Lotta Continua – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura / 4: Germania e Stati Uniti 1918-1934 (e oltre) https://www.carmillaonline.com/2025/01/15/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-4-germania-e-stati-uniti-1918-1934-e-oltre/ Wed, 15 Jan 2025 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86478 di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale [...]]]> di Sandro Moiso

Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro

Si spiega in questa occasione la scelta del titolo di una serie di articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a diversi elettori. L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver dato l’idea di una forzatura letteraria ed ideologica nei confronti di un tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta la gioia, la passione e di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.

A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.

Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.

Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Ed è a questo punto, agli albori della cosiddetta rivoluzione tedesca, che la narrazione delle sue “avventure” ha inizio. Così, nella conversazione con Michael Buckmiller pubblicata in parte come ottavo capitolo del testo, Paul Mattick, a proposito di quei primi anni di militanza giovanile, afferma:

Nel mio percorso non c’è stata nessuna rottura. Come se ci fossero in un primo momento la pratica e il gusto dell’avventura e poi, una volta soddisfatte le condizioni materiali, il lavoro teorico. No, tutto si limitava ad una questione di tempo. Ci mancava proprio questo per capire di più le cose. […] C’era la pratica, ma c’era anche la teoria. Non si entrava nell’organizzazione Freie Sozialistiche Jugend come se si andasse ad un club di ginnastica. […] Comunque sia, se avessimo avuto più tempo per noi, se non avessimo dovuto lavorare molte ore1, è certo che saremmo stati molto più maturi sul piano teorico. Abbiamo cercato, nelle condizioni che ci venivano imposte, di crescere intellettualmente. Ma, nello stesso tempo, c’era un movimento operaio reale, di cui facevamo parte, e che cercava la sua via rivoluzionaria2.

Sono significative queste affermazioni di uno dei più importanti teorici del comunismo di sinistra sull’importanza del legame tra lavoro teorico e prassi rivoluzionaria e su come il primo sia spesso appannaggio di coloro che non devono prestare molte ore alla fatica del lavoro di fabbrica o salariato. Una separazione che troppo spesso ha visto riflettersi anche nelle organizzazioni rivoluzionarie la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale tipica dell’organizzazione del lavoro di stampo capitalistico. Separazione che soltanto una pratica rivoluzionaria attiva e in un contesto favorevole al suo sviluppo può superare, di cui la pratica consiliarista fu certamente espressione.

In realtà tutto il testo si basa principalmente, come spiegano Laure Batier e Charles Reeve nella Postfazione, su quanto riportato da due interviste concesse da Paul Mattick, a Claudio Pozzoli, il 7 ottobre 1972 ad Amsterdam, e al già citato Michael Buckmiller, dal 21 al 23 luglio 1976 nel Vermont dove risiedeva fin dai pri anni ‘50. Interviste riorganizzate tra di loro, grazie anche al sostegno del figlio del comunista tedesco-americano, Paul Mattick Jr.

Dopo le prime “avventure” giovanili durante le quali il giovane Paul, dopo aver aderito al KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands), il Partito comunista operaio tedesco nel quale iniziò a militare nelle fila dell’organizzazione giovanile Rote Jugend scrivendo per il suo giornale, rischiò di essere ancora più volte arrestato e ucciso, rimasto senza lavoro e impossibilitato a trovarlo per motivi “politici” e deluso dalla normalizzazione seguita all’avvento della Repubblica di Weimar il nostro, nel 1926, si vide costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Da dove continuò comunque a mantenere i rapporti sia con il KAPD che con l’AAUE (Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation), l’organizzazione sindacale “unitaria” fondata da Otto Rühle, all’interno della quale aveva precedentemente stabilito contatti con intellettuali, scrittori e artisti che lavoravano per la stessa.

Giunto negli Stati Uniti Mattick avrebbe ritrovare là un’occupazione come operaio, sia dedicarsi agli studi e a quel lavoro teorico che lo avrebbe portato nel giro di qualche decennio a diventare uno dei maggiori esponenti del comunismo di sinistra e dei consigli. Nel fare questo, però, non si allontanò mai dal lavoro organizzativo che si manifestò sia attraverso il tentativo, una volta giunto a Chicago sul finire degli anni Venti, di unire le diverse organizzazioni di lavoratori tedeschi, cercando di far rivivere nel 1931, ma senza successo, il «Chicagoer Arbeiter-Zeitung», un giornale carico di tradizione, sia attraverso il suo avvicinamento, per un certo periodo, agli IWW, gli Industrial Workers of the World, unico sindacato rivoluzionario unitario al di sopra delle differenziazioni di mestiere, categoria o appartenenza nazionale e razziale.

Nel 1934 Mattick, con alcuni apparteneti agli IWW e alcuni militanti espulsi dal PPA, Partito Proletario d’America, fondò il Partito dei Lavoratori Uniti (United Workers Party), poi ribattezzato Gruppo dei Comunisti dei consiglio (CCG). Organizzazione che rimase in stretto contatto con i gruppi i della sinistra comunista sopravvissuti in Germania e pubblicò l’«International Council Correspondence», giornale in cui erano pubblicati articoli e dibattiti provenienti dall’Europa insieme alle analisi economiche ed i commenti politici critici di temi d’attualità negli USA e in altre parti del mondo. Poiché nella seconda metà degli anni trenta il comunismo dei consigli europeo fu costretto a darsi alla clandestinità per poi scomparire formalmente, dal 1938 Mattick cambiò il nome della rivista, di cui era il principale collaboratore, in «Living Marxism» e, dal 1942, in «New Essays».

Nonostante il fallimento dei suoi tentativi di riorganizzare il movimento operaio di quegli anni, Mattick ebbe comunque il modo sia di avvicinarsi maggiormente alle opere di Henrik Grossman sulla teoria della crisi in Marx3, sia di stringere amicizia e collaborare con Karl Korsch, altro teorico della sinistra comunista e non leninista, proprio per il tramite della rivista «New Essays»4.

Fu però, in quegli anni, proprio per l’esperienza prima a fianco del vasto movimento dei disoccupati creatosi negli Stati Uniti a partire dalla Grande crisi del 1929 e negli anni successivi e poi in seguito ai provvedimenti economici e sociali del New Deal roosveltiano, che Mattick maturò e affinò maggiormente le sue analisi sul movimento operaio e la critica al pensiero economico di Keynes e la sua applicazione in chiave riformistica e neo-capitalistica, redigendo una serie di note critiche e articoli contro la teoria e la pratica keynesiane. Lavoro in cui sviluppò ulteriormente la teoria dello sviluppo capitalista di Marx e Grossmann al fine di rispondere criticamente ai nuovi fenomeni e forme del capitalismo moderno..

Pur escluso dai circoli intellettuali legati alle Università e pur trovandosi nuovamente, a partire dal 1940, in gravi difficoltà sia economico-lavorative che personali, Paul riuscì a continuare ostinatamente e, si potrebbe dire, in direzione contraria sia alla fiducia nel riformismo del piano di Roosvelt che del leninismo ormai trasformato in marxismo-leninismo dallo stupro teorico e politico operato in quegli anni dallo stalinismo, a sviluppare un lavoro teorico che ancora alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta lo avrebbe fatto riscoprire sia dai movimenti studenteschi che da quelli radicali di classe sia al di qual che al di là dell’Oceano Atlantico5. E proprio nell’intervista a Lotta Contimua del 1977, egli avrebbe saputo sintetizzare al meglio la sua critica al keynesismo, inquadrandola nella crisi economica della seconda metà degli anni Settanta.

“Prima del 1930 ai periodi di depressione si rispondeva con procedure deflazionistiche, cioè lasciando che le “leggi del mercato” svolgessero il loro compito nell’aspettativa che prima o poi il declino dell’attività economica avrebbe finito col ripristinare l’equilibrio perduto tra domanda e offerta e rilanciato così la redditività capitale. La crisi del 1930, tuttavia, era troppo profonda e troppo estesa per permettere ai modi tradizionali di affrontarla. Si rispose con procedure inflazionistiche, cioè con interventi governativi nel meccanismo di mercato, fino al punto di giungere a una ristrutturazione dell’economia mondiale attraverso una centralizzazione forzata dei capitali nazionali più deboli che con una vera e propria distruzione di una frazione cospicua dei capitali nazionali sia nella forma monetaria che in quella fisica. Finanziato mediante disavanzi pubblici, cioè, con metodi inflazionistici, i risultati erano ancora deflazionistici, ma su un piano molto più ampio di quanto non fosse stato realizzato in precedenza facendo affidamento passivo sulle “leggi del mercato”. Il lungo periodo di depressione e la seconda guerra mondiale, e il conseguente enorme distruzione di capitale, hanno così creato le condizioni per un periodo straordinariamente lungo di espansione del capitale nelle principali nazioni occidentali.
Sia la deflazione che l’inflazione hanno portato quindi allo stesso risultato, una nuova ripresa dei capitali, e successivamente e alternativamente utilizzati nel tentativo per garantire la stabilità economica e sociale appena conquistata. Indubbiamente, è possibile tramite il finanziamento del deficit, cioè attraverso il credito, ravvivare un’economia stagnante. Ma è non è possibile mantenere in questo modo il saggio di profitto sul capitale e quindi perpetuare le condizioni di prosperità. Era quindi solo questione di tempo prima che il meccanismo di crisi della produzione di capitale si ripeta. Ormai è ovvio che la mera disponibilità di credito per espandere la produzione non è una soluzione alla crisi, ma un una politica di ripiego fugace con effetti “positivi” soltanto temporanei. Che, se non seguito da una vera e propria ripresa dei capitali basata su maggiori profitti, deve obbligatoriamente crollare su sé stessa. Il “rimedio keynesiano” ha portato semplicemente a una nuova situazione di crisi con crescente disoccupazione e crescente inflazione, entrambe ugualmente dannose per il capitalismo”.

Sempre allineato con la difesa dell’iniziativa spontanea e cosciente dei lavoratori e contrario all’intervento esterno in chiave partitico-settaria all’interno del movimento operaio, Mattick, nella stessa intervista avrebbe criticato l’ideologia e la pratica della lotta armata, senza rinnegare però la violenza necessaria per la difesa degli interessi di classe oppure per il ribaltamento offensivo delle condizioni dello sfruttamento capitalistico e della sua organizzazione sociale.

“La violenza è immanente al sistema e quindi una necessità sia per il lavoro che per il capitale. La borghesia può governare solo in virtù del suo controllo sui mezzi di produzione, quindi deve difendere questo controllo con mezzi extra-economici, attraverso il suo monopolio sui mezzi di soppressione. Già il rifiuto di lavorare svuota di significato il possesso dei mezzi di produzione, poiché è solo il processo lavorativo che produce il profitto capitalistico. Una “pura” la lotta “economica” tra lavoro e capitale è quindi fuori questione; la borghesia completerà sempre questa lotta con la violenza, dovunque essa minacci seriamente la redditività del capitale. Non consta ai lavoratori di scegliere tra metodi non violenti e violenti di lotta di classe. È la borghesia, in possesso dell’apparato statale, che determina quale sarà in qualsiasi occasione particolare. Alla violenza si può rispondere solo con la violenza, anche se le armi sono estremamente disuguali. Non entra qui in gioco alcuna questione di principio, ma solo la realtà della struttura sociale di classe e dello sviluppo delle sue contraddizioni.
Tuttavia, la domanda che ci si pone è se gli elementi radicali delle lotte anti-capitalistiche dovrebbero prendere l’iniziativa nell’uso della violenza, invece di lasciare la decisione alla borghesia e ai suoi mercenari. Potrebbe esserci situazioni, certo, che trovano la borghesia impreparata e dove uno scontro violento con le sue forze armate potrebbe favorire i rivoluzionari. Ma tutta la storia del radicalismo mostra chiaramente che tali eventi accidentali non sono di alcuna utilità. In ambito militare in termini di condizioni, la borghesia avrà sempre il sopravvento, a meno che il movimento rivoluzionario non sia assume proporzioni tali da incidere sullo stesso apparato statale, scindendo o sciogliendo le sue forze armate. È solo in concomitanza con grandi movimenti di massa, che disgregano totalmente il tessuto sociale, che diventa possibile strappare i mezzi di produzione e con questo giungere alla soppressione delle classi dominanti.
È per questo motivo che è così pericoloso insistere sulla non violenza e fare della violenza il privilegio esclusivo del classe dirigente. Ma qui parliamo di situazioni molto critiche, non come quelle che esistono attualmente nei paesi capitalistici, e anche di forze grandi e sufficientemente armate in grado di condurre la loro lotta per un periodo di tempo considerevole. In mancanza di tale situazioni critiche, tali azioni non sono altro che un suicidio collettivo, non sgradito alla borghesia. Possono essere apprezzati in termini morali o anche estetici, ma non servire al corso della rivoluzione proletaria, se non entrando nel folklore della rivoluzione.”

Tra le sue opere di maggior rilievo vanno infine ricordate Marx and Keynes. The Limits of Mixed Economy del 19696, che venne tradotta in diverse lingue, così come Critique of Herbert Marcuse: The one-dimensional man in class society, saggio sulla celebre opera di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), in cui Mattick respinse con forza la tesi di Marcuse secondo la quale il “proletariato”, così come Marx lo aveva inteso, era diventato un “concetto mitologico” nella società capitalista avanzata.

Chi scrive si è allontanato dalle pagine del libro di Mattick e sulla sua esperienza, ma ciò che è indubitabile è il fatto che fino alla fine dei suoi giorni il rivoluzionario comunista guardò il mondo tanto con uno sguardo “oggettivo” rivolto alla comprensione critica dell’esistente e delle difficoltà insite in esso per lo sviluppo di un movimento rivoluzionario quanto con quello limpido e “soggettivo” di chi sogna la più grande e irrinunciabile delle avventure.


  1. Il riferimento è al fatto che Paul Mattick era entrato giovanissimo come apprendista alla Siemens e successivamente, all’età di 17 anni, alla Klöckner-Humboldt-Deutz di Colonia, dove rimase fino al suo licenziamento a causa dell’organizzazione degli scioperi e della partecipazione ai moti insurrezionali che condussero anche al suo arresto.  

  2. P. Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 124–125.  

  3. H. Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Jaca Book, Milano 1976 (ed.originale Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems. (Zugleich eine Krisentheorie) – 1929.  

  4. Si vedano gli scritti contenuti in P. Mattick, K. Korsch, H. Langerhans, Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays» (scritti 1934–1943), a cura di G. Bonacchi e C. Pozzoli, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1976.  

  5. Per quanto riguarda l’Italia, oltre a uelli già citati, si vedano Ribelli e rinnegati. Il ruolo degli intellettuali e la crisi del movimento operaio, (a cura di C. Pozzoli), Musolini editore, Torino 1976; Crisi e teorie della crisi (testi di Paul Mattick, Christoph Deutschmann e Volkhard Brandes; trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979; Critica dei neomarxistii (trad. it. di Giuseppe Mininni), Dedalo, Bari 1979 e Il marxismo ultimo rifugio della borghesia? Scritti scelti (a cura di Antonio Pagliarone), Sedizioni, Milano 2008, si veda l’intervista pubblicata sul quotidiano Lotta Continua ancora nell’ottobre 1977 (qui)  

  6. P. Mattick, Marx and Keynes. The limits of the mixed economy, Boston, Porter Sargent Publisher, 1969 (edito in Italia come Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, trad. it. di Luigi Occhionero, De Donato, Bari 1969)  

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Quando tutto è possibile: a 50 anni dalla rivoluzione portoghese. Intervista a Giulia Strippoli https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/quando-tutto-e-possibile-a-50-anni-dalla-rivoluzione-portoghese-intervista-a-giulia-strippoli/ Wed, 24 Apr 2024 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82134 di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla [...]]]> di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla produzione. Nei quartieri nascono le commissioni degli abitanti che gestiscono occupazioni, asili nido e centri polifunzionali in cui vengono erogati mutualisticamente servizi di ogni tipo. Infine sorgono le commissioni dei soldati con cariche elettive e revocabili, come in tutti gli altri casi. Si tratta di una trama sociale di organismi autonomi dai partiti e dal sindacato unico neocorporativo che ricordano i soviet russi del 1905 e del 1917, i consigli italiani del 1919-20 e quelli cileni del 1972-73. È un potere parallelo che pratica la democrazia di base e compete con quello dello stato per diciannove mesi, cioè fino al colpo di stato del 25 novembre 1975 in seguito al quale la situazione politica è ricondotta entro i binari della democrazia parlamentare. Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – ha dedicato alla rivoluzione portoghese due saggi contenuti in un volume scritto insieme a Sandro Moiso, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico (Mimesis 2024).

Cosa sanno oggi i portoghesi della rivoluzione del 1974-75?
Farei una distinzione tra il colpo di stato del 25 aprile 1974 che abbatte la dittatura e il periodo di mobilitazione rivoluzionaria più intensa chiamato Prec (Processo revolucionário em curso) che va fino al colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre del 1975, passando per sei governi provvisori e due tentativi di golpe reazionari, quello del 28 settembre 1974 e quello dell’11 marzo 1975.
La data del 25 aprile è consensuale: è una celebrazione trasversale, a differenza di quanto avviene in Italia per il giorno della Liberazione. Il consenso si deve in gran parte al fatto che il centro-destra non ha voluto rimanere escluso da una data così fondamentale. È consensuale come festa perché per alcuni – per le componenti di sinistra – fu la fine del fascismo e l’inizio della rivoluzione, per altri fu l’inizio della democrazia in Portogallo, associata all’idea di modernizzazione del paese. Il Prec, invece, è conflittuale perché nella sua analisi storica confliggono diverse interpretazioni: quelle che intravedevano la possibilità di un passaggio rivoluzionario ad un nuovo modo di produzione; quelle che affidavano alla rivoluzione il mero compito di far transitare il Portogallo dalla dittatura dell’Estado Novo alla democrazia parlamentare; quelle che vedono nei mesi rivoluzionari solo disordine e caos. Per questi motivi l’opinione pubblica portoghese è abbastanza informata sul 25 aprile e molto meno sul Prec.

Ci sono movimenti politici che si ispirano al Prec?
I due partiti che lo rivendicano sono Partito comunista portoghese – anche se ha contribuito alla sua sconfitta, avallando il colpo di stato del 25 novembre 1975 – e il Bloco de Esquerda, che si formò nel 1999 dalla convergenza di alcune organizzazioni di estrema sinistra di provenienza principalmente maoista e trotskista. Nell’uso pubblico della storia il Bloco si rifà spesso al Prec per evidenziare lo svuotamento neoliberista delle conquiste rivoluzionarie in materia di diritto alla salute, alla casa e al lavoro.

Giulia Strippoli

Perché ti sei occupata di questi temi?
Ho iniziato a studiare la storia del fascismo e della resistenza in Portogallo, di cui i manuali non parlavano, grazie a un corso seminariale di storia delle sinistre europee con Aldo Agosti, in cui commentavamo i capitoli del libro di Donald Sassoon Cento anni di socialismo. Il capitolo sulla fine dei regimi in Portogallo, Spagna e Grecia suscitò in particolare la mia attenzione. Poi mi dedicai al Sessantotto italiano e alla formazione della sinistra rivoluzionaria: durante il dottorato lessi le varie annate del quotidiano “Lotta continua” e venni a sapere da Enrico Artifoni, professore di Storia medievale, che qualche decennio prima, come tanti giovani militanti, era stato affascinato dalla rivoluzione portoghese, che centinaia di italiani erano andati in Portogallo per partecipare alla rivoluzione.

E così ti sei messa a studiare anche la parte più soggettiva di questa esperienza rivoluzionaria, cioè le memorie degli italiani che, per citare una frase di Sandro Moiso, andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo».
Ti racconto un aneddoto. Quando nel 2018 venne qui a Lisbona Franco Lorenzoni – uno di quei militanti italiani – andammo alla prima di uno spettacolo teatrale che poi è stato ripreso anche nel film documentario Rua do Prior 41 di Lorenzo d’Amico de Carvalho. In quella circostanza che stimolava i ricordi, mi venne l’idea di farlo parlare al telefono con una persona che aveva conosciuto più di quarant’anni prima condividendo l’esperienza straordinaria della rivoluzione. Si trattava di Lionello Massobrio, il regista di La vittoria è certa, un film incredibile sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola. Insomma, Lionello risponde al telefono e Franco fa: «Ciao Lionello, sono Franchino, ti ricordi?» Io mi commossi perché lui per me era Franco Lorenzoni, un uomo di più di sessant’anni, un ex militante rivoluzionario di Lotta continua, un maestro elementare. Quel diminutivo mi ha fatto rivedere il ventenne ancora presente all’interno dell’uomo maturo. È come se l’entusiasmo e lo stupore di aver assistito a quegli eventi non fossero stati scalfiti dal tempo.

Quali caratteristiche hai riscontrato nel leggere e nell’ascoltare questi racconti?
Mi ha sorpreso costatare che, a differenza di molti altri esempi storici, queste memorie non sono state amareggiate dalla sconfitta e dai difficili anni successivi. Inoltre non mi è capitato mai di assistere ad atteggiamenti reducistici e autocelebrativi. Quei giovani di cinquant’anni fa non si sono trincerati nella retorica dell’ultima possibilità. Le memorie sono tutte soggettive, ma sono anche generalizzabili. Io ci vedo uno spaccato generazionale.

Cosa può ancora insegnare la rivoluzione portoghese a chi è attivo nelle lotte sociali?
Ci insegna che la storia non è lineare e la spontaneità delle masse rende possibili le cose più incredibili: i militari dicono alla popolazione «restate a casa, ci pensiamo noi» e invece la gente scende in piazza e rivoluziona tutto: fabbriche, banche, scuole, università, teatri, compagnie aeree, acqua, elettricità. Questa sensazione che con la rivoluzione tutto diventa possibile è fortissima nella memoria degli italiani che parteciparono agli eventi del 1974-75. Posso raccontarti un altro aneddoto?

Basílica da Estrela, Lisbona

Certo.
Lo riprendo da un memoriale di Lionello Massobrio che meriterebbe di essere pubblicato. Qualche giorno prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, confessa a un militare rivoluzionario che gli sarebbe piaciuto andare in quel paese dove infuriava la guerra civile e da cui tutti i portoghesi scappavano. Il militare positivamente sorpreso da questa manifestazione di coraggio (o d’incoscienza) gli dà un biglietto scarabocchiato e gli dice di consegnarlo in una caserma dell’aviazione militare sulla collina. Lì sarebbe arrivato un Boeing che avrebbe portato lui e il suo cameraman in Africa. Lionello rimane molto perplesso e insospettito dalla semplicità con la quale il suo desiderio sembrava realizzarsi. Era sicuro di finire in qualche guaio, forse in prigione.

E invece?
Invece l’aereo arriva, scarica i militari in fuga dall’Angola e imbarca i due cineoperatori che viaggiano da soli nella pancia del velivolo fino a destinazione, senza controllo di bagagli, né di passaporti.

Mi sembra un’ottima metafora di come i processi rivoluzionari rendono possibili cose impensabili.
Già, e pensa che a destinazione ritrovarono persino un loro amico del Mir cileno che gli organizza una festa di benvenuto.

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Portogallo 1974-75: la rivoluzione rimossa https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/portogallo-1974-75-la-rivoluzione-rimossa/ Sun, 07 Apr 2024 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82054 di Luca Cangianti

Sandro Moiso, Giulia Strippoli, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico 1974-1975, Mimesis, 2024, pp. 184, € 18,00.

La rivoluzione portoghese ha avuto i colori dei tramonti di Lisbona, la struggente bellezza delle nuvole che corrono instancabili sul Tago. Il suo congedo fu accompagnato dalle grida dei gabbiani che inseguono una nave e si spengono lentamente all’orizzonte. Quegli eventi fecero intravedere una possibile alternativa di vita nell’Europa meridionale dove la Grecia si era da poco liberata dalla dittatura dei colonnelli, l’Italia era ancora scossa dal sisma sociale iniziato alla fine degli anni sessanta e la [...]]]> di Luca Cangianti

Sandro Moiso, Giulia Strippoli, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico 1974-1975, Mimesis, 2024, pp. 184, € 18,00.

La rivoluzione portoghese ha avuto i colori dei tramonti di Lisbona, la struggente bellezza delle nuvole che corrono instancabili sul Tago. Il suo congedo fu accompagnato dalle grida dei gabbiani che inseguono una nave e si spengono lentamente all’orizzonte. Quegli eventi fecero intravedere una possibile alternativa di vita nell’Europa meridionale dove la Grecia si era da poco liberata dalla dittatura dei colonnelli, l’Italia era ancora scossa dal sisma sociale iniziato alla fine degli anni sessanta e la Spagna assisteva all’agonia del franchismo.
Nell’opinione pubblica portoghese il giorno della liberazione dal fascismo – il 25 aprile del 1974 di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario – è una ricorrenza più consensuale di quanto non sia il 25 aprile del 1945 in Italia: è il trionfo dello stato di diritto sopra l’oscurantismo dell’Estado Novo, la vittoria della democrazia parlamentare, dei diritti civili e dell’integrazione europea sopra il sottosviluppo, la tortura e il colonialismo. La rivoluzione portoghese è stata anche questo, ma una sua parte fondamentale viene sottaciuta o relegata a una parentesi di momentanea follia, quasi una febbre di crescita, alla fine debellata con il colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre 1975.

Per far riemergere la complessità e la ricchezza di quell’evento, da pochi giorni è in libreria Riti di passaggio, un’introduzione agile e godibile non solo dei diciannove mesi rivoluzionari, ma anche dell’immaginario politico che li accompagnò. Gli autori sono Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – e Sandro Moiso – redattore di “Carmilla”, nonché studioso di questioni belliche e di cultura nordamericana. In un primo saggio Strippoli tratteggia le caratteristiche del fenomeno storico: si inizia dalla contestazione corporativa di un provvedimento che penalizzava la posizione dei quadri medi e intermedi dell’esercito e si continua con uno strano colpo di stato libertario volto a metter fine a una guerra coloniale di tredici anni, ormai destinata alla sconfitta. I governi provvisori che seguono devono far fronte sia a vari tentativi controrivoluzionari di destra che all’esplosione della conflittualità sociale: i lavoratori entrano in sciopero per migliorare le loro condizioni di vita, gli abitanti delle baraccopoli occupano le case sfitte, i braccianti s’impadroniscono dei latifondi, i soldati si ribellano alle gerarchie ed esprimono istanze di contropotere all’interno delle caserme. In questo modo le forze armate diventano inutilizzabili ai fini della repressione del conflitto sociale; nascono organismi consiliari di doppio potere che esercitano una democrazia di base diversa dal parlamentarismo: organizzano asili nido, costruiscono case, gestiscono fabbriche, refettori, hotel, teatri e quartieri interi. Tutti i principali partiti politici, perfino quelli di destra, si dichiarano “socialisti” per godere di una qualche accettabilità sociale, anche se la reazione – appoggiata dal capitalismo atlantico ed europeo – si riorganizza intorno al Partito socialista, alla chiesa cattolica e ad alcune organizzazioni clandestine che cominciano a piazzare ordigni esplosivi in varie parti del paese. La situazione si fa insostenibile, una manifestazione di operai edili arriva ad accerchiare l’assemblea costituente sequestrando i deputati. Ormai l’alternativa è tra il passaggio a un nuovo assetto di potere rivoluzionario o il ristabilimento della disciplina militare mediante un colpo di stato controrivoluzionario. La seconda opzione si concretizza il 25 novembre 1975, senza che sia minimamente contrastata dal Partito comunista portoghese – che ne avrebbe avuto i mezzi. L’ordine è ristabilito e nel corso degli anni ottanta le conquista più avanzate della rivoluzione portoghese – di cui alcune inserite in costituzione – vengono cancellate nell’ambito di una classica democrazia capitalistica.
In un secondo saggio la ricercatrice analizza l’impatto che la rivoluzione portoghese ebbe nella vita della maggiore tra le organizzazioni dell’estrema sinistra italiana: Lotta continua. Questa dette ampia e approfondita copertura giornalistica degli eventi portoghesi mediante il suo quotidiano, aprì perfino una sua sede a Lisbona in Rua do Prior 41 e a organizzò manifestazioni di decine di migliaia di persone sia in Portogallo che in Italia. E qui interviene Sandro Moiso che, oltre al saggio introduttivo, inserisce nel volume un suo memoir. Questo permette al lettore di rivivere le emozioni e i sogni di tutti quei giovani italiani che in treno, in automobile e in aereo andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo». Nella lettura di queste pagine – a tratti liriche, mai retoriche o nostalgiche – abbiamo tutti vent’anni, viaggiamo in una Dyane, inspiriamo gli odori primaverili mescolati a quelli del baccalà e delle sardine alla brace, ci innamoriamo, assaltiamo l’ambasciata spagnola colmi di rabbia per i compagni baschi garrotati, mangiamo insieme ai lavoratori della Lisnave intorno a tavolate infinite, percorriamo Lisbona sui blindati dei militari rivoluzionari con il pugno al cielo e baci per tutti.
Scrive Moiso: «la rivoluzione è qualcosa che va oltre la mera vittoria. Sostanzialmente è una promessa e, spesso, non importa che sia mantenuta. Una rivoluzione vive mentre si compie. Come una divinità è frutto delle speranze degli uomini. Come una divinità invisibile si manifesta attraverso le loro azioni. Come una religione sarà sistemata solo più tardi, a parole. Come una religione può morire e scomparire per poi rinascere sotto altre spoglie.»

Chi nel profondo del proprio cuore, nelle tenebre di un presente di guerra, sfruttamento e umiliazione, spera in questa resurrezione laica, legga Riti di passaggio. Capirà che val la pena tener duro.

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Bobby, come lo spieghiamo il comunismo? https://www.carmillaonline.com/2024/03/24/bobby-come-lo-spieghiamo-il-comunismo/ Sun, 24 Mar 2024 20:45:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81851 di Luca Cangianti

Come si diventa rivoluzionari? Leggendo l’autobiografia di Angela Davis? Risolvendo un sistema di equazioni? Ascoltando una canzone? Innamorandoci davanti a un fuoco sulla spiaggia? Un giorno lo chiedo a quello che considero essere il mio fratello maggiore: Roberto Maurizi, per i compagni e le compagne: Bobby. Lui tergiversa un po’ e poi mi dice: «Gli operai edili erano in sciopero per il rinnovo contrattuale e avevano organizzato un corteo. Era il 9 ottobre del 1963 e pioveva. La polizia aveva caricato e i dimostranti si rifugiarono nel mio liceo, il Cavour. Con i compagni di classe ci fermammo a [...]]]> di Luca Cangianti

Come si diventa rivoluzionari? Leggendo l’autobiografia di Angela Davis? Risolvendo un sistema di equazioni? Ascoltando una canzone? Innamorandoci davanti a un fuoco sulla spiaggia?
Un giorno lo chiedo a quello che considero essere il mio fratello maggiore: Roberto Maurizi, per i compagni e le compagne: Bobby. Lui tergiversa un po’ e poi mi dice: «Gli operai edili erano in sciopero per il rinnovo contrattuale e avevano organizzato un corteo. Era il 9 ottobre del 1963 e pioveva. La polizia aveva caricato e i dimostranti si rifugiarono nel mio liceo, il Cavour. Con i compagni di classe ci fermammo a discutere con alcuni di quei lavoratori. Le loro ragioni non mi convincevano: ma che volevano questi adesso? Che li pagassero per non lavorare? Mi stavo annoiando e cominciai a scherzare, a prenderli in giro. Un uomo magro con piccoli baffi mi puntò contro l’ombrello quasi fosse un grande indice accusatore: “Tu non sai che significa spaccarsi la schiena ogni giorno rischiando di cadere dalle impalcature!” La retorica del movimento operaio, le lotte, gli scontri con la polizia, le contrapposizioni ideologiche, mi sembravano cose di altri tempi – ed erano solo i primi anni Sessanta, pensa un po’! Cinque anni dopo era il Sessantotto. Mentre passeggiavo a via del Corso udii un rombo possente. Si trattava di una semplice parola scandita da diecimila bocche. Era di nuovo un corteo, ma questa volta si trattava di studenti universitari. Una massa fittissima, compatta, incordonata, sulla quale si stagliava altissima una sola ed enorme bandiera rossa. In quel momento mi sono passate davanti agli occhi le immagini del Vietnam viste in televisione, l’arroganza di certi insegnanti e soprattutto il volto dell’operaio edile con l’ombrello. Mi ricordo che cercai di resistere, ma tutti quegli eventi mi avevano scavato dentro. Quello che stavo per fare mi sembrava ridicolo: sono salito sopra il parafango di una Fiat 1100, ho alzato il pugno al cielo e ho cominciato a gridare ripetendo fino a sputar fuori i polmoni lo slogan del corteo: “Co-mu-nis-mo! Co-mu-nis-mo!” Credo che sia andata così. Da quel giorno ho cominciato a vedere le cose in modo completamente diverso. Sono diventato un compagno, ho preso coscienza.»

Bobby visita un compagno in sciopero della fame (Roma, 24.5.2007)

Questo è quanto mi raccontò nel 2015, poi quando ha visto la sua testimonianza pubblicata in un saggio si è schermito: «So’ tutte storie di Luchino!». Già, perché anch’io avevo un soprannome quando ero politicamente attivo. Tutti ne avevamo uno. Bobby andava fiero del suo “nome speciale”: valorizzava il senso profondo di quella rinascita avvenuta nel 1968 a via del Corso. Una nuova vita che per l’appunto meritava un nome diverso da quello anagrafico. Da quel momento fu parte di una generazione assetata di giustizia e di felicità che diede filo da torcere ai poteri costituiti; militò in Lotta continua fino al suo scioglimento, si laureò in medicina e divenne medico di base nel quartiere popolare romano dell’Alessandrino.
Quando lo passavo a trovare in studio, scendevamo a prenderci un caffè per fare due chiacchiere, ma la cosa si rivelava pressoché impossibile: le signore anziane lo salutavano dai balconi («Ciao dottoreeee, te ricordi de ‘a ricetta?»), il meccanico gli urlava affettuoso triplicando le “b” romanesche: «’A moto tua, bbbuttala!» Una volta gli si è avvicinato un magrebino: aveva mal di schiena e pretendeva di essere visitato davanti al semaforo. «Devi smette’ de lavora’» gli disse Bobby e quello giù a ridere. A me sembrava di stare in un film, in una commedia all’italiana; nel raggio di alcuni chilometri quadrati conosceva tutti e tutti lo conoscevano e rispettavano: era “Il Dottore”, per molti “Il Compagno Dottore”. Non so quante migliaia di pazienti abbia curato negli anni; ha visto crescere generazioni e alla fine è stato anche il mio medico. Sapeva che ero un fifone agofobico e quando mi decisi di fare delle analisi non più rinviabili, mi accompagnò all’Ospedale Pertini.
«E lei chi sarebbe?» chiese l’infermiera con tono di sfida.
«Il medico curante!»
«Annamo bene! Guardi che a questo qui», fece la donna indicandomi con una mano a paletta poco rispettosa, «je devo fa’ un prelievo, mica ‘n’operazione a core aperto.»

Bobby (al centro) alla manifestazione dei Cobas (Roma, 24.5.2007).

Bobby si prendeva cura degli altri, specialmente di chi passava un momentaccio, era in stato di necessità o subiva un’ingiustizia. Me lo ricordo per giorni a un presidio di lavoratori dei Cobas in sciopero della fame. Tutto il tempo in cui non lavorava lo passava lì, a Piazza Santi Apostoli a controllare lo stato di salute dei compagni. Era il maggio del 2007.
Me lo ricordo a confortare alcuni amici ammaccati dalle pene d’amore: la sua cura era imbandire la tavola, sfornare arrosti e radunare decine di persone vocianti. Se però era lui ad aver bisogno, non c’era niente da fare: il dottore era lui e si curava da solo.
Me lo ricordo nella trattoria Potpourri alla Garbatella con alcuni vecchi abitanti del quartiere che avevano visto i partigiani assaltare la casa del fascio e il commissariato della polizia: erano tavolate enormi, i più vecchi erano nati agli inizi degli anni Trenta, i più giovani quasi negli anni Ottanta. In mezzo i figli del riflusso e i reduci della Pantera. Le differenze generazionali c’erano, ma si discuteva, ci si raccontava, ci si cercava. Ognuno aveva perso la sua battaglia e aveva le sue ferite. Quelle di Genova erano ancora fresche, ma quando cantavamo tutti insieme Gallo Rojo, Gallo Negro a me sembrava che ci fosse un senso profondo sotto queste sconfitte. Mi sembrava di sentire un legame numinoso con tutti i ribelli che avevano plasmato il nostro immaginario: i comunardi, gli Iww americani, i rivoluzionari del 1917, gli spartachisti, gli anarcosindacalisti di Barcellona, gli studenti del maggio parigino, i portoghesi del 1974-75. Mi sembrava che la volta buona fosse solo rinviata. Lo penso ancora.

Bobby minimizzava, faceva il guascone, ma viveva le sue molte gioventù intrecciando il suo destino con generazioni anche molto distanti dalla sua. Non mi stupisco quindi che tra le molte tavolate finì per frequentare con assiduità anche un’altra “osteria” in cui l’impegno politico si mischiava al cibo, al vino e alla tenerezza dello stare insieme. Questo luogo non era un ristorante, in verità, ma la casa di Marco Melotti. Però questa è un’altra storia e viene raccontata altrove.

Un paio di mesi fa, terminando una telefonata – dopo avergli chiesto dei consigli medici per mio padre e aver passato in rassegna un po’ di preoccupazioni del momento – a mo’ di esortazione mi fa: «Daje Luchì, bisogna saper vivere da comunisti e anche saper morire da comunisti.»
Nelle prime ore del 23 marzo Bobby ci ha lasciato. Da tempo era malato. Adesso quelle sue parole mi rotolano su e giù nella pancia e mi chiedo: Bobby, ma come lo spieghiamo il comunismo a chi non capisce il valore di imbandire la tavola e del prendersi cura del magrebino con il mal di schiena?

Un abbraccio alla sua compagna Silvia, alla famiglia e a tutti noi.

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Stefanino Milanesi, una vita per la lotta https://www.carmillaonline.com/2024/03/11/stefanino-milanesi-una-vita-per-la-lotta/ Mon, 11 Mar 2024 13:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81692 di Sandro Moiso

Uno dei più noti compagni e protagonisti delle lotte comprese tra gli anni Settanta e quelle odierne del popolo NoTav se n’è andato, improvvisamente, questa mattina. Stefano Milanesi, meglio conosciuto come Stefanino o “Ste”, classe 1957, ha dedicato la vita e ogni istante della sua esistenza alla contestazione dell’ordine esistente, a parole e nei fatti.

Motivo per cui la “Legge” e lo “Stato” non lo hanno mai dimenticato o ignorato, nemmeno negli ultimi anni. Così, nel settembre del 2020, era stato ancora arrestato per scontare una pena di cinque mesi agli arresti domiciliari per una condanna per [...]]]> di Sandro Moiso

Uno dei più noti compagni e protagonisti delle lotte comprese tra gli anni Settanta e quelle odierne del popolo NoTav se n’è andato, improvvisamente, questa mattina.
Stefano Milanesi, meglio conosciuto come Stefanino o “Ste”, classe 1957, ha dedicato la vita e ogni istante della sua esistenza alla contestazione dell’ordine esistente, a parole e nei fatti.

Motivo per cui la “Legge” e lo “Stato” non lo hanno mai dimenticato o ignorato, nemmeno negli ultimi anni. Così, nel settembre del 2020, era stato ancora arrestato per scontare una pena di cinque mesi agli arresti domiciliari per una condanna per resistenza a pubblico ufficiale, durante una protesta al cantiere della Torino-Lione del 17 settembre 2015.

Fin da giovane era stato militante del Collettivo studenti-operai della Valsusa, poi in Lotta Continua come studente dell’Istituto Tecnico Pininfarina e membro del servizio d’ordine della stessa, in seguito militante di Senza Tregua e Prima Linea, fino al suo arresto nel dicembre del 1977. Dopo la scarcerazione e un periodo trascorso in Messico, Stefanino aveva ripreso la sua attività all’interno del Movimento No Global e del centro sociale Askatasuna di Torino e nel movimento NoTav di cui è stato animatore e protagonista dagli inizi fino al suo ultimo giorno di vita.

E’ difficile riassumere in poche righe una vita “militante” come la sua e sicuramente il suo carattere schivo e, allo stesso tempo, roccioso non avrebbe gradito discorsi troppo lunghi o retorici. Amante della natura e della montagna, abitava con la compagna Ermelinda una casa isolata sul lato più soleggiato della valle, nella frazione Argiassera di Bussoleno. Rispettoso di chi era in difficoltà amava aiutare gli anziani che vivevano nelle frazioni vicine, gli animali domestici e selvatici e il cinghiale, da lui soprannominato Ugo, che ormai da tempo si recava sotto casa, quasi ogni sera, alla ricerca di cibo.

A chi scrive non resta che stringersi nel suo ricordo alla compagna, alla madre, Rosa, che negli anni della detenzione lo assistette, anche affrontando lunghe trasferte e vergognose soperchierie, in ogni carcere di cui fu “ospite” e a tutti i compagni della Valle e di altre mille esperienze che lo hanno conosciuto, rispettato e amato.
Ciao Stefanino, sarai sempre con noi!

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Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia https://www.carmillaonline.com/2023/11/06/un-mondo-meglio-di-cosi-la-sinistra-rivoluzionaria-in-italia/ Sun, 05 Nov 2023 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79865 di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da [...]]]> di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da un punto di vista politico ritenevano necessario un rovesciamento istituzionale mediante l’esercizio della forza, piuttosto che tramite il gradualismo riformista.

«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) circoscrive il perimetro di studio alle componenti specificamente “politiche”, non affrontando i movimenti e le strutture fluide (per esempio l’autonomia operaia), le formazioni militari della partigianeria dissidente (Bandiera rossa, Stella rossa) e le organizzazioni armate degli anni settanta (Brigate rosse, Prima linea ecc.). Il saggio contesta il paradigma della “sessantottogenesi”, quello che vedrebbe nascere la sinistra rivoluzionaria nel corso del biennio 1968-69. Francescangeli sostiene infatti che non vanno trascurati i presupposti, che hanno una storia antecedente di venticinque anni e che pur in forma molto minoritaria avevano strutturazione organizzativa. Il sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, ma non può esser concepito come il suo anno zero. Si spiega così l’attenta periodizzazione che suddivide gli anni che vanno dal 1943 al 1978 nella «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). La prima fase a sua volta è suddivisa negli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (1943-1948), del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955), della destalinizzazione (1956-1960), dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964). La seconda fase è suddivisa negli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968), della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974), del declino e della “violenza diffusa” (1975-1977), del terremoto politico-organizzativo, cioè del ritorno alla marginalità da parte della sinistra rivoluzionaria (1978).
Un altro grande pregio del libro, oltre alla sua scorrevolezza (per nulla scontata, visto la natura articolata del tema), è l’utilizzo di una mole impressionante di fonti: bibliografiche, emerografiche, documentarie e soprattutto “fiduciarie”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di informatori infiltrati che ci restituiscono il profilo del soggetto analizzato da una prospettiva feconda e spiazzante: la rete dell’intelligence di stato si rivela sorprendentemente vasta, interna e spesso costituita da amici e conoscenti.

E veniamo ai protagonisti della narrazione. Si parte dagli anarchici, divisi negli anni ’40 tra individualisti e organizzatori, cioè disposti a intervenire sia nel Comitato di liberazione nazionale che nella Cgil. Secondo un rapporto del Pci raggiungono le 30 mila unità concentrandosi nelle città di Milano e Carrara. Negli anni ’50 alcuni settori si avvicinarono alla dissidenza comunista e attraverso varie metamorfosi contribuirono a fondare sia la filocinese Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi) che Lotta comunista, un’organizzazione che fondeva «oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale».

I militanti «internazionalisti» si riorganizzarono a partire dal 1942-43 cercando di mettere in pratica l’insegnamento di Amedeo Bordiga: «considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.» Il Partito comunista internazionalista si divise presto in due organizzazioni omonime: una “attivista”, sostenitrice dell’intervento nelle lotte operaie, e l’altra “attesista” che «giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.»

Dal canto loro i trockisti presenti nel Psiup giudicarono la sua linea politica subalterna al Pci stalinista e nel 1947 condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza scissionista del Partito socialista dei lavoratori italiani (chiamati scherzosamente “piselli” dalla sigla Psli e in seguito denominatisi Partito socialdemocratico italiano). Quando divenne palese l’orientamento moderato e filo-atlantista di questa formazione i trockisti se ne separarono e inaugurarono una tattica di “entrismo”, principalmente nel Pci, parallelamente alla costituzione di un’organizzazione esterna: i Gruppi comunisti rivoluzionari (IV internazionale). L’arrivo del sessantotto disgregò velocemente tutta l’area: alcune componenti (per es. l’associazione Falcemartello di Aldo Brandirali) finirono per fondare l’organizzazione stalino-maoista Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota con il nome del suo diffusissimo giornale “Servire il Popolo”; altre contribuirono alla nascita di Avanguardia operaia, un gruppo milanocentrico che fuse istanze maoiste, guevariste e operaiste in chiave antistalinista, arrivando a organizzare tra i 7 mila e i 12 mila militanti.

Alla base della diffusione del maoismo ci fu la rottura, consumatasi tra il 1960 e il 1964, tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica. Il contendere riguardava la “coesistenza pacifica” con il capitalismo e aveva come suo versante ideologico la difesa della figura di Stalin. Se all’inizio la simpatia verso la Cina attecchì principalmente nelle fila staliniste più ortodosse, con l’inizio della Rivoluzione culturale anche molti settori antiautoritari iniziarono ad apprezzare il maoismo. Le organizzazioni di stretta osservanza “emmelle” (marxiste-leniniste) ebbero un breve, ma intensissimo periodo di crescita, arrivando a contare molte migliaia di militanti e oltre un centinaio di sezioni. Ciò nonostante si caratterizzarono per una frammentazione dai tratti surreali: si arrivarono a censire fino a tre Partiti comunisti d’Italia (marxisti-leninisti)!

Il gruppo più influente e numeroso della sinistra rivoluzionaria italiana fu Lotta continua. Esso sorse alla fine degli anni sessanta dalla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e massa. Nonostante la comune provenienza operaista, i “partitisti” di Potere operaio sostenevano il rifiuto del lavoro, declinato in termini di radicale conflittualità salariale, e la costruzione di un partito leninista che avrebbe dovuto guidare il proletariato all’insurrezione; di contro Lotta continua esaltava la spontaneità, l’autorganizzazione, la democrazia assembleare con l’obiettivo di sviluppare il contropotere operaio. Il successo di questa formazione (150 sedi, una forza militante di 10-15 mila unità che secondo i servizi segreti poteva arrivare a 50-60 mila considerando l’area simpatizzante) è attribuito da Francescangeli alla capacità di «adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica… il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura».

Di matrice diversa, proveniente dal togliattismo di sinistra, è invece il gruppo del Manifesto, strutturatosi nel 1970 dopo la radiazione dal Pci e attestatosi su una sintesi «elitarioleaderistica» tra tradizione comunista, maoismo antistalinista e filosofia di Francoforte. Fusosi con il Partito di unità proletaria nel 1974, parteciperà con cartello elettorale di Democrazia proletaria alle elezioni amministrative del 1975. Infine, va annoverato il caso unico della trasformazione in organizzazione politica della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. L’esito di questa anomalia unitaria fu la nascita di un gruppo denominato genericamente Movimento studentesco (e poi Movimento lavoratori per il socialismo), sostenitore di una riedizione tardiva della strategia stalinista dei fronti popolari. Questa organizzazione «assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come “pericolo principale” e […], conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella “borghese-progressista” un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti “estremiste” della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere».

Alla fine di questa analisi approfondita, bilanciata, mai pedante, anzi godibile sia per lo storico di professione che per il lettore interessato, Eros Francescangeli mette il dito in una piaga etico-politica per niente estranea al discorso scientifico: «il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il “ritorno al privato” o la “politica con altri mezzi” non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie ‘altre’), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina.»
Sono considerazioni che lo storico svolge riferendosi al personale dirigente di Lotta continua, quando fu chiaro che l’agognata rivoluzione non era più all’ordine del giorno. Tuttavia, la fecondità del ragionamento non va limitato a un singolo gruppo politico, ma generalizzato sociologicamente: anche le organizzazioni rivoluzionarie sono sottoposte agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei propri funzionari, alla riproduzione delle proprie strutture e dei propri redditi. Il materialismo storico, insomma, va applicato anche ai materialisti storici.

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 8 https://www.carmillaonline.com/2023/09/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-8/ Fri, 22 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78490 di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La [...]]]> di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La classe” si ritroveranno dentro le ipotesi che fanno da sfondo alla costituzione del soggetto politico dell’autonomia operaia.

Nell’esperienza di «Linea di condotta» si ritrovano pezzi de “La classe” confluiti in Potere Operaio nel momento in cui il giornale chiude i battenti, insieme a gran parte della diaspora operaia di Lotta Continua che non poche “affinità elettive” mostrava di avere con l’esperienza de “La classe”, invece una parte di Potere Operaio darà vita, attraverso il giornale «Rosso», a un modello di autonomia operaia che si lasciava alle spalle la centralità della fabbrica focalizzando l’attenzione su quel soggetto, l’operaio sociale, che secondo l’area teorico–politica di «Rosso» era diventato il cuore della nuova composizione di classe. In questa area finirono per confluire, anche se in misura minore rispetto a coloro che si posizionarono dentro «Linea di condotta» prima e «Senza tregua» poi, non pochi militanti di Lotta Continua che alla spicciolata abbandonavano l’organizzazione la quale aveva assunto tratti sempre più neoriformisti e neoistituzionali1.

Indipendentemente da tutto, ciò che appare evidente è come “La classe” abbia tenuto a battesimo gran parte della storia degli anni settanta di questo paese e questo sembra essere un motivo più che sufficiente a giustificare il senso di questo lavoro così come, per altro verso, sulla base delle argomentazioni portate appare del tutto forzata per non dire fuorviante la contrapposizione tra classe e ceto politico–intellettuale. Uno sguardo minimamente obiettivo ci restituisce, al contrario, una sostanziale sinergia tra classe e intellettuali il che è ben distante, come non poche narrazioni del presente tendono a fare, dall’assolutizzare il ruolo di questi nelle vicende e nella storia dell’autonomia infine, sulla base di quanto esposto, pare sensato sostenere il peso che una ritraduzione di Lenin ha comportato nell’elaborazione teorica e analitica del movimento dell’autonomia operaia e come proprio intorno a detta ritraduzione si siano costruiti i principali passaggi politici dell’autonomia operaia.

Giunti a questo punto facciamo un salto nel presente. Sicuramente, oggi, il panorama delle lotte non è dei più rosei, ma non è neppure vero che le lotte operaie e proletarie siano assenti. In un settore strategico come quello della logistica, solo per fare un esempio non proprio irrilevante, in questi anni abbiamo visto lo sviluppo di lotte di notevole intensità in grado di ribaltare, almeno in parte, condizioni lavorative prossime al lavoro coatto. Abbiamo assistito all’affermarsi di un potere operaio di non modeste dimensioni attraverso la pratica costante del blocco dei cancelli e la rimessa in atto del picchetto operaio. Per altri versi, a macchia di leopardo, lotte operaie autonome si verificano con una certa continuità dentro fabbriche, officine e cantieri mentre nuove figure operaie come quelle dei riders e degli operatori della sicurezza più noti come buttafuori, pur in situazioni di estrema difficoltà, iniziano a lottare. Da parte loro i braccianti agricoli hanno dato vita, nonostante condizioni di vita e di lavoro durissime, a lotte ed embrioni di organizzazione operaia non proprio indifferenti. Dentro le prigioni e nei campi di concentramento un proletariato in condizioni di marginalizzazione ed esclusione estrema ha continuato a lottare e resistere infine, ma certamente non per ultimo, si è assistito come nel caso delle lotte di Italpizza2 a una nuova Valdagno3 a opera di operaie immigrate. Proprio su questo ultimo aspetto è opportuno soffermarsi poiché può essere assunto come un vero e proprio paradigma del presente.

Chiedersi il perché una lotta come quella di Italpizza, che pure ha interessato un colosso della gastronomia e un numero cospicuo di operaie, sia rimasta sostanzialmente confinata in sé stessa è un modo per affrontare alcuni snodi centrali del presente. Il fatto che in questa lotta un ruolo centrale lo abbiano svolte donne immigrate, ruolo sostanzialmente ignorato, lascia, almeno in apparenza, ancor più stupefatti poiché è innegabile che, da tempo, uno dei movimenti con maggiore capacità di mobilitazione sia proprio quello femminista. Eppure intorno alla lotta di Italpizza si è costruito ben poco e non è neppure troppo lontano dal vero sostenere che la notizia di quella lotta sia rimasta ignota ai più. Colpa delle femministe? Asserirlo sarebbe un abbaglio colossale e significherebbe non cogliere il cuore della questione che merita ben altra spiegazione; del resto ciò che vale per le donne di Italpizza vale per le donne impiegate in condizioni di sfruttamento estremo nell’agricoltura. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di donne immigrate le quali, in non pochi casi, ai livelli di sfruttamento estremo devono associare molestie sessuali se non veri e propri stupri ma, nonostante ciò, anche su questo tende a calare un sostanziale velo di silenzio. Non diversamente che su Italpizza anche qui assistiamo al silenzio del movimento femminista e alla sua assenza di intervento ma è colpa del femminismo in quanto tale oppure, il femminismo, al pari di gran parte degli ambiti del movimento antagonista, tace perché la dimensione del lavoro operaio gli è estraneo? Quello che vale per il movimento femminista non è forse moneta corrente per gran parte degli altri ambiti del presunto antagonismo?

Non abbiamo visto, per esempio, di fronte a braccianti uccisi dalla fatica, l’assunzione della condizione dei lavoratori agricoli come ambito di intervento militante, se si escludono alcune iniziative del sindacalismo di base, di una qualche consistenza da parte di alcun settore di movimento e coevi ceti politici–intellettuali eppure, in agricoltura, siamo di fronte a un dominio che vede chiamate in causa direttamente le grandi multinazionali agroalimentari e non una qualche nicchia residuale e arcaica del capitalismo. Nel settore agroalimentare si concretizza il punto più alto del comando, si dipana il modello per antonomasia del dominio, non il mondo di ieri ma la storia del presente4. A fronte di tutto ciò si potrebbero aggiungere una serie infinita di fatti più o meno analoghi come, tanto per dire, la condizione di lavoro neoschiavile in cui versano i rider o gli invisibili della ristorazione. Insomma la non attenzione del movimento femminista nei confronti delle operaie di Italpizza ha ben poco a che fare con il movimento femminista in sé ma rientra in una non visione delle cose che sembra accomunare i più.

Per dirla in parole semplici e chiare, il lavoro operaio è stato espunto da ogni agenda politica e l’interesse nei suoi confronti di fatto è nullo anche se, a uno sguardo solo un poco più attento, non è difficile osservare come la lotta operaia e proletaria sia tutto tranne che inesistente. Insomma, la sconfitta operaia non c’è così come dimostrano la quantità di denunce, fogli di via, cariche della polizia, impiego di vigilantes di pochi scrupoli, sino ad arrivare agli omicidi avvenuti in occasione di un qualche sciopero, sono fatti che hanno riempito le cronache operaie di questi anni ma di queste cronache, questo è il punto, vi è ben scarsa traccia5. Scioperi, picchetti, blocchi stradali e via dicendo non trovano alcuna risonanza dentro i ceti politici–intellettuali, il che fa sì che le cose rimangano prive di parole. Indubbiamente i fatti esistono e hanno anche la testa dura ma fatti privi di un linguaggio e di una narrazione finiscono con il rimanere semplici cose.

Facciamo un esempio: abbiamo detto che la lotta di Italpizza presenta assonanze non distanti dai fatti di Valdagno ma che a differenza di questi hanno lasciato un po’ il tempo che avevano trovato. Perché Valdagno sì e Italpizza, no? Che cosa differenzia i due momenti? La risposta la possiamo facilmente trovare confrontando gli ordini discorsivi che fanno da sfondo ai due fatti. Nel primo caso abbiamo, da parte della quasi totalità del ceto politico intellettuale e militante una attenzione costante sul mondo operaio e le sue lotte, poiché la centralità operaia è l’ordine discorsivo che egemonizza per intero il dibattito politico, teorico e culturale. Sulla scia di ciò, allora, un fatto come quello di Valdagno assume velocemente i tratti di un paradigma: ecco le donne operaie in atto e questo inizia a essere ripetuto, da nord a sud, dentro tutte le realtà operaie, ma non solo. Il paradigma Valdagno attraversa la scuola, l’università, i quartieri. Quel fatto viene amplificato all’inverosimile tanto che, con quella realtà, tutti saranno obbligati a misurarsi. Le parole non si sono inventate nulla, non si sono sostituire alle cose hanno però permesso alle cose di raccontarsi.

Quello che vale per Valdagno vale un po’ per ogni contesto di lotta più o meno radicale, le parole ne consentono la immediata socializzazione. Con ogni probabilità senza la presenza di un ceto politico–intellettuale in grado di farsi carico di ciò ben difficilmente, non solo i fatti di Valdagno, ma la stessa centralità operaia avrebbe potuto diventare l’elemento intorno al quale tutte le agende politiche finirono con il doversi misurare. Oggi, invece, neppure gli omicidi riescono a trovare le parole. In questi anni non pochi operai sono caduti nel corso di scioperi e picchetti, ma le loro morti sono cadute nel silenzio e la stessa cosa vale per la quantità impressionante di morti sul lavoro, morti che, come non poche inchieste ufficiali confermano, hanno ben poco dell’incidente casuale ma sono il frutto maturo di una organizzazione del lavoro tutta declinata alla massima estrazione di profitto a scapito della protezione della vita operaia. A conti fatti non sono le cose a mancare, sono le parole a essere assenti, ma questo è esattamente il frutto di un interesse delle parole verso altri ambiti i quali hanno finito con l’occupare ed egemonizzare l’agenda politica e culturale dei vari ceti politici e intellettuali.

Mentre le retoriche dominanti nei mondi militanti oscillano tra la narrazione di tutta l’area post operaista e della nuova sinistra, che hanno decretato la fine del lavoro operaio e la morte della classe operaia o quella reducista, tutte le aree vetero-comuniste capaci solo di vivere del e nel ricordo della mitica classe operaia delle grosse concentrazioni di questi e che, mentre ne loda e incensa i fasti, riesce solo, mentre si piange addosso, ad andare alla ricerca del tempo perduto, le lotte operaie continuano a esistere, però, purtroppo, nel più totale isolamento. Con isolamento, nel contesto, si intende la dimensione politica e culturale in cui queste si danno e l’obiettiva incapacità di imporre la centralità operaia come elemento cardine dell’agenda politica. Esattamente qui sembra delinearsi la principale differenza con l’epoca presa in considerazione da questa trattazione della quale, con ogni probabilità, “La classe” ne ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti e significativi.

Nelle osservazioni precedenti si è molto insistito sul rapporto classe operaia/ceto politico–intellettuale mostrando come detta relazione rimanga sostanzialmente indispensabile per la messa in atto di un ordine discorsivo in grado di esercitare egemonia e direzione politica. “Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario.”, con ciò si vuole ribadire che il Che fare? mantiene inalterata tutta la sua freschezza e continua a essere l’unico orizzonte possibile e realistico intorno al quale rideterminare il partito dell’insurrezione nel presente ma, una volta detto ciò, occorre comprendere come questo passaggio sia possibile.

Intanto dobbiamo prendere atto di come, sicuramente in questo paese e in buona parte del mondo occidentale, il novecento sia del tutto finito. Quel tipo di organizzazione del lavoro che presupponeva sempre più massicce concentrazioni operaie è andato in archivio tanto che, osservatori a dir poco superficiali, sulla scia di ciò hanno decretato la fine del lavoro operaio. In realtà ciò che è accaduto veramente è il cambiamento di pelle del lavoro operaio e della sua condizione. Una condizione che nella giungla delle disparità contrattuali ha trovato la sua forma fenomenica maggiormente significativa. A fronte di ciò il proliferare, ormai come condizione normale, del lavoro irregolare per quote non secondarie di operai o, per altro verso, l’obbligo di diventare imprenditori di sé stessi attraverso la massificazione delle partite IVA è una condizione operaia e proletaria sempre più maggioritaria. Il novecento è stato archiviato e non pochi tratti della cosiddetta post modernità, per quanto riguarda la condizione operaia, hanno non poche assonanze con la condizione subalterna ottocentesca e questo è il dato dal quale occorre partire.

Come nell’Ottocento, per altro verso, classe operaia e proletariato sono politicamente esclusi, non bisogna infatti dimenticare che l’inclusione politica delle masse inizia a delinearsi nel corso della Prima guerra mondiale e occorrerà attendere la Costituzione di Weimar6 perché, sul piano giuridico formale, tale inclusione diventi legittima.

Oggi possiamo dire che il Trattato di Weimar è stato stralciato insieme a tutta quella costruzione che Keynes e lo stato–piano avevano messo in forma dopo il crack del ’297. Ciò che in realtà è successo è stata la ricollocazione dei subalterni nell’ambito della marginalità ed esclusione sociale e conseguente privazione della loro legittimazione storico–politica tanto che, per molti versi, la loro condizione si approssima a quell’essere massa senza volto propria dei colonizzati. Occorre riconoscere che nei confronti di queste masse non vi è alcuna empatia da parte dei ceti politici–intellettuali. In altre parole sembra veramente impensabile che, all’orizzonte, si possa paventare una operazione in qualche modo simile ai Quaderni rossi e a tutto ciò che li ha seguiti, se classe operaia e proletariato romperanno l’isolamento, questa volta, potranno contare solo su sé stessi e direttamente dal suo interno si dovrà formare un ceto politico–intellettuale, almeno per tutta una fase.

Se la centralità operaia riconquisterà il cuore dell’agenda politica lo potrà fare solo partendo da sé stessa ma, una volta preso atto di ciò, l’ipotesi di un giornale operaio, un “La classe” del presente, è utile o no, è fattibile o meno, assume una valenza strategica o è un’ipotesi del tutto peregrina? Un luogo deputato anche alla teoria della classe operaia rimane o meno un aspetto strategico della lotta operaia? Un luogo dove provare a far vivere l’ordine discorsivo della centralità e direzione operaia rimane o no un aspetto ineludibile per la costituzione dell’organizzazione operaia? Gli operai hanno o no bisogno di elaborazione teorico–politica o possono farne tranquillamente a meno? Dobbiamo tentare una nuova ritraduzione di Lenin o possiamo considerare il pensiero strategico leniniano del tutto inutile nel presente? Dobbiamo imparare a essere anche ceto politico–intellettuale o rimanere quelli dei picchetti? Dobbiamo essere in grado, contando solo sulle nostre forze, di riattivare la triade marxiana prassi/teoria/prassi o limitarci a una sorta di prassi in permanenza tanto eroica e volenterosa ma sicuramente poco capace di caricarsi sulle spalle tutto il peso dei passaggi politici che la lotta operaia si porta appresso? Dobbiamo essere in grado di agire e funzionare anche come supplenza politica nei confronti della classe o inibirci per intero la dimensione del politico? Dobbiamo tentare una battaglia per riconquistare l’egemonia politica o accontentarci di vivere tra le marginalità del presente? Queste le domande e le sfide che dobbiamo provare ad affrontare oggi.

Per rispondere cominciamo con il dire, intanto, che il giornale è uno strumento di organizzazione, non certamente l’organizzazione operaia ma sicuramente un passaggio importante, perché mette in collegamento le lotte operaie, ponendo in primo piano i punti di vista di queste. Dal momento che sviluppa dibattito tra gli operai, costruisce una serie di tasselli non secondari dell’organizzazione e dell’insieme di problematiche che questa indubbiamente si porta appresso. Dentro la classe questa funzione diventa strategica, perché, infatti, bisogna tener presente che, in non pochi casi, le numerose lotte esistenti non comunicano tra loro, così come è del tutto impossibile trovare un luogo comune dove esplicitare il punto di vista operaio e per la classe questo è un limite che contribuisce non poco, a renderla monca.

Non è difficile da immaginare che un giornale operaio andrebbe a ricoprire un ruolo essenziale dentro la classe; pensiamo all’impatto che potrebbero avere delle semplici cronache operaie tra gli operai in lotta, pensiamo alle pagine fitte di corrispondenze operaie de “La classe” negli scenari di lotta attuali. Forse che nel ’69 il coordinamento e la socializzazione delle lotte era un qualcosa che si raccoglieva sugli alberi? Forse che la classe operaia viveva una condizione di minor isolamento di oggi? Gli operai della fabbrica X conoscevano ciò che accadeva nella fabbrica Y per volontà divina e ancora gli operai di Torino cosa sapevano di quelli di Porto Torres se non ci fosse stata l’organizzazione di una narrazione. Certo, le notizie di notevole spessore non potevano essere eluse, Avola e Battipaglia non potevano essere ignorate dalla stessa informazione di regime, ma non è questo il punto, ciò che rimaneva costantemente celato era il livello di lotta e conflittualità che attraversava le fabbriche, gli obiettivi che gli operai perseguivano, le forme di lotta adottate. Il giornale, quindi, è in prima istanza uno strumento del dibattito operaio che consente sia di fissare i punti delle varie situazioni, sia di individuare collettivamente i passaggi necessari per il loro prosieguo. Va anche detto che il giornale, oltre che funzionare come elemento di organizzazione della classe, rimane uno strumento, non secondario, in grado di rompere la sensazione di isolamento e accerchiamento in cui, in non pochi casi, la classe ritiene di trovarsi. Percezione non così fantasiosa come chiunque abbia un minimo di familiarità con le lotte, può testimoniare.

Pensiamo, ad esempio, ai conflitti nel settore della logistica: i magazzini sono dislocati in autentici territori del nulla dove per chilometri si dipanano attività produttive che non hanno alcuna comunicazione l’una con l’altra. Il magazzino X sciopera e picchetta i cancelli, ma intorno a questo nessuno si accorge di niente. Se, come in non pochi casi avviene, si arriva allo scontro con i guardiani o alle cariche della polizia, tutto rimane circoscritto a quel contesto e può accadere che, il giorno seguente, si ripeta uno scenario simile a un paio di chilometri di distanza, anche questo in maniera del tutto isolata. L’assenza di comunicazione produce isolamento e inibisce non poco l’attività di agitazione e propaganda. Andare davanti a una fabbrica o un magazzino con un giornale operaio non è proprio come andarci a mani vuote e questo è un aspetto importante della questione.

Accanto a questo ve ne è un secondo, non meno rilevante e anzi, per alcuni versi, forse più decisivo: la funzione che il giornale può e deve assolvere dentro le aree politiche antagoniste, rivoluzionarie e comuniste, in altre parole il giornale è uno strumento essenziale per la conduzione della battaglia politica al fine di portare sul terreno della centralità operaia un ceto politico–intellettuale in grado di entrare in relazione dialettica con le lotte operaie, assumerle come centrali dell’agenda politica del presente, imporre la questione operaia come asse portante del dibattito di tutto il movimento antagonista. Compito titanico? Forse. Ciò non toglie che è una partita che occorre tentare. Se ci guardiamo intorno possiamo facilmente osservare come, ad esempio, nei mondi studenteschi e intellettuali vi sia un dibattito politico e culturale sui più svariati temi tranne che sulla classe operaia e le sue lotte. Questo è certamente il frutto di tutta una serie di retoriche che hanno preso campo negli ultimi decenni ma, occorre riconoscerlo, è anche e soprattutto il frutto di una assenza. Come si fa a parlare di classe operaia, di lotte operaie se queste non sono in grado di produrre uno straccio di narrazione? Su quali basi diventa possibile provare a forzare una situazione se per le mani non si ha nulla di teoricamente consistente? Pensiamo alla quantità non proprio irrisoria di giovani che si avvicinano, con intenti radicali e rivoluzionari, alla politica. Che occasione hanno di conoscere il mondo operaio se questo, sul piano organizzativo e comunicativo, si avvicina di molto al modello carbonaro?

È ovvio che, in uno scenario simile, queste migliaia di possibili militanti verranno cooptati dagli unici ordini discorsivi che hanno visibilità. Occorre sia dare visibilità alle lotte operaie ma non solo bisogna far sì che, intorno a queste lotte, si focalizzi l’attenzione e l’azione di tutto ciò che si considera e autorappresenta come ambito antagonista e conflittuale e questo è possibile solo se la centralità delle lotte operaie ritorna a essere il punto di riferimento del punto di rottura del rapporto sociale capitalista. Senza questo passaggio le lotte operaie corrono il concreto rischio di una endemicità priva di qualunque prospettiva e, nostro malgrado, torneremo a non essere troppo diversi da quell’operaismo che aveva bellamente eluso il rapporto delle lotte con il momento di rottura ignorando così la dimensione propria della politica. Questa l’ottica nella quale dovrebbe collocarsi l’ipotesi di un nuovo giornale, da “La classe” a “La classe”, per una nuova stagione del potere operaio.

(8Fine)


  1. L’esperienza di «Linea di condotta» è riportata per intero in, E., Quadrelli, Autonomia operaia, cit. Sull’esperienza di Rosso si veda: T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. Antologia della rivista Rosso (1973–1979), Derive Approdi, Roma 1979.  

  2. Al proposito si veda, «Il Manifesto», 120 operai di Italpizza a processo, 13/9/2020.  

  3. Il 19 aprile 1968 gli operai, ma soprattutto le operaie della Marzotto entrarono autonomamente in lotta contro il padrone Marzotto il quale gestiva la fabbrica apertamente patriarcale e paternalista. Tra le prime cose che le operaie fecero fu distruggere la statua del padre–padrone. Nonostante i duecento arresti e i violenti scontri con le forze dell’ordine la lotta continuò in maniera sempre più dura e determinata. Le donne furono la testa del movimento, dall’inizio alla fine. L’evento, in un batter d’occhio, diventò il simbolo della nuova stagione delle donne operaie e della loro radicalità. Sugli eventi di Valdagno si veda, L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo e città sociali in Italia, Feltrinelli, Milano 1979.  

  4. Una buona documentazione di ciò è reperibile sul sito di “Campagne in lotta”, campagneinlotta.org.  

  5. Una rara eccezione è data dal testo scritto dal Si.Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma 2016.  

  6. Su questo passaggio si veda il fondamentale lavoro di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  7. In particolare, John, M. Keynes, La fine del laissez–faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

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E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 4 https://www.carmillaonline.com/2023/08/23/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-4/ Wed, 23 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77121 di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare [...]]]> di Emilio Quadrelli

Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina

Tutto ciò darà adito a una versione di sinistra dell’antifascismo, ossia quella della Resistenza tradita, e alla coltivazione di ipotesi neoresistenziali. Vi è tutta una tendenza, quella che possiamo chiamare la linea Secchia, che continuerà a pensare a una continuazione della Resistenza e, sulla scia di ciò, a ritenere indispensabile il mantenimento di una struttura militare operativa. Le esperienze guerrigliere della XXII ottobre genovese e dei gruppi Gap–Feltrinelli andranno esattamente in quella direzione, ma senza entrare nel merito di queste una cosa appare evidente, la loro ipotesi è ben distante da una lettura dei processi materiali che hanno accompagnato e stanno caratterizzando la storia del capitalismo in Italia. Per carità non si vuole con questo certamente misconoscere quanto i fascisti, in quel contesto, siano una componente anche importante del sistema politico italiano e come il loro uso in funzione antioperaia da parte della borghesia qualcosa di non secondario, altra cosa, però, è identificare il fascismo come la tendenza egemone e strategica della borghesia. Aspetto che, invece, tutti coloro che si muovono sull’immaginario della Resistenza tradita considerano come cuore del progetto borghese.

Le aree e le formazioni neoresistenziali non eludono la questione militare ma il loro modo ha ben poco a che vedere con la questione della forza che le lotte operaie stanno imponendo, tanto che di quelle ipotesi si perderà traccia in maniera molto veloce. Le ipotesi neo-resistenziali non colgono, e neppure possono farlo a causa del loro tradizionalismo comunista, il riformismo come cuore del piano del capitale, non possono vedere, cioè, la socialdemocrazia come forza materiale tutta interna alle linee del capitale. Per le aree neo-resistenziali, partito e sindacato non sono strutture tutte interne al dominio ma Compagni che sbagliano e che non colgono il progetto di fondo della borghesia che rimane in odor di fascismo1 e pur sempre nella logica della svolta autoritaria.

Significativamente, non diversamente che dal partito e dal sindacato, questi gruppi non colgono il tratto imperialista del capitalismo italiano, ma lo considerano semplice appendice del dominio statunitense. In tale ottica l’Italia sarebbe poco più che una colonia e il suo sistema produttivo del tutto estraneo alle dinamiche di ciò che sarà chiamato neocapitalismo. Coerentemente con ciò, e in piena continuità con il nemico revisionista, del tutta inessenziale diventa l’analisi della composizione di classe e della sua soggettività poiché, la classe che questi hanno a mente, è una classe senza tempo e senza spazio, niente più che un totem da venerare ed evocare come altri conciliabili evocano santi e madonne. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con il mondo reale e la sua materialità che prepotentemente fuoriesce dalle fabbriche.

La nuova classe operaia è un’altra cosa e la sua guerra si declina su crinali di tutt’altro tipo. Il cuore dello scontro è la fabbrica, gli embrioni della forza operaia sono i cortei interni, la caccia ai capi, i picchetti duri, l’attacco al comando. Ciò che le lotte operaie pongono all’ordine del giorno è tanto la difesa, quanto l’estensione di un potere operaio all’interno di un paese a capitalismo avanzato, aspetto che, a conti fatti, si mostra come una novità assoluta nel panorama del conflitto di classe o meglio, di come sia più utile e importante guardare e imparare da ciò che hanno prodotto altre istanze dell’altro movimento operaio, come quello americano per esempio, piuttosto che andare a spulciare tra gli annali delle rivoluzioni del passato: Lenin doveva essere ritradotto nel presente della fabbrica capitalista, non usato come un breviario.

Quando, di lì a poco, gli operai Fiat scriveranno dentro la fabbrica: Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!, daranno esattamente l’idea di come le lotte operaie non siano attratte dalle rivoluzioni degli altri, di come l’internazionalismo proletario abbia ben poco a che fare con un generico solidarismo, ma sia il qui e ora del programma operaio. Proprio a ridosso del Vietnam, dentro i cortei operai inizia ad aleggiare lo slogan: Il Vietnam vince perché spara!, con ciò si prendono le distanze da qualunque forma sia di legalitarismo e coevo antifascismo, sia dal terzomondismo per affermare che il problema all’ordine del giorno è l’armamento operaio dentro le metropoli imperialiste e che la questione della forza è la porta stretta entro la quale il movimento è obbligato a passare, ma lo deve fare avendo a mente la storia del presente e la realtà concreta entro cui si muove, non volgendo lo sguardo al passato o a realtà incommensurabilmente distanti da quella della metropoli imperialista; per questo motivo lo sguardo verso le lotte del proletariato americano e alla sua storia diventa un passaggio pressoché obbligato.

Per molti versi, infatti, molte delle esperienze operaie maturate nel corso delle lotte avranno non poche assonanze con quelle degli operai USA e in particolare con quelli neri e gli immigrati, tanto che testi come Dynamite2 o Sciopero3 assumeranno ben presto una contemporaneità quasi impensabile. Va da sé che, in tale contesto, la forza operaia è obbligata a inventare dal nulla i suoi organismi e le sue pratiche. Occorre, pertanto, stabilire una linea di condotta in grado di reggere il livello di scontro che le lotte hanno imposto e che, per altro verso, stato e padroni si sono attrezzati per ribaltare la situazione. Avanti compagni, è la guerra civile!, questo il passaggio che prima sussurrato, e poi urlato, esce fuori dai cortei e dai picchetti operai, ma la guerra non si improvvisa, infatti occorre imparare a farla.

“La classe” non andrà oltre l’assunzione del problema e alla costituzione solamente embrionale di alcune prime forme di strutture militanti, il servizio d’ordine, i nuclei operai di fabbrica, i primi vagiti di ronde e squadre operaie in grado di organizzare e centralizzare i primi nuclei di quegli operai comunisti che, negli anni immediatamente successivi, saranno l’avanguardia di massa dell’altro movimento operaio4. Ma, al di là di ciò che possono apparire limiti, quello che va posto maggiormente in evidenza è la battaglia politica che “La classe”, proprio sulla questione della attualità della rivoluzione e la coeva necessità di porre l’organizzazione della forza come aspetto non più rimandabile per la classe operaia, conduce senza mezze misure. Anche in questo caso vi è per intero Lenin e una attualizzazione e ritraduzione del Che fare?.

Apparentemente, simile asserzione potrebbe darsi come una estrema forzatura di Lenin e del suo testo principe, solitamente, infatti, il Che fare? è stato letto come il testo dove Lenin mette e impone la camicia di forza alla spontaneità operaia riducendo la classe a mera appendice di partito, ma non solo: il Che fare?, tanto a destra quanto a sinistra, è stato percepito come assolutizzazione del ceto politico agli umori e desideri del quale l’intero movimento degli operai dovrebbe uniformarsi mettendo, con ciò, costantemente in sordina il fatto che a permeare lo scritto, dalla prima all’ultima pagina, è il nodo centrale dell’insurrezione e, in piena polemica con i fautori della generica spontaneità operaia, Lenin mette al centro del suo interesse le spinte spontanee di massa verso l’insurrezione, perché è poco interessato, anzi non lo è per nulla, al punto di vista dell’operaio medio. Non è intorno alla prassi dell’operaio medio che è possibile cogliere la tendenza, questa, al contrario, va osservata, rafforzata e organizzata nelle punte avanzate della spontaneità operaia e proletaria. Sono i comportamenti di rottura che il partito deve cogliere perché è esattamente lì che si delineano i processi storici. Sono questi comportamenti che definiscono il possibile imporsi di una maggioranza politica che, sul piano concreto, altro non significa se non l’imporsi di una egemonia politica che è ben altra cosa rispetto a un dato banalmente quantitativo.

Lenin sa benissimo che nella storia a essere determinante e decisiva è sempre un’avanguardia di massa, la quale solo in un secondo momento, potrà aspirare a farsi anche maggioranza numerica ma che, per tutta una fase, dovrà camminare da sola accontentandosi della neutralità del resto della classe e della popolazione. Proprio perché i livelli di coscienza e antagonismo non possono pensarsi mai uniformi e omogenei occorre puntare su quella frazione di classe che, nella sua prassi, prefigura in potenza l’insurrezione. Ogni politica che si maschera dietro la conquista dell’intera classe, ogni politica che si nasconde dietro a una indistinta unità, altro non è che una diversa forma di opportunismo.

La polemica di Lenin contro la sudditanza verso la spontaneità è una polemica contro questo tipo di spontaneità e contro la inevitabile prassi politica di accodarsi ai punti più bassi della pratica operaia e proletaria. Fin da subito, seppur detto in altro modo, in lui non solo non vi è venerazione, ma aperto dissenso polemico verso il mostro sacro dell’unità di classe che sarà la bandiera di tutte le derive socialdemocratiche e opportuniste. Del resto, ciò che andrà in scena a ridosso del fatidico agosto 1914, non lascerà dubbi di sorta. La frazione operaia comunista, grazie a Lenin, assumerà una veste internazionale in aperta rottura con la socialdemocrazia e ciò che pochi anni prima poteva apparire una disputa al limite dell’eccentrico tra gli arretrati russi, si mostra la sola linea di condotta possibile rivelando tutto il realismo della politica rivoluzionaria ed è esattamente su questa scia che “La classe” ritraduce Lenin nel presente.

Ciò che diventa centrale è l’assunzione del punto di vista di una avanguardia di massa la quale sta dando il la alla cornice complessiva dello scontro di classe. A fronte di ciò, la pur breve esistenza de “La classe” può esser ritenuta la migliore esemplificazione di quanto andato in scena sul finire degli anni sessanta perché si può, con buona certezza, considerare il primo organo di stampa a dominanza operaia. Con ciò non si vuole certo ignorare l’importanza e il peso che un ceto politico–intellettuale, che raccoglieva parte delle più significative riflessioni del primo operaismo tanto da riproporle integralmente in alcuni numeri del giornale oltre a elaborarne di nuove, ha svolto in questa esperienza, bensì evidenziare come, proprio dentro le pagine del giornale, il protagonismo operaio risultasse determinante.

“La classe” ha l’indubbio merito, che incarna una vera e propria linea di condotta, cioè il far sì che gli operai, il loro punto di vista, le loro lotte e le loro discussioni occupino nel giornale un posto non secondario. Ciò è il frutto di due fattori, da una parte, aspetto sul quale tutti concordano, la necessità di colmare nella prassi quella distanza tra ceto politico–intellettuale e avanguardie operaie che le riviste storiche dell’operaismo avevano sostanzialmente mantenuto. A conti fatti le riviste operaie rimanevano riviste sugli operai e la necessità di porre fine a questo vizio, proprio del ceto politico–intellettuale, era una cosa che tutti ritenevano non più eludibile. Dall’altra un modo completamente nuovo di concepire il ruolo dell’avanguardia e della sua funzione e su questo i punti di vista non convergono, tanto che, alla fine, le vie si separeranno.

Da un lato, per coloro che daranno vita all’esperienza di Potere Operaio, reiterando un modello quanto mai classico, il problema è, e rimane, prendere la testa del movimento mentre, per coloro che di lì a poco daranno forma a Lotta Continua, non si tratta di prendere la testa del movimento ma di essere, invece, la testa del movimento. Questa differenza, anche se non stridente, non è difficile da notare proprio nel modo in cui vengono confezionati gli stessi numeri del giornale. A parte gli editoriali, che mostrano una certa omogeneità, sul giornale compaiano testi e articoli di natura maggiormente analitica e teorica a fronte di materiali declinati soprattutto sulle lotte, sul punto di vista operaio, sull’inchiesta.

L’anima che darà vita a Lotta Continua è sicuramente quella che dedica a questi aspetti i maggiori sforzi. Su questo aspetto occorre soffermarsi. Con ogni probabilità chi andrà a leggersi i numeri de “La classe” sarà tentato a non andare oltre una semplice scorsa di queste parti per concentrarsi sulla corposità e la complessità di quelle analitiche e teoriche. La cosa è facilmente comprensibile poiché, per dirla con realismo, leggere per intero i resoconti delle assemblee di fabbrica, gli interventi operai dentro i vari coordinamenti cittadini o nazionali, così come le interviste alle avanguardie di fabbrica, oggi è una cosa di poco interesse, mentre i saggi teorici hanno indubbiamente un respiro e una profondità che li emancipa dalla particolarità del contesto storico in cui hanno visto la luce. Del resto leggiamo i testi di Marx nel 2023 come se fossero stati scritti domani, però, ciò che va evidenziato, è la recezione che i materiali più grezzi hanno in quel preciso momento. Dobbiamo, cioè, rovesciare la prospettiva con la quale noi oggi ipoteticamente prendiamo tra le mani i numeri de “La classe” e immaginarci il come gli operai li recepiscano.

Con ogni probabilità il tipo di lettura è esattamente rovesciata poiché i testi teorici finiranno per essere oggetto di una breve scorsa, mentre la parte prettamente operaia verrà letta, discussa e commentata con non poco interesse e partecipazione. Avere tra le mani un giornale che, anche come semplice cronaca, riporta le varie iniziative operaie nei territori, i coordinamenti operai di questa e quella regione, la voce di altri operai impegnati in questa o quella battaglia di fabbrica diventa uno strumento di socializzazione e organizzazione non proprio secondario, un giornale in cui le lotte operaie sono continuamente poste in primo piano e fa sì che quel senso di isolamento a cui i perimetri della fabbrica conducono cada in frantumi.

Gli operai Fiat scoprono Porto Marghera e questi a loro volta scoprono Porto Torres ma anche i braccianti del sud, i tecnici della Pirelli e, certamente non per ultimo, ciò che si agita nelle scuole e nelle università. Dobbiamo immaginare l’effetto che ha il resoconto della partecipazione degli operai Breda dentro una assemblea degli studenti in Statale, tra gli operai Fiat. Certo, oggi, questo si mostra tanto datato quanto definitivamente archiviato in un qualche faldone della storia, ma non è questo il punto. Ciò che è, invece, importante evidenziare è lo stile di lavoro che questo modo di costruire il giornale incarna. Questo è ciò che, per molti versi, lo può rendere attuale.

Con attualità non si intende certamente la meccanica reiterazione di ciò che è stato piuttosto l’assunzione di un metodo come possibile linea di condotta del presente. Tuttavia, prima di entrare nel merito del metodo, occorre prendere in considerazione qualcosa di più complesso e dai tratti maggiormente generali. Dobbiamo, cioè, misurarci con gli ordini discorsivi che hanno fatto da sfondo alle stagioni del protagonismo operaio. Senza di ciò diventa difficile comprendere non tanto la lotta operaia ma la centralità che questa ha assunto per la politica e, con ciò, evidenziare quanto il peso della teoria politica, e la sua capacità di esercitare egemonia politica, che poco o nulla ha a che vedere con l’egemonia culturale, abbia svolto un ruolo decisivo nel sostanziare l’anomalia italiana.

Bisogna riconoscere cioè che quanto andato in scena anni dopo con il 7 aprile conteneva un qualche grano di verità5. Non si tratta certo di offrire una postuma legittimità a Calogero e al suo teorema o, ancor peggio, trovare una qualche giustificazione al fare questurino del PCI e del sindacato, ma riconoscere il peso che la teoria riveste dentro il processo rivoluzionario. Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario questo il solo e unico vero senso dell’affermazione. Si tratta di riconoscere, cioè, come l’elaborazione teorica sia del tutto interna alla linea di condotta del partito dell’insurrezione anche se, tale elaborazione, è comunque e sempre frutto di una prassi posta in atto dalle masse. La triade marxiana: prassi, teoria, prassi, vive e può vivere solo e unicamente a partire dalla soggettività di classe che deve, per non disperdersi, necessariamente riversarsi in una soggettività politica la quale, a sua volta, assolve al suo compito se la riconsegna elaborata alla soggettività di classe. In questo modo la teoria diventa un’arma per la soggettività di classe, classe che è sempre punto di partenza e punto di arrivo, mentre la soggettività politica è sempre l’anello di congiunzione tra i due poli della prassi. Questa relazione non è mai lineare e priva di tensioni. Le vicende dell’operaismo e del giornale “La classe” ne sono ampiamente testimoni.

Questo il motivo per cui si è richiamato alla mente il 7 aprile. Il castello accusatorio era sicuramente falso e fantasioso e gli imputati del tutto estranei, e in alcuni casi anche avversi, a quanto configuratosi come guerriglia comunista, ma indubbiamente parte del lavorio teorico da loro sviluppato anni prima aveva contribuito a rendere esplicito e a dare consistenza politica a ciò che la lotta operaia e proletaria aveva, in maniera del tutto autonoma, posto all’ordine del giorno.

Il ceto politico, gli intellettuali, i militanti rivoluzionari non si erano inventate le lotte così come non si erano inventata la pratica del potere operaio, ma avevano fatto sì che quelle lotte non rimanessero isolate, prive di prospettiva politica e valenza storica, in altre parole avevano contribuito non poco a dare forma a un involucro politico in grado di sintetizzare ciò che la soggettività operaia stava ponendo all’ordine del giorno, attraverso la prassi. Allora, a partire da ciò, più che prendere partito per gli intellettuali o per la classe, avendo a mente le contrapposizioni che sulle vicende dell’operaismo sono sorte, sembrerebbe sensato cogliere come solo questa relazione, sicuramente mai semplice, sia stata tanto essenziale quanto determinante nel rendere possibile l’anomalia italiana consentendo, tra l’altro, di attualizzare il dibattito intorno a Lenin e alla linea di condotta leniniana ma non solo.

Ciò che non possiamo eludere è il fatto che le cose non possono prescindere dalle parole e che, necessariamente, i passaggi storici richiedono un linguaggio che ne ratifichino l’esistenza e che questo linguaggio è sempre appannaggio di un ceto politico–intellettuale. Il nostro paese, sotto questo aspetto, ne rappresenta un vero e proprio paradigma, è sufficiente pensare alle trasformazioni a trecentosessanta gradi che hanno fatto da sfondo agli anni del cosiddetto boom economico dove, insieme alla struttura produttiva, si è delineato sul piano del costume e degli stili di vita un autentico salto epocale. Un passaggio che stava ovviamente dentro la materialità delle cose ma che solo un linguaggio ha reso esplicito. Le lotte operaie che prendono forma in detto contesto sono delle cose nuove e ciò è indubbio ma è altrettanto vero che la carica sovversiva di queste cose ha potuto darsi appieno proprio grazie al linguaggio che le ha narrate. Tutto ciò, in fondo, non è una novità ma il prosaico riconoscimento di come non si possa prescindere dalla relazione classe/ceto politico–intellettuale cosa che, del resto, il leniniano Che fare?, aveva posto nero su bianco in maniera quanto mai netta.

(4continua)


  1. Al proposito si veda, P. Piano, La banda 22 ottobre. Agli albori della lotta armata, Derive Approdi, Roma 2008. Mentre, per quanto concerne l’esperienza Gap–Feltrinelli si può vedere, N. Balestrini, L’editore, Bompiani, Milano 1989.  

  2. L., Adamic, Dynamite. Storia della violenza di classe in America, Bepress, Lecce 2010.  

  3. J., Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 2002.  

  4. Cfr. E., Quadrelli, Autonomia operaia. Scienza della politica e arte della guerra, Edizioni Interno 4, Rimini 2019.  

  5. Sul 7 aprile si veda, tra i molti, G., Bocca, Il caso 7 aprile. Toni Negri e la grande inquisizione, Feltrinelli, Milano 1980.  

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E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-1/ Sat, 22 Jul 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76714 di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia di storici che, delle vicende dell’altro movimento operaio degli anni ’60 e ’70, hanno fatto il loro ambito di ricerca. Pattuglia più che meritevole poiché, grazie a questa, sono stati confezionati una serie di lavori che hanno ben ricostruito sia gli albori delle lotte operaie e proletarie degli anni sessanta e primi settanta insieme a quel multiforme filone teorico che è stato l’operaismo, sia ciò che da questo ceppo ha preso vita. Lavori di notevole interesse e spessore che hanno contribuito non poco a restituire un minimo di obiettività storica all’insieme di quelle vicende che l’ordine del discorso dominante aveva decretato innominabili arrivando a bruciare sul rogo parte dei testi che di quella stagione erano stati elementi teorici e politici non secondari1.

Rispetto all’insieme di questi lavori il testo presente non ha nulla da aggiungere, semmai è interessato a focalizzarne alcuni aspetti. Si può, più o meno, concordare o dissentire con alcune interpretazioni come, ad esempio, l’eccessiva enfatizzazione attribuita a questa o quella rivista ignorando, e non si tratta proprio di cosa di poco conto, come in non pochi casi il corpo militante e le avanguardie si mostrarono non uno, ma molti passi indietro rispetto al movimento reale e, diretta conseguenza di ciò, come la questione della forza che la violenza operaia stava ponendo in maniera esplicita finisse con l’essere sostanzialmente elusa proprio da una parte di coloro che, almeno sul piano teorico e analitico, si mostravano tra i più sagaci interpreti e lettori di ciò che il movimento di massa stava ponendo all’ordine del giorno. Per altro verso si potrebbe anche obiettare come dentro una parte di quell’operaismo, aspetto solitamente ignorato da gran parte delle ricostruzioni storiche, la lotta contro la macchina statuale non fosse minimamente presa in considerazione il che, a conti fatti, non poteva far altro che far retrocedere la pratica del potere operaio entro un “economicismo” sempre o a rimorchio del comando o come volano del comando stesso. Se c’è qualcosa di poco convincente nell’operaismo che precede l’autunno caldo è proprio la teorizzazione di una sorta di dualismo di potere in permanenza che le lotte operaie sarebbero in grado di imporre, dando vita a forme di attacco che obbligherebbero il comando a una costante ristrutturazione senza mai, però, ipotizzare il momento della rottura.

Sulla necessità di spezzare la macchina statuale una parte dell’operaismo si mostrò a dir poco titubante e, a tal proposito, va sicuramente evidenziato come proprio nelle pagine de «La classe» tale nodo iniziò a essere affrontato senza mezze misure. Se l’operaismo, che per convenzione possiamo definire classico, aveva sostanzialmente ignorato la “questione dello Stato” e la necessità per la forza operaia di attrezzarsi per lottare contro la macchina statuale della borghesia, l’operaismo che prende forma dentro la lotta autonoma di massa comincerà a porsi concretamente il problema dello scontro politico – militare con lo stato e i suoi apparati. Anticipato ciò proseguiamo.

Come in tutte le storie, anche in quella relativa all’altro movimento operaio ve n’è una ufficiale e una tenuta, ad arte, un po’ nell’ombra2. Quella ufficiale, sposata dai più, ha focalizzato l’attenzione sul ruolo degli intellettuali e le riviste da questi confezionate, finendo con ignorare le lotte operaie o renderle semplici appendici e/o esecutrici delle direttive di un ceto politico – intellettuale, l’altra, e non per caso decisamente minoritaria, ha invece focalizzato la sua attenzione sulla massa anonima degli operai tanto che, in maniera non del tutto insensata, si è iniziato a parlare di autonomia operaia con la a maiuscola nel caso dell’autonomia degli intellettuali e di autonomia con la a minuscola messa di fronte a quella degli operai. Non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno emerso in alcune recenti ricostruzioni poiché, detta contrapposizione, affonda le sue radici nelle differenze risultate incolmabili all’origine anche della fine del giornale «La classe», tra ciò che diede vita a Potere Operaio3 da una parte e Lotta Continua4 dall’altra. A ciò va aggiunto, il che mostra come l’operaismo sia stato un contenitore teoricamente e politicamente affine ma non omogeneo, il fatto che una quota non secondaria degli attori che avevano dato vita alla stagione teorica dell’operaismo già sul finire degli anni sessanta era rientrata nei ranghi del PCI e del sindacato allineandosi velocemente e senza grandi difficoltà alle peggiori nefandezze che questi stavano perpetrando e continuando su questa strada anche quando, partito e sindacato, si mostrarono come i più accaniti nemici e persecutori delle lotte e delle pratiche dell’altro movimento operaio e della guerriglia comunista che queste si erano portate appresso5.

Fatta questa necessaria precisazione la quale, come un vero e proprio lapsus freudiano, sfugge a molti autori che negli ultimi anni si sono cimentati nella ricostruzione dell’operaismo, ritorniamo un momento sulla contrapposizione tra le due autonomie. In un bel saggio recente, Galmozzi6 ha ben reso il senso di questa differenza e, chi scrive, si allinea sostanzialmente con quanto in quel testo è sostenuto e argomentato. Per altro verso Viale, nel suo lavoro sul ’687, aveva già evidenziato come queste due anime non avrebbero potuto convivere a lungo e quanto un certo tipo di operaismo avesse poco a che vedere con gli operai e le loro lotte. Pur propendendo maggiormente per questa interpretazione il testo presente, dall’insieme di dette diatribe, si smarca immediatamente provando a collocarsi in un contesto diverso. Sicuramente, da un lato, ha indubbiamente un valore storico in quanto riporta alla luce un’esperienza del passato e la rende fruibile a chi è interessato a studiare queste vicende ma, dall’altro, prova ad argomentarne soprattutto l’attualità e per questo il suo intento è decisamente politico dove, per politico, si intende il qui e ora delle lotte operaie e della necessità di queste di trovare uno sbocco politico in grado di rimettere al centro dell’ordine discorsivo dell’antagonismo sociale la centralità operaia, la sua capacità di direzione e la necessità di costruire gli organismi del contropotere operaio sia all’interno degli ambiti produttivi, sia nei territori, un’asserzione non proprio scontata e in apparenza quasi folle ma che, con pazienza, si cercherà di argomentare infine , ma non per ultimo, discutere de «La classe» è anche una scusa per ridiscutere Lenin e la teoria politica leniniana. Partiamo, pertanto, esattamente da Lenin.

Mentre dai più, oggi, Lenin è considerato un cane morto il cui cadavere merita scarsa menzione o una mummia da venerare come un Padre Pio in versione laica, pare utile oltre che necessario provare a ricalibrare la teoria leniniana dentro il presente e farlo sulla scia dell’esperienza del giornale «La classe» il quale aveva fatto esattamente ciò, strappando Lenin alle sue litigiose vestali eredi del terzo internazionalismo, per farlo ripiombare prepotentemente e in piena freschezza dentro il fuoco della lotta di classe del presente. Questo aspetto sembra essere per lo più ignorato dalla saggistica inerente alla nascita e sviluppo del movimento dell’autonomia operaia mentre, al contrario, è stata proprio una nuova lettura di Lenin, o forse sarebbe meglio dire una sua nuova traduzione, a fare da sfondo a tutto ciò che ha dato politicamente vita alla stagione dell’autonomia operaia. Se c’è una cosa sulla quale appare difficile non concordare è proprio la costante ritraduzione di Lenin da parte di tutte le componenti politiche di quella stagione. Si può anche parlare della messa a regime di diverse eresie leniniane, di diverse traduzioni della teoria politica di Lenin ma sicuramente non di una sua rimozione e tutta la pubblicistica dell’epoca va esattamente in quella direzione. Lenin in Inghilterra insieme a 1905 in Italia8, del resto, erano stati passaggi e letture condivise dai più e questo non può essere certamente ignorato così come: “Cominciamo col dire Lenin”, era stato un non secondario incipit del ragionamento politico di ciò che nelle fabbriche, nei reparti e nei territori operai aveva iniziato a prendere forma9. Se c’è qualcosa che fa permanentemente da sfondo a tutte le iniziative organizzative ed editoriali che nascono intorno alle lotte operaie degli anni sessanta sono proprio Lenin e l’insurrezione, di più, se c’è una idea – forza che sostanzia tutte le esperienze dell’epoca è la necessità di dare, nel presente, corpo e teoria al partito dell’insurrezione.

Di questo, il che qualche interrogativo lo pone, nei testi recenti che hanno affrontato la storia e la politica dell’altro movimento operaio vi è ben poca traccia come se, gran parte degli intellettuali militanti contemporanei, preferisse ignorare e rimuovere alla radice la questione della insurrezione e della violenza che Lenin inevitabilmente si porta appresso, insieme a quell’ombra del patibolo e del carcere che da sempre fa da sfondo ai rivoluzionari, insomma ciò che sembra aver preso corpo è l’idea di una rivoluzione non distante da un buffet di gala, consumato negli intervalli di un qualche seminario o convegno accademico, all’interno del quale studenti e dottorandi di belle speranze pontificano sulle teorie operaiste, sulle sue derive approdate dall’operaio massa alle moltitudini, sul general intellect, il frammento sulla macchina per arrivare al lavoro cognitario come orizzonte contemporaneo sia del comando che della sovversione sociale tanto che, a uno sguardo anche distratto, lo spezzare la macchina statuale, l’insurrezione armata, la dittatura operaia e il potere dei soviet sembrano essersi repentinamente condensate nella conquista di una qualche cattedra universitaria e coevi fondi di ricerca. Detto polemicamente ciò torniamo a Lenin e alle pagine del nostro giornale. Infine, ma certamente non per ultimo, si assiste alla completa rimozione della rottura come elemento centrale della conflittualità operaia e proletaria. Con ciò, reiterando il limite proprio di un certo operaismo delle origini, si torna alla teorizzazione di un conflitto in permanenza, e coeve istanze di potere, destinate a giocarsi in eterno. Su questo piano, ovviamente, Lenin non solo può, ma deve essere rimosso. In ciò che, con non poca arguzia, è stato chiamato l’operaismo della cattedra10 i richiami a Lenin e al terrore rosso non possono che essere ignorati prima, accantonati poi. Non diversamente da quanto fece Bonaparte nei confronti della Grande Rivoluzione gli operaisti della cattedra, non rinnegano l’autonomia ma la epurano dagli eccessi relegandola nel tranquillizzante mondo della buona teoria niente di più e niente di meno di uno dei tanti capitoli della storia delle idee. Ma torniamo al nostro giornale.

«La classe» non si era prostrata davanti a Lenin e tanto meno si era sognata di venerarlo ma lo aveva preso e portato alla Fiat dove, in piena ubriacatura eretica, era risorto. Solo davanti ai cancelli di Mirafiori o dentro le Presse questi cessava di essere un santino da incorniciare ed esibire sugli altarini delle varie chiese comuniste, per farsi nuovamente rivoluzionario di professione, così come solo ritornando in fabbrica poteva abbandonare i panni del compito parlamentare rispettoso della legge e della legalità a cui una lettura a dir poco approssimativa de “L’estremismo” lo aveva relegato. Quella sua immagine bigotta e perbenista che il PCI e non solo aveva, per anni, pazientemente confezionato andava in frantumi. Ritornando in mezzo agli operai il suo tratto barbarico faceva nuovamente capolino e ritornava a far tremare il mondo, all’interno delle officine, insieme ai cortei operai, Lenin riprendeva a essere il partito dell’insurrezione e poteva tornare a essere il teorico e l’organizzatore della guerra di movimento e mandare in soffitta tutte le amenità proprie della guerra di posizione. Ma non si tratta solo di ciò. «La classe» sintetizza al meglio il rifiuto del determinismo e dello scientismo in cui Lenin era stato, e con lui tutta la teoria marxiana, da tempo imprigionato e con ciò ritornava a essere il punto d’approdo non della scienza in astratto, che è sempre scienza del capitale, ma della scienza operaia ovvero della soggettività di classe. Contro lo storicismo, prono alla metafisica della storia, ritornava a stagliarsi prepotentemente il treno della soggettività così come, contro il determinismo oggettivista, tornava quel Bisogna sognare! che Lenin aveva tradotto in programma di potere nella prospettiva della dittatura operaia.

Di fronte alla pacatezza e al buon senso di tutti i residui e cascami del terzo internazionalismo i quali, di fronte agli operai che non si lasciavano irretire dalla loro coscienza, dichiaravano l’immaturità dei tempi e della necessità della politica dei piccoli passi e dell’importanza strategica del grigio lavoro quotidiano, le fabbriche tornavano ad annunciare: sproneremo il ronzino della storia fino a che schianti! Una pietra tombale sembrava finalmente essere posta sul determinismo scientista e la gabbia dello storicismo definitivamente divelta dalla soggettività operaia, a fronte di un marxismo ridotto a banale interpretazione dello sviluppo capitalista e prono a un evoluzionismo ancorché dai tratti messianici, il marxismo di Lenin è nuovamente la scienza operaia della rottura, la scienza dell’insurrezione. All’oggettività dei processi del capitale, intorno ai quali si focalizzano tutte le eredità terzo internazionaliste, va giocato il processo della soggettività operaia. Lì, con questa e non altrove, si situa il punto di rottura. Contro la storia come sviluppo oggettivo del capitale va lanciata tutta l’irruenza del treno della soggettività operaia. Ai nuovi marxisti legali va contrapposto il bolscevismo del partito dell’insurrezione. Contro tutte le ortodossie comuniste che, reiterando il vizio positivista della Seconda internazionale, considerano il divenire come un canovaccio evoluzionista teologicamente determinato11, l’altro movimento operaio e le sue teorie reintroducono la dialettica dentro il divenire storico e con ciò la storia torna a essere un campo di battaglia che la soggettività può piegare in una direzione piuttosto che in un’altra. On s’engage …puis on voit! e ancora: D’audace, encore d’audace et toujours d’audace!, così Lenin aveva lanciato l’assalto al cielo e se c’è qualcosa di ortodosso nell’autonomia operaia è proprio la totale adesione a queste indicazioni leniniane.

Questa a conti fatti era stata la grande eresia pronunciata, ancorché sulla scia di Marx, da Lenin e che gli era costata l’ostracismo da parte di tutto il marxismo europeo insieme a una quantità di accuse le quali, volta per volta, lo avevano definito anarchico, giacobino, blanquista, neopopulista fino, tradendo con ciò lo sfondo razzista implicito in gran parte della Seconda internazionale, come barbaro e asiatico. Quanto questa narrazione tossica su Lenin e il bolscevismo finisse con l’essere fatta propria da tutti i ceti politici e intellettuali compresi, almeno in buona parte, quelli interni al movimento dell’autonomia operaia è ampiamente riscontrabile nel modo in cui, un intero pezzo della storia bolscevica e della coeva linea di condotta leniniana, finì con l’essere sostanzialmente rimossa dagli orizzonti dei vari ceti politici e intellettuali. Per esemplificare al meglio tutto ciò occorre compiere un piccolo passo avanti negli anni e osservare la diversa recezione che un pezzo non secondario della storia del bolscevismo ebbe dentro l’area dell’autonomia. Lì ed esattamente lì è possibile scorgere la non secondaria differenza tra l’autonomia operaia con la a maiuscola e quella continuamente tradotta in caratteri minuscoli.

(1continua)


  1. L’intera raccolta del giornale «La classe» è reperibile in formato PDF sui siti Chicago86 e Machina- DeriveApprodi. In particolare, in relazione all’esperienza de «La classe», si veda il lavoro di A. Pantaloni, 1969 L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, Derive Approdi, Roma 2020; mentre per gli opuscoli marxisti di Antonio Negri si veda A. Negri, I libri del rogo, Derive Approdi, Roma 2006. Il libro raccoglie una serie di testi usciti per la collana Opuscoli marxisti editi dalla Feltrinelli la quale, all’indomani del 7 aprile, li mandò al macero.  

  2. Cfr., E. Quadrelli, a cura di, Le condizioni dell’offensiva. Senza tregua. Giornale degli operai comunisti: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975–1978), Red Star Press, Roma 2019.  

  3. Su Potere operaio si veda, in particolare, M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria., Vol. 1. Derive Approdi, Roma 2018.  

  4. Per la storia di questa organizzazione si veda soprattutto, G. Viale, Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta Continua, Edizioni Interno4, Rimini 2023  

  5. Massimo Cacciari e Mario Tronti, che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del pensiero operaista, già sul finire degli anni sessanta fecero marcia indietro e si riallinearono al PCI seguendone, senza battere ciglio, tutte le nefandezze che questo non ebbe difficoltà a perpetrare contro i comunisti e le avanguardie operaie nel corso degli anni settanta.  

  6. C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973–1976), Derive Approdi, Roma 2019. Ancora più esplicativo, al proposito, è il recente lavoro dello stesso autore, Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori, Derive Approdi, Roma.  

  7. G. Viale, Il 68. Contro l’università, Edizioni Interno 4, Rimini 2018.  

  8. Entrambi i saggi si trovano in M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.  

  9. A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifestolibri, Roma 2016.  

  10. Si deve questa espressione a Oreste Scalzone che così, in Operaismo e comunismo, pubblicato sul blog Comunismo e comunità, Laboratorio per una nuova teoria anticapitalista, ha definito parte di quel ceto intellettuale che ha accademizzato la storia dell’autonomia operaia.  

  11. In questo modo il marxismo diventa una delle tante teologie della storia, cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2015.  

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