lotte operaie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Lotte e infiltrati in salsa bolognese https://www.carmillaonline.com/2024/03/15/lotte-e-infiltrati-in-salsa-bolognese/ Fri, 15 Mar 2024 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81517 di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

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di Giovanni Iozzoli

Valerio Monteventi, Lo sgherru dell’autunno caldo, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 388, € 22,00

Che succede se uno scrittore-militante mette le mani su una vecchia raccolta di rapporti polizieschi riservati, che raccontano le lotte operaie e studentesche di un territorio? E che succede se questi rapporti rappresentano un fedelissimo resoconto giornaliero di quelle lotte – di parte sbirresca, ovviamente –, attraverso cui è possibile ricostruire l’ethos e il pathos di una stagione irripetibile? Succede che lo scrittore medesimo – Valerio Monteventi – ricama un romanzo interessantissimo, in cui il confine sottile tra documentazione storica e fiction risulta praticamente indistinguibile.

In quei resoconti, stilati con caparbia precisione e con un non comune zelo poliziesco, la dovizia di particolari si mescolava alla declinazione latina dei verbi e all’uso abbondante della congiunzione et. Si puntava l’obiettivo su scioperi e picchetti, scontri coi crumiri e incontri tra operai e studenti fuori dalle officine. Le indagini o anche solo le semplici curiosità riguardavano cortei interni e cortei in strada, risse tra fascisti e antifascisti, contestazioni a capi e dirigenti. Lo scenario era quello delle fabbriche in lotta, delle università e degli istituti medi superiori. (…) Il grosso del lavoro di inchiesta aveva portato nel paniere poliziesco denunce, soffiate e delazioni. Il maggior numero delle spiate riguardava la Ducati Elettrotecnica, il più grande stabilimento operaio bolognese dove, in mezzo a una composizione di forza lavoro soprattutto femminile, nacque il primo comitato di base della città e dove scoppiarono due vertenze aziendali durissime. La periodicità quasi giornaliera di quelle schede mi convinse della presenza di un infiltrato dentro alla fabbrica di Borgo Panigale. (p.7)

Questa intuizione muove l’istinto del romanziere: uno storico avrebbe “semplicemente” classificato e analizzato il materiale; uno scrittore intravede dietro alla massa di documenti le traiettorie esistenziali di personaggi tanto immaginari quanto plausibili. C’era davvero un infiltrato alla Ducati negli anni dell’autunno caldo? Era lui a redigere quei rapporti quasi quotidiani che finivano sulla scrivania del Prefetto e adesso stavano ammuffendo dentro vecchi imballi presso l’Archivio di Stato? E chi era questo infiltrato, che aveva lasciato tracce di sé così copiose e documentate?

La Ducati Elettrotecnica – oggi Ducati Energia – fu il contesto operaio in cui l’autunno caldo bolognese espresse i suoi punti più alti di conflittualità: lì nacque il primo Comitato di base in un territorio super presidiato dal sindacato confederale; lì si registrarono le più solide relazioni tra il movimento studentesco e il mondo operaio; quella fu l’azienda pilota della contrattazione aziendale, le cui acquisizioni faranno da guida nelle relazioni industriali per anni. È per queste ragioni che l’anonimo estensore di quei rapporti insiste tanto nel raccontare il contesto produttivo, oltre che quello vertenziale. Alcuni passaggi più che verbali evocano frammenti di sociologia del lavoro. E per le medesime ragioni, l’autore del romanzo colloca il suo infiltrato proprio “dentro” al cuore della fabbrica: se sei uno spione devi infilare le mani nella produzione materiale, prima che in quella di soggettività e conflitto.

Il mestiere dell’infiltrato è “anticipare” le mosse dell’intelligenza collettiva, prevenirne le intuizioni, capire quali punti della catena produttiva subiranno l’attacco operaio; e leggere le intersezioni, sempre più dense, tra il “dentro” e il “fuori”, tra la fabbrica e la città, tra la composizione operaia e un nuovo segmento di gioventù proletaria, scolarizzata, ribelle, irriducibile alla disciplina del lavoro. Monteventi racconta bene dell’incontro tra queste due anime conflittuali: i picchetti in comune, la critica al sindacato confederale, la nascita di Lotta continua e di Potere operaio – tutti passaggi rievocati anche grazie alla voce quotidiana di quei resoconti polizieschi.

Nasce così la figura di Oronzo “lo sgherru”, che si fa assumere in Ducati, con la complicità della Direzione compiacente, pur essendo in realtà un poliziotto in servizio presso la squadra dell’Ufficio politico della Questura di Bologna. Un “finto” operaio che però deve lavorare per davvero ogni santo giorno in linea, per sostenere il suo ruolo di infiltrato solerte. Dopo il primo faticoso approccio con la professione – è un proletario salentino che aveva scelto la divisa proprio per non finire in fabbrica o con la zappa in mano –, lo “sgherru” comincia a macinare rapporti su rapporti. Il suo capo, l’ipocondriaco Lotorto, esige sempre più dettagli, sempre più incisività, sempre più intuizioni: la sua squadra di infiltrati (ce ne sono altri che girano tra l’università e le piazze di movimento) costa cara al Ministero degli Interni, e deve produrre documentazione a ciclo continuo, per giustificare la sua esistenza.

Monteventi inserisce spesso frammenti delle schede originali all’interno della trama. Servono a dare “verità” ad un’opera che di fantasioso ha ben poco, intrecciando il vero e il verosimile in ogni pagina. Ad esempio, nelle preoccupazioni poliziesche è spesso evocata la figura di uno “studente rompicoglioni”, sempre presente in tutti gli scenari di lotta bolognesi – tal Bifo –, evidentemente già all’epoca molto apprezzato dalla Questura. Così come sono storicamente autentiche, con nomi e cognomi, le tristi figure del neofascismo felsineo, che nella “rossa Bologna” mettevano in campo squadre di mazzieri armati, alcuni dei quali poi finiranno dentro le inchieste sullo stragismo. Dallo sfondamento dei picchetti operai alla strage dell’Italicus il passo sarà breve e le carriere dei “neri” bolognesi vengono ben tratteggiate nel libro.

Il racconto procede spedito in una specie di gioco di specchi: l’infiltrato fa il suo lavoro e scrive rapporti, raccontando dal suo punto di vista l’iniziativa operaia. Lo scrittore, mezzo secolo dopo, riprende e utilizza quel materiale, mettendolo al servizio della memoria di classe. L’infiltrato racconta se stesso, nella finzione narrativa, attraverso i suoi rapporti, le sue spiate, il suo incunearsi nei contesti di movimento. Ma se nulla sappiamo di quella figura – invenzione letteraria o realtà –, le tracce del “suo” lavoro sono vive, scrupolose, autentiche e rese oggi disponibili alla fruizione collettiva. Insomma, una lettura avvincente sia per gli amanti della narrazione, sia per gli appassionati della ricerca storica.

È curioso e sorprendente che sempre tra gli atti della Prefettura custoditi presso l’Archivio di Stato siano state rinvenute qualche anno fa schede in cui si documenta la sorveglianza esercitata dalla Questura sugli internazionalisti negli anni Settanta dell’Ottocento, circa cento anni prima delle vicende raccontate in questo libro. E in particolare su un giovane romagnolo trapiantatosi allora in città: Giovanni Pascoli. (p. 8)

Si può provare a ricomporre pezzi di memoria collettiva – usando tutte le risorse, anche i vecchi archivi di Polizia – contro ogni apologia della smemoratezza. Non c’è futuro senza radici, non può darsi inchiesta operaia oggi, senza le acquisizioni preziose dei cicli di lotta passati. E gli archivi istituzionali, a volte, parlano quanto quelli di movimento: e possono raccontarci della Ducati Elettrotecnica – o del sovversivo Pascoli – se solo le mani sapienti di scrittori coraggiosi e ricercatori onesti riescono a trarne analisi e storie.

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E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 4 https://www.carmillaonline.com/2023/08/23/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-4/ Wed, 23 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77121 di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare [...]]]> di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare evidente, la loro ipotesi è ben distante da una lettura dei processi materiali che hanno accompagnato e stanno caratterizzando la storia del capitalismo in Italia. Per carità non si vuole con questo certamente misconoscere quanto i fascisti, in quel contesto, siano una componente anche importante del sistema politico italiano e come il loro uso in funzione antioperaia da parte della borghesia qualcosa di non secondario, altra cosa, però, è identificare il fascismo come la tendenza egemone e strategica della borghesia. Aspetto che, invece, tutti coloro che si muovono sull’immaginario della Resistenza tradita considerano come cuore del progetto borghese.

Le aree e le formazioni neoresistenziali non eludono la questione militare ma il loro modo ha ben poco a che vedere con la questione della forza che le lotte operaie stanno imponendo, tanto che di quelle ipotesi si perderà traccia in maniera molto veloce. Le ipotesi neo-resistenziali non colgono, e neppure possono farlo a causa del loro tradizionalismo comunista, il riformismo come cuore del piano del capitale, non possono vedere, cioè, la socialdemocrazia come forza materiale tutta interna alle linee del capitale. Per le aree neo-resistenziali, partito e sindacato non sono strutture tutte interne al dominio ma Compagni che sbagliano e che non colgono il progetto di fondo della borghesia che rimane in odor di fascismo1 e pur sempre nella logica della svolta autoritaria.

Significativamente, non diversamente che dal partito e dal sindacato, questi gruppi non colgono il tratto imperialista del capitalismo italiano, ma lo considerano semplice appendice del dominio statunitense. In tale ottica l’Italia sarebbe poco più che una colonia e il suo sistema produttivo del tutto estraneo alle dinamiche di ciò che sarà chiamato neocapitalismo. Coerentemente con ciò, e in piena continuità con il nemico revisionista, del tutta inessenziale diventa l’analisi della composizione di classe e della sua soggettività poiché, la classe che questi hanno a mente, è una classe senza tempo e senza spazio, niente più che un totem da venerare ed evocare come altri conciliabili evocano santi e madonne. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con il mondo reale e la sua materialità che prepotentemente fuoriesce dalle fabbriche.

La nuova classe operaia è un’altra cosa e la sua guerra si declina su crinali di tutt’altro tipo. Il cuore dello scontro è la fabbrica, gli embrioni della forza operaia sono i cortei interni, la caccia ai capi, i picchetti duri, l’attacco al comando. Ciò che le lotte operaie pongono all’ordine del giorno è tanto la difesa, quanto l’estensione di un potere operaio all’interno di un paese a capitalismo avanzato, aspetto che, a conti fatti, si mostra come una novità assoluta nel panorama del conflitto di classe o meglio, di come sia più utile e importante guardare e imparare da ciò che hanno prodotto altre istanze dell’altro movimento operaio, come quello americano per esempio, piuttosto che andare a spulciare tra gli annali delle rivoluzioni del passato: Lenin doveva essere ritradotto nel presente della fabbrica capitalista, non usato come un breviario.

Quando, di lì a poco, gli operai Fiat scriveranno dentro la fabbrica: Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!, daranno esattamente l’idea di come le lotte operaie non siano attratte dalle rivoluzioni degli altri, di come l’internazionalismo proletario abbia ben poco a che fare con un generico solidarismo, ma sia il qui e ora del programma operaio. Proprio a ridosso del Vietnam, dentro i cortei operai inizia ad aleggiare lo slogan: Il Vietnam vince perché spara!, con ciò si prendono le distanze da qualunque forma sia di legalitarismo e coevo antifascismo, sia dal terzomondismo per affermare che il problema all’ordine del giorno è l’armamento operaio dentro le metropoli imperialiste e che la questione della forza è la porta stretta entro la quale il movimento è obbligato a passare, ma lo deve fare avendo a mente la storia del presente e la realtà concreta entro cui si muove, non volgendo lo sguardo al passato o a realtà incommensurabilmente distanti da quella della metropoli imperialista; per questo motivo lo sguardo verso le lotte del proletariato americano e alla sua storia diventa un passaggio pressoché obbligato.

Per molti versi, infatti, molte delle esperienze operaie maturate nel corso delle lotte avranno non poche assonanze con quelle degli operai USA e in particolare con quelli neri e gli immigrati, tanto che testi come Dynamite2 o Sciopero3 assumeranno ben presto una contemporaneità quasi impensabile. Va da sé che, in tale contesto, la forza operaia è obbligata a inventare dal nulla i suoi organismi e le sue pratiche. Occorre, pertanto, stabilire una linea di condotta in grado di reggere il livello di scontro che le lotte hanno imposto e che, per altro verso, stato e padroni si sono attrezzati per ribaltare la situazione. Avanti compagni, è la guerra civile!, questo il passaggio che prima sussurrato, e poi urlato, esce fuori dai cortei e dai picchetti operai, ma la guerra non si improvvisa, infatti occorre imparare a farla.

“La classe” non andrà oltre l’assunzione del problema e alla costituzione solamente embrionale di alcune prime forme di strutture militanti, il servizio d’ordine, i nuclei operai di fabbrica, i primi vagiti di ronde e squadre operaie in grado di organizzare e centralizzare i primi nuclei di quegli operai comunisti che, negli anni immediatamente successivi, saranno l’avanguardia di massa dell’altro movimento operaio4. Ma, al di là di ciò che possono apparire limiti, quello che va posto maggiormente in evidenza è la battaglia politica che “La classe”, proprio sulla questione della attualità della rivoluzione e la coeva necessità di porre l’organizzazione della forza come aspetto non più rimandabile per la classe operaia, conduce senza mezze misure. Anche in questo caso vi è per intero Lenin e una attualizzazione e ritraduzione del Che fare?.

Apparentemente, simile asserzione potrebbe darsi come una estrema forzatura di Lenin e del suo testo principe, solitamente, infatti, il Che fare? è stato letto come il testo dove Lenin mette e impone la camicia di forza alla spontaneità operaia riducendo la classe a mera appendice di partito, ma non solo: il Che fare?, tanto a destra quanto a sinistra, è stato percepito come assolutizzazione del ceto politico agli umori e desideri del quale l’intero movimento degli operai dovrebbe uniformarsi mettendo, con ciò, costantemente in sordina il fatto che a permeare lo scritto, dalla prima all’ultima pagina, è il nodo centrale dell’insurrezione e, in piena polemica con i fautori della generica spontaneità operaia, Lenin mette al centro del suo interesse le spinte spontanee di massa verso l’insurrezione, perché è poco interessato, anzi non lo è per nulla, al punto di vista dell’operaio medio. Non è intorno alla prassi dell’operaio medio che è possibile cogliere la tendenza, questa, al contrario, va osservata, rafforzata e organizzata nelle punte avanzate della spontaneità operaia e proletaria. Sono i comportamenti di rottura che il partito deve cogliere perché è esattamente lì che si delineano i processi storici. Sono questi comportamenti che definiscono il possibile imporsi di una maggioranza politica che, sul piano concreto, altro non significa se non l’imporsi di una egemonia politica che è ben altra cosa rispetto a un dato banalmente quantitativo.

Lenin sa benissimo che nella storia a essere determinante e decisiva è sempre un’avanguardia di massa, la quale solo in un secondo momento, potrà aspirare a farsi anche maggioranza numerica ma che, per tutta una fase, dovrà camminare da sola accontentandosi della neutralità del resto della classe e della popolazione. Proprio perché i livelli di coscienza e antagonismo non possono pensarsi mai uniformi e omogenei occorre puntare su quella frazione di classe che, nella sua prassi, prefigura in potenza l’insurrezione. Ogni politica che si maschera dietro la conquista dell’intera classe, ogni politica che si nasconde dietro a una indistinta unità, altro non è che una diversa forma di opportunismo.

La polemica di Lenin contro la sudditanza verso la spontaneità è una polemica contro questo tipo di spontaneità e contro la inevitabile prassi politica di accodarsi ai punti più bassi della pratica operaia e proletaria. Fin da subito, seppur detto in altro modo, in lui non solo non vi è venerazione, ma aperto dissenso polemico verso il mostro sacro dell’unità di classe che sarà la bandiera di tutte le derive socialdemocratiche e opportuniste. Del resto, ciò che andrà in scena a ridosso del fatidico agosto 1914, non lascerà dubbi di sorta. La frazione operaia comunista, grazie a Lenin, assumerà una veste internazionale in aperta rottura con la socialdemocrazia e ciò che pochi anni prima poteva apparire una disputa al limite dell’eccentrico tra gli arretrati russi, si mostra la sola linea di condotta possibile rivelando tutto il realismo della politica rivoluzionaria ed è esattamente su questa scia che “La classe” ritraduce Lenin nel presente.

Ciò che diventa centrale è l’assunzione del punto di vista di una avanguardia di massa la quale sta dando il la alla cornice complessiva dello scontro di classe. A fronte di ciò, la pur breve esistenza de “La classe” può esser ritenuta la migliore esemplificazione di quanto andato in scena sul finire degli anni sessanta perché si può, con buona certezza, considerare il primo organo di stampa a dominanza operaia. Con ciò non si vuole certo ignorare l’importanza e il peso che un ceto politico–intellettuale, che raccoglieva parte delle più significative riflessioni del primo operaismo tanto da riproporle integralmente in alcuni numeri del giornale oltre a elaborarne di nuove, ha svolto in questa esperienza, bensì evidenziare come, proprio dentro le pagine del giornale, il protagonismo operaio risultasse determinante.

“La classe” ha l’indubbio merito, che incarna una vera e propria linea di condotta, cioè il far sì che gli operai, il loro punto di vista, le loro lotte e le loro discussioni occupino nel giornale un posto non secondario. Ciò è il frutto di due fattori, da una parte, aspetto sul quale tutti concordano, la necessità di colmare nella prassi quella distanza tra ceto politico–intellettuale e avanguardie operaie che le riviste storiche dell’operaismo avevano sostanzialmente mantenuto. A conti fatti le riviste operaie rimanevano riviste sugli operai e la necessità di porre fine a questo vizio, proprio del ceto politico–intellettuale, era una cosa che tutti ritenevano non più eludibile. Dall’altra un modo completamente nuovo di concepire il ruolo dell’avanguardia e della sua funzione e su questo i punti di vista non convergono, tanto che, alla fine, le vie si separeranno.

Da un lato, per coloro che daranno vita all’esperienza di Potere Operaio, reiterando un modello quanto mai classico, il problema è, e rimane, prendere la testa del movimento mentre, per coloro che di lì a poco daranno forma a Lotta Continua, non si tratta di prendere la testa del movimento ma di essere, invece, la testa del movimento. Questa differenza, anche se non stridente, non è difficile da notare proprio nel modo in cui vengono confezionati gli stessi numeri del giornale. A parte gli editoriali, che mostrano una certa omogeneità, sul giornale compaiano testi e articoli di natura maggiormente analitica e teorica a fronte di materiali declinati soprattutto sulle lotte, sul punto di vista operaio, sull’inchiesta.

L’anima che darà vita a Lotta Continua è sicuramente quella che dedica a questi aspetti i maggiori sforzi. Su questo aspetto occorre soffermarsi. Con ogni probabilità chi andrà a leggersi i numeri de “La classe” sarà tentato a non andare oltre una semplice scorsa di queste parti per concentrarsi sulla corposità e la complessità di quelle analitiche e teoriche. La cosa è facilmente comprensibile poiché, per dirla con realismo, leggere per intero i resoconti delle assemblee di fabbrica, gli interventi operai dentro i vari coordinamenti cittadini o nazionali, così come le interviste alle avanguardie di fabbrica, oggi è una cosa di poco interesse, mentre i saggi teorici hanno indubbiamente un respiro e una profondità che li emancipa dalla particolarità del contesto storico in cui hanno visto la luce. Del resto leggiamo i testi di Marx nel 2023 come se fossero stati scritti domani, però, ciò che va evidenziato, è la recezione che i materiali più grezzi hanno in quel preciso momento. Dobbiamo, cioè, rovesciare la prospettiva con la quale noi oggi ipoteticamente prendiamo tra le mani i numeri de “La classe” e immaginarci il come gli operai li recepiscano.

Con ogni probabilità il tipo di lettura è esattamente rovesciata poiché i testi teorici finiranno per essere oggetto di una breve scorsa, mentre la parte prettamente operaia verrà letta, discussa e commentata con non poco interesse e partecipazione. Avere tra le mani un giornale che, anche come semplice cronaca, riporta le varie iniziative operaie nei territori, i coordinamenti operai di questa e quella regione, la voce di altri operai impegnati in questa o quella battaglia di fabbrica diventa uno strumento di socializzazione e organizzazione non proprio secondario, un giornale in cui le lotte operaie sono continuamente poste in primo piano e fa sì che quel senso di isolamento a cui i perimetri della fabbrica conducono cada in frantumi.

Gli operai Fiat scoprono Porto Marghera e questi a loro volta scoprono Porto Torres ma anche i braccianti del sud, i tecnici della Pirelli e, certamente non per ultimo, ciò che si agita nelle scuole e nelle università. Dobbiamo immaginare l’effetto che ha il resoconto della partecipazione degli operai Breda dentro una assemblea degli studenti in Statale, tra gli operai Fiat. Certo, oggi, questo si mostra tanto datato quanto definitivamente archiviato in un qualche faldone della storia, ma non è questo il punto. Ciò che è, invece, importante evidenziare è lo stile di lavoro che questo modo di costruire il giornale incarna. Questo è ciò che, per molti versi, lo può rendere attuale.

Con attualità non si intende certamente la meccanica reiterazione di ciò che è stato piuttosto l’assunzione di un metodo come possibile linea di condotta del presente. Tuttavia, prima di entrare nel merito del metodo, occorre prendere in considerazione qualcosa di più complesso e dai tratti maggiormente generali. Dobbiamo, cioè, misurarci con gli ordini discorsivi che hanno fatto da sfondo alle stagioni del protagonismo operaio. Senza di ciò diventa difficile comprendere non tanto la lotta operaia ma la centralità che questa ha assunto per la politica e, con ciò, evidenziare quanto il peso della teoria politica, e la sua capacità di esercitare egemonia politica, che poco o nulla ha a che vedere con l’egemonia culturale, abbia svolto un ruolo decisivo nel sostanziare l’anomalia italiana.

Bisogna riconoscere cioè che quanto andato in scena anni dopo con il 7 aprile conteneva un qualche grano di verità5. Non si tratta certo di offrire una postuma legittimità a Calogero e al suo teorema o, ancor peggio, trovare una qualche giustificazione al fare questurino del PCI e del sindacato, ma riconoscere il peso che la teoria riveste dentro il processo rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario questo il solo e unico vero senso dell’affermazione. Si tratta di riconoscere, cioè, come l’elaborazione teorica sia del tutto interna alla linea di condotta del partito dell’insurrezione anche se, tale elaborazione, è comunque e sempre frutto di una prassi posta in atto dalle masse. La triade marxiana: prassi, teoria, prassi, vive e può vivere solo e unicamente a partire dalla soggettività di classe che deve, per non disperdersi, necessariamente riversarsi in una soggettività politica la quale, a sua volta, assolve al suo compito se la riconsegna elaborata alla soggettività di classe. In questo modo la teoria diventa un’arma per la soggettività di classe, classe che è sempre punto di partenza e punto di arrivo, mentre la soggettività politica è sempre l’anello di congiunzione tra i due poli della prassi. Questa relazione non è mai lineare e priva di tensioni. Le vicende dell’operaismo e del giornale “La classe” ne sono ampiamente testimoni.

Questo il motivo per cui si è richiamato alla mente il 7 aprile. Il castello accusatorio era sicuramente falso e fantasioso e gli imputati del tutto estranei, e in alcuni casi anche avversi, a quanto configuratosi come guerriglia comunista, ma indubbiamente parte del lavorio teorico da loro sviluppato anni prima aveva contribuito a rendere esplicito e a dare consistenza politica a ciò che la lotta operaia e proletaria aveva, in maniera del tutto autonoma, posto all’ordine del giorno.

Il ceto politico, gli intellettuali, i militanti rivoluzionari non si erano inventate le lotte così come non si erano inventata la pratica del potere operaio, ma avevano fatto sì che quelle lotte non rimanessero isolate, prive di prospettiva politica e valenza storica, in altre parole avevano contribuito non poco a dare forma a un involucro politico in grado di sintetizzare ciò che la soggettività operaia stava ponendo all’ordine del giorno, attraverso la prassi. Allora, a partire da ciò, più che prendere partito per gli intellettuali o per la classe, avendo a mente le contrapposizioni che sulle vicende dell’operaismo sono sorte, sembrerebbe sensato cogliere come solo questa relazione, sicuramente mai semplice, sia stata tanto essenziale quanto determinante nel rendere possibile l’anomalia italiana consentendo, tra l’altro, di attualizzare il dibattito intorno a Lenin e alla linea di condotta leniniana ma non solo.

Ciò che non possiamo eludere è il fatto che le cose non possono prescindere dalle parole e che, necessariamente, i passaggi storici richiedono un linguaggio che ne ratifichino l’esistenza e che questo linguaggio è sempre appannaggio di un ceto politico–intellettuale. Il nostro paese, sotto questo aspetto, ne rappresenta un vero e proprio paradigma, è sufficiente pensare alle trasformazioni a trecentosessanta gradi che hanno fatto da sfondo agli anni del cosiddetto boom economico dove, insieme alla struttura produttiva, si è delineato sul piano del costume e degli stili di vita un autentico salto epocale. Un passaggio che stava ovviamente dentro la materialità delle cose ma che solo un linguaggio ha reso esplicito. Le lotte operaie che prendono forma in detto contesto sono delle cose nuove e ciò è indubbio ma è altrettanto vero che la carica sovversiva di queste cose ha potuto darsi appieno proprio grazie al linguaggio che le ha narrate. Tutto ciò, in fondo, non è una novità ma il prosaico riconoscimento di come non si possa prescindere dalla relazione classe/ceto politico–intellettuale cosa che, del resto, il leniniano Che fare?, aveva posto nero su bianco in maniera quanto mai netta.

(4continua)


  1. Al proposito si veda, P. Piano, La banda 22 ottobre. Agli albori della lotta armata, Derive Approdi, Roma 2008. Mentre, per quanto concerne l’esperienza Gap–Feltrinelli si può vedere, N. Balestrini, L’editore, Bompiani, Milano 1989.  

  2. L., Adamic, Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Bepress, Lecce 2010.  

  3. J., Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 2002.  

  4. Cfr. E., Quadrelli, Autonomia operaia. Scienza della politica e arte della guerra, Edizioni Interno 4, Rimini 2019.  

  5. Sul 7 aprile si veda, tra i molti, G., Bocca, Il caso 7 aprile. Toni Negri e la grande inquisizione, Feltrinelli, Milano 1980.  

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Maxiprocessi, zamponi e tortellini https://www.carmillaonline.com/2020/09/04/maxiprocessi-zamponi-e-tortellini/ Fri, 04 Sep 2020 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62618 di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.

I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .

Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.

C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.

Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.

Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.

Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?

200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.

Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è scientifico.

Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti meno di niente.

Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.

Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas –, i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.

Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.

Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.

Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.

Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.

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Manganelli quattro stagioni. Capitolo II – Il Mostro di Modena https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/manganello-quattro-stagioni-capitolo-ii-il-mostro-di-modena/ Thu, 27 Jun 2019 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53468 di Giovanni Iozzoli

In un’escalation micidiale, preoccupante ed esaltante, la lotta ai cancelli dell’Italpizza sta continuando giorno dopo giorno – sotto le piogge dispettose di maggio come sotto il caldo torrido e spossante di questo fine giugno. Ormai da mesi, i bravi cittadini modenesi – almeno quelli non abituati a girare sempre la testa dall’altra parte – stanno assistendo a un crescendo di cariche poliziesche, pestaggi e lanci di lacrimogeni, sparati addosso – principalmente – a donne armate solo della loro tenacia, che cercano di strappare a questa azienda perla dell’agroalimentare italiano, condizioni [...]]]> di Giovanni Iozzoli

In un’escalation micidiale, preoccupante ed esaltante, la lotta ai cancelli dell’Italpizza sta continuando giorno dopo giorno – sotto le piogge dispettose di maggio come sotto il caldo torrido e spossante di questo fine giugno. Ormai da mesi, i bravi cittadini modenesi – almeno quelli non abituati a girare sempre la testa dall’altra parte – stanno assistendo a un crescendo di cariche poliziesche, pestaggi e lanci di lacrimogeni, sparati addosso – principalmente – a donne armate solo della loro tenacia, che cercano di strappare a questa azienda perla dell’agroalimentare italiano, condizioni un minimo dignitose di vita e di lavoro: perché in questi tempi cupi, la divisione sindacalese tra contrattazione “acquisitiva” e “difensiva” non esiste più – nelle aziende spesso si lotta per sopravvivere, per strappare al padrone qualche centesimo in più di paga oraria, il diritto alle pause, ai bagni, al non essere considerata merce disponibile 24 ore su 24. E la sproporzione drammatica tra la quantità di lotte necessarie e la qualità modesta delle rivendicazioni, dà la cifra dello sprofondamento di questo paese di merda nel suo passato più regressivo.

Il sindaco – appena rieletto – tifa per l’azienda, così come la stragrande maggioranza del quadro politico e dei mezzi di informazione. La Cgil si è impantanata in un tavolo che le porterà solo ulteriore discredito e perdita di iscritti dentro quel sito. Ogni giorno un reparto di energumeni in divisa, bardati come se andassero in missione all’estero, attacca questi presidi sostanzialmente indifesi: ad animarli sono cobas, sono stranieri, sono donne – la loro incolumità e la loro fedina penale vale poco, sul mercato della cittadinanza in cui tutti noi, oggi, siamo pesati per censo e potere sociale – nella modernità “castale” che caratterizza le nostre società. Associazioni come Non una di meno, Case del Popolo, comitati per il boicottaggio di Italpizza, realtà di base, delegati sindacali del territorio – chi può sta cercando di esprimere solidarietà a questa cruciale battaglia popolare: il resto di quel che residua della famosa “società civile” (di cui fino a qualche anno fa si favoleggiava ampiamente, insieme all’altra chimera: il ceto medio riflessivo…), tace e acconsente, dando ormai per scontato che il mercato del lavoro debba essere strutturato a gironi – come l’inferno dantesco – e che sia necessaria e fisiologica per il funzionamento del sistema, una massa – crescente – di neoschiavi “multiservizi” (com’è denominato il loro contratto prevalente).

La tensione sta salendo, dicevamo. Il caldo torrido, la disperazione, gli scioperi che falcidiano stipendi già miserabili. Ormai è in gioco la dignità: le persone hanno fatto quel famoso “scatto” che trasforma i mesi in anni e fa crescere la coscienza di sé oltre la miseria della propria condizione di merce. L’atmosfera è quella che è, pesante, acida. Ci si butta davanti alle ruote dei camion. Si è storditi dai fetentissimi gas CS, si ruzzola sul tappeto di lacrimogeni che ormai nessuno raccoglie più, come fossero un arredo stradale. Basta poco. Forse il 14 settembre del 2016, davanti alla GLS di Piacenza, il clima era anche migliore di quello che si registra oggi all’Italpizza; probabilmente nessuno si aspettava quello che successe quella mattina piena di luce padana. Ahmed Abdel Salam, nel corso di un presidio davanti a quell’obbrobrio di capannone grigiastro, fini sotto le ruote di un Tir che stava cercando di bypassare i manifestanti schierati davanti ai cancelli, per portare fuori il suo preziosissimo carico di cianfrusaglie e salvarlo da quell’embargo dei poveri che è il picchetto operaio. E quando ci scappa il morto, tutti – dopo – corrono a prendere posizioni responsabili e pacificatrici: inni al dialogo, recriminazioni, associazioni datoriali costernate, solenni denunce sindacali, ispezioni ministeriali. Ecco, sulla vicenda Italpizza oggi – chi vuole, chi se la sente, chi ha ancora un po’ di sangue nelle vene o di coraggio civile o di consapevolezza del suo ruolo se fa il sindacalista, o anche se è un semplice cittadino che non si rassegna al ruolo assegnatogli di pubblico televisivo e platea elettorale – ebbene, sulla vicenda Italpizza, dicevamo, facciamo in tempo a parlare prima che il sangue operaio bagni l’asfalto come successe a Piacenza tre anni fa.

Non è scontato lo schieramento. Il nemico è solido. L’azienda è agguerrita, attrezzata, unge molte ruote, cura i rapporti con la stampa, gestisce finte informatissime pagine Facebook che incitano al crumiraggio e all’ostilità antioperaia. E la Questura è criminalmente determinata a fornire la sua manovalanza al servizio del padrone – e queste cose, si sa, sono decise a Roma, perché quando Salvini parla di sicurezza è precisamente della sicurezza delle tante Italpizza d’Italia, che si preoccupa, altro che i barconi. Quindi, la partita a San Donnino è cruciale, di sicuro spessore nazionale, di valore esemplare – sui temi degli appalti interni e dell’assetto del mercato del lavoro italiano. Si può provare a farlo diventare davvero un terreno ricompositivo, generale, per tutti quelli che in questo lungo anno di governo hanno arrancato nel tentativo di capire qual è il “punto d’attacco” con cui contrastare l’esecutivo gialloverde: Salvini è lì, dietro le inferriate di Italpizza, ci sta sfidando, ci fa ciao con la manina, ci invita a giocarcela fino in fondo. Sa che fino a quando le operaie e gli operai di Italpizza restano soli, il suo Governo non deve temere nulla – perché vuol dire che il paese è ancora in stato neurovegetativo, che nessuno potrà scuotere il laido consenso di cui gode.

Qualche giorno fa, un docufilm realizzato e trasmesso da Sky – Il Mostro di Modena – ha rilanciato in città la memoria di un presunto serial killer che agì sul territorio negli anni ’80 e poi sparì nel nulla, ignoto e impunito. Il prodotto è risultato di grande qualità e ha coinvolto molto l’opinione pubblica, che aveva rimosso quelle antiche storie. Chi ci pensava più, al Mostro di Modena?Suggestionato da questa visione televisiva, il nuovo Capo della Procura Giovagnoli, ha chiesto alla sua polizia giudiziaria di tirare fuori i vecchi faldoni delle inchieste di 35 anni fa, per verificare se sussistano oggi elementi utili per riaprire le indagini sul Mostro.

Certo, con la folla di mariti e fidanzatini assassini che continuano a “mostrificare” gli ambienti familiari, seminando morte e violenza, l’idea di questo vecchio serial killer in circolazione non spaventa più nessuno. Anche su quel terreno, ne abbiamo fatta di strada. Però viene da chiedersi: se basta un programma televisivo a riattizzare gli interessi della Procura su vecchie tragedie, perché non proviamo a spedire a Giovagnoli almeno una parte delle molte inchieste giornalistiche (anche televisive) che hanno raccontato in questi anni il distretto carni, la filiera agroalimentare e altre velenosissime specialità in salsa emiliana? Perché non gli mostriamo il racconto drammatico e rabbioso delle vite piegate e spremute di migliaia e migliaia di operai e di operaie che lavorano nella vetrina dell’eccellenza emiliana, ricavandone meno del minimo vitale? Se basta la visibilità televisiva, per occuparsi dei crimini, i “mostri” dell’imprenditoria modenese – quelli che stanno forgiando un nuovo perverso “modello emiliano” – hanno già accumulato un bel po’ di meriti e celebrità. Già, mentre cerchiamo di scovare i fantasmi dei vecchi killer della nostra memoria, cerchiamo di chiederci: chi sono oggi i nuovi Mostri di Modena? Chi ci sta uccidendo, lentamente, ogni giorno, corrompendoci e assuefacendoci alle sue brutture e alle ragioni dei suoi profitti?

Manganelli quattro stagioni – Cap. I

 

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L’Alfasuin https://www.carmillaonline.com/2019/01/09/lalfasuin/ Tue, 08 Jan 2019 23:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50432 Giovanni Iozzoli, L’Alfasuin, Edizioni Sensibili alle foglie, Roma, 2018, pp. 128, € 13,00

[Oggi, 9 gennaio, cade l’anniversario di una delle tante stragi antioperaie che furono tra gli atti fondativi di questa Repubblica: il 9 gennaio del 1950, a Modena, sei lavoratori furono ammazzati a sangue freddo – fucilati e mitragliati – dalle forze dell’ordine intervenute per sgomberare i presidi sindacali alle Fonderie Riunite. Era la prima volta che la Polizia interveniva militarmente in città dentro un conflitto sindacale. Piuttosto che ricordare quegli eroici martiri con una nota commemorativa (di cui la rete [...]]]> Giovanni Iozzoli, L’Alfasuin, Edizioni Sensibili alle foglie, Roma, 2018, pp. 128, € 13,00

[Oggi, 9 gennaio, cade l’anniversario di una delle tante stragi antioperaie che furono tra gli atti fondativi di questa Repubblica: il 9 gennaio del 1950, a Modena, sei lavoratori furono ammazzati a sangue freddo – fucilati e mitragliati – dalle forze dell’ordine intervenute per sgomberare i presidi sindacali alle Fonderie Riunite. Era la prima volta che la Polizia interveniva militarmente in città dentro un conflitto sindacale. Piuttosto che ricordare quegli eroici martiri con una nota commemorativa (di cui la rete è comunque ricca), preferiamo parlare del presente, di coloro i quali quei morti li stanno concretamente onorando oggi, ai giorni nostri, probabilmente senza neanche conoscerne la storia: perché il miglior ricordo, fuori dalle retoriche celebrative, è la lotta degli uomini e delle donne che si stanno battendo per riportare diritti e speranze dentro fabbriche e magazzini, usando il loro coraggio e i loro corpi contro lo sfruttamento e la repressione che informano il lavoro e i rapporti sociali nell’Italia di oggi. Pubblichiamo quindi un breve estratto del romanzo L’Alfasuin, appena uscito, centrato sulle lotte nel comparto agroalimentare e sul disvelamento delle retoriche del “Made in Italy”, dietro le cui vetrine scintillanti si nasconde il marcio della precarietà più odiosa ed estrema. I proletari di oggi onorano con la loro resistenza il ricordo dei proletari di 58 anni fa – G.I.].

***

«Una dinastia di prosciuttai milionari. Una famiglia mafiosa in cerca di rispettabilità. Centinaia di lavoratori giunti da ogni parte del mondo, per disossare e rifilare cosce di maiali. Dove possono incrociare tutti costoro i propri destini? All’Alfasuin, storica azienda modenese del prosciutto, padrona di un territorio fondato sulla centralità dei salumi e sulla pace sociale. Un passato glorioso e mitizzato, un presente indecifrabile: lungo l’arco di vent’anni i protagonisti si agitano frenetici dentro un modello e un mondo che si va sgretolando. Dalla retorica dell’“eccellenza italiana”, emerge una crudissima realtà: il vero preziosissimo maiale di cui “non si butta via niente” è il lavoro vivo, sempre più spremuto, sfruttato e impoverito. Fino al giorno in cui gli schiavi del prosciutto decidono di alzare la testa. E il tempo della crisi diventa il tempo della rivolta».

***

Un primo incidente si verifica all’alba del secondo giorno di blocco dei cancelli. Si è formata una lunga fila di camion, tra cui Tir e autoarticolati, che arriva quasi all’uscita della tangenziale. La Celere è pronta con i manganelli e gli scudi. Un gruppo di dirigenti della cooperativa esce deciso dall’ingresso automezzi, scavalca bestemmiando le tre file di dipendenti seduti davanti ai cancelli per impedire il passaggio dei camion, scalcia e spintona tutti quelli che si trovano davanti. Poi la squadretta di capetti si sposta verso il vicino drappello di polizia, gesticolando, indicando il blocco, sbracciandosi; i funzionari cercano di mediare, non hanno ancora ricevuto l’ordine di caricare e per il momento non interverranno. I capetti alzano le braccia e se le sbattono sui fianchi. Poi uno di loro, il più deciso – Abdallah riconosce essere il tizio sbrigativo e volgare che lo ha assunto – si piazza con le spalle al muso ringhiante del primo camion della fila, fermo a motore acceso, proprio in faccia al picchetto che ostruisce l’entrata; comincia a fare segno all’autista di avanzare dietro di lui, ruotando le braccia nell’aria. L’alba sta spuntando – sono le cinque – ma è ancora buio e i fanali accecano i manifestanti seduti a terra. Lentissima, come una fila di elefanti, i camion cominciano ad avanzare sotto la guida del dirigente furioso e isterico.
– Avanti, avanti, per Dio! Via, via… – a calci, pugni e spintoni il capo crea un cuneo nel picchetto; i manifestanti hanno avuto tutti l’ordine di non reagire alle provocazioni, urlano e insultano, qualcuno sputa, ma si limitano alla resistenza passiva; intanto i camion sono arrivati a pochi centimetri dalla prima fila, dove tutti sono spaventati, con gli occhi semiaccecati dai fanali, pronti ad alzarsi e a scappare; la Polizia resta a guardare. Ancora pochi centimetri di pressione, i paraurti sono quasi in faccia ai manifestanti, i primi cominciano ad alzarsi e arretrare. Il picchetto è sfondato. Tutti si muovono disordinatamente, con i pneumatici quasi addosso ai corpi; altri capetti continuano a spintonare e urlare, spalleggiati da alcuni autisti scesi dai mezzi in fila – si vede che stanno difendendosi il loro posto di garanti dell’ordine aziendale, come i cani difenderebbero l’osso. Passato il primo camion, gli altri seguono. Quel giorno il picchetto non ha retto. Si è arrivati a un soffio dall’investimento.
Nella rabbia e nella delusione, gli scioperanti si ricompattano nel piazzale, sotto gli occhi vigili della Digos:
– stamattina abbiamo mollato. Non dobbiamo. Perchè è una gara a chi dura di più.
Sadik è da 5 anni in quella cooperativa. E’ il più sindacalizzato di tutti. Si tira dietro una buona metà dei dipendenti, qualcuno anche delle altre società che lavorano in quel sito.
– Se loro capiscono che non siamo disposti ad andare fino in fondo, abbiamo perso tutto. E al primo cambio appalto ci faranno anche fuori.
Sono una cinquantina, tutti annuiscono. Abdallah è in prima fila, anche se è l’ultimo arrivato. A quarantacinque anni si è stancato di essere prudente.
– Qua c’è anche la polizia che ci sente. Noi non ci nascondiamo, non ci vergogniamo, non abbiamo paura. Dobbiamo andare fino in fondo. La signorina lì, quella è una giornalista, lo scriva, lo scriva per favore, domattina noi siamo di nuovo qua davanti. Ci devono ammazzare.

Ci devono ammazzare.

E alle 4 della mattina successiva i lavoratori sono di nuovo in blocco davanti ai cancelli, seduti per terra, con i primi camion che arrivano e il solito plotoncino di celere con le visiere abbassate, pronte a colpire. Sadik, che si è fatto pure un paio di anni all’università prima di finire facchino, prova persino a discutere con i poliziotti con un piccolo megafono:
– è una vergogna che vi mandino qui, alle 4 di mattina. Invece di andare ad arrestare i criminali, vi mettono davanti ai cancelli delle fabbriche. In questo modo la polizia viene usata per fini privati, dentro una vertenza sindacale. Ma la polizia – gli stipendi, gli straordinari, i mezzi – li paghiamo tutti noi, con le tasse. Perché dovete venire qui a bastonarci? Perché vi schierano a favore dei padroni?

Alle 7,30 arriva l’indicazione di sospendere il blocco in entrata e in uscita delle merci. Tra un po’ una delegazione sarà finalmente ricevuta per trattare un accordo. Come richiesto al tavolo, non ci saranno solo i dirigenti della cooperativa, ma anche un avvocato in rappresentanza della committenza. Gli operai esultano, è già un risultato, visto che fino ad allora la multinazionale della logistica proprietaria del magazzino aveva rifiutato ogni coinvolgimento. Sadik dà indicazione ai suoi compagni:
– adesso ci mettiamo di lato, a fianco del cancello di entrata e lasciamo passare i mezzi. Tra un po’ comincia l’incontro e noi aspettiamo notizie in diretta. Se la trattativa va avanti, li lasciamo discutere. Ma se qualcosa va storto, se fanno i furbi, se non vogliono darci niente, allora pronti a riprendere il blocco, non entra e non esce più nessuno.

Il presidio nel parcheggio diventa meno teso, più rilassato, qualcuno porta i caffè nei thermos, le bandiere e i bidoncini vuoti usati come tamburi, vengono ammucchiati all’ingresso, si formano capannelli etnici tra filippini, albanesi, maghrebini e nigeriani. Si ride e si discute. Alcuni capi sono usciti fuori e gironzolano nella zona del presidio per sentire che aria butta e magari provare a tirarsi dietro qualcuno dei loro.
All’improvviso la situazione cambia, tutto precipita.
Dal tavolo di trattativa arriva la notizia che l’avvocato del committente non s’è visto e non si sa se parteciperà; i dirigenti della cooperativa danno l’idea di voler solo tergiversare, per cercare di guadagnare tempo – forse avevano delle spedizioni importanti proprio per stamattina e volevano ammorbidire il presidio. C’è delusione, la gente si sente presa in giro. Comincia a montare l’agitazione.
I capetti tornano tutti dentro, avvisati al cellulare, con le guardie giurate schierate sulla linea del cancello – si capisce che il clima sta cambiando. C’è rimasto solo un camion dentro, da far uscire, un pesante autoarticolato che ha già completato il carico e sta aspettando i documenti. Lo guida un tizio biondiccio e tarchiato, che è in attesa a motori accesi. Il capo delle spedizioni gli urla di chiudere lo sportello e partire – alle bolle penseranno dopo. Contemporaneamente Sadik, che è in delegazione al piano di sopra, dà un occhiata dalla finestra della palazzina e impartisce l’ordine telefonico di riprendere il blocco. Subito comincia un movimento disordinato e vociante davanti ai cancelli. Abdallah è tra i primi ad accorrere. Gli scioperanti si chiamano tra loro, agitano le braccia, urlano in quattro o cinque lingue diverse per attirare l’attenzione dei capannelli più lontani e più distratti.
– Vai, cazzo, vai – il capo delle spedizioni sbatte la mano aperta contro lo sportello, l’autista ingrana la marcia. E’ questione di secondi, deve uscire prima che quei disgraziati si schierino davanti al cancello.
L’autista ha un attimo di esitazione. I primi ad arrivare si stanno già piazzando, si guardano intorno e invocano rinforzi. Abdallah corre e strilla agitando le braccia. E’ contento che la lotta riprenda e non gliene frega niente del lavoro che probabilmente perderà, urla contro la sua vita, sente sulla schiena il fruscio della bandiera del suo sindacato annodata come un mantello; l’autista rallenta, è perplesso o accelera e si infila nell’unico varco ancora libero o si ferma, il capetto lo sta inseguendo a piedi, bestemmia rosso in faccia e continua a picchiare coi pugni sullo sportello:
– Vai, vai per Dio.
Il camion accelera ed è costretto a virare a destra, appena varcata la soglia del cancello. Abdallah è lì, con le braccia allargate e una specie di sorriso rabbioso in faccia. Il veicolo inchioda all’improvviso. Nessuno vede più Abdallah.
È finito sotto.
L’autista scende con le mani nei capelli. I colleghi dell’egiziano accorrono e ognuno urla frasi senza senso, sono urla solitarie, nessuno sa che fare.
Qualcuno si infila sotto al camion e comincia a tirare fuori il corpo di Abdallah. Il capetto che incitava l’autista lo ha preso per una spalla e lo ha trascinato via, dentro il magazzino, per sottrarlo alla rabbia della gente che da lì a poco sta per esplodere. Un altro dirigente è salito sul camion e ha cominciato lentamente a spostare il mezzo, riportandolo in retromarcia verso la soglia del cancello; qualcuno degli scioperanti è salito sul predellino e batte i pugni sul vetro, gridandogli di non spostare il camion, tutto deve rimanere com’era. La Polizia ha chiamato subito il 118, c’è un furore incredulo, tutti si toccano, si abbracciano, si spintonano, maledicono i padroni e le guardie, molti piangono e si guardano intorno come in un sogno bizzarro e cattivo. Abdallah è morto sul colpo.
I segni dell’urto sono tremendi, gli occhi riversi verso l’alto, una gamba piegata in modo innaturale. I colleghi lo osservano attoniti, ipnotizzati, con le mani in faccia, qualcuno con le lacrime agli occhi tira fuori il cellulare e trova il coraggio di filmare: – devono vedere quello che ci fanno, devono vedere tutti, come ci hanno ridotto.
Abdallah è riverso a terra, schiacciato e impotente, come le loro vite da 6 euro lordi all’ora.

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Senza chiedere permesso https://www.carmillaonline.com/2015/02/19/senza-chiedere-permesso/ Thu, 19 Feb 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20768 di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, [...]]]> di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, si occupa di produzione e post-produzione cinematografica (in pellicola e video) su un terreno di impegno militante in quel di Torino. Mentre Piero Perotti, oggi ufficialmente pensionato, è una delle memorie storiche della classe operaia piemontese e delle azioni sindacali e sociali, messe in atto per migliorarne le condizioni di lavoro e di esistenza e per contrastare le “bronzee leggi” del capitale, fin dagli anni sessanta.

Insieme e nel corso di diversi anni hanno raccolto una serie di materiali straordinari sulla lotta di classe a Mirafiori, fuori e dentro la fabbrica, tra il luglio del ’69 e l’autunno del 1980.
Molte immagini, collezionate all’interno del film, provengono dalla cinematografia militante di quegli anni, ma ciò che costituisce il cuore di questo documento audiovisivo è dato dalle immagini “rubate” dallo stesso Perotti alle manifestazioni operaie e ai cancelli dello stabilimento Fiat con la piccola cinepresa portatile che aveva deciso di procurarsi proprio a tale fine.

In un’età di tablet, smart-phone, telecamere portatili o miniaturizzate in qualsiasi cellulare e di selfie, ci si dimentica troppo facilmente quanto fosse difficile, qualche decennio addietro, documentare gli eventi. Anche quelli che, a differenza di quelli fin troppo documentati di oggi, erano destinati a cambiare il rapporto tra le classi a favore dei diseredati.

Tra il 1969 e gli anni settanta, la classe operaia di uno dei più grandi stabilimenti automobilistici del mondo cambiò le regole del gioco. Le immagini del film ce ne trasmettono tutta la potenza, la creatività, anche la violenza spesso sufficientemente espressa, quest’ultima, più in potenza che in atto. Fu, in quegli anni, la classe operaia torinese l’epicentro di uno scontro globale che fece tremare le fondamenta dell’edificio costruito sulla base dello sfruttamento di classe.

Per questo, più tardi nel 1980, avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo. Avrebbe dovuto essere spogliata della sua capacità di resistenza, organizzazione ed iniziativa, politica e sindacale, per essere restituita, nuda, alle sue condizioni iniziali di sottomissione e dipendenza dall’iniziativa avversaria.

Il film documenta benissimo, in maniera spesso commovente, soprattutto per chi ha vissuto quegli anni alle porte della FIAT, tutto ciò. La formazione di una coscienza, lo sviluppo delle lotte e della solidarietà di classe, la capacità di reagire uniti su richieste egualitarie ed unificanti e quella di reagire alle provocazioni messe in atto dall’azienda, dai crumiri, dai fascisti e dalla polizia. Una forza immensa era entrata nell’arena della Storia; sì, proprio quella con la S maiuscola.

Donne e uomini, immigrati meridionali e lavoratori piemontesi lottavano uniti, creavano uniti un nuovo modo di fare politica ed attività sindacale, marciavano uniti per le strade prima del quartiere, poi della città. Una città dormitorio che si risvegliava a se stessa, riscoprendo l’orgoglio della classe operaia del primo novecento, del Biennio Rosso, degli scioperi spontanei del ’43 e della lotta antifascista. La storia di quella Torino, operaia e socialista, che aveva contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci e della nascita, insieme a Napoli, del Partito Comunista d’Italia.

Tutto questo, forse, molti di quegli operai l’avrebbero imparato dopo, eppure ripresero il cammino proprio là dove era stato interrotto dalle repressione antisindacale ed antioperaia, ancor prima che anticomunista, degli anni cinquanta. E che aveva visto un primo, selvaggio risveglio, fuori da qualsiasi direttiva partitica o sindacale, proprio nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962.

Molti di loro erano in fabbrica da anni, molti, forse i più, erano entrati alla Fiat in seguito alla recente emigrazione dal Sud o al rientro dalle fabbriche tedesche. Simili a una moderna creatura di un capitalismo novello dottor Frankenstein, avevano imparato ad odiare il proprio creatore e a combatterlo. Ovunque, dentro e fuori gli stabilimenti.

I cortei interni, le perquisizioni dei guardiani alle porte, i volantinaggi, i fuochi dei picchetti, gli studenti con i giornaletti dell’estrema sinistra, il blocco della produzione, gli scioperi spontanei: tutto è documentato con un ritmo serrato, accompagnato dalla narrazione personale e vivace di Pietro Perotti. Così che, ancora una volta, la memoria personale si mescola con la memoria di classe, rifondandola. Come quasi sempre accade.

Non nei testi accademici, non nelle tesi di Partito, non nelle logiche politiche e nelle strategie sindacali, ma nella voce narrante, ancor più che in qualsiasi forma scritta, noi ritroviamo la memoria e la Storia delle classi subalterne. Subalterne soprattutto sul piano della comunicazione. Soprattutto là dove la comunicazione è scritta, dove la sintassi è ancora un’arma del padrone e, ancor più, lo è lo strumento televisivo, o radiofonico come ai tempi del Duce.

Per questo il gesto di Pietro, comperare ed imparare ad usare una piccola cinepresa, diventa così grande ed importante. Non solo per noi che, ora, possiamo usufruire di quelle straordinarie immagini, ma anche per l’epoca. Un’altra barriera veniva abbattuta, appunto senza chiedere permesso, precedendo di poco la nascita delle radio libere. La lotta operaia, ancora una volta, inventava una nuova cultura e nuova comunicazione. Di cui Pietro si fece portatore anche negli anni successivi all’abbandono della fabbrica, attraverso i suoi manifesti e i suoi mascheroni che accompagnano ancora tante manifestazioni.

marx alle porteSuo era il grande ritratto di Marx che, appeso alle porte della palazzina di Mirafiori, avrebbe assistito, ammutolito e attonito, all’ultima battaglia degli operai della città-fabbrica. La più amara.
Quella in cui si consumarono, durante i 37 giorni dell’autunno del 1980, tutti i tradimenti sindacali e politici possibili. Quella con cui l’intera classe dirigente italiana , a partire dalla famiglia Agnelli fino al PCI di Berlinguer, aveva deciso di restaurare l’ordine e il comando sulla forza lavoro. Con un costo altissimo per tutta la classe operaia italiana.

E, sotto questo punto di vista, le immagini parlano e dicono più di ogni commento. Negli anni precedenti i lavoratori di Mirafiori avevano occupato il territorio. Erano diventati punto di riferimento per gli operai di tutto l’indotto Fiat e per quelli degli altri settori produttivi. Per gli studenti, gli operai, per i soldati inquadrati nei Proletari in divisa, per ogni settore della società. Avevano guardato fuori, al mondo e lo avevano fatto proprio.

Nei 37 giorni, tra il 10 settembre e il 16 ottobre 1980, gli operai che sono fuori dalle officine guardano verso l’interno della fabbrica. Un rovesciamento di prospettiva che prelude soltanto alla sconfitta. I grandi viali sono alle loro spalle e sono esclusi dalle officine. Guardano il balletto degli oratori, con capofila Berlinguer e i leader sindacali, che altro non fanno che illuderli e deviarli verso la resa. Che avverrà con una votazione truffa dopo la marcia dei quarantamila. Truffaldina anche quella, nei numeri e nei partecipanti.

I capi sono stati affluire da tutta Italia. In realtà non sono più di 10 – 12.000 (questa anche la prima cifra ufficiale della prefettura). Il corteo ha un carattere decisamente reazionario e antioperaio […] Nel pomeriggio,incontro Fiat -sindacati. Alle 22,30 la segreteria GGIL- CISL – UIL e la FLM vanno <<all’accertamento dell’ipotesi conclusiva>>. Tre ore di corteo di 12.000 capi sembrano valere di più per Lama, Carniti e Benvenuto, di 35 giorni di lotta di 100.000 operai e di milioni di lavoratori scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia […] All’alba (giorno successivo) l’apparato del PCI è mobilitato ai cancelli per convincere i suoi militanti che bisogna accettarla1

La marcia dei 40.000, che nel 1980 segnò i destini della lotta dei 35 giorni alla Fiat si sarebbe potuta fermare, non farla neanche partire”. E’ quello che sostiene Pietro Perotti nel film. E probabilmente ha ragione, ma sarebbe occorso che gli operai della fabbrica più grande d’Italia tornassero a fare quello che avevano fatto nel decennio precedente, ogni volta che si era presentata l’occasione: occupare le strade e la città.

Ma in quel momento, una volta allontanati dalle officine, con gli arresti o i licenziamenti, tutti coloro che avevano guidato le lotte, i reparti non reagirono più allo stesso modo. La stanchezza e la sfiducia presero il posto del coraggio, della sfida e della lotta. Con una sapiente regia del sindacato e del Partito comunista. Soprattutto della federazione torinese del Partito che annoverava tristi figuri del calibro di Piero Fassino e di Giuliano Ferrara.

Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso a Melfi, in quel che rimane degli stabilimenti torinesi, nel job act e nella spocchia di Marchionne e di Renzi. Quello fu un appuntamento storico e tutti i carnefici di adesso possono rallegrarsi ancora di quella sconfitta.
A noi rimangono la memoria di momenti gloriosi e di volti magnifici. Sconosciuti e conosciuti che, per chi ha avuto la fortuna di vivere quegli anni e quelle lotte, non possono non far spuntare lacrime di nostalgia, di tenerezza e di rabbia. Che ci accompagneranno sempre.

Il film, però, come si diceva all’inizio, per essere completato ha bisogno anche del vostro aiuto. Parzialmente finanziato dalla Fiom-CGIL, grazie alla disponibilità dimostrata all’epoca della sua ideazione da Giorgio Airaudo, ha oggi bisogno del soccorso di contributi in crowd funding.
Per questo gli autori vi chiedono di sottoscrivere la loro raccolta fondi inviando un bonifico all’Iban qua sotto, specificando nella causale:
SENZACHIEDEREPERMESSO, con il vostro nome e indirizzo mail
intestato a:
Cinefonie.
Banco Desio
IT28V0344001000000000490500

In ricordo di Rocco Papandrea, Raffaello Renzacci, dei militanti operai di Lotta Continua e di tutti gli altri 70.000 che fecero tremare il mondo per il solo fatto di esistere e lottare, coscienti e auto-organizzati.


  1. Con Marx alle porte. I 37 giorni alla FIAT, Nuove Edizioni Internazionali, Milano novembre 1980, pp. 41-42  

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