Louis Althusser – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

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La silenziosa coazione verso il baratro https://www.carmillaonline.com/2023/06/21/la-silenziosa-coazione-verso-il-baratro/ Wed, 21 Jun 2023 04:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77383 di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione [...]]]> di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione storicamente determinata di queste due dimensioni del dominio, esse devono essere messe in relazione con i fondamenti materiali del nostro mondo e dunque con un altro tipo di potere che Marx definisce la “silenziosa coazione dei rapporti economici”, vale a dire con il potere economico del capitale. Quest’ultimo, contrariamente a quanto accade con la forza e l’ideologia, si rivolge ai soggetti solo indirettamente, riconfiguarndo in continuazione le condizioni materiali,  le attività e i processi necessari per la loro riproduzione sociale e per assicurare la continuazione dell’esistenza della vita collettiva.
Potrebbe sembrare fuori luogo fermare l’attenzione su questo aspetto in un momento storico caratterizzato dall’esplosione della violenza statale nella sua forma più estrema, la guerra, e dall’assordante volume della fanfara ideologica connessa alle vicende belliche. Ma ci troveremmo a questo punto se il sistema capitalistico non fosse in grado di esercitare un potere astratto, impersonale, semiautomatico che spinge i soggetti, anche al di là delle loro convinzioni, a mantenere immutati i comportamenti quotidiani legati alla loro riproduzione materiale nonostante questi ci stiano portando con ogni evidenza sull’orlo del baratro? 

E’ allora utile segnalare il libro Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, scritto dal filosofo comunista Søren Mau, curatore della rivista Historical materialism. Nel pensiero mainstream, sostiene l’autore, la sfera economica è considerata aliena da ogni forma di dominazione perché equiparata al mercato che, a sua volta, sarebbe caratterizzato dall’uguaglianza, in qualità di possessori di merci, degli attori coinvolti, tutti quanti liberi allo stesso modo di scegliere con chi scambiare le proprie merci o anche di sottrarsi a qualsiasi forma di scambio. Il primo passo per demistificare questa concezione è quello di abbandonare l’idea che la sfera economica sia caratterizzata da una razionalità metastorica e considerarla, insieme a Marx, in tutto e per tutto sociale, vale a dire intrinsecamente storica. A tal fine occorre però rigettare anche ogni forma di determinismo tecnologico, cioè ogni idea di progresso storico determinato dal crescente sviluppo delle forze produttive, tipica del marxismo ortodosso.
Tuttavia, precisa Mau, “i concetti che si riferiscono a forme sociali storicamente specifiche portano sempre con sé certe assunzioni sull’ontologia del sociale”,1 su ciò che non è storicamente specifico. Per questo, secondo Mau, la critica marxiana si basa, contrariamente a quello che pensava Althusser, su una determinata concezione della natura umana sebbene, da un certo punto in poi, il rivoluzionario tedesco abbandoni l’idea di un’essenza umana concepibile nei termini di un umanesimo romantico, come sosteneva lo stesso Althusser. Gli esseri umani incominciano a distinguersi dalle altre specie animali quando iniziano a produrre i loro mezzi di sussistenza grazie alla loro organizzazione corporea che gli consente di utilizzare strumenti extracorporei. Strumenti da cui dipendono in modo essenziale perché senza di essi sarebbero null’altro che corpi disarmati. Lo sviluppo intellettuale della nostra specie fa parte dello stesso percorso evolutivo che porta alla produzione di utensili perché la complessità di quest’ultima richiede certe capacità mentali, compresa quella di comunicare informazioni articolate senza la quale l’essere umano non potrebbe caratterizzarsi come l’animale sociale per eccellenza. Queste determinazioni rendono la nostra specie capace di produrre la storia perché le modalità del rapporto con la natura sono estremamente elastiche, biologicamente sottodeterminate.
In breve, gli strumenti umani sono allo stesso tempo parte del nostro corpo e separati da esso e per questo i momenti costitutivi del metabolismo umano possono essere temporaneamente separati. Questo aspetto, sostiene Mau, è fondamentale per capire cosa sia il potere economico del capitale perché i mezzi di riproduzione dell’essere umano possono essere appropriati da un determinato gruppo che può quindi esercitare una mediazione essenziale per la riproduzione di altri gruppi. Se aggiungiamo la capacità delle comunità umane di produrre un surplus rispetto alle necessità strettamente fisiche vediamo sorgere la possibilità (non la necessità) dello sfruttamento di un gruppo sociale su un altro. Queste possibilità sono realizzate al massimo grado dall’attuale modo di produzione perché “separare per riconnettere, rompere per riassemblare, atomizzare per integrare” è forse “la più fondamentale dinamica della ristrutturazione materiale della riproduzione sociale messa in moto dal capitale”.2 

Secondo Mau, c’è una duplice separazione costitutiva dei rapporti di produzione capitalistici che riguarda l’aspetto oggettivo e quello sociale delle condizioni di produzione. Di conseguenza abbiamo due distinte ma strettamente interrelate forme di dominio. Seguendo Robert Brenner, esse riguardano due tipi di relazioni: quelle verticali tra produttori immediati e sfruttatori e quelle orizzontali che mettono in rapporto gli sfruttatori tra loro, da una parte, e produttori immediati gli uni con gli altri, dall’altra.
Marx, nel Capitale, inizia con l’analisi delle relazioni orizzontali tra distinte unità di produzione. Il fatto che esse siano separate, non coordinate a priori, dà luogo ad un’unità contraddittoria della riproduzione complessiva: il lavoro è privato, ma al tempo stesso deve risultare sociale perché i prodotti del lavoro devono avere quantità e qualità tali da assicurare la riproduzione della società. Attraverso la teoria del valore, Marx dimostra come il capitalismo dia luogo a una peculiare forma di “socializzazione retroattiva” (come la definisce Michael Heinrich) che assoggetta tutti quanti, indipendentemente dal loro status di classe, al potere impersonale del “valore che si valorizza”. La circolazione delle merci e del denaro (che, con il procedere dell’analisi marxiana, assume la forma più concreta della concorrenza) genera standard obbligatori (relativi a produttività, tecniche, forme organizzative ecc.) che tutti i produttori devono soddisfare se vogliono sopravvivere. La relazione esterna tra distinte unità di produzione, però, presuppone sin dall’inizio una certa organizzazione interna di queste stesse unità, cioè la separazione tra produttori immediati e mezzi di produzione e la produzione di plusvalore sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato. In estrema sintesi, il valore presuppone le classi e “I proletari sono soggetti ai capitalisti per mezzo di un meccanismo di dominazione che simultaneamente assoggetta tutti quanti agli imperativi del capitale”.3
Il dominio di classe proprio del capitalismo, precisa Mau, non è definito prioritariamente dallo sfruttamento, ma dalla relazione tra chi controlla le condizioni della riproduzione e chi ne è escluso. L’insieme delle persone che il capitale ha bisogno di sfruttare è solo un sottoinsieme di quelle che dipendono dal mercato per la loro riproduzione. Il proletario non è definito dalle condizioni di lavoro, ma dalla radicale separazione tra la vita e le sue condizioni. Uno status che Marx definisce anche come “povertà assoluta”, cioè povertà intesa non come penuria, ma come totale esclusione dalla ricchezza oggettiva; come “mera possibilità” che necessita della mediazione del capitale per tradursi in attualità. Per questo il potere del capitale ha una natura trascendentale, nel senso kantiano del termine, piuttosto che trascendente, come accadeva per il signore feudale che si collegava dall’esterno alla produzione senza intervenire direttamente nel processo produttivo. In questa luce possiamo comprendere anche la nascita della biopolitica di cui ci parla Foucault, cioè il potere dello stato non di decretare la morte dei suoi sudditi (propria del potere sovrano), ma di occuparsi positivamente della gestione, del controllo e della regolazione della vita della popolazione. Con la radicale separazione della vita dalle sue condizioni, con l’indifferenza dell’accumulazione monetaria nei confronti dei bisogni umani, il capitalismo “introduce un tipo di insicurezza storicamente unico al livello più fondamentale della riproduzione sociale e per questa ragione  lo stato deve assumere il compito di la vita della popolazione”.4

La gestione della vita lavorativa, prosegue Mau, è invece presa direttamente in carico dal capitale che ristruttura continuamente gli aspetti sociali e materiali del processo produttivo, anche i più minuti, esercitando una vera e propria microfisica del potere, per utilizzare ancora i termini foucaultiani. Stiamo parlando di ciò che Marx chiama la sussunzione reale del lavoro mettendo in evidenza lo sviluppo di una nuova sfera del potere, accanto a quella propriamente politica, derivante dalla privatizzazione della regolazione sociale dell’attività economica, fenomeno specifico del capitalismo, come ha evidenziato Ellen Meiksins Wood. Due sono le principali cause della sussunzione reale che corrispondono ai due tipi fondamentali di separazione già menzionati: data la loro separazione dai mezzi di produzione, i lavoratori esercitano una resistenza nel processo lavorativo che deve essere piegata con la continua introduzione di nuove tecnologie, forme di sorveglianza, divisioni del lavoro ecc.; in conseguenza della separazione delle unità produttive la pressione della concorrenza forza i singoli capitalisti a raggiungere determinati standard di produttività. In altri termini “la sussunzione reale  non è solo una questione di efficienza tecnica; è una tecnica di potere, un meccanismo per la riproduzione delle relazioni di produzione capitalistiche”.5
Un potere che viene esercitato in forma dispotica anche se si tratta di un dispotismo di natura essenzialmente diversa rispetto a quello espresso, per esempio, dal signore feudale. Il singolo proletario non appartiene infatti al singolo capitalista, ma alla classe capitalistica complessiva perché, a differenza del servo della gleba, può liberarsi dal giogo di un padrone ma poi, se vuole sopravvivere, deve vendersi a un altro e sottomettersi alla sua autorità, data la sua separazione dai mezzi di riproduzione. L’autorità del singolo capitalista, dunque, non deriva da un’investitura personale di tipo politico, militare o religioso che lega a sé il singolo lavoratore, ma dal suo essere “personificazione” delle condizioni del lavoro di fronte al lavoro, cioè del capitale in quanto tale. È l’incarnazione di una razionalità economica che non avrebbe modo di affermarsi se il singolo capitale non fosse assoggettato esso stesso alla logica del valore che si valorizza.
Questa razionalità mostra però tutti i suoi limiti per il fatto che il capitalismo è intrinsecamente soggetto a crisi ricorrenti mostrando con chiarezza il carattere impersonale, astratto del potere del capitale. Nel corso della crisi non esiste un centro da cui si irradi il potere e per questo la società perde il controllo sulla sua riproduzione complessiva, mostrando nel modo più evidente l’incompatibilità tra le convulsioni dell’accumulazione e il bisogno di una vita sicura e stabile, in particolare dei proletari. Nessuna sorpresa, dunque, se la crisi porta con sé conflitti e disordini sociali. Ma, al tempo stesso, la sua tendenza immanente è quella di mettere in moto potenti dinamiche che, se non contrastate, finiscono per restaurare e espandere il potere del capitale. La distruzione del capitale in eccesso e la centralizzazione delle forze produttive, la crescita della disoccupazione e la svalorizzazione della forza lavoro pongono le basi per una ripartenza dell’accumulazione. Anche in questo modo si conferma una delle caratteristiche principali del potere capitalistico, la sua circolarità. Il fatto, cioè, che “una delle fonti del potere del capitale è l’esercizio stesso di questo potere”6 perché esso tende a riprodurre i suoi stessi presupposti in modo semiautomatico e su scala allargata. 

Per questo si può dire che oramai difficile trovare sulla terra qualcosa che non sia in qualche modo condizionato dal potere del capitale anche se ciò non significa che il capitale stesso abbia preso il controllo di tutte le dimensioni della vita sociale. Finché non interferiscono con il suo vero scopo, la produzione di plusvalore, non ha motivo di eliminare o cambiare norme, pratiche, ideologie, processi naturali, stili di vita ecc. Differenze di genere, “razza”, religione, nazionalità ecc. possono essere per di più funzionali al divide et impera del capitale nei confronti del proletariato, anche se la scelta su quali fratture puntare dipende dalle condizioni contingenti in cui si trova ad operare (fatto salvo che un’eccessiva divisione può essere disfunzionale impedendo la necessaria collaborazione tra lavoratori). L’universalizzazione del lavoro astratto, tipico del capitalismo, non coincide con la scomparsa delle specificità dei differenti lavori concreti e dei loro esecutori, ma con la loro manipolazione e/o subordinazione al processo di valorizzazione. Se, per esempio, è vero che la sussunzione reale porta con sé la tendenza alla dequalificazione del lavoro (oltre che alla sua specializzazione e alla separazione tra esecuzione e ideazione), è altrettanto vero che il capitale non ha la necessità di eliminare il lavoro qualificato in sé e per sé, ma solo quello che può essere monopolizzato dai lavoratori e dunque utilizzato per contrastare il potere imprenditoriale.
La sussunzione reale non è dunque onnipervasiva per quanto essa possa arrivare a toccare ambiti differenti dal processo lavorativo in senso stretto, come accade con la natura. Uno degli aspetti più interessanti in questo ambito riguarda l’agricoltura, fino a metà 900 sostanzialmente refrattaria alla sussunzione reale nei confronti del capitale in quanto la produzione intensiva tendeva a minare la fertilità della terra. Questa situazione cambia come risultato di tre processi strettamente interrelati: primo, l’introduzione di un insieme di cambiamenti tecnologici legati alla meccanizzazione, ai fertilizzanti chimici, alla manipolazione biotecnologica; secondo, la ristrutturazione organizzativa legata alla nuova divisione del lavoro che porta alla crescita della specializzazione e delle monoculture; terzo, la mediazione sempre più pervasiva delle forze di mercato dovuta alla cosiddetta rivoluzione verde postbellica, alla rivoluzione logistica e ai programmi di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta. Quello che era un sistema sostanzialmente chiuso in cui le fattorie producevano i propri mezzi di produzione diventa un ramo dell’industria dipendente dagli input che devono essere comprati sul mercato. Aumenta così la produttività, ma al tempo stesso crescono i disastri ecologici, nonché l’impoverimento e la proletarizzazione di ampie masse di contadini soprattutto nel Sud Globale. L’ultimo gradino di questo processo è raggiunto dalla manipolazione biogenetica con la produzione di piante completamente sterili dal momento che “la biotecnologia mira a inscrivere la logica della valorizzazione nel codice genetico del seme, al punto che la pianta non può crescere senza la mediazione del capitale“.7
Questo è forse il caso più estremo che mostra come, una volta affermatasi, “la sussunzione reale rende più difficile dissolvere la morsa del capitale”.8 Un altro esempio è rappresentato dalla rivoluzione logistica che ha incrementato a livello planetario l’integrazione geografica dei network produttivi. Allo stato attuale la rottura con il capitalismo dovrebbe avvenire su una scala spaziale sufficientemente ampia da evitare l’interruzione delle catene produttive essenziali per la riproduzione di una società post-capitalistica.

Alla fine di questo lungo resoconto possiamo andare al di là del testo di Søren Mau tornando al nostro punto di partenza, la guerra. Come abbiamo visto il potere del capitale non si esercita solo sui proletari, ma anche sui singoli capitalisti. Questi ultimi sono letteralmente costretti a perseguire il profitto con crescente rapacità nell’ambito di un processo storico caratterizzato, secondo Marx, da crescenti difficoltà per la riproduzione allargata del capitale. La rapacità del capitale è, inoltre, sempre più difficile da contrastare, data la presa vieppiù intensa della sussunzione reale sul processo riproduttivo della società. Quando le leggi astratte del modo di produzione capitalistico possono esplicarsi senza particolari impedimenti determinati dalla congiuntura spazio-temporale in cui opera, la coazione esercitata dalle dinamiche economiche è quella prevalente nel consolidare il potere del capitale, almeno all’interno delle nazioni imperialiste. È questo tutto sommato il livello su cui si attesta il libro di Mau. Anche in tempi di crisi generalizzata della valorizzazione, possiamo aggiungere da parte nostra, le medesime dinamiche economiche spingono gli individui a proseguire sempre nello stesso modo le attività necessarie per assicurare la continuazione della loro esistenza, ma questo non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione ordinaria né dei singoli né del sistema complessivamente inteso. È vietato cambiare strada anche se ci porta a sbattere contro un muro! Il capitale, incapace di superare con le buone i propri limiti intrinseci, deve cercare di abbatterli con un uso sempre più generalizzato della forza, violenza bellica compresa.
Per questo l’opposizione alla guerra non può essere delegata a un pur rispettabile pacifismo. Contrastare la guerra significa opporsi al potere del capitale, smantellando sin dalle sue radici la silenziosa coazione a ripetere determinata dai rapporti economici che ci sta portando sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Un precipizio, è necessario sottolineare, sempre più vicino anche a causa dello stato di catalessi del sentire comune occidentale che, sebbene appaia al momento poco propenso a farsi sedurre dagli ardori bellici, rimane dominato dalla rassegnazione. Per questo, per contrastare la muta costrizione dei rapporti di produzione è necessario fare appello alla rumorosa liberazione di un immaginario collettivo in grado di oltrepassare le colonne d’Ercole del realismo capitalista.


  1. Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, p. 88. 

  2. Ivi, p. 269. 

  3. Ivi, p. 231. 

  4. Ivi, p.161. 

  5. Ivi, p. 258. 

  6. Ivi, p. 264. 

  7. Ivi, p.288. 

  8. Ivi, p. 314. 

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Althusser, quel filoso… vietico https://www.carmillaonline.com/2022/01/13/althusser-quel-filoso-vietico/ Thu, 13 Jan 2022 22:55:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70027 di Nico Maccentelli

Per Marx edito da Editori Riuniti (1973), è una raccolta di saggi di Luis Althusser che in questo caso non tratterò come filosofo, bensì nella sua dimensione politica dell’epoca, quando l’URSS, nel bene e nel male, rappresentava un’alternativa di carattere socialista al sistema capitalista per una bella fetta di umanità. Ho sempre pensato che questa questione non vada trattata con le sole lenti dell’ideologia, né per essere esegeti di quell’esperienza, né per demonizzarla a priori. Sulle lenti di una analisi politica c’è ancora molto da fare. Quello [...]]]> di Nico Maccentelli

Per Marx edito da Editori Riuniti (1973), è una raccolta di saggi di Luis Althusser che in questo caso non tratterò come filosofo, bensì nella sua dimensione politica dell’epoca, quando l’URSS, nel bene e nel male, rappresentava un’alternativa di carattere socialista al sistema capitalista per una bella fetta di umanità. Ho sempre pensato che questa questione non vada trattata con le sole lenti dell’ideologia, né per essere esegeti di quell’esperienza, né per demonizzarla a priori. Sulle lenti di una analisi politica c’è ancora molto da fare. Quello che però qui mi interessa è vedere l’impostazione althusseriana di quegli anni (stiamo parlando degli anni ’60, fino alla metà) in merito a questa questione. Per questo, dei saggi contenuti in questo pregevole libro da bancarella (trovato fortuitamente), mi interessa affrontare solo il capitolo relativo all’URSS, ossia al socialismo reale e all’analisi di classe che Althusser ne trae, per formulare il concetto di “umanesimo socialista”. 

Luis Althusser è stato un grande intellettuale e filosofo marxista, che tuttavia risentì sul piano dell’analisi concreta del socialismo dei limiti che l’intellettualità come la militanza comuniste dell’epoca avevano.

Riporto due sue frasi che riguardano la sua adesione al passaggio kruscheviano allo “Stato di tutto il popolo”, che si sarebbe poi cristallizzato nella Costituzione Sovietica del 1977:

«L’Unione Sovietica, impegnata oggi sulla via che dal socialismo (a ciascuno secondo il suo lavoro) la porterà al comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni), lancia la parola d’ordine: tutto per l’Uomo, e affronta temi nuovi: libertà dell’individuo, rispetto della legalità, dignità della persona.1

(…)

Per più di quaranta anni, in URSS, attraverso lotte gigantesche, l’«umanismo socialista», prima di esprimersi in termini di libertà della persona, si è espresso in termini di dittatura di classe. La fine della dittatura del proletariato apre nell’URSS una seconda fase storica. I sovietici dicono: qui da noi le classi antagoniste sono scomparse, la dittatura del proletariato ha assolto il suo compito, lo Stato non è più uno Stato di classe, ma lo Stato di tutto il popolo (ossia di ognuno). In effetti nell’URSS gli uomini sono trattati senza distinzione di classe, vale a dire come persone. Ai temi dell’umanismo di classe, vediamo allora subentrare, nell’ideologia, i temi d’un umanismo socialista della persona.»2

I

Ovviamente non mi interessa e non mi riguarda come comunista una critica liberal-democratica a questa configurazione ontologica del socialismo sovietico data da Althusser, la solita vulgata sulle “libertà civili” tanto cara agli epigoni della democrazia borghese e delle sue apparenti libertà nel contesto dela manipolazione di massa e della società dei consumi.

Mi interessa invece, e molto, la sua visione generale di socialismo con la situazione concreta dell’URSS fin quando è esistita. E la prima considerazione è: la fine della della dittatura del proletariato in URSS è vera (resta da comprendere la collocazione cronologica di tale fine), mentre la scomparsa delle classi antagoniste vantata dai sovietici è un falso.

Da questo enunciato, che influenzò persino un pensatore acuto come Althusser, discende tutta la questione del socialismo, la sua ontologia nel “dopo”, ossia nella transizione socialista al Comunismo. Tanto è vero che Althusser vede nell’URSS indubitabilmente la tappa socialista (a ognuno secondo il suo lavoro) verso la società comunista (a ognuno secondo i suoi bisogni). E parte da un fatto che ritiene scontato e preso per buono dai sovietici: in URSS è finita la dittatura del proletariato, non ci sono più le classi sociali in antagonismo, dunque non c’è più la lotta di classe, dunque non esistono più quelle contraddizioni sociali che determinano la lotta di classe stessa. Non è dato sapere quali contraddizioni vi siano prima del Comunismo ossia in una società composta genericamente da persone considerate prive di una collocazione sociale d classe. Eppure una collocazione nella produzione sociale c’è ancora. E non è forse questa che definisce come tale una classe sociale? Gli stessi Marx, Engels e Lenin non hanno mai affermato che nel socialismo vi fosse la fine delle classi sociali, proprio perché è una società di transizione al Comunismo, ossia a quella che tutti e tre nelle loro principali opere definiscono “società senza classi” (non potevano allora dirlo del socialismo?).

Che questa posizione dei sovietici e di conseguenza quella di Althusser che la prende per buona sia totalmente fuori dal marxismo anche da un punto di vista puramente dogmatico, è una  questione evidente. Questo dei sovietici è un altro tipo di dogmatismo, stretto discendente della prima volgarizzazione del marxismo, ossia il diamat.

II

Ma fin’ora abbiamo analizzato l’imprinting teorico di questa distorsione del materialismo storico e dialettico. Si tratta ora di comprendere le ragioni storiche e politiche di tale distorsione. Pensare che questo sia un abbaglio teorico e che non abbia basi ideologiche funzionali a un soggetto sociale e quindi politico, sarebbe un approccio astratto che ci porterebbe fuori strada.

Cosa nasconde dunque lo “Stato di tutto il popolo”? Non evidenzia certo l’uomo nuovo, libero dalle pastoie della sua appartenenza a una classe sociale. Nasconde ciò che ha caratterizzato la vita sociale e politica dell’URSS dalla presa del Palazzo d’Inverno fino alla sua fine, ossia: una tremenda e spietata lotta di classe che di fase in fase cambiava le soggettività in antagonismo tra loro, sconfitti i capitalisti, gli agrari, i kulaki, con lo sviluppo dell’industrializzazione, con la collettivizzazione forzata, con la nascita di una neo borghesia, di carattere burocratico, che deteneva non la proprietà giuridica ma la direzione del modo di produzione collettivizzato, riportando la classe operaia, i contadini, a forza-lavoro priva di una gestione o autogestione della produzione e della cosa pubblica del paese. La fine della democrazia dei soviet con l’avvento di Stalin, la burocratizzazione è l’artifizio durato 70 anni, di unpassaggio di potere legittimato proprio attraverso l’ideologia del proletariato, il marxismo-leninismo, ridotto a suo vuoto simulacro, appunto il diamat.

Per cui, svelato l’arcano, delle due l’una: o diamo del socialismo una definizione meccaniscistica: giuridicamente, costituzionalmente c’è la socializzazione dei mezzi di produzione? Sì, allora è socialismo. Oppure riportiamo al centro la questione della dittatura el proletariato, ossia della lotta di classe che vede l’esercizio del potere consiliare da parte delle masse operaie e il partito, ossia l’avanguardia del proletariato a elemento propulsore della direzione proletaria della società. Quando qualcuno dice che il partito è di tutto il popolo, significa che quel partito è di qualcuno che intende andare oltre il processo storico e politico di egemonia della classe salariata verso il Comunismo. E lo fa servendosi di altre ideologie, che siano il diamat o antiche tradizioni filosofiche e culturali come il confucianesimo nella Cina contemporanea, che come avrete capito segue la stessa dinamica ideologica dei sovietici, in presenza di una borghesia burocratica di tipo nuovo, rispetto alla borghesia e alla classe dominante feudale pre-rivoluzionaria.

Il socialismo dunque non è solo processo di socializzazione dei mezzi di produzione e della riproduzione sociale, ma è questo perché esiste l’esercizio della democrazia del proletariato, della sua dittatura di classe su ciò che resta della borghesia e dei capitalisti. L’uno è la condizione dell’altra: insieme agiscono come processo storico., materiale, sociale e politico.

Si tratta allora di comprendere che la linea di demarcazione fondamentale del pensiero marxista e leninista con il revisionismo non è solo la concezione dello Stato come apparato di dominio della borghesia sul proletariato, ma anche la lotta di classe come motore della storia, al di là di ogni soggettività falsa spacciata per universale, di ogni falsa coscienza che mantiene in piedi un sepolcro ideologico… arrossato.

Mao Tsetung affrontò la questione centrando i punti essenziali, partendo dalla cotraddizione che oppone il proletariato alla borghesia. Anche se poi perse la battaglia con la borghesia dentro il partito comunista cinese con la fine della Rivoluzione Culturale e l’avvento del denghismo dopo il 1976.

III

E siamo arrivati così al revisionismo e alle sue ricadute storiche: il riformismo togliattiano della via pacifica al socialismo e della democrazia progressiva per esempio, che oggi viene di fatto sdoganato anche da parti della sinistra di classe nostrana. E per restare su Althusser è interessante vedere le conclusioni politiche a cui giunge:

«È un avvenimento storico (il socialismo sovietico oltre le classi sociali, il suo umanesimo, nota mia). C’è anzi da chiedersi se l’umanismo socialista non sia un tema abbastanza rassicurante e avvincente da rendere possibile un dialogo tra comunisti e socialdemocratici, se non addirittura uno scambio ancora più ampio con tutti gli uomini «di buona volontà» (sic!) che rifiutano la guerra e la miseria. Oggi la grande strada dell’umanismo sembra condurre anch’essa al socialismo.”3

Non sto a prendere nemmeno in esame l’insensatezza politica di una tale proposta per il contesto storico e politico dell’epoca, in un mondo bipolare, dove le lotte di liberazione antimperialiste infiammavano i paesi del terzo mondo nella strategia rivoluzionaria della guerra centripeta e le massicce lotte operaie anche nei paesi a capitalismo avanzato, a preludio del ’68, in una visione eterogenea ma piuttosto chiara di rottura con l’ordine esistente del capitalismo.

Mi preme invece evidenziare la conclusione politica, il punto di approdo di una tale impostazione teorico-politica, che prefigura un’unione tra socialismo, ossia comunisti e socialdemocrazia nell’ipotesi di costruire una società umanista senza… fare i conti con l’oste.

L’approccio “pacifista”, ossia conciliatore riguardo le contraddizioni materiali insite nel modo di produzione capitalistico, quindi delle contraddizioni sociali che ne derivano nelle fasi di crisi generale in particolare, sono la dominante di ogni politica revisionista basata sulla necessità di mantenere lo status quo, la stabilità dentro la propria società, alla quale si attribuisce la caratterizzazione di socialismo. Dunque lo abbiamo visto con l’URSS e il blocco dei paesi socialisti e lo vediamo oggi con la Cina. Facendo una distinzione tra un grande fronte di paesi alleati come il Patto di Varsavia, ossia una superpotenza e un singolo paese circondato dai paesi imperialisti e sottoposto a un blocco criminale come Cuba. Parlare di pace in un caso o nell’altra fa una bella differenza. Nel primo caso la questione è preservare un ordine e una stabilità interna quale fonte di sviluppo economico-sociale che non affronta con una visione strategica internazionalista le contraddizioni tra proletariato internazionale, classi oppresse da una parte e imperialismo dall’altra. Nel secondo caso la presa di posizione è tattica, lasciando il beneficio di interpretarla come tale al nostro paese caraibico autenticamente socialista: non possiamo sapere in uno sviluppo politico favorevole ai processi rivoluzionari, quale sarebbe la presa di posizione cubana. Ma mi piace immaginarla come proseguimento del guevarismo, pensando al Che e a Fidel, e ai loro continuatori.

È importante però capire di quale strategia si serva il revisionismo. In Althusser prevale dunque questo spirito umanista che farebbe da collante tra due tradizioni politiche differenti: i partiti comunisti e i comunisti in generale da una parte e il socialismo democratico che vede come via di emancipazione del proletariato (se va bene, del popolo generico oggidì) il patto sociale con la borghesia, le riforme come conseguenza di una vittoria elettorale, la via parlamentare e la democrazia rappresentativa borghese eretta a valore assoluto della democrazia in ogni società.

Forse Althusser non si rende neppure conto dell’assist che avrebbe visto crollare ciò che restava di socialismo in un’intero emisfero, se avesse per assurdo prevalso la sua elucubrazione. Ma ciò ci fa anche capire a cosa avrebbe portato quasi 25 anni dopo il disegno politico gorbacioviano.

Althusser faceva leva probabilmente sulla forza e l’influenza internazionale del socialismo sovietico, considerandolo così influente da poter mettere in atto una strategia conciliatoria nel mondo capitalista occidentale, attraverso il cavallo di Troia delle socialdemocrazie in una riedizione dei fronti popolari tra i partiti comunisti di osservanza sovietica e partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Con un bel po’ di eurocentrismo.

Un “bel modo” di affrontare il nodo irrisolto da 50 anni delle rivoluzioni in Occidente.

Del senno di poi sono piene le fosse. La fine dell’impero sovietico ha segnato da una parte l’avvento pervasivo del capitalismo e la sua globalizzazione, le “socialdemocrazie” e i partiti comunisti trasformati e ridenominati sono diventati gli agenti di questo capitale neoliberale, del primato dei mercati, ossia tutto l’opposto della visione althusseriana dell’epoca.

Ma ha segnato anche una sconfitta del socialismo per come si è manifestato nel Novecento, proprio a causa delle sue contraddizioni interne, economiche, di classe, di stasi nella speranza di trovare una “coesistenza pacifica” con le forze del capitale.

La Cina di oggi ne è la conseguenza e ha fatto prima: ha aperto le porte al capitalismo rinunciando nel contempo a sostenere le lotte sociali e di classe che i sovietici talvolta appoggiavano conciliando ideologia a convenienza geopolitica.

Se non erano le basi allora per sostenere un “umanesimo socialista” come modello e presupposto di transizione mondiale al socialismo, via e più non lo sono neppure oggi con la Cina, come modello di “società armoniosa”.

 

  1. Per Marx, Louis Althusser, Editori Riuniti, 1972, opera del 1965, Marxismo e umanesimo, pag. 197
  2. Ibidem, pag. 197 e 198
  3. Ibidem, pag. 197
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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – II parte https://www.carmillaonline.com/2013/07/01/orientalismo-allitaliana-una-genealogia-del-razzismo-antimeridionale-al-tempo-della-crisi-ii-parte/ Mon, 01 Jul 2013 21:45:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6850 di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo. F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo [...]]]> di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro,
perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo.
F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo. Entrambi situavano la differenza psicologica tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale. Dunque la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al “delitto passionale”, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione del perché nel Sud non esistesse “un’organizzazione del partito socialista”: i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano il radicamento socialista (Petraccone 2000, pp. 166-173).

A fondamento dei “discorsi biologico-razzisti” vi è una logica dicotomica e binaria dell’orientalismo, che potrebbe essere archiviata dentro una stagione specifica della storia italiana: l’Ottocento delle nazioni e dei nazionalismi, l’Ottocento del “razzismo teorico” che nei crani dei sardi scoprì un “enorme numero di anomalie” e nel teschio del lucano Giovanni Passannante, la ragione della sua anarchia e le cause dell’attentato a Umberto I. Eppure la scorciatoia dell’orientalismo e delle letture pregiudiziali se non apertamente razzistiche è un’opportunità sempre facile da percorrere, fatta di interpretazioni lineari, dicotomiche rappresentazioni dove alla devianza si frappone la normalità, al passatismo la modernità, al sottosviluppo lo sviluppo, dove la bilancia pende su uno dei due termini o a causa del contesto storico e geografico che condiziona la psicologia, comportamenti e condotte di coloro che lo vivono oppure è lo stigma di stratificazioni storiche tradotte in un pot-pourri di osservazioni scontate, di descrizioni paesaggistiche vecchie addirittura di secoli, di luoghi comuni più volte lavorati. «Gli abitanti dell’Italia settentrionale sarebbero profondamente diversi da quelli dell’Italia meridionale» non è l’affermazione di Giuseppe Sergi, antropologo e autore, nel 1900,  de La decadenza delle nazioni latine, bensì del filosofo Gianfranco Miglio, anche noto come l’“ideologo della Lega”: «I primi avrebbero il senso della società, della collettività, dell’interesse pubblico; i secondi, come le altre popolazioni del Mediterraneo, sarebbero individualisti, privi di senso civico, tenderebbero all’ozio. Convinto di tali diversità – osserva Vito Teti – già segnalate dai positivisti, Miglio, come dichiara a molti giornalisti […] è impegnato in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali» (Teti 2011, p. 14). “El profesùr” lombardo esternava queste idee senza alcuna distanza dai positivisti di fine Ottocento, peraltro trovando attento riscontro in molti giornalisti e opinionisti che hanno diffuso il suo credo senza alcun commento critico. Insomma siamo di fronte a un “passato che non passa”? Oppure, con più disincanto, abbiamo a che fare con quell’intreccio di saperi e poteri di cui è composto l’orientalismo come strumento sempre pronto per il controllo e il dominio delle popolazioni.

Qui non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti. Se volgiamo lo sguardo agli anni Cinquanta del secolo scorso, possiamo incrociare alcune ricerche finanziate dall’Università di Harvard sull’arretratezza del Sud d’Italia. Una strana attenzione verso una regione d’Europa che desta non pochi sospetti sulle ragioni che muovono gli allievi del sociologo Talcott Parsons a condurre lunghi periodi di ricerca in sperduti paesini dell’entroterra contadino del Mezzogiorno. Lo struttural-funzionalismo fu l’approccio metodologico: vale a dire, l’individuazione della struttura di fondo della società, mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Nel 1958 Edward Banfield diede alle stampe The Moral Basic of a Backward Society, una ricerca condotta a Chiaromonte, un paesino della Basilicata, in cui propose l’ipotesi di una diretta connessione tra il sottosviluppo economico (secondo misure relative all’incapacità industriale, alla produttività lavorativa e agli standard di vita) e la propensione degli abitanti all’associazione, alla cooperazione e all’azione coordinata per il bene comune. Da questa miscela di dati formulò il celebre concetto del “familismo amorale”, ovvero l’assenza di un etica pubblica in luogo di una difesa di interessi particolaristici o prosaicamente familistici, per «massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (Banfield 1958, p. 83). La ricezione di questo studio nella classe dirigente americana fu dirompente: in piena guerra fredda, regioni sottosviluppate, dove la riforma del latifondo aveva sì dato la terra ai contadini, ma senza il necessario capitale fisso per lavorarla, significava lasciare una prateria nelle mani del Partito comunista. La visione meccanica del rapporto tra campi di enunciazione e pratiche di potere riproduce quindi quella retorica paternalistica quando non dicotomica dell’Occidente che per costruire un impero e per realizzarlo, necessita «dell’idea di avere un impero» (Said 1993, p. 36), convinta di essere la parte “buona”, il nord, che protegge la parte debole, “cattiva”, il sud, invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico – infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni – con il potere suscita gli effetti desiderati: «La morale di base di una società arretrata di Banfield ha contribuito a convincere i circoli politici nell’America della guerra fredda dell’urgenza di sviluppare e così trasformare l’Italia meridionale» (Schneider 1998, p. 6).

cyopekaf_2010_02-785x588 Quindici anni dopo, nel 1993, un altro scienziato politico americano sempre dell’Università di Harvard, Robert D. Putman, produce una nuova ricerca per interpretare l’arretratezza del Sud d’Italia, Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy. Le fonti dello studio sono le osservazioni delle “performance” di sei amministrazioni regionali distribuite su tutta la penisola. Indubbiamente il lavoro di Putman è molto più poderoso, sistematico e comprensivo del suo predecessore; muove da una sostanziale opposizione tra Nord e Sud della penisola; nei governi regionali del Nord riscontra una considerevole abilità all’esecutività e all’implementazione politica rispetto ai governi del Sud, localizzando l’efficienza dei primi in una “tradizione civica” risalente alla storia dei comuni che “da Roma alle Alpi” ne ha segnato il Medio Evo, mentre l’arretratezza dei secondi alligna sempre in quell’epoca e dai secoli successivi contraddistinti da regimi feudali e assolutistici (Putman 1993, p. 123). Il drastico contrasto e la genesi del dualismo fanno leva proprio sul dispositivo binario: un set di suggestioni dove il concetto di “collaborazione orizzontale” collima con quello di “verticalismo gerarchico”. Alla pari della stessa lettura storica, polarizzata su una struttura essenzialista: «dall’inizio del XIV secolo, l’Italia ha prodotto due» (e solo due!) differenti «modelli di governo», due differenti «stili di vita». Con schema adamantino, Putman fa piazza pulita di sette secoli: «Nel Nord, il popolo erano cittadini; nel Sud erano sudditi […] nel Nord la determinante sociale, politica e perfino la lealtà religiosa e le relazioni erano orizzontali, mentre quelle nel Sud erano verticali. Collaborazione, mutua assistenza, obbligazioni civiche […] erano distinguibili caratteristiche nel Nord. La principale virtù nel Sud, per contrasto, era l’imposizione della gerarchia e dell’ordine su una latente anarchia» (Ivi, p. 130). Vale la pena seguire Putman poiché è un sano esercizio di osservazione non tanto dell’assemblaggio quanto della cristallizzazione storica di uno stereotipo, della «stessa modalità con cui il capitale costruisce la sua Storia» (Mezzadra 2008, p. 37): «essa mobilita la massa dei fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto» (Benjamin 1997, p. 80). Qualche secolo dopo, al collasso delle repubbliche comunali e la loro rifeudalizzazione, il Nord anche soccombe al cattivo governo. «Nondimeno, nel Nord erede della tradizione comunale, i regnanti non governavano con autorità ma accettando le responsabilità civiche», invece nel Sud, gli spagnoli, gli Asburgo e i Borbone, «sistematicamente promossero il conflitto tra i loro sudditi, distruggendo le reti di solidarietà con lo scopo di mantenere il verticalismo monarchico, la dipendenza e lo sfruttamento». Alla prova dell’unificazione italiana, il Nord avrebbe giovato di questo lascito, a conferma delle tesi di Putman, la sua industrializzazione è stata il prodotto delle “pratiche di reciprocità”, del “pragmatismo”, della “cooperazione”, della “mutua assistenza”, dell’«associazionismo nel rafforzamento della loro cultura civica». Insomma di tutto quel serbatoio civico custodito per secoli e che al momento giusto aveva dato le proprie fortune. Al contrario, al Sud, dove le “reti di patronato e di clientela” persistevano “come primarie strutture di potere” perfino dopo “la comparsa dei partiti di massa”, i cittadini vivono «l’antica cultura della diffidenza e l’assenza di pratiche di mutua assistenza contrastano i progetti di sviluppo economico, malgrado questi vengano finanziati» (Putman 1993, pp. 135-6).

Dinanzi al linguaggio dicotomico ed essenzialista è buona regola scavare più a fondo indagando il contesto da cui proviene. In questo caso l’orientalismo non lascia attenuanti se non la continuazione di un contesto egemonico e dominante. D’altronde, negli anni di Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy, l’attività regionale era oggetto di attenzione per l’introduzione di misure finanziarie internazioni, così che lo studio di Putman diviene sapere a disposizione di “policy-making circles” di vari governi, tanto italiani ed europei quanto americani, e probabilmente anche di agenzie finanziarie internazionali (Tarrow 1996, p. 389; Schneider 1998, p. 7). Senza dubbio, in questa ricerca sociologica va intravista la situazione presente in Italia, il peso politico dell’Italia nel rapporto con gli altri paesi europei, in anni cruciali per l’integrazione monetaria, e innanzitutto le relazioni Europa – Stati Uniti dinanzi alla prova dell’euro contro il dollaro. Il libro di Putman s’inscrive appunto in questo quadro internazionale tanto articolato quanto difforme negli equilibri economici e politici. I ministri delle finanze dei paesi del Nord d’Europa, diffidenti verso l’area mediterranea, dubitavano della stabilità del governo italiano e della sua capacità di abbassare il debito pubblico. Il refrain di tale pessimismo veniva segnalato proprio dal “New York Times” nel 1996: La divisione Nord-Sud in Italia, un problema anche per l’Europa, titolava un articolo del 1996. La corrispondente Celestine Bolen faceva riferimento alla divisione tra il ricco Nord e il passivo e dipendente Sud, come “conseguenza dell’unità italiana”, mettendo in guardia che la rottura era nell’aria “per l’Italia intera”, nel momento in cui quest’ultima avesse tentato “di mettere in ordine i suoi bilanci finanziari” e di entrare a far parte dell’unione monetaria europea (Ivi, p. 8).

Si badi che l’orientalismo è una scorciatoia imboccata con estrema facilità anche da ricercatori e giornalisti navigati. Anche in Italia ci sono degli esempi celebri. Giorgio Bocca, già nel 1990, non esitò a partire lancia in resta contro le regioni meridionali infestate dalle mafie: la divaricazione tra Nord e Sud dei risultati elettorali, spinse il giornalista dell’Espresso a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio pessimo elettorato in cambio di sostegno. Soltanto il titolo del libro, L’Inferno, è saturo di allusioni storiche, rinviando al più famoso adagio, ripreso da Benedetto Croce nel 1923, che ricordava come il Mezzogiorno fosse sì un paradiso, ma popolato da diavoli. A suo dire, Bocca non ha alcuna intenzione di mostrare un atteggiamento antimeridionale o addirittura razzista, anche se la sua inchiesta sul Mezzogiorno è pregna di descrizioni scontate, di cliché, di descrizioni paesaggistiche vecchie di secoli. Insomma tutti stereotipi per sostenere la tesi che la tradizionale classe politica, delegittimata al Nord, al Sud invece aveva ancora acqua in cui nuotare e riprodurre il proprio consenso; e allo stesso tempo, il giornalista navigato voleva riscuotere un senso di indipendenza nel suo giudizio, nonché essere leva morale per risvegliare la società meridionale e “scardinare un sistema politico foriero di tante nequizie” (De Francesco 2012, p. 225). Ritorna nuovamente quella dimensione dicotomica e binaria già osservata in Putman e Banfield: da una parte, gli onesti, i buoni, i capaci, coloro che sono proiettati verso la modernità; dall’altra, le nequizie,  la cattiveria, l’inettitudine; e in questa dialettica, la funzione responsabile dei primi, gli unici in grado di traghettare i diavoli verso il paradiso.

Nondimeno, nell’auspicio che da Nord giungesse a Sud una nuova resistenza, che il secessionismo nordista alleato di una politica del rinascimento meridionale scardinasse la corruzione, la criminalità e le condotte “putrescenti”, Bocca intravedeva un rischio: in questi meccanismi interattivi, come vasi comunicanti, il Mezzogiorno avrebbe potuto infettare il resto dello “stivale” con l’illegalità e l’immoralità. Nel 2006, in Napoli siamo noi, «la sua lettura del Mezzogiorno si faceva ancor più sconfortata, perché l’infezione dell’illegalità gli sembrava avere ormai risalito la penisola e il degrado meridionale, anziché eccezione nel panorama nazionale, gli pareva la mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata» (Ivi, p. 226).

5. Quelli in cui scriveva Bocca erano gli anni delle rivolte campane contro la gestione commissariale dei rifiuti (la costruzione dell’inceneritore e l’apertura di nuove discariche). Parecchie decine di migliaia di persone, si calcola, in tempi e luoghi diversi, si sollevarono, puntellando di comitati popolari la geografia politica della regione, ove la democrazia autoritaria dell’emergenza divenne variabile radicalmente capovolta per una decisionalità che muoveva dal basso verso l’alto.

In quegli anni, le ragioni della protesta (la questione rifiuti) non avevano molto senso rispetto alla profondità della natura dei manifestanti. I nemici dello stato, da trattare come problema criminogeno e con rimedi militari, divennero i comitati spontanei di cittadini sorti per contestare le scelte del Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti. I comitati spontanei che erano contro l’“interesse generale”. D’altro canto, una volta attivato il dispositivo morale, tramite una prepotente comunicazione (“senso di responsabilità”, “senso dello Stato”, “rispetto delle istituzioni”), il passaggio fu subito fatto verso la riesumazione di stereotipi e modelli inferiorizzanti. Con Antonello Petrillo e il suo gruppo di ricerca, autori di Biopolitica di un rifiuto, rileviamo come l’orientalismo abbia funzionato con una simmetria e un tempismo impeccabili: alle ragioni della protesta vengono contrapposte la naturalizzazione e l’essenzializzazione dei manifestanti mentre alla modernità delle soluzioni l’arretratezza culturale, il passatismo e il localismo. «I fini appaiono anch’essi del tutto differenti da quelli dichiarati (rifiuto della contaminazione, rivendicazione del diritto al controllo del territorio e di ciò che – in forma legale o illegale – viene sversato in esso), ma sono da ricercarsi, piuttosto, nell’oscuro intrico di connivenze e relazioni con interessi speculativi e criminali (i manifestanti occulterebbero le ‘vere’ finalità dell’opposizione, per esempio le mire speculative sulle aree in questione da parte di palazzinari e camorristi)» (Petrillo 2009, p. 19).

Il particolarismo del tipo NIMBY (Not In My Back Yard), stigma attaccato plasticamente dalla stampa ufficiale ai movimenti in difesa dei territori e dei beni comuni esemplarmente incarnati nel No-Tav, viene rapidamente recuperato dentro un ordine discorsivo distinto. Stampa ufficiale e larghe intese destra-sinistra convengono tutti con i caratteri più squisitamente antimeridionali, cui lo stesso Bocca fa da sponda, a conferma che le rivolte sono la prova di una differenza, di una dicotomia presente in Italia: sensatezza/insensatezza, moderno/pre-moderni – ma, più spesso, anti-moderni – trovano spiegazione  in «quello sterile ribellismo capace ogni volta di opporsi alla più benevola e autoevidente delle ragioni».

cyopekaf_2008_19-785x588 La “delegittimazione politica” delle rivolte campane si è avvalsa di un serbatoio di cliché straordinariamente ricco, consolidatosi sui piani lunghi della storia intorno alle “plebi” meridionali. «La ricerca di spiegazioni non economiche, non sociologiche e non politiche delle vicende del Sud Italia costituisce una pratica tanto antica quanto viva presso una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale (ivi inclusa quella meridionale), dalla quale non sono affatto esclusi economisti, sociologi e politologi» (Ivi, p. 20). Modelli di fine Ottocento, riemersi e rinnovati in nuove forme di razzismo (il meridionale “inferiore”, “delinquente”, inabile al “self government”), viene affiancata la figura del riottoso, dell’“individualista” e del “fuorilegge”. Essenzializzazione e naturalizzazione senza limite che foraggia l’ordine discorsivo di stampa e alleanze senza colore politico per contrastare a quanto pare l’autolesionismo dei rivoltosi: nella narrazione ufficiale, il “pericolo diossina” sembra provenire essenzialmente dai cumuli d’immondizia dati alle fiamme, non dalla gestione in-controllata dello smaltimento di rifiuti tossici.

Militarizzazione di paesi e di quartieri metropolitani, gestione securitaria della popolazione, tecnologie di controllo del territorio insieme alla aggressiva comunicazione, alla campagna diffamatoria e delegittimante l’azione dei comitati, una sovrapposizione di dispositivi adoperati dalla politica, volti esclusivamente alla difesa dell’interesse generale, alla modernità contro l’arretratezza, all’affermazione della ragion di stato contro lo stato di natura, incarnato da gruppi di cittadini «eterodiretti dalla criminalità organizzata, ignoranti, egoisti, retrogradi, primitivi». Al binomio e alla dicotonomia dell’orientalismo, quei gruppi di cittadini operano un esercizio di reversibilità proprio dei dispositivi dell’ordine discorsivo dominante. Vale a dire che alla modernità e all’“interesse generale” rappresentati dall’inceneritore o dalle discariche si oppongono attraverso una mossa di sottrazione, non solo di resistenza, individuando cioè una o più vie di fuga: un’altra modernità e un altro modello di sviluppo tradotti in un altro tipo di gestione della raccolta dei rifiuti; l’esodo dalla gestione commissariale tramite forme non convenzionali, atti radicali, la resistenza dei corpi, che al contempo diviene produzione di comune: «nel senso di singolarità che si legano in termini biopolitici e danno vita a nuovi legami organizzativi, fondati sulla prossimità e sul fare comunità» (Caruso 2008, pp. 134-149).

Non c’è una scelta della governance straordinaria di localizzazione di un qualsivoglia tipo di impianto per lo smaltimento dei rifiuti che non abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali. In ogni paese e quartiere individuato è sorto spontaneamente un comitato popolare che si è opposto all’irrazionalità del governo d’emergenza. La reversibilità dell’orientalismo è stata proprio quella di smontare il dispositivo di rappresentazione, curvandone il senso e segnalando altre scelte di gestione di interessi comuni e di organizzazione dello spazio pubblico. La partecipazione diretta è stata il metodo dell’autorganizzazione e della cooperazione nel “fare comunità” come «tradizione dello spirito pubblico meridionale» (Piperno 1997). Il “divenire-comunità” nel corso delle rivolte (occupazione del Comune, assemblee cittadine, presidi territoriali, blocchi stradali, occupazione dei terreni per la discarica) ha prodotto un senso di appartenenza, di nuova comunità, che non ha nulla a che vedere con il localismo o con l’identità nei termini nazionalistici o razzistici. Mentre la stampa ufficiale, la classe politica, il Commissariato straordinario evocavano l’“effetto NIMBY” per licenziare le istanze dei comitati all’interno della cornice dell’egoismo e dell’individualismo, i comitati si trovavano un passo in avanti, giungendo alla critica complessiva della governance dei rifiuti, del commissariato straordinario, e della politica delle discariche. Il punto teorico e programmatico cui sono giunti i comitati è “Basta discarica. Né qui né altrove”.

Sono micro e macro modelli di sottrazione all’orientalismo, tanto individuali quanto comunitari. Laddove le autorità locali o nazionali decidano sulla vita delle popolazioni con “poteri centralizzati” e “normalizzatori”, tali modelli acquistano forza, in una narrazione che affrancatasi dall’immagine di jacquerie o insorgenza improduttiva assume la dimensione di un’altra politica, di un “fare comunità” sgrossato dai frame del antimeridionalismo (ad es.: il movimento contro la costruzione della centrale biogas nell’alto casertano; i comitati di cittadini per un altro modello di sviluppo per Taranto; il movimento No Mous in Sicilia). Non vi è dubbio che oltre a un esercizio contro-discorsivo è indispensabile la produzione di una proposta politica nei termini di soggettivazione all’altezza dei dispositivi di assoggettamento e di dominio. Quanto avvenuto nella stagione delle rivolte contro la governance autoritaria dei rifiuti è stata una resistenza ferma alle misure militari e alla decretazione speciale, ma allo stesso tempo sono stati attivati anche processi di soggettivazione e di inversione degli stessi dispositivi di dominio, tramite l’individuazione di proposte alternative di soluzione all’emergenza rifiuti e soprattutto tramite la partecipazione e la cooperazione dei comitati popolari e dei singoli cittadini. La classe politica, l’autorità commissariale e la stampa ufficiale, una volta disarmati dell’orientalismo, hanno visto sgonfiarsi il potere deliberativo e le competenze dell’“autoevidenza”. Mentre il potere costituente delle popolazioni insorte si è dispiegato sul piano dell’immanenza, costituendo altre forme di governo del territorio e dei corpi, altri modi di vivere il Sud, producendo spazi di autonomia, partecipazione e cooperazione, con buona pace di Putman e Banfield

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – I parte https://www.carmillaonline.com/2013/06/25/orientalismo-allitaliana-una-genealogia-del-razzismo-antimeridionale-al-tempo-della-crisi-i-parte/ Mon, 24 Jun 2013 22:01:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6792 di Francesco Festa

cyopekaf_cemento_14-785x527Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze. [Lettera di K. Marx a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852]

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è [...]]]> di Francesco Festa

cyopekaf_cemento_14-785x527Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze. [Lettera di K. Marx a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852]

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli]

1. “Un piano del terrore: la ‘ndrangheta dietro a Prieti?” Questo è il titolo ad effetto di una notizia girata in rete il 13 giugno scorso. Va da sé che il testo segua lo scoop, trovando conferma nelle parole di un “ex ‘ndranghetista di spicco”, che ipotizzi, anzi, ne è certo, che ad armare la mano di Luigi Pietri, ormai noto come l’“attentatore di Palazzo Chigi”, vi sia una “‘ndrina’ di Rosarno”. Seppur non voglia sostituirsi “all’attività investigativa”, da professionista del mestiere sa che “nessuna persona per bene, nessuna persona che non sappia di godere della ‘ndrangheta potrebbe anche solo pensare di partire da Rosarno e fare un atto del genere. Significherebbe condannare a morte non solo se stessi, ma anche la propria famiglia”. E prosegue: “a Rosarno ci sono clan molto propensi a ricorrere alla violenza e ad atti eclatanti”, uno di questi quindi avrebbe adoperato “un disoccupato, magari mentalmente instabile” e con il “vizio della cocaina”, per inaugurare “una stagione di destabilizzazione” o lanciare “un segnale a tutta la politica” (V. Valentini 2013). Lungi dai “luoghi comuni”, l’intervistato indispettito risponde: “Non è assolutamente vero. La Calabria è piena di persone per bene, onesti lavoratori. E lo stesso vale per Rosarno.” Proviamo a porre la cosa in altro modo, cancellando da questo discorso Rosarno e la Calabria, per così dire, il significante dell’articolo. E poi chiediamoci: se Luigi Prieti fosse nato e partito da qualsiasi altra regione d’Italia situata al Nord (secondo le coordinate di quella “geografia immaginaria” di Edward Said), questo sensazionalismo avrebbe avuto senso? La dimensione geografica, culturale, locale, sarebbe stata tirata in ballo?

A seguito dell’inaudito omicidio di Fabiana a Corigliano Calabro del 24 maggio scorso, alcuni articoli di commento hanno suscitato un intenso dibattito, in particolare sulla stampa locale e poi su quella nazionale. Due titoli tra i tanti: Calabria, la donna non vale nulla (D. Naso, 2013), Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana: io sono scappata, lei non c’è riuscita (F. Chaouqui 2013). E di seguito una serie di considerazioni con un significante geografico ben preciso, la Calabria, che motiva le cause dell’efferatezza, mentre la cultura locale quando non il contesto sociale informano l’immane tragedia. Accludiamo qui alcuni stralci: «questa è la condizione delle donne calabresi. Nessuno stupore, dunque. Ma solo una rassegnazione impotente che nessun discorso di circostanza potrà mai attenuare»; le “donne calabresi” in Calabria valgono “zero”; «ragazzine costrette a ritirarsi da scuola nonostante voti ottimi e menti brillanti, semplicemente perché la ‘famiglia’ aveva scelto per lei»; “le donne” calabresi “oggetti da usare a piacimento” degli uomini; “le impavide eroine che decidono “di ribellarsi e dire no”, subiscono “il ceffone, il pugno, il calcio”; “alcune ragazzine si sono emancipate e osano truccarsi e vestirsi come vogliono”. E ancora: la lettera al “Corriere della Sera” di una “trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale”, che in una confessione vergata di mestizia e di rassegnazione afferma di aver scelto di abbandonare “una terra splendida” in direzione di Bologna o Milano, dove “le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto”, mentre in Calabra, “terra matriarcale”, dove «la maggior parte degli avventori sono anziani», «se a 16 anni fai l’amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori»; la Calabria, terra in cui si cresce «sentendosi dire cittu ca tu si fimmina, non su cosi pi tia», dove «la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie», dove «sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa»; e infine un’osservazione, forse a voler confermare l’importante ruolo lavorativo da lei ricoperto, un classico quello della “donna in carriera”, ovvero la capacità di affrancarsi dalla saturazione culturale della “mentalità calabrese”, per cui non resta che la fuga: «sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo». Lungi da entrambe le riflessioni il pensiero di mostrare in tal modo atteggiamenti pregiudiziali o addirittura antimeridionali, cosa contro cui, anzi, puntualmente declamano, ribadendo che «chi conosce bene la realtà sociale calabrese non può accusarmi di sputare sulla mia terra». Poco male, poiché l’orrendo omicidio non fa che essere inscritto nel contesto geografico e culturale. E se da questo lo astraessimo? Se togliessimo di mezzo il significante Calabria? Di certo affiorerebbe una macchia nera, infame, incancellabile! Quella della crescente lista della violenza che sul corpo delle donne viene praticata in qualsiasi parte d’Italia, negli interstizi del privato quando non nel mainstream, dove la ricerca delle ragioni eccede tanto in facili banalità quanto in scorciatoie culturali e nei luoghi comuni. Sia chiaro: questa violenza andrebbe letta attraverso i meccanismi e i dispositivi che la generano, cioè allargando la prospettiva al campo di forze che oscilla tra le questioni del genere, della razza e della classe (Curcio, Mellino 2012), indagando i modi in cui il corpo della donna viene rappresentato, le politiche se non le retoriche che su di esso si istituiscono, la saturazione di immaginari di cui si alimenta l’organizzazione capitalistica della forza lavoro e le forme di precarizzazione e di gerarchizzazione che lungo le faglie della classe, del genere e della razza riproducono dispositivi di assoggettamento.

Ancora altri esempi che ci proiettano nella fabbrica delle rappresentazioni inferiorizzanti che hanno come oggetto il Mezzogiorno d’Italia e, a più ampio raggio, il sud dell’Europa. Il 14 giugno 2013, il presidente del consiglio Mario Monti, intervenendo all’inaugurazione della Fiera del Levante, esordiva: «Al Sud occorre cambiare mentalità». Un’esortazione che porta con sé qualcosa di implicito: una retorica che tende a marcare una mentalità superiore rispetto ad una inferiore. Analogamente, il paternalismo montiano prestava il destro a un’altra retorica, ormai scontata: quella di una visione dicotomica dell’Europa, la superiorità del Nord rispetto al Sud dell’Europa. Un Nord, guidato dalla Germania della Bundesbank, che tutto sommato tiene testa alla crisi, e i paesi dell’Europa mediterranea che questa crisi non la stanno solo subendo, ma ne sono considerati responsabili o corresponsabili. Sono i PIGS: Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, con quell’assonanza esplicita, più che casuale, con il termine inglese porci: i maiali d’Europa e dunque sporchi, ripugnanti, oziosi. Debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali e monetari, scarsa produttività e blocco della crescita, tutto all’insegna dello sperpero e della cattiva gestione politico-finanziaria: «questa la sporcizia che si annida in Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. La causa è da ricondurre all’indolenza mediterranea, al vivere al di sopra delle proprie possibilità, alla corruzione, alla mancanza di regole, all’assenza di quell’etica del rigore e degli affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva come condizione sine qua non del capitalismo» (Curcio 2012).

cyopekaf_2010_21-785x588Sempre nel giugno 2013 il ministro del lavoro Elsa Fornero fece sfoggio di altrettanti refrain, un po’ frusti di discorsi essenzializzanti e naturalizzanti. Nel rispondere a una precaria sul tema del salario minimo, del reddito garantito e di altri ammortizzatori sociali, affermò: «L’Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e che con un reddito base la gente si adagerebbe, si sederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro». Insomma, un’allusione, neanche tanto velata, alla “gente” del sud. Allusione per niente originale, quella di Elsa Fornero, anzi, un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come “lazzari” e “lazzaroni” (spagnolismi logorati con cui si definisce da sempre il lumperproletariat napoletano) che mangiano con le mani pasta e pomodoro e si dilettano al sole, nella “controra”, adagiandosi nell’ozio (Dickie 1999, pp. 126-133).
Inoltre, all’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio. D’altronde anche lo spot pubblicitario contro l’evasione fiscale, ideato dal governo Monti, riproduce un frame su cui innestare un’allusione assai poco esplicita. «La carrellata di parassiti (c’è il parassita dei ruminanti, del legno, del cane, etc.) si conclude con il parassita della società: l’evasore fiscale. L’immagine dell’evasore non è però quella del finanziere che ci saremmo aspettati ma quella di un giovane, verosimilmente un precario, bruno, tarchiato, con folte sopracciglia e basette nere: l’iconografia di un terrone» (Curcio 2012).

Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, crediamo sia estremamente istruttivo prendere le distanze da questi discorsi, interromperne i meccanismi di semplificazione, di essenzializzazione e di naturalizzazione, tentando di oltrepassare la soglia delle rappresentazioni per cercare di capire cosa si nasconda dietro di queste, in quale terreno affondino le proprie radici. Detto altrimenti: interrogare il luogo discorsivo, molteplice e variegato, ricostruire la catena deduttiva attraverso cui si è affermato tenacemente il paradigma di uno stereotipo, spogliandolo tanto dei contenuti descrittivi quanto di quelli scientifici. Adoperando qualche attrezzo della celebre cassetta di Foucault, sappiamo che ogni aspetto della nostra esperienza possiede una storia: anche le cose che consideriamo come salde, al di fuori del tempo, ovvio come uno stereotipo, sono attraversate da una storicità che non è né lineare, né progressiva. Il soggetto, la verità o la razionalità non sono valori universali che ci permettano di valutare, dall’esterno, il progresso della storia, ma elementi che mutano nel tempo, differenti in ogni successiva configurazione (Foucault 2001, pp. 43-64).

Dunque, l’esercizio che proponiamo di seguito è quello di seguire con metodo genealogico:
a. l’origine e l’applicazione dell’orientalismo nel Sud d’Italia, le ragioni che lo informino e che ne favoriscano l’utilizzo;
b. quindi, descrivere l’emergere dell’antimeridionalismo o, per la precisione, del razzismo antimeridionale, intendendo col termine di razza – e del suo farsi verbo, razzializzare – «la costruzione di discorsi e di pratiche, di processi economici e culturali di essenzializzazione e discriminazione che puntano alla subordinazione di un gruppo sociale da parte di un altro» (Fanon 1964; Curcio 2012);
c. le “contro-condotte” e le pratiche di sottrazione al dispositivo dell’orientalismo, allo stesso tempo i processi di soggettivazione che hanno innervato i movimenti e le resistenze popolari contro «il dominio dei modi tipicamente ‘moderni’ di esercitare il potere» (Mezzadra 2012, p. 137) nel Mezzogiorno italiano, la gestione speciale delle popolazioni e l’emergenza come tecnologia di governo, il punto d’innesto qui è lo scontro tra formazioni discorsive e l’esercizio del potere, ovvero retorica della modernità da una parte e democrazia diretta delle comunità locali, dall’altra.

2. Il Sud d’Italia è probabilmente la regione d’Europa più tenacemente avvolta in stereotipi interpretativi da almeno un paio di secoli: luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata per divenire cibo delle inchieste giornalistiche, delle fiction o dei documentari televisivi. All’interno di questo frame si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011, p. 46). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto dai giornalisti e testimoni “diretti” sulla “realtà” calabrese.

Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali (un titolo fra i tanti: Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno), la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche.
Con Gramsci, sappiamo che il “senso comune” è “la concezione della vita”, “la morale più diffusa”, dentro una “sedimentazione” di “folklore” e di “filosofie precedenti”, ma è anche un campo “incessantemente” modificabile, penetrabile dai “luoghi comuni”, quindi ambivalente. Se è vero dunque che “la sfera del ‘buon senso’ o ‘senso comune’” è «l’opinione media di una certa società» in cui “modificare, svecchiare, introdurre nuovi ‘luoghi comuni’» (Gramsci 1977, pp. 65, 75-76), allora vale la pena interrogare come si muova questo “senso comune”, detto altrimenti: le ragioni che mantengano in vita i calchi e i modelli dell’antimeridionalismo.

Che il Settecento sia la stagione in cui tutti gli stereotipi sul carattere meridionale presero forma è ormai noto, così come i riflessi da essi provocati nelle idee e nella stampa dell’Ottocento, durante l’età delle “rivoluzioni borghesi” (1789-1848) e la Restaurazione (Hobsbawm 1963). In quei decenni, la storia si sarebbe incaricata di contenerli e rilanciarli, attutirli e ingigantirli, smorzarli e rinvigorirli, sempre a seconda dei differenti tempi della politica. Così, gli stessi topoi, da un lato sarebbero venuti utili a un mercato editoriale che sulla scoperta dell’esotico avrebbe puntato molto, da un altro avrebbero fatto il gioco di chi, nel Mezzogiorno stesso, aveva interesse a far mostra di tanta arretratezza per approfittarne prontamente, da un altro ancora avrebbero addirittura legittimato opzioni culturali tra loro diverse, quando non contrapposte, accomunando, negli stereotipi impiegati, la resistenza a ogni cambiamento sociale alla drammatica presa d’atto dell’impossibilità invece di riuscire a trasformare un mondo troppo arretrato (De Francesco 2012, p. 21).
Nondimeno, se non si tiene conto dei meccanismi interattivi che danno origine alle immagini è molto difficile comprendere cosa siano e come funzionino gli stereotipi intorno al Mezzogiorno, e più in generale la costruzione storica dell’identità e di cosa ci sia dietro essa. Che l’immagine del Sud si sia plasmata nel dialogo con il Nord del paese sembra un’osservazione ovvia, meno banale è invece scoprire che la sua identità si sia formata in negativo, come mancanza rispetto a un modello ideale. Edward Said con il suo Orientalismo ha offerto un’importante riconsiderazione a partire da come la civiltà europea nel corso del Settecento e dell’Ottocento abbia costruito la sua visione di un Altro, espressione ed esercizio della sua stessa supremazia mondiale, proprio a partire dalle mancanze. L’orientalismo è un esame delle innumerevoli modalità con cui una parte del mondo ne immagina un’altra per dominarla, dando vita a un tipo di analisi culturale in chiave geografica, dove la frammentazione interna dell’Europa (e nel nostro caso dell’Italia) lascia affiorare un significante pienamente coloniale.

cyopekaf_2009_02-785x588Franco Cassano nel suo Pensiero meridiano sostiene che la categoria di Said è necessaria ma non sufficiente a capire la posizione subalterna del Sud, in quanto l’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» (Cassano 1996, p. 8). Quindi la costruzione concettuale del Sud da un lato aiuta il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e soprattutto, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano» (Cazzato 2012, p. 193). Lungo questa linea interpretativa, Iain Chambers richiama l’idea di una “prerogativa” dell’Europa settentrionale quando sostiene con insistenza che la divisione interna italiana è anche il risultato dell’intervento di forze esterne nel Mediterraneo: come territorio da “condizionare” dalla fine del Seicento, con la presenza della flotta mercantile e militare britannica a difesa degli interessi coloniali britannici nel Mediterraneo, come presidio del «disfacimento organico del rapporto complementare fra il Nord Italia commerciale e industriale e il Sud agricolo […] parimenti trasformati in riserve di materie prime per i mercati e la commercializzazione dell’Europa del nord e del litorale atlantico» (Chambers 2007, p. 119).

3. Questa prerogativa del Nord sarebbe certo comprensibile, in termini storici, se non si assuma come istitutiva l’idea che un territorio sia in grado di produrre delle azioni costituenti, vale a dire che le forme della rappresentazione abbiano effettivamente la capacità di intervenire sul reale, di interpretarlo e anche di costituirlo. Infatti la rappresentazione partecipa della stessa natura del potere, poiché entrambi hanno la capacità di istituire, sono in grado di autorizzare se non di legittimare. «La rappresentazione in generale ha un doppio potere: quello di rendere presente ciò che è assente e di costituire legittimità di questa presenza esibendo qualificazioni, giustificazioni, e titoli. Se la rappresentazione riproduce non soltanto di fatto, ma anche di diritto, le condizioni che rendono possibile la sua riproduzione, si capisce allora l’interesse del potere ad appropriarsene» (Lazzarato 2008, p. 219).

Il campo dell’“ideologia” e l’archivio dei “luoghi comuni” è stato dissodato approfonditamente da Gramsci, in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”, andando oltre cioè quel «preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante” e leggendo “gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata». I luoghi comuni quando non gli stereotipi vanno situati dentro determinate “totalità strutturate in modo complesso”, ovvero le “società” o le “formazioni sociale”. In queste, «differenti livelli di articolazione (le istanze economiche, politiche e ideologiche) si combinano in modi differenti», si «rispecchiano reciprocamente» e, con Althusser, si «surdeterminano reciprocamente» (Hall 2006, pp. 194-195). Oltretutto è proprio Althusser a citare un passo del “vecchio Engels”, che per mettere «le cose al loro posto contro i giovani ‘economicisti’» disse: «La produzione è il fattore determinante, ma solamente ‘in ultima istanza’. ‘Né Marx né io abbiamo affermato qualcosa di più’. Chi dovesse ‘torturare questa frase’ per farle dire che il fattore economico è il solo determinante ‘la renderà una frase vuota, astratta, assurda’». E sempre Althusser, in Per Marx, si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato «la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture» e «anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle ‘tradizioni’ come la ‘tradizione nazionale’». Risposta secca: «Ne conosco uno solo: Gramsci» (Althusser 2008, pp. 202-205). Dunque è l’approccio gramsciano che ci consente di definire i movimenti e l’uso del campo ideologico: la formazione e la trasformazione dello stesso sono determinati e dalla struttura e dalla sovrastruttura, in una combinazione di discorsi ideologici e meccanismi economici immediatamente produttivi di “senso comune”, immagini, abitudini, frame, luoghi comuni, stereotipi.

D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in Alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930, p. 159).
Celebre questo brano del 1930, esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo. Nel famoso testo Razzismo e nazionalismo, Etienne Balibar infatti sgombera il campo da certi equivoci lungo l’intersezione di nazionalismo e razzismo. Se i due termini si riflettano l’un l’altro, il razzismo è nondimeno qualcosa in più: «un supplemento interno al nazionalismo e sempre in eccesso rispetto ad esso, ma sempre indispensabile alla sua costituzione e tuttavia sempre ancora insufficiente per portare a termine la formazione di una nazione, o il progetto di nazionalizzazione della società» (Balibar 1996, p. 66). Beninteso: il razzismo è “sempre in eccesso rispetto” alle formazioni nazionalistiche e, svolgendo tale pensiero, “in eccesso rispetto” alle rappresentazioni e ai costumi delle identità nazionali.

Nel rileggere le lezioni del corso del 1976, Bisogna difendere la società, possiamo notare l’attenzione che presta Foucault alle mutazioni del discorso del razzismo in tecnologia di governo e gestione delle popolazioni, ovvero nel “bio-potere”. Apparso nel XVII secolo, “il discorso della lotta delle razze” diventerà “discorso del potere centralizzato e centralizzatore”, ovvero «di una razza che detiene il potere ed è titolare della norma, contro quelli che deviano rispetto a questa norma, contro quelli che costituiscono altrettanti pericoli per il patrimonio biologico […] appariranno tutti i discorsi biologici-razzisti sulla degenerazione, ma anche tutte le istituzioni che, all’interno del corpo sociale, faranno funzionare il discorso della lotta delle razze come principio di eliminazione, di segregazione, e infine di normalizzazione della società» (Foucault 2001, p. 58). Dalla genealogia foucaultiana ci appare in filigrana proprio la storia italiana di fine Ottocento, quella della “grande emigrazione” e, mezzo secolo più tardi, dell’emigrazione verso il triangolo industriale.

Tornando all’orientalismo, possiamo notare che sia Said che Foucault pongono in evidenza la visione binaria come dispositivo fondante del dominio sul piano culturale. E non soltanto, poiché con Gramsci abbiamo visto che i piani e le istanze si “surdeterminano”, il piano culturale, si combina con il piano economico e con il piano politico. L’orientalismo è un dispositivo che, da un esame delle modalità con cui una parte del mondo immagina un’altra per dominarla, produce una supremazia complessiva, dell’Occidente sull’Oriente, del Nord sul Sud. E Said, alla pari di Gramsci, è giunto all’orientalismo soltanto liberando «gli studi critici sul colonialismo dall’ipoteca che era stata a lungo esercitata da un’interpretazione rigida dei rapporti tra struttura e sovra-struttura, nonché del concetto di ideologia» (Mezzadra 2012, p. 134).

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

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