luddismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 13 Mar 2025 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 We are not robots – Tecnoluddismo 2/2 https://www.carmillaonline.com/2025/01/21/we-are-not-robots-tecnoluddismo-2-2/ Tue, 21 Jan 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86141 Gioacchino Toni

Se in Tecnoluddismo 1/2 ci si è occupati della prima parte del volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti delle tecnologie e dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del secolo successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa sulla scena del computer.

Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se [...]]]>

  • di Gioacchino Toni
  • Se in Tecnoluddismo 1/2 ci si è occupati della prima parte del volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti delle tecnologie e dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del secolo successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa sulla scena del computer.

    Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se nella quotidianità le schede perforate rappresentavano ai loro occhi burocrazia, censimento e controllo, non mancarono di cogliere il ricorso dell’apparato militare agli elaboratori nella pianificazione delle operazioni nel teatro di guerra vietnamita.

    «Il passaggio a strategie basate sulla raccolta di dati quantitativi e sull’analisi automatizzata rappresenta un cambiamento radicale nella cultura militare». A ribadire le analogie tra la logica militare e quella industriale è il fatto che entrambe faranno ricorso a metriche quantitative; non a caso, ricorda lo studioso, a guidare la riqualificazione militare fu chiamato il segretario della Difesa, Robert McNamara, che precedentemente aveva fatto ricorso all’analisi statistica nella ristrutturazione della Ford. «L’automazione della guerra, come l’automazione dell’industria, era uno strumento fondamentale per riaffermare il controllo sui soldati ribelli in Vietnam». Esattamente come avveniva nelle fabbriche, anche in Vietnam erano sempre più frequenti gli atti di insubordinazione e sabotaggio, tanto che si pensò di sostituire le resistenze della fanteria con il ricorso a bombardamenti aerei sempre più automatizzati così come nelle fabbriche si tentava di ovviare alle insorgenze operaie attraverso l’automazione della produzione.

    Nel corso degli anni Settanta la posizione degli attivisti nei confronti del computer prende due diversi indirizzi; uno, minoritario, antitecnologico, ed un secondo, decisamente maggioritario, propenso a vedere nel computer uno strumento che avrebbe potuto favorire, soprattutto a partire dalla commercializzazione delle apparecchiature, pratiche di liberazione personale su cui si sarebbe poi sviluppato l’internet-attivismo.

    L’automazione dei processi di lavoro, anche d’ufficio, attraverso tecnologie computerizzate, oltre a sottrarre ai lavoratori parte del controllo da essi esercitato sui processi produttivi e a rivelarsi un preciso strumento di sorveglianza – il computer come sofisticato panopticon –, comportava una crescente astrazione dell’attività lavorativa, dunque la necessità di fornire ai lavoratori gratificazioni utili ad ottenere forme di dedizione interiorizzate. Per quanto il lavoro panottico e digitalizzato abbia ridefinito l’universo produttivo, non ha eliminato totalmente la conflittualità nei luoghi di lavoro che, seppure in maniera meno plateale ed efficace rispetto a prima, ha trovato modo di esprimersi soprattutto in forme di “resistenza passiva”.

    Sebbene «le culture hacker siano state ricondotte a ogni sorta di schieramento politico: dal liberale al libertario, dal radicale al reazionario» – se, ad esempio, Bruce Schneier1 mette in evidenza come l’hacker sia spesso un operatore al servizio dei potenti, autori come Davide Fant e Carlo Milani2 mettono in risalto come non manchino esempi, soprattutto in forma collettiva, tendenti piuttosto a sottrarsi al potere –, non di meno, secondo Mueller, in tali culture è individuabile un certo spirito luddista non così distante da quelle che hanno mosso i tessitori ottocenteschi.

    Anche se la figura dell’hacker, spesso vista come quella di un virtuoso della tecnologia che agisce attraverso i suoi dispositivi digitali, ha finito per essere «gentrificata e assorbita nella figura dell’eccentrico imprenditore (sì, maschio) della Silicon Valley, che dà libero sfogo alla sua maestria tecnologica modificando per sempre la società», dunque un individuo che anziché distruggere le macchine le adotta, in realtà, sostiene Mueller, lungi dal celebrare la tecnologia, l’hacker ne è spesso critico, visto che sfrutta «le proprie abilità per sovvertire le misure societarie di razionalizzazione e controllo del comportamento degli utenti» e ciò fa di lui un luddista.

    Tra gli esempi di «organizzazione hacker di resistenza luddista» lo studioso indica il movimento del software libero. «Il software libero è un esempio di tecnologia luddista: un’innovazione il cui obiettivo è la salvaguardia dell’autonomia di chiunque se ne serva contro l’imposizione del controllo sul processo lavorativo da parte dei capitalisti». Insomma, «il movimento del software libero è stato determinante nello stabilire linguaggi di codifica non proprietari come standard nell’industria, facendo sì che lo sviluppo delle competenze, piuttosto che essere controllato esclusivamente dalle grandi corporation, potesse risultare dal coinvolgimento di una comunità aperta». Ciò ha inoltre contribuito a mettere in discussione i diritti di proprietà intellettuale che caratterizzano la cultura digitale. Ecco allora perché i conflitti che hanno attraversato la storia di internet possono, secondo l’autore, essere letti come lotte contro la sussunzione non così diverse da quelle dei tessitori ottocenteschi.

    Se negli anni Novanta, epoca in cui il web era popolato da dilettanti e hobbisti, il business si limitava alla fornitura di accesso alla rete, successivamente il capitalismo ha nesso a profitto la propensione partecipativa degli utenti (Web 2.0) trasformando la rete «in una macchina distribuita per la produzione di valore», ponendo le basi per quello che Shoshana Zuboff avrebbe efficacemente indicato come “surveillance capitalism” basato sulla datificazione. Questo capitalismo della sorveglianza nasce in apertura del nuovo millennio, quando alcuni settori del sistema economico iniziano a tradurre l’esperienza umana privata in dati da cui derivare previsioni comportamentali3. Gli algoritmi che regolano i processi decisionali a cui si viene sottoposti sono del tutto oscuri ed inaccessibili, tanto che Frank Pasquale4 parla di black box society, di “società delle scatole nere”, facendo riferimento in particolare all’incidenza dell’automazione sul sistema giuridico, ma ciò è evidentemente estendibile ad altri ambiti.

    A tutto ciò, scrive Mueller, gli hacker hanno reagito cercato di contrastare il capitalismo della sorveglianza ad esempio sviluppando tecnologie volte alla protezione della privacy degli utenti. «Dal momento che la sussunzione reale delle attività online si basa sulla sorveglianza e sulla profilazione, questi applicativi per la privacy si qualificano come un’altra forma di tecnologia luddista, che tenta di riportare il web al suo stato di sussunzione formale di attività creativa relativamente autonoma». Al fine di evitare che le pratiche hacker restino nelle mani di un manipolo di virtuosi della tecnologia, non sempre mossi da finalità di condivisione, secondo Mueller sarebbe utile allargare il bacino di utenti di internet in grado di fronteggiare le dinamiche del capitalismo della sorveglianza5.

    Se a fronte della diffusione in ambito lavorativo delle tecnologie basate sull’intelligenza delle macchine diversi approcci critici si mostrano inclini a ritenere che, più che arginata, questa andrebbe orientata al miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, evitando atteggiamenti deterministici, di entusiastica accettazione o d’indifferenza6, altri insistono piuttosto sul fatto che le tecnologie di intelligenza artificiale, più che sostituire i lavoratori, riconfigurano le pratiche di lavoro rendendole spesso più stressanti, tanto che, con indubbia efficacia, Brian Merchant7 parla di shitty automation, «automazione di merda», o ad imporre lavoro aggiuntivo non previsto dai mansionari, definito shadow work «lavoro ombra» da Craig Lambert8, con importanti ricadute anche nel lavoro sanitario9 ed educativo.

    In generale gli algoritmi alla base dei sistemi di machine learning della IA generativa necessitano di essere addestrati attraverso un’incredibile mole di lavoro sottopagato o letteralmente non pagato – altro caso di shadow work – attraverso processi di datificazione a cui sono quotidianamente sottoposti gli utenti che utilizzano le piattaforme digitali. John Banks e Sal Humphreys, ad esempio, hanno mostrato come il fenomeno partecipativo in rete, attorno al quale anche a sinistra sono state riposte tante aspettative, rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle grandi corporation10. L’utopia della conquista del tempo libero permesso dalla piena automazione di cui pontificano i tecno-entusiasti acritici che si dicono di sinistra, sembra condurre in realtà ad erosione salariale ed estensione del tempo di lavoro sotto forma fantasma.

    Di fronte alle derive prodotte dai sistemi di IA insinuatisi ormai ovunque, scrive Mueller, a poco servono i mea culpa di importanti imprenditori e designer della Silicon Valley e le nostalgie romantiche per le conversazioni vis-à-vis auspicanti il recupero dei valori umanistici e delle attività affettive andate perdute; secondo lo studioso le strategie di rifiuto perseguite dai lavoratori industriali di un tempo potrebbero «dimostrarsi una tecnica più promettente contro i meccanismi depressivi dei social media».

    Alle pratiche di rifiuto si sono aggiunte altre forme di resistenza decisamente più conflittuali: a San Francisco le guardie di sicurezza robotiche utilizzate per scacciare i senzatetto, così come in Arizona i veicoli pilotati dall’IA,  sono stati più volte aggrediti; negli ospedali i lavoratori hanno ripetutamente sabotato i robot che stavano sostituendo il personale addetto alle consegne; negli hub di Amazon i lavoratori hanno in molti casi sfogano il loro malcontento sugli aiutanti robotici e lo slogan «Siamo umani, non robot» ha accompagnato le battaglie per ottenere condizioni lavorative «più umane e meno automatizzate».

    Insomma, persino «nei centri logistici di Amazon, dove capitalismo industriale e capitalismo della sorveglianza si integrano perfettamente» in efficacissimi sistemi di dominio, i lavoratori non mancano di sperimentare strategie per reagire e sovvertire il regime di sorveglianza assoluta e di controllo fisico sebbene, al momento, risulti difficile individuare in che modo si possa riguadagnare autonomia in ambito lavorativo e nella vita di tutti i giorni.  È interessante notare come il recente sciopero dei portuali statunitensi, oltre portare ad importanti aumenti salariali, faccia emergere il conflitto dei lavoratori organizzati contro l’incedere dell’intelligenza artificiale e della robotica11. In Italia si segnalano le considerazioni di Luca Toscano relative al distretto pratese che testimoniano come i processi di automazione tecnologica coesistano con le più brutali forme di sfruttamento12.

    Mueller si dice convinto che «la sinistra radicale possa e debba proporre una politica decelerazionista: una politica che miri a rallentare il cambiamento, minare il progresso tecnologico e arginare la cupidigia del capitale, sviluppando e coltivando allo stesso tempo nuove forme di organizzazione e militanza. […] Lasciare che la tecnologia segua il suo corso non porterà a risultati egualitari, ma autoritari». Attenzione però, avverte lo studioso, la politica decelerazionista non ha nulla a che fare con le politiche slow tanto care agli strati agiati della popolazione che se le possono permettere; non si tratta nemmeno di dare un volto umano al capitalismo, l’ipotesi decelerazionista «non si basa su un accordo con la natura, umana o meno, ma nel riconoscere le sfide che le strategie organizzative della classe lavoratrice devono affrontare. […] Il decelerazionismo non è una ritirata verso uno stile di vita più lento, ma la manifestazione di un antagonismo nei confronti del progresso voluto dalle élite, del tutto indifferenti ai nostri interessi. È il freno d’emergenza di Walter Benjamin. È una chiave inglese negli ingranaggi».

    In conclusione, l’opzione luddista, scrive Meuller, non è finalizzata ad una semplice opposizione alle nuove tecnologie, ma si configura come

    un insieme di politiche concrete con un contenuto positivo. Il luddismo, ispirato com’è dalle lotte che i lavoratori combattono su luogo di lavoro enfatizza l’autonomia: la libertà di stabilire i criteri migliori per la propria attività, cosi come la possibilità di definire i propri standard, e la garanzia di continuità e di miglioramento delle condizioni lavorative. Nello specifico, per i luddisti le nuove macchine erano una minaccia immediata – il luddismo dunque implica una prospettiva critica sulla tecnologia, che presta particolare attenzione alla relazione fra tecnologia, processo lavorativo e condizioni di lavoro. In altre parole, non ritiene che la tecnologia sia neutrale, ma che sia piuttosto un terreno di scontro. Il luddismo rifiuta la produzione per la produzione: è critico nei confronti dell’“efficienza” considerata come obiettivo finale, poiché sa che ci sono altri valori in gioco. Il luddismo può essere generalizzato: non e una posizione morale individuale, ma una serie di pratiche che possono proliferare e consolidarsi attraverso l’azione collettiva. Infine, il luddismo è antagonista: si oppone ai rapporti sociali capitalistici esistenti, a cui si può porre fine solo attraverso la lotta, non attraverso fattori come le riforme statali, la crescita incrementale della sovrapproduzione, o una migliore economia pianificata.

    [Tecnloluddismo 1/2]


    We are not robots – serie completa


    1. Bruce Schneier, La mente dell’hacker. Trovare la falla per migliorare il sistema, Luiss Univeristy Press, Roma, 2024. 

    2. Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024. 

    3. Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. 

    4. Frank Pasquale, Secret Algorithms Threaten Rule of Law, “MIT Technology Review”, June 1, 2017. 

    5. Si vedano a tal proposito: Carlo Milani, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022; Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano, 2022. 

    6. Si veda, ad esempio, Dunia Astrologo, Andrea Surbone, Piero Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione, Meltemi, Milano 2019. 

    7. Brian Merchant, Why Self-Checkout Is and Has Always Been the Worst, “Gizmodo”, March 7, 2019. 

    8. Craig Lambert, Shadow Work: The Unpaid, Unseen Jobs That Fill Your Day, Counterpoint, Berkeley, CA, 2015. 

    9. Cfr. Atul Gawande, Why Doctors Hate Their Computers, “New Yorker”, November 5, 2018. 

    10. Cfr. John Banks, Sal Humphreys, The labour of user co-creators: Emergent social network markets?, in “Convergence: The International Journal of Research into New Media Technologies”, vol. 14, n. 4, 2008, pp. 401-418. 

    11. Si veda la traduzione dell’articolo di Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder pubblicato sul “Financial Time”, 8 gennaio 2025: Portuali americani: aumenti salariali e lotta contro l’automazione, in “Codice Rosso” 11 gennaio 2025. 

    12. Luca Toscano, Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti, in “Zapruder – Storie in movimento”, 2024. 

    ]]>
    We are not robots – Tecnoluddismo 1/2 https://www.carmillaonline.com/2025/01/14/we-are-not-robots-tecnoluddismo-1-2/ Tue, 14 Jan 2025 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86133 di Gioacchino Toni

    Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, traduzione di Valerio Cianci, Nero, Roma, 2021, pp. 170, € 20,00

    In Breaking Thing at Work: The Luddites Are Right About Why You Hate Your Job (Verso, 2021), tradotto da Valerio Cianci per le edizioni Nero, l’ottimismo tecnologico, sostiene Mueller, lungi dall’essere prerogativa di cinici miliardari come Jeff Bezos ed Elon Musk, lo si ritrova anche in ambienti di sinistra, ove «i cosiddetti accelerazionisti prevedono un comunismo di lusso pienamente automatizzato sulla scia delle più selvagge fantasie degli imprenditori della Silicon Valley» in continuità con una tradizione marxista poco propensa [...]]]> di Gioacchino Toni

    Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro, traduzione di Valerio Cianci, Nero, Roma, 2021, pp. 170, € 20,00

    In Breaking Thing at Work: The Luddites Are Right About Why You Hate Your Job (Verso, 2021), tradotto da Valerio Cianci per le edizioni Nero, l’ottimismo tecnologico, sostiene Mueller, lungi dall’essere prerogativa di cinici miliardari come Jeff Bezos ed Elon Musk, lo si ritrova anche in ambienti di sinistra, ove «i cosiddetti accelerazionisti prevedono un comunismo di lusso pienamente automatizzato sulla scia delle più selvagge fantasie degli imprenditori della Silicon Valley» in continuità con una tradizione marxista poco propensa a criticare la tecnologia anche quando questa viene applicata in ambito lavorativo in maniera alienante.

    Convinti della neutralità della tecnologia, molti marxisti hanno guardato quasi esclusivamente a chi disponesse del controllo su di essa (i lavoratori o il capitale), in alcuni casi giungendo persino a guardarla di buon occhio anche quando sottoposta al controllo del capitale in quanto «mezzo in grado di creare le condizioni per una trasformazione radicale proprio sotto al naso del datore di lavoro»; insomma, in vista del fine ultimo socialista, occorrerebbe saper accettare l’avanzamento tecnologico anche quando nel “breve” periodo – e poco importa se coincide con la vita lavorativa di intere generazioni – dovesse comportare conseguenze negative per gli stessi lavoratori (e l’ambiente in cui vivono).

    Per quanto marxista, Mueller si pone nei confronti della tecnologia in maniera decisamente diversa rispetto ai tecnoentusiasti marxisti, mettendo in risalto le ricadute negative della massiccia applicazione delle tecnologie in ambito produttivo sui lavoratori, la propensione all’accentramento di ricchezza, dunque di potere, a vantaggio degli sfruttatori e la riduzione dell’autonomia dei lavoratori e della loro capacità di organizzarsi per tutelare i propri interessi. Se si è interessati al destino di queste persone e se si è mossi da principi egualitari, afferma Mueller, occorrerebbe essere «critici nei confronti della tecnologia e quindi prendere in considerazione tutti i frangenti in cui le persone, soprattutto i lavoratori, vi si sono opposte».

    L’autore inizia il volume indagando la prospettiva politica propria dei tessitori inglesi ottocenteschi che hanno combattuto la riorganizzazione tecnologica del lavoro imposta dai capitalisti dell’epoca. Per quanto, anche a sinistra, siano stati a lungo dipinti come anacronistici ed irrazionali antimodernisti, i luddisti, scrive Mueller, «credevano che le nuove macchine fossero una minaccia al loro stile di vita, che sarebbero state in grado di distruggere le loro comunità e che, di conseguenza, la distruzione di quelle stesse macchine fosse una valida strategia per opporvi resistenza».

    Guardare sotto una diversa prospettiva quelle lotte può contribuire a vedere quanto di buono c’è nel riemergere di pratiche luddiste anche ai nostri giorni. Scopo dichiarato dell’autore è mostrare come «il luddismo sia intellettualmente compatibile con il marxismo», non tanto come esercizio astrattamente filosofico, ma per testare la teoria marxista mettendola a confronto con le effettive pratiche dei lavoratori. Per fare ciò, continua lo studioso, è importante recuperare «gli esempi fondamentali di lotte in cui i lavoratori non si sono focalizzati esclusivamente sui loro nemici di classe (rappresentati da padroni o manager) ma anche sulle macchine utilizzate in quelle lotte».

    «Che lo si ammetta o meno, buona parte della critica tecnologica contemporanea deriva da una prospettiva umanistica e romantica, dall’idea che la tecnologia ci abbia allontanato da qualche nostra componente essenziale, e che ci separi da ciò che ci rende umani». Il recupero della dimensione umana alienata dalle tecnologie di cui parlano diversi studiosi spesso si limita a riprendere la critica heideggeriana nei confronti della tecnologia (tecnica) al fine di riconquistare l’Essere “autentico”. Il limite evidente di tali prospettive, sostiene Mueller, è che il problema fondamentale della tecnologia riguarda piuttosto «il suo ruolo nella perpetrazione delle gerarchie e delle ingiustizie imposteci da proprietari d’industria, capi e governi. In poche parole, il problema della tecnologia è il suo ruolo nel capitalismo», il fatto che attraverso questa si sia di fatto ampliato a dismisura il tempo di lavoro, limitando l’autonomia dei lavoratori ed agendo in maniera predittiva nei loro confronti dividendoli.

    «In tutta risposta, un’efficace strategia di lotta di classe dovrà necessariamente prendere di mira le macchine con cui si trova costretta a convivere», come è accaduto in diversi momenti storici. L’obiettivo dell’autore, evidentemente, non è quello di invitare a “sfasciare le macchine”, bensì quello di «dimostrare come i lavoratori stessi si siano più volte dimostrati luddisti nel corso delle loro lotte. Questo è vero tanto per gli autoproclamati seguaci di re Ludd all’alba del XIX secolo, quanto per tutti gli altri lavoratori che ne hanno seguito le orme nel corso degli anni. E vale anche per i lavoratori tecnologici più qualificati nell’epoca del computer». Anziché perdere tempo nel giudicare o biasimare tali lotte, scrive l’autore, occorrerebbe articolare una teoria a partire da esse.

    Lo storytelling, fatto proprio anche dalla sinistra, che auspicava uno sviluppo tecnologico esponenziale in grado di correggere le storture presenti ha mostrato la sua inconsistenza; basti guardare a come le recenti innovazioni delle reti digitali, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale siano accompagnate da esiti negativi per i lavoratori e per il Pianeta. Nel frattempo si sono manifestati in maniera crescente sentimenti ed episodi luddisti e anticapitalisti: è a partire da questi che, secondo Mueller si deve guardare per costruire un futuro migliore per tutti e tutte.

    L’analisi attenta della stagione luddista ottocentesca contraddice la narrazione egemone che etichetta la resistenza alle macchine come tecnofoba, mossa da un’ingenua contrarietà al progresso. In realtà, scrive lo studioso, «le macchine industriali hanno sempre ispirato una particolare avversione non solo perché demolivano i modelli di vita tradizionali, ma anche perché logoravano e sfiancavano coloro che erano destinati a utilizzarle». Lungi dall’essere stata semplice tecnofobia, l’opposizione luddista alla tecnologia «non era contro le macchine in sé, ma contro la società industriale che minacciava il loro stile di vita, e che aveva trovato nelle macchine la propria arma principale».

    La distruzione dei macchinari rappresenta soltanto una fra le tante tecniche utilizzate dai luddisti, riservata ai più intransigenti proprietari delle fabbriche, essa fa parte di una più ampia strategia volta ad implementare il potere dei lavoratori. Come ha mostrato lo storico Eric Hobsbawm1, le distruzioni delle macchine dei luddisti erano finalizzate all’ottenimento di un maggior potere contrattuale collettivo e deve essere considerata come espressione di una determinata composizione di classe: è attraverso «la distruzione dei macchinari che i luddisti si sono costituiti come classe, creando cosi legami di solidarietà», le varie forme di rivolta contro le macchine rappresentano dunque pratiche di organizzazione politica.

    Nel caso dei luddisti si trattava perlopiù di lavoratori indipendenti la cui opposizione al loro assorbimento nelle fabbriche si coniugava ad altre forme di resistenza che avevano come obiettivo la salvaguardia di elementi specifici del loro stile di vita e delle loro comunità. Ovviamente non potevano organizzarsi allo stesso modo dei lavoratori di massa, e non limitavano le loro lotte al posto di lavoro. Questa classe invece si organizzo attorno a una figura mitologica e collettiva – re Ludd – e creo forme e pratiche di segretezza e di solidarietà comunitaria in modo da alimentare le lotte e al contempo proteggere chi vi prendeva parte. […] Gli attacchi organizzati ai macchinari delle fabbriche e la loro distruzione non erano parte di una strategia isolata – erano invece la trama stessa della resistenza, la fibra che univa i tessitori come classe. Era una pratica di solidarietà.2.

    Mueller si sofferma anche sulla resistenza operaia all’introduzione del taylorismo a partire dal celebre  sciopero spontaneo dell’11 agosto del 1911 degli operai dell’arsenale di Watertown in risposta al licenziamento di uno di loro che si era rifiutato di farsi cronometrare dai solerti responsabili della “verifica scientifica” della tempistica produttiva. La mobilitazione comportò la sospensione del taylorismo e la riassunzione dell’operaio. Il cronometro rappresentò la macchina per eccellenza del nuovo sistema di organizzazione del lavoro e con esso delle attività operaie.

    Se fino ad allora i lavoratori detenevano il monopolio delle conoscenze necessarie all’organizzazione ed al funzionamento dei meccanismi produttivi, tanto da poter contrarre o dilatare i tempi a piacimento, il nuovo sistema produttivo fondato sull’organizzazione scientifica del lavoro, di fatto, più che a determinare metodi di lavoro ideali, mirava ad esautorare il controllo operaio sulla produzione, dunque a toglier loro potere. «La terminologia moderna della “scienza” e dell’“efficienza” mascherava il desiderio di disciplinare e controllare i lavoratori». L’organizzazione scientifica, scrive lo studioso, più che una «scienza dell’efficienza» si è rivelata «un programma politico per rendere i lavoratori soggetti docili e obbedienti». Non a caso «le priorità produttive» durante la seconda guerra mondiale «erano la costanza e il controllo, non la riduzione delle tempistiche o il risparmio di denaro, benché il controllo della domanda e dei salari durante il periodo bellico riuscissero in ogni caso a mantenere in attivo i fondi delle industrie».

    Che negli Stati Uniti l’obiettivo principale nelle fabbriche durante il periodo bellico fosse il controllo ben più che l’efficienza è chiaramente comprensibile se si pensa che nel corso degli anni Quaranta il numero di scioperi, spesso attuati senza preavviso, superò quello della Grande Depressione, tanto che per qualche tempo negli stabilimenti Ford si arrivò in media a scioperare a giorni alterni. Per arginare un tale livello di conflittualità, che rischiava di aumentare con il reinserimento dei militari di ritorno dalla guerra, oltre alla repressione diretta si fece ricorso anche a qualche apparente concessione sotto forma di accordo con le principali organizzazioni sindacali affinché i salari fossero sempre più strettamente legati alla produttività, dunque all’accettazione dei macchinari e dei sistemi di automazione sui luoghi di lavoro nonostante ciò portasse ad una sottrazione del sapere operaio nella gestione dei processi produttivi e con esso del potere contrattuale.

    Alla Bethlehem Steel, in Pennsylvania, ove intraprese i sui primi esperimenti di riorganizzazione del lavoro, Taylor si trovò a fare i conti con una lunga serie di guasti alle macchine provocati dai lavoratori. Dopo la scomparsa di Taylor nel 1915, scrive Mueller, a portare avanti la sua rivoluzione furono paradossalmente i sindacati operai.

    Agli inizi del XX secolo, i leader marxisti dei movimenti operai vedevano le tecnologie capitaliste e la gestione scientifica allo stesso modo di Taylor: si trattava di una tecnica obiettiva di incremento della produzione, e quindi di miglioramento della condizione dei lavoratori. Fondandosi su un’interpretazione particolare della teoria marxiana, credevano che il capitalismo, nella sua incessante ricerca di profitto, garantisse l’aumento della produttività grazie a innovazioni tecnologiche competitive e all’elaborazione di metodi lavorativi sempre più efficienti. Queste scoperte non avevano una politica intrinseca: la tecnologia era neutra e sarebbe stato possibile appropriarsene sottraendola al capitale privato e affidandone il controllo allo Stato, che l’avrebbe di conseguenza usata per l’emancipazione operaia dal logorio della vita lavorativa.

    Insomma, scrive Mueller, «per la teoria marxista ortodossa, la produzione socialista era già contenuta nei modi di produzione capitalisti, a patto che questi avessero continuato a svilupparsi». La fiducia che i teorici marxisti riponevano nella tecnologia e nella scienza della produzione e più in generale nel progresso, si trovò spesso in contrasto con l’attività pratica dei lavoratori. Mentre il taylorismo si diffondeva nelle fabbriche statunitensi, a differenza delle leadership dei partiti e dei principali sindacati di sinistra, i militanti dell’Industrial Workers of the World (IWW) compresero immediatamente le ricadute nefaste dell’organizzazione scientifica del lavoro sulla classe operaia, tanto da agire di conseguenza con i più diversi atti di sabotaggio.

    Dopo aver tratteggiato il dibatto interno alla Seconda internazionale e le scelte prese dall’Unione Sovietica a proposito della tecnologia, del processo lavorativo e delle produttività, Mueller si sofferma sull’azione autonoma dei lavoratori statunitensi ed europei nelle lotte contro l’automazione nell’era postbellica, quando, non badando agli inviti alla cautela e alla pazienza delle maggiori organizzazioni sindacali, i lavoratori abbandonavano le postazioni di lavoro o manomettevano i macchinari. Negli Stati Uniti, tra le fila di questi operai in lotta contro l’automazione, ricorda Mueller, «c’era posto per chi spesso veniva marginalizzato dai movimenti dei lavoratori ufficiali, ossia le donne e gli afroamericani – a cui, per altro, dobbiamo buona parte delle più efficaci analisi critiche sulle nuove tecnologie».

    Nel corso degli anni Sessanta, ricorda lo studioso, «nelle loro analisi e nelle loro politiche i maggiori gruppi radicali neri assegnarono un’importanza fondamentale alla critica della tecnologia. Capirono che la ricomposizione della forza lavoro innescata della tecnologia avrebbe segnato il destino delle loro lotte». Non a caso nel 1972 le Black Panther aggiornarono il loro programma inserendo il «controllo delle nuove tecnologie da parte delle comunità». Anche in ambito femminista furono numerose le denunce di come la tecnologia, nella sfera domestica come in fabbrica, rafforzasse la divisione di genere del lavoro3.

    Come avvenne per i tessitori, anche i lavoratori portuali americani si resero conto di come l’introduzione massiccia di tecnologia stesse minando il loro controllo sulle attività ed i legami di solidarietà. «L’automazione fu un vero e proprio rovesciamento del sistema portuale: nei porti ormai containerizzati, non solo erano necessari sempre meno scaricatori, ma, per via della drastica riduzione dei tempi di carico e scarico con il conseguente deprezzamento delle spedizioni marittime, divennero necessari sempre meno porti. Molte città, fra cui New York, videro i loro porti e le comunità che li animavano decimarsi nel giro di pochi anni».

    Ad avere la meglio nel pensiero di sinistra sarà una visione che, quando non si limita ad accogliere acriticamente l’automazione nei processi produttivi con annesse finalità produttivistiche, giunge persino a farne una vera e propria apologia, tanto da vedere nel mito della “piena automazione” un passaggio obbligato per il superamento dello sfruttamento capitalista, come se i fini ultimi bastassero a redimere una routine di fabbrica fatta di fatica, parcellizzazione, alienazione e corsa contro il tempo.

    Ai nostri giorni l’automazione – che agisce sulla forza lavoro «atomizzando e ricombinando i compiti, modificandone le richieste ed eliminando le occupazioni di fascia media» – comporta la sostituzione soprattutto del lavoro fisico ripetitivo e quello proprio delle posizioni manageriali intermedie.

    Per esempio, i magazzini di Amazon utilizzano un sistema a gestione software per coordinare i lavoratori umani che selezionano uno specifico bene e i robot che invece si occupano dello spostamento di grandi scaffali. Gli algoritmi sostituiscono le posizioni organizzative intermedie, comportando la polarizzazione della forza lavoro, fatta di dirigenti sempre più ricchi e potenti e lavoratori declassati che non sono sostituibili dalle macchine, ma da altri lavoratori: in sostanza manodopera tranquillamente rimpiazzabile all’occorrenza.

    Nel dopoguerra, attorno all’automazione si consumarono accese discussioni in seno alla sinistra. Sebbene i lavoratori si fossero a più riprese rivoltati contro l’introduzione di nuove tecnologie nell’ambito lavorativo, non di rado le organizzazioni sindacali hanno in qualche modo collaborato con i datori di lavoro «per assoggettare l’irrequieta forza lavoro alle macchine. Con l’intensificazione dell’attivismo nel corso degli anni Sessanta, il capitale ha accelerato il processo di cambiamento tecnologico come parte di una ristrutturazione globale radicata nelle varie destabilizzazioni dell’ordine postbellico. Al centro di tali cambiamenti c’era una tecnologia che le controculture accolsero con fascinazione e terrore: il computer».

    [continua]


    We are not robots – serie completa

     


    1. Eric Hobsbawm, The Machine Breakers, “Past and Present”, n. 1, 1952. 

    2. A tal proposito si veda Peter Linebaugh, King Ludd and Queen Mab Machine-Breaking, Romanticism, and the Several Commons of 1811-12, PM press, Oakland, CA, 2012. 

    3. Cfr.: Selma James, Mariarosa Dalla Costa, The Power of Women and the Subversion of Community, Falling Wall Press Limited, Bristol, 1975; Ruth Schwartz Cowan, More work for mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave, Basic Books, New York, 1983. 

    ]]>
    Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/11/18/linee-di-faglia-delle-guerre-civili-americane/ Wed, 18 Nov 2020 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63480 di Sandro Moiso

    Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali [...]]]> di Sandro Moiso

    Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.

    Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.

    In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.

    Fu un momento di grande trasformazione economica e sociale, di cui, come si è già detto più volte su queste pagine, la liberazione degli schiavi neri fu solo l’ultimo dei motivi, mentre sicuramente il primo fu la trasformazione degli Stati Uniti da paese esportatore di materie prime verso l’impero britannico e l’industria inglese a paese industriale destinato, nel volger di pochi decenni, a superare la produttività di molti paesi europei industrializzatisi in precedenza.
    Solo questa industrializzazione poté garantire negli anni successivi quello sviluppo delle ferrovia che avrebbe finito col velocizzare il trasporto di merci e persone, unificando definitivamente un paese che si affacciava sui due principali oceani, distanti tra di loro quasi 5.000 chilometri.
    E’ importante ricordare al lettore tutto ciò perché anche lo scontro in atto attualmente ha a che fare con trasformazioni che ancor prima che politiche e culturali, come vorrebbero i raffinati intellettuali alla Saviano (qui), sono economiche e tecnologiche.
    Ma procediamo, come sempre, un passo alla volta.

    Il Nord all’epoca della rottura era governato, insieme al resto del paese, da un presidente repubblicano, Abramo Lincoln, che fu anche il primo presidente di un partito nato da poco, mentre gli stati confederati erano rappresentati da un partito democratico che all’epoca, e da diverso tempo, rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri proprietari di schiavi e dei piccoli proprietari terrieri che, anche con l’utilizzo di una manodopera schiava di numero assai ridotto rispetto a quello delle grandi piantagioni, campavano comunque sull’esportazione di cotone e tabacco verso le industrie al di là dell’Atlantico. Infatti, come aveva avuto modo di affermare Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo.

    Ma se, da un lato, furono i piccoli proprietari a fornire alle armate confederate il grosso dell’esercito, dall’altro furono spesso gli operai a fornire i contingenti principali dell’esercito unionista. Anche su invito di Marx e d Engels che all’epoca si erano schierati apertamente a favore di Lincoln e della causa dell’Unione, proprio in nome della battaglia contro l’imperialismo inglese e dell’emancipazione della classe operaia, in un contesto in cui il sistema schiavista rappresentava ancora un impedimento al suo allargamento. Non a caso Joseph Weydemeyer, tedesco della Westfalia e aderente alla Lega dei Comunisti fin dal 1846 e che dopo essersi trasferito nel 1851 negli Stati Uniti avrebbe continuato a collaborare a stretto contato con Marx ed Engels, si arruolò in qualità di ufficiale nell’esercito dell’Unione dove combatté per quattro anni nel Missouri.

    E’ importante, però, citare anche la voce di un altro collaboratore dei due comunisti tedeschi, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1852: Friedrich Adolph Sorge. Nel 1890-91, ripercorrendo le vicende del movimento operaio americano, scriveva infatti sulla Neue Zeit2:

    L’agitazione per la questione della schiavitù aveva portato nel 1854 alla fondazione del Partito repubblicano che, nonostante la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1856, avrà molta influenza negli anni successivi. Senza un chiaro programma, senza un attacco diretto all’istituto della schiavitù, questo partito voleva solo impedire al Sud schiavista di espandersi in nuovi territori e ostacolare l’ingresso di nuovi Stati schiavisti nell’Unione […] nel 1860, dopo una combattiva campagna elettorale, i repubblicani ottennero la maggioranza in tutto il Nord e il loro candidato, Abramo Lincoln, fu eletto presidente degli Stati Uniti[…]
    L’influsso di queste lotte sul movimento operaio degli Stati Uniti è indiscutibile, tanto per gli svantaggi che per i vantaggi arrecati. Sia queste lotte che la guerra influirono negativamente sul movimento operaio perché allontanarono l’interesse del popolo, nel senso stretto del termine, dalle questioni economiche e, inoltre, diedero ai politici, sempre pronti a pescare nel torbido, l’atteso pretesto di opporsi alle richieste degli operai richiamandoli a “più alti interessi”. Un altro effetto negativo fu costituito dal forte mutamento della composizione della popolazione operaia, in quanto i lavoratori americani, che si erano arruolati come volontari o che erano stati chiamati alle armi3, furono rimpiazzati dagli immigrati, i quali avevano naturalmente bisogno di più tempo per conoscere la situazione ed iniziare ad avanzare le prime rivendicazioni. Altro svantaggio fu costituito dal peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della forte svalutazione della cartamoneta, che non fu affatto bilanciata dagli aumenti salariali ottenuti dagli operai. Per contro, non ci fu disoccupazione durante gli anni della guerra.
    Vediamo i vantaggi. L’enorme e crescente domanda di materiale e di equipaggiamenti bellici, di generi alimentari e di stivali e uniformi rese la forza lavoro una merce molto richiesta. Gli operai poterono così imporre con una certa facilità al padronato migliori condizioni di lavoro. Contemporaneamente furono adottate tariffe protezionistiche. Un grande vantaggio fu dato infine dal fatto che la guerra, risolvendo la questione della schiavitù, spianò la strada alla questione operaia4.

    La lunga citazione è importante perché contiene al suo interno sia la visione del movimento operaio tipica della Seconda Internazionale che gli elementi tipici che hanno governato le scelte di buona parte degli operai americani e dei gestori politici della Nazione fino ad oggi. Guai a dimenticarsene!

    Gli Stati federati nell’unione furono all’epoca 20, compresi quelli che vi entrarono nel corso del conflitto: Distretto di Columbia-Washington, California, Connecticut, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas5, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York-Stato di New York, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, Wisconsin e Nevada (solo dal 1864).

    All’epoca gli stati del Nord vedevano impiegati nei propri opifici 801.000 operai contro i 79.000 del Sud, con un capitale investito di 858 milioni di dollari (di cui 445 nell’industria con un valore prodotto di 861 milioni di dollari) contro i 237 (di cui 55 nell’industria con un valore prodotto di 79 milioni) investiti negli 11 stati del Sud: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia oltre al Territorio Indiano e il Territorio confederato dell’Arizona.

    A tutti questi andavano ancora aggiunti cinque stati cuscinetto formalmente sospesi tra l’una e l’altra fazione: Delaware, Kentucky (il maggior Stato schiavista dell’Unione), Maryland (schiavista), Missouri (schiavista), Virginia Occidentale (separatosi dalla Virginia in quanto filo-unionista seppur schiavista, ammesso ufficialmente a far parte dell’Unione nel 1863). A conferma della presenza della schiavitù anche in diversi stati dell’Unione o simpatizzanti occorre precisare che in quegli stati e in quelli cuscinetto erano presenti circa 443.000 schiavi contro i 3milioni e 522mila detenuti dagli stati confederati. Fine della cavalcata storica e ritorno al presente (più o meno).

    Sembra abbastanza chiaro che il conflitto ottocentesco fu sostanzialmente non solo di carattere economico, ma anche di modo di produrre. Altrettanto, occorre dirlo qui ed ora, lo è ancora quello attuale. La vulgata del fascismo e del razzismo contro la democrazia e la libertà possiamo lasciarla ai vuoti chiacchiericci televisivi e giornalistici, se vogliamo davvero comprendere la profondità della faglia che attraversa, come quella californiana, e forse più, di Sant’Andrea, la società americana. Pronta a mettere in moto un terremoto di cui da tempo si possono avvertire le scosse di preavviso.

    Nonostante la sconfitta Trump ha visto aumentare di 6 milioni i suoi voti rispetto alle elezioni del 2016 in cui era risultato vincitore, conservando di fatto il predominio in 25 Stati su 50. Joe Biden in compenso non ha ottenuto la valanga di voti afro-americani che tutti si attendevano, ma anzi ha conseguito una perdita importante di appeal presso quella fascia di popolazione. Ottenendo il 75% del voto afro-americano contro l’81% della Clinton e l’87% di Barak Obama. E’ il motivo per cui molti commentatori hanno parlato di rivolo blu piuttosto che di ondata. Mentre Donald Trump ha migliorato la sua posizione tra gli elettori non bianchi. E non solo tra i Latinos anti-castristi di origine cubana della Florida (dove non a caso è tornato a vincere).
    Possiamo pensare che il Covid-19 abbia comunque portato una ventata di follia in buona parte dell’elettorato americano ledendone irreparabilmente il cervello (come vorrebbero forse i soliti intellettuali da salotto e da strapazzo di casa nostra) oppure cercare di capire. Materialisticamente e per antica abitudine si sceglie qui di seguire la seconda strada.

    Se la mappa degli Stati Uniti durante la guerra civile indicava con il blu gli stati dell’Unione e con il rosso quelli confederati (lasciando in azzurro o grigio gli stati cuscinetto), oggi gli stati rossi e blu, come abbiamo imparato, indicano la maggiore influenza di Trump e del Partito repubblicano (rossi) oppure di Biden e del Partito democratico (blu). Se per la guerra ottocentesca la faglia del colore separava distintamente due tipi di economia (ad esempio i 96.000 stabilimenti industriali del Nord contro i 17.000 del Sud), oggi i due colori separano altrettanto due prospettive economiche diverse.
    Una, quella blu, al momento attuale vincente e l’altra, probabilmente e non soltanto elettoralmente, destinata ad essere sconfitta.

    Questo non vuol affatto dire che le aree blu siano quelle in cui si sta meglio, considerato che il “New York Times” in un articolo del 30 ottobre scorso sottolineava come fossero state le aree blu ad essere state più gravemente colpite dal punto di vista economico che non quelle rosse6. Secondo il giornale infatti, la recessione seguita alla pandemia è stata più severa in stati come la California o il Massachusetts, che hanno avuto una maggior perdita di posti di lavoro e di conseguenza una più vasta disoccupazione, che non altri come lo Utah o il Missouri. E questo viene fatto discendere da un diverso mix di lavori tra gli stati “democratici” e quelli “repubblicani”. Nei primi l’occupazione è scesa maggiormente nei primi due mesi della pandemia, per poi mantenere un significativo calo dei posti di lavoro fin da giugno (2020).

    Non vi sarebbe nemmeno un legame diretto tra diffusione del virus e perdita dei posti di lavoro, poiché se inizialmente il numero di contagi e decessi è stato maggiore in aree blu come, ad esempio, quella di New York, a partire da giugno nelle aree rosse sono aumentati i contagi e da luglio anche i decessi. Così, sostanzialmente, la perdita di posti di lavoro sarebbe correlata a fondamentali differenze tra i tipi di lavoro svolti. Con il record di perdita di posti nei settori del divertimento, dell’ospitalità alberghiere e in quello dei viaggi e della ricreazione. Soprattutto in luoghi come Honolulu, Las Vegas e New Orleans (l’ultima , però, appartenente ad uno stato in cui hanno vinto ancora i repubblicani).

    E sono state soprattutto le aree metropolitane a subire il maggior calo occupazionale, mediamente del 10% o più, come Springfield (Mass.) con il -12,9%, Las Vegas -12,4%, New York -11,4%, San Francisco -11,2%, New Orleans -11%, Los Angeles – 10,5%, Detroit -10,5% e Boston -10,1% (anche se la lista potrebbe allungarsi ancora). Tra i settori più colpiti dalla crisi pandemica il 59% dei lavoratori impiegati nell’accoglienza e nella ristorazione, il 63% di quelli dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento, il 66% di quelli impiegati nell’informazione come la pubblicità, il cinema e telecomunicazioni vivono in aree in cui i democratici si sono già affermati nelle elezioni del 2016. Mentre la maggior parte dei settori economici meno colpiti dalla pandemia “economica”, come ad esempio quello manifatturiero e delle costruzioni, cui vorrei aggiungere quello agricolo, si trovano dislocati nelle aree in cui Trump già vinse nel 2016 ( e nei quali si è affermato ancora oggi).

    Sostanzialmente la maggior perdita di posti si è avuta in aree metropolitane oppure hub tecnologici dove un certo e non indifferente numero di persone può lavorare da casa. In questo settore, e in particolare per quello finanziario oppure dei servizi professionali, il calo dell’occupazione è stato maggiormente rallentato, ma proprio il fatto dovuto all’elevato numero di lavoratori impiegati in tali settori ha fatto sì che altri settori, nelle stesse aree, come New York o San Francisco, fossero i più colpiti. Ad esempio quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, in cui il numero degli occupati è drammaticamente precipitato.

    Soltanto un anno prima, però, lo stesso autore citato in precedenza, sullo stesso giornale, scriveva che nelle aree metropolitane blu, più residenti hanno titoli di studio universitari: le 10 grandi metropolitane con il livello di istruzione più elevato hanno votato ciascuna per Hillary Clinton con un margine di almeno 10 punti. I redditi familiari medi sono più alti nelle aree metropolitane blu anche se il costo della vita è più alto in quelle aree. Le aree metropolitane “democratiche” avrebbero avuto infatti un mix di posti di lavoro più favorevole per il futuro, con meno posti di lavoro nel settore manifatturiero, una quota maggiore di lavori “non di routine” più difficili da automatizzare e una quota maggiore di posti di lavoro in settori che si prevedeva sarebbero cresciuti più rapidamente.
    Queste misure – istruzione, reddito familiare, costo della vita, lavori straordinari e crescita dell’occupazione prevista – sono fortemente correlate tra loro e con il voto democratico.
    Inoltre le medesime aree metropolitane avrebbero avuto una minore volatilità della crescita dell’occupazione. In parte perché i settori legati ai beni come la produzione e l’estrazione mineraria sarebbero più volatili e raggruppati in aree di tendenza repubblicana. Ma, mentre i redditi familiari comparati al costo della vita sarebbero più alti nelle aree metropolitane più blu, i salari confrontati con il costo della vita per una data occupazione sarebbero stati più alti nelle aree metropolitane più rosse7.

    Fermiamoci per ora qui, anche se è evidente che qualcosa nella narrazione democratica è andato storto. Sembra pertanto che la differenza di colori sulla mappa delle presidenziali, al di là del radicato repubblicanesimo di diversi stati del Midwest e del West, segua sostanzialmente una linea di faglia tra Nuova e Vecchia economia.
    La prima coinvolge la finanza globalizzata e globalizzante, l’high tech, l’information technology, la digitalizzazione di ogni ambito lavorativo e della distribuzione dei servizi e delle merci, dello smart working e dell’atomizzazione di ogni ambito lavorativo con conseguente perdita di qualsiasi dimensione comunitaria o identitaria di classe. Oltre che quella delle produzioni cinematografiche, ma sempre più rivolte alle produzioni seriali destinate ai canali digitali oppure ai videogiochi. Un’economia virtuale in cui anche la maggior parte dei lavori diventa virtuale e precaria. All’interno della quale, però, lo sviluppo della ricerca più di profitti finanziari che scientifica di Big Pharma8 e delle tecnologie rivolte alla diffusione del Green Capitalism svolgeranno una funzione sempre più importante.

    L’altra è quella delle industrie manifatturiere, dell’estrattivismo, delle costruzioni tradizionali e dell’agricoltura (anche se una parte significativa del settore dei piccoli farmer degli Stati del West è destinata ad entrare sempre più in conflitto con quello estrattivo a causa dei danni causati dalla pratica del fracking). Settori tradizionali in cui il posto di lavoro è (o era) maggiormente garantito e il reddito medio anche. Un’economia dagli alti costi e scarsi profitti per il capitale finanziario, perché ormai scarsamente competitiva con quella di altre nazioni, più giovani ed aggressive, ma dai salari molto più bassi, che operano negli stessi settori.

    Se gli Stati Uniti, secondo questa ipotesi, vogliono mantenere o almeno sfidare la Cina per mantenere il predominio mondiale, non soltanto militare, dovranno sicuramente spostare il loro centro economico sempre più verso la new economy. Trump è stato fautore di dazi, muri e ritiri militari (che nei prossimi giorni saranno portati a termine in Afghanista e in Iraq) per salvare il prodotto nazionale e abbattere i costi e scaricare sugli alleati/competitors i costi di tali operazioni di salvataggio di un’economia in crisi. Ma se questo piace ai suoi sostenitori, non basta alla fame di nuovi profitti del capitale, inteso come macchina implacabile, anche nei confronti dei suoi servitori di più alto grado. Così come agli industriali del Nord del 1860 non bastavano gli 87 milioni di dollari di esportazioni dei loro prodotti contro i 229 milioni delle esportazioni del Sud e della sua economia schiavista.

    Ecco allora che sembrano diventare più chiare le linee di faglia e dei colori: e sono tutt’altro che ideali o prodotte dall’ignoranza. Una gran parte dell’elettorato americano, anche in quegli Stati dove i centri urbani hanno contribuito alla vittoria di Biden mentre le aree periferiche hanno continuato a rimanere rosse, non ha nessuna intenzione di entrare nel ciclo del lavoro precarizzato e sottopagato.
    Mi vengono in mente, in proposito, le parole spese da Chicco Galmozzi per spiegare le motivazioni degli operai che scelsero l’organizzazione armata negli anni ’70.

    La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua9 avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. […] Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia. ( da Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, p.136)

    Per alcuni lettori questo paragone potrà sembrare scandaloso, eppure, eppure…
    La resistenza del mondo del lavoro “tradizionale” all’avanzare delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche produttive e delle ristrutturazioni socio-economiche che ne conseguono è una costante della storia fin dall’avvento del capitalismo. Dal tumulto dei Ciompi all’azione disperata di Captain Swing e dei Luddisti contro la meccanizzazione dell’agricoltura, fino al gran numero di piccoli proprietari terrieri del Sud accorsi a difendere gli interessi dei proprietari delle grandi piantagioni di tabacco e cotone, versando il proprio sangue. Oppure quella delle maggiori tribù di nativi americani che nel Territorio indiano si schierarono con la causa confederata. Battaglie quasi tutte perse già in partenza.

    Per questo dovremmo forse, da buoni progressisti, felicitarci con il nuovo che avanza ed appoggiarlo?
    Quel che è certo è che se non avevamo nulla a che spartire con la vecchia fabbrica-mondo, altrettanto non lo possiamo avere con la trasformazione antropologica, oltre che economica e sociale in atto. Piuttosto, dovremo sempre più essere capaci di osservare, comprendere, denunciare e, dove si potrà, organizzare le contraddizioni che tale potente trasformazione ha già da tempo iniziato a sviluppare. E’ un terreno scivoloso in cui il melting pot tra classi, mezze classi e diverse identità razziali, tutte in via di crescente proletarizzazione, è ancora tutto da realizzare, soprattutto sul piano della visione politica oltre che economica e sociale.

    Un territorio in cui, a livello propagandistico e di immaginario soprattutto, gioca molto la questione dei diritti.
    La vecchia economia americana privilegia sicuramente i bianchi, anche se rimane ancora il problema di chiedersi perché un gran numero di latinos e il 25% dell’elettorato afro-americano abbiano potuto votare per Trump (ma la risposta è implicita nella domanda stessa).
    D’altra parte il trionfo della borghesia e del capitalismo industriale si affermò grazie alla promessa dei diritti per tutti: Libertè, Egalitè, Fraternitè ovvero libertà per la maggioranza di farsi sfruttare una volta sciolti i vincoli della comunità, eguaglianza tra i poveri di accettare le leggi del comando capitalistico e di farsi concorrenza tra di loro e fratellanza degli oppressi nella miseria oppure dei padroni nel processo di accumulazione.
    Benvenuti ancora una volta nel mondo libero!

    Liberi oggi i lavoratori di cercare un lavoro on line come fattorini e spedizionieri, di accontentarsi della comunicazione digitale sui social e di consumare ciò che le grandi catene di distribuzione, come Amazon (il cui valore azionario è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno così come quello dei canali televisivi come Netflix), ci procurano da ogni parte del mondo globalizzato.
    Paradossalmente un nuovo mondo in cui il modello cinese ha già vinto e che l’Occidente, Stati Uniti in testa, è costretto a rincorrere10.

    […] perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan […] sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica)11.

    Come afferma ancora Giovanni Iozzoli, in un suo saggio di prossima pubblicazione:

    L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
    Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
    Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
    Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
    L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
    La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga12

    Eccola lì la trappola della modernità, dei diritti e della new economy che avanza: tutti uguali davanti al capitale, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati e tutti (per ora) divisi davanti alla sua presenza sempre più invisibile e alla sua forza sempre più organizzata, ma con la promessa per tutti, parafrasando Andy Warhol, di aver la possibilità di realizzarsi in una carriera di quindici minuti.
    Le linee di faglia e di colore americane sono dunque anche le nostre e lo sforzo comune per superare l’orrore quotidiano di un’esistenza che non è più altro che nuda vita, pur sapendo già fin da ora che il nostro posto è altrove, non potrà essere altro che quello di riunire ciò che oggi è ancora diviso e confuso. Ed enormemente incazzato


    1. Secondo una stima la guerra causò la morte del 10% di tutti i maschi degli Stati del nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del sud tra i diciotto e i quarant’anni, su una popolazione complessiva di circa trenta milioni di abitanti; mentre i due eserciti contarono 2.100.000 soldati per gli stati dell’Unione e 1.064.000 per quelli della Confederazione. Da questo punto di vista, infine, occorre ricordare che nel 1860, un anno prima dell’inizio del conflitto gli Stati del Nord contavano 22.100.000 abitanti contro i 9.100.000 degli stati del Sud  

    2. Die Neue Zeit (Il nuovo tempo) fu una rivista politica tedesca di orientamento socialista e marxista pubblicata in Germania dal 1883 al 1923, fondata e diretta da Karl Kautsky, che accolse nel tempo i contributi di Rosa Luxemburg, Trockij e Wilhelm Liebknecht, solo per citare alcuni dei collaboratori  

    3. Occorre qui ricordare i New York riot del 1863, magnificamente ricostruiti nel film Gang of New York di Martin Scorsese nel 2002, durante i quali la parte proletaria e sottoproletaria della grande città si ribellò all’arruolamento forzato cui, invece, i figli delle classi agiate potevano sfuggire pagando una tassa di circa 300 dollari. Cosa evidentemente impossibile per gli strati più poveri della popolazione  

    4. F. A. Sorge, La guerra di secessione ora in F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1793-1882. Corrispondenze dal Nord America, PantaRei, Milano 2002, pp. 99-100  

    5. Che fu per lungo tempo, insieme al Missouri, teatro di una crudele guerriglia tra schiavisti e anti-schiavisti. Famoso il massacro della città di Lawrence, avvenuto il 21 agosto 1863 ad opera delle bande filo-schiaviste di William Clarke Quantrill. Si veda in proposito: T.J.Stiles, Jesse James. Storia del bandito ribelle, il Saggiatore, Milano 2006  

    6. Jed Kolko, Why Blue Places Have Been Hit Harder Economically Than Red Ones, The New York Times, 30/10/2020  

    7. J. Kolko, Red and Blue Economies Are Heading In Sharply Different Directions, The New York Times, 13 /11 /2019  

    8. Come ben dimostra ormai la paradossale ricerca/affermazione del mezzo punto di efficacia in più tra Pfizer e Moderna per i propri vaccini, a cui stiamo assistendo con le vertiginose salite e altrettanto rapide cadute dei rispettivi titoli azionari  

    9. Per la storia di Senza tregua. Giornale degli operai comunisti si veda qui  

    10. Ipotesi tutt’altro che peregrina se si considera che la guerra vera con la Cina, per ora, riguarda la tecnologia 5G di Huawei oppure le piattaforme social come TikTok  

    11. Dalla presentazione dell’editore a Leslie T. Chang, Operaie, Adelphi, Milano 2010  

    12. Tratto da G. Iozzoli, Islam, modernità e guerra alla guerra, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale, Il Galeone, Roma  

    ]]>
    LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

    La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

    In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

    La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

    In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

    Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

    I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

    Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

    Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

    “E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

    Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

    Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

    “Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

    Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

    La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

    Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

    Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

    E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

    “La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

    I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

    Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

    “Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
    Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

    Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

    Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


    1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

    2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

    3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

    4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

    5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

    6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

    ]]>