Luca Benvenga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Tribù e bande giovanili catalane, messicane e transnazionali https://www.carmillaonline.com/2020/07/24/estetiche-inquiete-tribu-e-bande-giovanili-catalane-messicane-e-transnazionali/ Fri, 24 Jul 2020 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61319 di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a [...]]]> di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a pieni giri, il libro viene tradotto in italiano nei primi anni Ottanta incontrando una scena punk nazionale vitale e, almeno in alcuni suoi settori, attiva in ambito antagonista.

Nell’edizione edita da Meltemi nel 2017 tradotta da Pierluigi Tazzi e revisionata da Massimiliano Guareschi, scrive a tal proposito quest’ultimo nell’introduzione al volume:

In quel frangente, Sottocultura forniva preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza politica. Anche nell’autocomprensione delle stesse sottoculture, nonostante il rifiuto di principio che le componenti più oltranziste potevano opporre a qualsiasi sguardo esterno o alle oggettivazioni del sapere accademico, il libro svolse un ruolo non trascurabile.1

L’uscita del libro nei primi anni Ottanta ha rappresentato probabilmente anche una delle prime occasioni per gli studiosi italiani di familiarizzare con i cultural studies successivi alla

assunzione da parte di Stuart Hall della direzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il riorientamento della precedente vocazione prevalentemente storico-letteraria in direzione sia di una focalizzazione su tematiche quali la resistenza attraverso i rituali, la guerriglia semiotica messa in scena dai comportamenti giovanili, la risignificazione dal basso dei consumi, l’interazione fra pubblico e media aggirando le ipoteche delle letture unidirezionali in termini di meccanico travaso di contenuti dall’emittente al destinatario o di moralistica stigmatizzazione dell’abbrutimento delle masse nell’era del consumismo e della massificazione.2

Si può riconoscere al volume di Hebdige il merito di aver indotto in questo paese non solo gli ambienti accademici ma anche settori di quell’universo underground da lui chiamato in causa a guardare con occhi nuovi al mondo delle sottoculture giovanili e ad ampliare l’interesse verso gli studi sulle culture subalterne portati avanti da tempo da autori come Ernesto De Martino e, prima ancora, dallo stesso Antonio Gramsci.

A questi due ultimi studiosi, De Martino e Gramsci, è debitore, come ha modo di ribadire egli stesso nel volume, lo spagnolo Carles Feixa che, con il suo Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili (DeriveApprodi 2020), ha recentemente inaugurato Anomalie Urbane di DeriveApprodi, collana intenzionata a proporre tanto contributi originali che traduzioni e riedizioni di classici dedicati alle culture metropolitiane prendendone in esame, sia da un punto di vista teorico che empirico, linguaggi, spazi e condotte conflittuali.

Lontano dai pregiudizi e dalle etichettature di comodo della politica istituzionale e dei media, la collana, curata da Luca Benvenga, intende dunque affrontare le culture giovanili, siano esse sub o contro-culturali, nelle loro contraddizioni, nei loro splendori e nelle loro miserie. Ad essere indagati sono pertanto, tra gli altri, i processi di soggettivazione prodotti da tali realtà, il ricorso alla violenza e alla mascolinità come strumenti di affermazione del sé sociale, le modalità di convivenza cooperanti e solidali, le questioni etniche, di genere e di classe, la dimensione popolare degli sport nelle comunità…

Il volume di Feixa, docente di antropologia sociale presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, raccoglie cinque saggi sulle culture giovanili stesi negli ultimi decenni in cui vengono riportati i risultati di un’analisi sul campo relativa alle tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani del decennio successivo, alle bandas latinas della prima metà degli anni Duemila e alle bande transnazionali come “agenti di mediazione” tra Europa, Nordafrica e America.

Nell’impossibilità di prendere in rassegna tutta la casistica affrontata dal libro, in questo scritto ci si limiterà a tratteggiare le differenze principali tra due tipi di bande giovanili: le tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani degli anni Novanta.

Sin dalla sua prima immersione all’interno delle bande giovanili spagnole, lo studioso nota come alcuni interlocutori rispondessero a

identità etniche e di classe precedenti (i pijos, giovani della classe media, in genere studenti, ossessionati dal consumismo e dalla moda, si contrapponevano ai golfos, immigrati della periferia, generalmente disoccupati). Altre classificazioni riconducevano a modelli più universali: reminiscenze del passato (hippies), revivals (mods) e nuove creazioni subculturali (punk, posmodernos). Modelli provenienti da altri tempi e luoghi (la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta) e non introiettati in maniera passiva o puramente esteriore, si adattavano a nuove funzioni e bisogni e si mescolavano con le influenze autoctone (la cultura gitana e il nazionalismo catalano).3

Nelle sue prime indagini sul campo nella Spagna degli anni Ottanta, Feixa nota come curiosamente le tribù urbane tendono a essere indicate come fenomeno generazionale nonostante risultino composte da un esiguo numero di giovani e come siano lette come metafora della crisi, un sorta di rielaborazione simbolica del disincanto politico postfranchista, una risposta alla mancanza di lavoro e di futuro per i giovani.

Se in Spagna per i giovani della generazione del dopoguerra lo svago tende a ridursi, salvo qualche festa privata, alle passeggiate lungo la via principale della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta le nascenti sale da ballo offrono ai giovani un luogo alternativo in cui impiegare il tempo libero. È però con la morte di Franco, nel 1975, che la gioventù inizia davvero a ritagliarsi uno spazio proprio, regolato da leggi e valori altri, all’interno delle città.

La prima analisi proposta dallo studioso riguarda il formarsi delle tribù giovanili nella città catalana di Lleida ove, nel corso degli anni Ottanta, nella parte antica della città, nella cosiddetta “zona dei vini”, diversi vecchi bar a buon mercato, in cui è possibile ascoltare musica, vestire informalmente e fumare hashish liberamente, si trasformano in uno spazio giovanile frequentato dalle diverse tribù, ognuna connotata dal suo particolare stile. Quim, un interlocutore catalano diciottenne, così spiega la nascita e la diffusione delle bande giovanili: «Senza lavoro, le persone non sono state in grado di adattarsi alla società e hanno creato un gruppo per appartenere a un qualche tipo di società»4.

Il processo di massificazione, sostiene Feixa, ha poi indotto alcuni gruppi giovanili ad abbandonando la “zona dei vini” per differenziarsi. Ad esempio, i progres, studenti di sinistra con influenze controculturali, si spostano nei locali della zona bassa della città, ove si ascolta musica jazz, rock progressivo e cantautori catalani, mentre i pijos optano per la parte borghese della città, ove frequentano locali più costosi caratterizzati da un’estetica più commerciale, un abbigliamento firmato e musica da discoteca. In altre parti della città vengono ricavati da vecchi magazzini grandi locali, detti posmodernos, contraddistinti da un’estetica punk, rockers e musica hard rock. Successivamente, la stessa “zona dei vini” inizia a differenziare nettamente i locali per rispondere a comunità specifiche: hardcores, heavies, rockabillies, acratas, femministe ecc.

Con l’emergere delle tribù urbane, a Lleida si ha una settorializzazione degli spazi urbani dedicati allo svago giovanile. In molti casi, nota Feixa, non si tratta di gruppi con base territoriale, organizzati sul modello della banda; lo spazio di aggregazione tende a concentrarsi nel centro della città ed è lì che i gruppi si ritrovano indipendentemente dalla provenienza territoriale dei membri.

Ogni ragazzo può fare proprio uno stile in modo più o meno radicale, identificarsi in successione con stili diversi o adottarne solo parte degli ornamenti esteriori, o più semplicemente condividere l’amicizia con i componenti del gruppo. Di fatto, la tribù esiste esclusivamente come “mappa mentale” per consentire di orientarsi e interagire quotidianamente con gli altri giovani. I “travestimenti” di solito non vengono indossati a scuola o al lavoro, ma sono prerogativa specifica del fine settimana, quando ci si reca nella zona dei vini al sopraggiungere della sera.5

Nel corso del tempo si sono dati importanti cambiamenti in seno alle diverse tribù e ai loro stili, con non irrilevanti processi di inversione simbolica, come ad esempio l’appropriazione dello stile skinhead, tradizionalmente proprio di frange di proletariato ribelle, da parte di ragazzini di estrazione borghese, spesso di estrema destra e razzisti. Più in generale, sostiene lo studioso, «gli stili maggiormente connessi con la crisi e che hanno come protagonisti giovani operai (punks, heavies) hanno lasciato il posto ad altri stili che, sebbene di origine operaia, riconducono ad altre epoche (gli anni Sessanta) e sono ripresi dai giovani della classe media (mods, skinheads), facendosi interpreti di nuove metafore sociali (il consumismo, il razzismo)»6.

I chavos banda degli anni Novanta presenti in diverse città messicane sono invece composti da giovani disoccupati o attivi nell’economia sommersa dell’ambiente urbano-popolare, tendenzialmente stanziali nei rispettivi quartieri e appassionati di musica rock che si oppongono ai chavos fresa, giovani della classe media, spesso studenti, ossessionati dalla moda e dal consumismo che fanno delle discoteche il loro punt di ritrovo.
Sin dal principio degli anni Ottanta, lo stile chavos banda tende a divenire egemonico tra larghi strati di popolazione giovanile sia maschile che femminile permettendo alla marginalità di fare irruzione sulla scena urbana. Lo studioso, oltre a tratteggiare le esperienze storiche da cui sono derivati i chavos banda, ne indaga l’identità generazionale, etnica, di classe e di genere.

Confrontando i chavos banda messicani con le tribus urbanas spagnole, lo Feixa nota come, al di là degli elementi affini, mentre i primi si sono trasformati in un’esperienza di massa duratura nell’ambiente urbano-popolare, nel secondo caso si è trattato di un fenomeno decisamente minoritario e legato a una particolare congiuntura.

Mentre la banda è una struttura collettiva sufficientemente stabile, con capi e rituali costanti che abbraccia gran parte della vita quotidiana e del percorso di vitale dei chavos, le tribù urbane tendono a essere raggruppamenti instabili, solo occasionalmente di massa, discontinui, i cui membri di rado si lasciano coinvolgere totalmente. Mentre i chavos banda si localizzano prevalentemente nelle periferie delle grandi città e conservano vincoli profondi con il territorio (la cui difesa è il motivo di conflitti endemici con altre bande ugualmente territoriali), le tribù urbane hanno mantenuto come scenario soprattutto il centro urbano, con conflitti episodici e determinati prevalentemente da divergenze di stile o rivalità calcistiche, piuttosto che appartenenze territoriali.7

Mentre i chavos ostentano la loro identità di gruppo sempre e ovunque, l’esibizione dell’appartenenza alle bande urbane è assai più circoscritta, inoltre se i primi tendono a rifarsi a circuiti economici informali o autogestiti, i secondi restano sostanzialmente all’interno del circuito di mercato tradizionale. Le stesse risposte del potere nei confronti delle due esperienze sono differenti: decisamente di stampo repressivo nel caso messicano, più tollerante nel caso catalano.

L’identificazione con questi stili è un processo simbolico, tuttavia l’appropriazione produce in ogni luogo manifestazioni culturali completamente diverse, e ciò confuta le teorie che vedono nella cultura dei giovani un processo di omologazione su scala planetaria. L’esperienza dimostra che i ragazzi provenienti da contesti subalterni, sia nelle zone periferiche che in quelle centrali, possono essere emarginati ma non necessariamente marginali. Attraverso l’identificazione con un modello, l’emarginazione da stigma passa a essere un emblema. Emblema che crea una comunicazione col mondo esterno, che offre un linguaggio universale e quindi mette in crisi l’idea tradizionale della cultura della povertà come un’entità chiusa.8

Per quanto riguarda le altre esperienze analizzate da Feixa, relativamente alle bandas latinas barcellonesi della prima metà degli anni Duemila, lo studioso si propone di mostrare come, al di là egli stereotipi di comodo politico-mediatici, esistano differenti modalità di identificazione dei giovani di identità latina con le bande. Nel volume vengono analizzati anche alcuni fenomeni socio-culturali che in ambito catalano si contraddistinguono per la presenza tanto di una dimensione locale che una globale, mentre un saggio rimanda al progetto TRANSGANG – Transnational Gangs as Agents of Mediation: Experiences of Conflict Resolution in Street Youth Organizations in Southern Europe, North Africa and the Americas – che anziché concentrarsi sui fallimenti e sull’esclusione sociale, si occupa dei casi in cui le bande giovanili sono state protagoniste di percorsi di inclusione sociale. Si tratta di un progetto che, focalizzato sulle esperienze di mediazione delle bande giovanili di due comunità transnazionali (latinoamericane e arabe) in tre ambiti geo-culturali (Europa Merdionale, Africa Settentrionale e le Americhe), mira a favorire politiche maggiormente inclusive in cui i protagonisti esercitano un ruolo attivo di primo piano.


  1. D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano 2017, p. 12. Sul volume si veda: G. Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, Il Pickwick, 18 ottobre 2017. 

  2. Ivi, p. 13. 

  3. C. Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 9. 

  4. Ivi, p. 7. 

  5. Ivi, p. .12. 

  6. Ivi, p. 12. 

  7. Ivi, p. 21. 

  8. Ivi. pp. 22-23. 

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Sport e dintorni – Calcio e violenza operaia https://www.carmillaonline.com/2019/02/12/sport-e-dintorni-calcio-e-violenza-operaia/ Mon, 11 Feb 2019 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50646 di Gioacchino Toni

John Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 120, € 12,00

L’importanza dei lavori di John Clarke, tra i primi studiosi a occuparsi delle radici dell’hooliganismo in Gran Bretagna negli anni Settanta indagando il legame tra calcio e condotte violente delle fasce popolari, è messa in risalto nell’Introduzione stesa da Luca Benvenga al volume: «Attraversando epoche differenti [Clarke] mette sotto la lente conoscitiva, oltre all’evoluzione che ha investito questo sport in termini strutturali e più propriamente di partecipazione agli eventi, la tesi della violenza come conditio sine qua non per una crescente preoccupazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

John Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 120, € 12,00

L’importanza dei lavori di John Clarke, tra i primi studiosi a occuparsi delle radici dell’hooliganismo in Gran Bretagna negli anni Settanta indagando il legame tra calcio e condotte violente delle fasce popolari, è messa in risalto nell’Introduzione stesa da Luca Benvenga al volume: «Attraversando epoche differenti [Clarke] mette sotto la lente conoscitiva, oltre all’evoluzione che ha investito questo sport in termini strutturali e più propriamente di partecipazione agli eventi, la tesi della violenza come conditio sine qua non per una crescente preoccupazione di gruppi di giovani partoriti dalla deindustrializzazione. Così riaffermando nella “passione aggressiva” i valori di una classe e l’esasperato senso di territorialità con la riappropriazione dei campi, in una logica tutta operaia di presidio simbolico di uno spazio (come lo street corner, la piazzetta o il quartiere) che emerge per contrapposizione […]. Secondo Clarke il progressivo cambiamento che interesserà il gioco del calcio nel secondo dopoguerra è, per i figli della working class britannica, il pretesto per l’esplosione di un sentimento di frustrazione e di un generale malcontento nei confronti della società. Il “football hooliganism” si afferma così in nome di una volontà di esprimere una refrattarietà all’imposizione di un modello-calcio che si sposta coattivamente verso la professionalizzazione […], la commercializzazione […] e la spettacolarizzazione» (p. 13).

Nelle alienanti società moderne avare di avvenimenti straordinari capaci di fuoriuscire dalla routine quotidiana, il calcio resta una dei pochi ambiti in grado di soddisfare tanto la domanda di emozioni forti che la possibilità di una loro espressione pubblica. «A partire dalla Rivoluzione industriale la vita di gran parte dei lavoratori si definiva nell’organizzazione tecnica e nella disciplina oraria del lavoro in fabbrica. Il calcio ha così offerto un’alternativa alla routine, ridisegnando l’esperienza quotidiana della classe operaia […] L’eccitamento si intensifica con l’esperienza di considerarsi parte di un vasto pubblico di tifosi. La pressione fisica, il trasporto psicologico, essere “uno” tra altri cento a incoraggiare la propria squadra è parte essenziale del fascino del gioco» (p. 38).

I settori popolari degli stadi sono stati storicamente occupati da lavoratori manuali abituati allo scontro dal loro dover fare i conti con la sopravvivenza sociale e un gioco come quello del calcio, caratterizzato dal corpo a corpo e dallo scontro fisico, non poteva che attrarre una classe operaia abituata da sempre al conflitto e alla durezza della vita quotidiana spesa tra lavoro e quartiere. All’interno di una working class abituata a fare i conti con l’aggressività e contraddistinta da una notevole dose di machismo, la violenza, sostiene Clarke, non era di certo vista come problema, né doveva essere giustificata.
Il calcio, scrive C. R. Critcher (Football as popular culture – an outline), «ci restituisce complessivamente la prospettiva operaia della violenza: “In questo alternativo universo morale la violenza è legittimata come in nessun altro contesto della società, ma è allo stesso tempo abbondantemente localizzata, come se il calcio consentisse di formalizzare delle attitudini proprie dei lavoratori, come fosse un sistematico aspetto della vita di ognuno che può periodicamente manifestarsi, ma non ci si aspetta che ciò sfugga di mano o che si trasformi in uno stato d’animo pervasivo”» (p. 40).

Il calcio, puntualizza Clarke, ha a lungo rafforzato quel senso di comunità, di territorialità e di mutualità della working class. Nella squadra veniva vista una sorta di rappresentativa della comunità impegnata nella difesa del territorio dagli estranei. Tale senso territoriale alle origini è stato rafforzato dal fatto che molti giocatori erano nati e vissuti in quei quartieri, spesso erano di estrazione operaia e per certi versi restavano parte della classe di provenienza in termini salariali e di stile di vita.

Il volume si sofferma anche sul ruolo rivestito dalla vittoria nell’immaginario popolare. Riferendosi agli anni Venti, scrive a tal proposito Arthur Hopcraft (The Football Man, 1971) che andare alla partita significava «lasciarsi alle spalle uno stato di profondo sconforto e immergersi nella lotta. L’identificazione con la squadra di casa restituiva un’individuazione positiva attraverso la forza e i goal. La vittoria era un successo personale, la sconfitta un altro schiaffo dato dalla vita. Il calcio non era tanto una droga per la gente, quanto un baluardo scagliato contro il capitalista che chiude la fabbrica e il padrone di casa armato di ufficiali giudiziari» (p. 43).

È a partire dal dopoguerra che il calcio cambia profondamente indirizzandosi verso la professionalizzazione, l’internazionalizzazione e la commercializzazione. «Tutte queste trasformazioni sono legate alla fiducia nella struttura sociale della Gran Bretagna negli anni Cinquanta. È l’era dell’Affluenza, del consenso politico, dell’emergere di una società senza classi. I club di calcio, in questo nuovo ordine sociale, anticipano la scomparsa del supporter con il tradizionale cloth-capped, percepiscono di dover affrontare una crescente competizione per accaparrarsi il pubblico, in concorrenza con forme alternative di intrattenimento, cinema e tv su tutti. Se lo storico fan non esiste più, rimane tuttavia il tradizionale attaccamento; i club si propiziano il nuovo consumatore senza classi, razionalmente selettivo. Egualmente, il gioco deve essere reso il più possibile coinvolgente “per attrarre” il nuovo spettatore, metterlo a proprio agio e accoglierne ogni richiesta. Era impensabile che si recasse ogni sabato ad assistere agli incontri di una squadra debole e perdente, perciò occorreva maggiore attenzione per scongiurare l’insuccesso» (p. 46).

Ian Taylor (Football Mad a Speculative Sociology of Soccer Hooliganism, 1971) ricorre al termine “borghesificazione” per indicare quel processo che vede la classe media appropriarsi di ciò che in passato apparteneva alla working class. Quella generale trasformazione tendente a piegare l’intera società inglese sul modello della classe media, sostiene Clarke, provocherà una modificazione della figura del tifoso “genuino” non più riconducibile al proletario tradizionale che viveva nell’attesa della partita settimanale «con le sue fortune inestricabilmente legate alle sorti della squadra, partecipante attivo del gioco», bensì a un «consumatore razionale e selettivo dei servizi di intrattenimento, che commenta dal suo comodo posto in tribuna. Questa antinomia trova la sua ipotesi esplicativa nelle figure del “Fan” da un lato e dello “Spettatore” dall’altro (una simile distinzione è stata adoperata per altre attività di svago della classe operaia, come il pub, per citare un esempio, nei termini di una ripartizione tra frequentatori e clienti)» (p. 48).

È a partire dalla metà degli anni Sessanta che il teppismo calcistico inizia ad essere etichettato come problema e attraverso la retorica gonfiata dai media sul teppismo legato agli stadi prenderanno piede alcuni stereotipi duri a morire, come l’idea che vede negli hooligan giovani ignoranti appartenenti alla working class che frequentano gli stadi privi di qualsiasi interesse per la partita al solo scopo di creare disordini per sfogare una violenza del tutto gratuita e irragionevole. Sui media inglesi spesso i settori popolari sono descritti come luoghi lerci, avvolti dal puzzo rancido di birra e cipolle, ove risuonano oscenità e vanno in scena comportamenti del tutto incivili. Affinché il calcio potesse essere confezionato su misura per la middle class, occorreva ripulirlo da tutto ciò: la working class andava ammaestrata.

In balia di tali trasformazioni molti giovani fan di estrazione popolare finirono per sentirsi derubati del loro gioco e della loro squadra. Secondo Ian Taylor a questi giovani non è restato che tentare di mantenere in vita alcune caratteristiche tradizionali del loro gioco. «Mantengono vive le antiche rivalità, oramai di poca importanza per i club, l’“invasione” del territorio nelle partita in trasferta lascia ora il posto al take the ende nella più recente occupazione del centro città. La natura del viaggio è di per sé significativa. La giornata per soli maschi della classe operaia ha rappresentato per lungo tempo un’occasione per “lasciarsi andare” e bere senza freni» (pp. 54-55).
Se Ian Taylor ha avuto il merito di cogliere e analizzare il collegamento tra violenza e calcio, palesa però il limite, scrive Clarke, di non spiegare i motivi per cui numerosi giovani vivono il calcio in maniera così totalizzante in un momento storico in cui si tanti loro coetanei si sono spostati verso altre culture giovanili.

Nella seconda parte del volume Clark analizza le trasformazioni sociali che hanno agito sul mondo del calcio a partire dalla comparsa del fenomeno Skinhead, considerato da molti l’estrema sintesi del fenomeno hooligan. Comparsi originariamente nel 1968 nell’East End di Londra, in poco tempo i gruppi Skinhead hanno fatto la loro comparsa negli stadi di tutto il paese attirando l’attenzione perché spesso coinvolti in episodi di violenza e per un modo di presentarsi decisamente connotato: scarponi da lavoro spesso dotati di rinforzo metallico, jeans con risvolto, bretelle, capelli rasati ecc. Il fenomeno Skinhead viene alla luce in un’epoca di mutamenti sociali che segnano la rottura dello stile di vita della working class la dissoluzione delle comunità tradizionali segnate dall’arrivo nei quartieri di immigrati e di famiglie della classe media attraverso trasformazioni urbanistiche che spostano molti nuclei famigliari nei nuovi quartieri sorti attorno ai sobborghi più periferici e per mezzo di una progressiva sostituzione dei tradizionali trenini di case orizzontali che correvano a stretto contatto con la vita di strada fatta di pub, negozietti e spazi comuni con grandi palazzoni in verticale. Questa sistematica rimozione dei vecchi spazi di socializzazione ha comportato un arroccamento nei pochi luoghi rimasti, come il campo da calcio, che hanno così assunto ulteriore valenza identitaria-culturale; è significativo, afferma Clarke, che le zone in cui si strutturano i gruppi di Skinhead corrispondono a quei nuovi o vecchi quartieri di edilizia popolare riprogettati e in cui giungevano sempre più “outsider”.

A cambiare non sono però soltanto gli stadi; gli stessi pub e i club vengono trasformati in “divertimentifici” e la concentrazione nel centro città delle strutture dedicate ai giovani comporteranno un indebolimento delle comunità periferiche. Se negli anni Cinquanta ha preso piede l’idea di una società che si voleva senza classi, avviata all’opulenza, il decennio successivo ha invece manifestato la povertà e i conflitti di classe, con un’istituzione scolastica vissuta come un luogo alieno da molti giovani della working class.

«Fin dall’avvento del rock’n’roll e dei Ted all’inizio degli anni Cinquanta, i giovani hanno cercato di risolvere questa crisi culturale e la conseguente mancanza d’identità creando delle culture più appropriate alle proprie esigenze ed esperienze. (La classe operaia ha reagito a questi cambiamenti in maniera difforme, tra chi aveva nostalgia dei tempi passati, e chi attraversava la sindrome del “Lavoratore Benestante” mediante un ritorno introspettivo in seno alla famiglia). Verso la metà degli anni Sessanta, le due tendenze di sviluppo della cultura giovanile erano la continuazione dell’“era Mod” e la crescita dell’underground inglese. Nessuna delle due correnti si adattava alle esperienze dei giovani che sarebbero diventati degli Skinhead» (p. 61).

Nel libro viene sottolineato come nonostante molti Mod provenissero dalla classe operaia, il centro della scena di questa cultura giovanile fosse in mano a giovani colletti bianchi occupati nei lavori più umili, inoltre lo stile Mod finì presto per rivolgersi a consumatori benestanti per divenire alla fine degli anni Sessanta una vera e propria impresa commerciale ben supportata dalle band musicali più in vista. «Da quel momento piombarono nella scena gli Skinhead, il vero impeto dei Mod scompariva e restava solo l’aspetto commerciale. Gli Skinhead stravolsero l’immagine Mod, esattamente come i Mod fecero con i Rocker. […] Lo stile Skin riaffermava le vecchie tradizioni di una cultura minacciata da una contaminazione di valori e simboli middle-class. L’uniforme Skinhead è una versione stilizzata della working clothes, è l’immagine rivisitata della classe operaia attraverso il taglio di capelli, attitudine, violenza, ma tutto ciò si esprimeva in tinte esagerate, come fosse una forma di auto-rappresentazione caricaturale […] e l’inevitabile scenario per ricostruire i tradizionali valori della working class era il classico luogo di ritrovo del sabato pomeriggio, il campo di calcio» (pp. 63-65).

Dunque, sostiene Clarke, nel fenomeno degli hooligan nel calcio è possibile scorgere un tentativo di mantenere o riportare il calcio alla working class, «un tentativo di difendere la cultura operaia dall’usurpazione della borghesia. La violenza, il razzismo, il puritanesimo e il localismo (l’effetto della comunità nel gruppo, ovvero l’aiutarsi l’un l’altro quando il pericolo incombe) fanno tutti parte di questo ricrearsi un tipo di vita» (p. 65).

Nel libro Clarke illustra «come il “declino della comunità d’origine”, l’aumento della ricchezza e le diseguaglianze socio-economiche possono essere ritenuti i responsabili della formazione di differenti risposte come quelle Mod e Skinhead. […] I Mod emergevano in un periodo della vita inglese in cui i temi della società senza classi e dell’opulenza erano fortemente significativi, mentre il quadro era cambiato notevolmente alla fine degli anni Sessanta, e il fenomeno Mod divenne parte del background sociale in cui trovarono spazio gli Skin» (p. 66)

Al tentativo disperato di questi settori giovanili di mantenere il calcio all’interno della working class si debbono aggiungere i media nel loro far da grancassa agli episodi di violenza negli stadi, contribuendo così a richiamare sugli spalti chiunque avesse voglia di menar le mani a prescindere dai motivi, le esigenze dei club calcistici avviati verso una riorganizzazione indirizzata a una middle class che voleva poter godere in tranquillità lo spettacolo calcistico, dunque il rafforzamento della presenza poliziesca. Con tali premesse la profezia della violenza non poteva che auto-avverarsi.

Secondo lo studioso il calcio ha a lungo mantenuto uno stretto legame con la classe operaia perché quest’ultima vi individuava valori comuni come l’abilità fisica, l’identità territoriale e il desiderio di vittoria. «L’assunto centrale era una precisa idea di mascolinità, su ciò che significa “essere uomo”. Un uomo si pensava dovesse essere “rude”, non nel senso di brutale o vizioso, ma in grado di sopportare un “castigo” (una “punizione”). Nel caso del calciatore significava essere colpiti alle spalle, farsi scaraventare a terra dall’avversario, tollerare tali “offese” e mostrarsi pronto a subire dell’altro. Per il tifoso della classe operaia questa “rudezza” era una qualità molto preziosa nella vita quotidiana. Egli doveva sopportare i rigori, le imposizioni, le pressioni del lavoro in fabbrica e sperimentare nuove tensioni ogni qualvolta si recasse sul posto di lavoro. Il lavoratore (come salariato) non poteva accettare di arrendersi a queste pressioni, così il calciatore non si poteva sottrarre allo scontro fisico sul terreno di gioco. Sia nel calcio che nella vita dei lavoratori maschi certi tipi di violenza erano “normali” – “un uomo deve essere in grado di badare a se stesso”. È importante comprendere che solo alcune condotte violente erano accettate: la slealtà, ad esempio, era tenuta fuori dalla “normalità” (pp. 76-77).

Gli operai inglesi d’anteguerra vedevano nella durezza a cui veniva sottoposto il fisico del calciatore un’analogia con quella a cui erano costretti a sottoporre il proprio nelle fabbriche. «I campi di calcio delle più antiche società sportive nascevano quasi tutti nelle aree industriali delle principali città. I fari, gli spalti, le terrace sorgono tra le ciminiere delle fabbriche e le file di case a schiera. Questa disposizione è l’aspetto più visibile della connessione tra il club e il territorio. […] L’interazione tra il gioco del calcio e gli spettatori veniva intensificata da un’origine che avevano in comune calciatori e il pubblico. Al contrario delle star di oggi, i primi rimanevano lavoratori nello stile di vita e nelle ambizioni» (pp. 77-78).

Sebbene il controllo del calcio professionistico non sia mai stato davvero nelle mani dei tifosi di estrazione popolare, si può dire che sia stato «attraverso il modo di guardare il football e di sostenere la propria squadra che le classi lavoratrici hanno “colonizzato” questa forma di intrattenimento e fatta propria» (p. 78). Prima della guerra il rapporto tra i tifosi delle aree popolari e il calcio, scrive Clarke, non aveva nulla a che fare con il rapporto attuale divenuto ormai “spettatoriale”; all’epoca il coinvolgimento era decisamente più profondo. «Andare allo stadio non significava semplicemente guardare la partita, bensì rappresentava un’attività sociale di gruppo […] La partita non era solo ciò che accadeva “laggiù”, ma l’intero campo era parte di un evento sociale. Il tifoso non era una figura neutrale, ma qualcuno – parte del gruppo – coinvolto nella creazione di un evento fuori dal gioco. Da un’altra ottica, il tifoso non era neutrale ma un «militante», un partigiano del club nel suo senso più ampio. Questo significava avere un rapporto sentimentale con la partita, viverla non come un confronto tra due squadre, ma tra la “propria” e quella avversaria, una posizione che non sollecitava una banale complicità, ma incentivava il diritto di critica e i commenti nei confronti della dirigenza e del club» (pp. 78-79). Si trattava di una vera e propria appropriazione dello sport da parte dei tifosi.

Nel dopoguerra, quando la società dell’intera Gran Bretagna è sembrata avviarsi verso un generale miglioramento delle condizioni di vita e le opportunità di intrattenimento si sono ampliate, il calcio ha intrapreso quella strada della spettacolarizzazione e del business che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato alla ristrutturazioni degli stadi, ai posti a sedere e alla creazione di una serie di servizi di intrattenimento come bar e ristoranti. Il tifoso si stava ormai trasformando in uno spettatore propenso ad assistere al gioco «solo se gli sono offerti degli standard di benessere che troverebbe altrove». Il nuovo tifoso divenuto spettatore si avviava così a non essere più parte integrante dell’evento.

Nel processo di spettacolarizzazione un ruolo centrale spetta indubbiamente alla televisione. «Il calcio in tv non è semplicemente calcio, ma parte dell’intrattenimento mediatico, e come tale è soggetto alle regole e alle pratiche della creazione televisiva di un evento. […] Prima della guerra, l’esperienza di guardare il calcio era collettiva e fisica, la folla era coinvolta nel gioco, nel fare propria l’esperienza dell’incontro. Per il nuovo spettatore, il calcio è un divertimento offerto – qualcosa che sta al di fuori, piuttosto che un fatto interno alla relazione tra ciò che accade sul campo e la folla. Il nuovo spettatore vive distaccato, è in grado di formulare giudizi critici, di scegliere tra questa o un’altra forma di svago. Per lo spettatore di calcio televisivo questo aspetto si intensifica» (pp. 86-87). Il fenomeno dell’hooliganismo, sostiene Clarke, «si palesa quando le forme tradizionali dell’assistere alle partite intercettano la professionalizzazione e la spettacolarizzazione del gioco» (p. 88).

Dunque, se la lettura ufficiale dell’hooliganismo tende a ricondurre il fenomeno a una condotta che ha poco a che fare col vedere il calcio, Clarke sostiene invece che il teppismo calcistico possa essere problematizzato soltanto comprendendolo come parte del modo di contemplare il calcio e la violenza tra tifosi avversari dovrebbe essere letta come parte di una volontà di partecipazione al gioco, una sorta di «estensione della lotta sul campo che include anche quella sugli spalti […] L’importanza attribuita alla durezza, come nella cultura calcistica anteguerra, è ancora trasferita nella vita» (p. 95), i tifosi più accesi intendono pertanto mettersi fisicamente alla prova come «difensori delle identità locali e dei campanilismi – è la loro squadra, il loro territorio a essere in gioco […] La violenza è solo la parte più visibile dei differenti stili di assistere a una partita – i giovani tifosi hanno conservato ed esteso le tradizioni del tifo collettivo e partecipativo proprio mentre il gioco concedeva delle modifiche per attirare i nuovi consumatori. […] Se il gioco è cambiato per diventare più spettacolare, così la partecipazione dei tifosi è cambiata da attiva, al gioco, ad attiva in favore dello spettacolo» (pp. 95-97). Insomma, se il consumatore si limita ad osservare, i tifosi, necessariamente al plurale, intendono prendere parte allo spettacolo.

Fanno parte del volume anche una Prefazione – Sottocultura ultras e generazione X – scritta da Andrea Ferreri in cui si insiste sull’importanza di contestualizzare il fenomeno ultras italiano e l’hooliganismo inglese sviluppati dalla generazione nata in Occidente tra il 1960 e il 1980, all’interno di quei cambiamenti che hanno segnato i decenni del conservatorismo reganiano e thatcheriano e una preziosa bibliografia ragionata curata da Luca Benvenga: 100 titoli sui giovani, le sottoculture spettacolari e la violenza nel calcio.


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