislativo, fenomeno, con accentuazioni diverse, avvenuto in tutti i paesi belligeranti.
Di decimazione ve ne erano poi di due diversi tipi, quella che per ragioni “economiche” – cioè per non “sprecare” un numero eccessivo di forza combattente – colpiva un soldato ogni dieci di un gruppo interamente considerato colpevole dell’atto grave di indisciplina e quella – non a caso definita “aberrante” – che, nell’impossibilità o difficoltà di individuare i colpevoli, decimava un’unità militare, con il rischio, pressoché certo, di colpire anche degli innocenti.
«La decimazione di questo tipo era perciò quanto di più lontano si potesse immaginare da un principio fondamentale della civiltà giuridica» (p. 109), quello che vuole che la responsabilità penale sia solo ed esclusivamente “personale”. «La pena cessava di costituire una reazione fondata sulla responsabilità propria e personale dell’autore del reato, mentre assumeva la ben diversa e aberrante veste della “sanzione esemplare”». (p. 109)
La Brigata Catanzaro, pertanto, subì entrambi i tipi di decimazione, quella “economica” a seguito dei fatti del luglio 1917, quella “aberrante” dopo gli eventi del maggio 1916.

Di queste tragiche vicende tratta con grande forza visiva ed efficacia narrativa il graphic novel di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, che scelgono il linguaggio della narrazione grafica, del fumetto di realtà e di ricostruzione storica per ricordare e riproporre pagine poco conosciute, ma importantissime, della nostra storia.


  •  I saggi presenti nel testo sono di: Sergio Dini, Lorenzo Pasculli, Silvio Riondato, Giulia Sattolo, Massimo Vitale, Matteo Polo, a cui si aggiunge una bibliografia ragionata di Elettra Stramboulis.
  • I due autori del libro hanno collaborato anche alla realizzazione di altri graphic novels come Diario segreto di Pasolini, BeccoGiallo, Padova, 2015; Arrivederci, Berlinguer, BeccoGiallo, Padova, 2013; Cena con Gramsci, BeccoGiallo, Padova, 2012; L’ammaestratore di Istanbul, Giuda edizioni, Ravenna, 2013.


 

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