Lorenza Ghinelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nigredo: né comprensione né assoluzione https://www.carmillaonline.com/2023/12/01/nigredo-ne-comprensione-ne-assoluzione/ Fri, 01 Dec 2023 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80188 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Ballata per Nina, pp. 183, € 10, Marsilio, Venezia 2023.

Dopo Tracce dal silenzio (Marsilio, 2019) e Bunny Boy (Marsilio, 2021) arriva in libreria la terza e ultima puntata della trilogia Le visioni di Nina. Un esito che conferma appieno – se mai qualche distratto avesse avuto dubbi – non solo una scintillante capacità dell’autrice di offrire narrativa di genere del tutto letteraria (e anzi letteratura tout court – ne ha prodotto anche ottima mainstream – con un controllo stilistico assoluto) ma anche l’urgenza di dar voce a dimensioni interiori estreme, sofferte, autentiche in [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Ballata per Nina, pp. 183, € 10, Marsilio, Venezia 2023.

Dopo Tracce dal silenzio (Marsilio, 2019) e Bunny Boy (Marsilio, 2021) arriva in libreria la terza e ultima puntata della trilogia Le visioni di Nina. Un esito che conferma appieno – se mai qualche distratto avesse avuto dubbi – non solo una scintillante capacità dell’autrice di offrire narrativa di genere del tutto letteraria (e anzi letteratura tout court – ne ha prodotto anche ottima mainstream – con un controllo stilistico assoluto) ma anche l’urgenza di dar voce a dimensioni interiori estreme, sofferte, autentiche in una scrittura che rappresenta di fatto un unicum. Con un’empatia che fa amare Ghinelli anche da chi non abbia la ventura di conoscerla direttamente e apprezzarne l’onestà assoluta e la sensibilità tanto viva. Il risultato è una scrittura alta, profonda, preziosa in un’epoca in cui troppo spesso l’uscita letteraria rileva non tanto per lo specifico valore di un testo ma per l’evento e il personaggio di chi scrive (le confidenze personali nei suoi testi restano ancorate al senso intrinseco delle singole opere, e non puntano riflettori su di lei). Una premessa che non sembra inutile, considerando il gran circo delle uscite librarie e il panorama umano – ma in realtà anche letterario – non sempre entusiasmante che esso offre.

Dimensioni interiori autentiche: e non stupisce che ciò sia offerto con un linguaggio ricco di potenzialità simboliche ed evocative quale quello fantastico, in particolare a proposito delle singolari capacità che affliggono la protagonista, qui ormai quattordicenne (nei precedenti romanzi ne abbiamo seguito la crescita, in grazia della speciale attenzione di Ghinelli – un po’ in tutta la sua produzione – allo sviluppo e alle crisi dei ragazzi). Inevitabile pensare, per sfondi e suggestioni al suo seminale, fortissimo Il divoratore (caso letterario nel 2010, uscito per Newton Compton 2011).

L’asciuttezza, la brevità feroce di questa chiusa tanto nera della trilogia – tanto nera ma capace di un colpo d’ala finale, non tanto nel senso del lieto fine quanto per la capacità di uscire e non contentarsi di un nichilistico, pigro, manieristico restare a mollo nel male – dice già qualcosa per Nina di un rito di passaggio all’età adulta che è sempre un morire, ma qui assume toni anche più foschi. Un’opera al nero, dunque, sobbollente tra i decreti ministeriali della pandemia, i sequestri in casa di un’intera popolazione, le dinamiche elettroniche non sane – ma in fondo le uniche a disposizione – per dialogare: i suicidi non dichiarati di quel periodo emergono qui assieme ad altri spettri tutti interiori, al ritmo del ritrovamento notturno di ossa di topo e di uscite impossibili in una tenebra dai plurimi significati.

In tale sterilità d’ambiente in cui la famiglia di Nina – con l’eccezione del tormentato e adorabile fratello Alfredo – è finita alla deriva di un’ottusa passività e di riti compulsivi vuotamente problematizzanti assieme al resto della popolazione, l’adolescente coglie frequenze di morte di tipo nuovo, ma soprattutto incontra un predatore: un quindicenne dal passato travagliato che però, complice la molle distrazione delle agenzie di appoggio attorno (un’affidataria miope, dolciastra e ambigua, un prete superficialotto), ha maturato peculiari caratteristiche. Onde evitare spoiler, limitiamoci alla definizione da quarta di copertina: “il male corrisponde pienamente alla natura di chi agisce, e non cerca né comprensione né assoluzione” (appunto: l’affidataria e il prete, ma in fondo una platea di lettori dai buoni sentimenti). Se nell’Ottocento dei teologi salutisti Joseph Sheridan Le Fanu li mostrava incapaci di cogliere la vertigine autentica del Male e dunque di intervenire a soccorso di chi soffra, con un’operazione in parte simile e più laica Ghinelli punta qui il dito su alcune terribili possibilità di Male (lasciamogli la lettera maiuscola per le sue dimensioni di mistero etico tutto umano, non importa se secolarizzato) in fondo agevolato da fenomeni dei nostri tempi.

Tuttavia le peculiarità paranormali di Nina non la rendono realmente diversa da qualunque adolescente sensibile, e le manifestazioni “parapsicologiche” rappresentano in fondo solo un’espressione letteraria fantastica di irruzioni reali dell’orrore e del nonsenso nel tessuto sensibile, plastico e ancora tanto fragile, dei giovanissimi dei nostri giorni. Mentre il nero cui l’autrice offre voce per narrare è qualcosa che riconosciamo anche come adulti, scesi almeno qualche volta in quegli inferi che non frequenteremo solo post mortem, ma che ci vengono spalancati da contingenze storiche (come appunto la pandemia) o catabasi personali. La lingua asciutta del romanzo pare la più congrua a una simile opera al nero.

Le visioni di Nina si chiudono così con un quadro dove tutto punta verso la necessità di porsi domande, di maturare consapevolezze – superando anche limiti umanissimi di chi sta intorno, come qui i genitori, ma salvando quel quid di sacro che offre senso al vivere. Di ribellarsi alle manipolazioni (dei piccoli “deboli” assassini – lo vediamo nella cronaca tragica e grottesca di questi giorni – come di una società brutta e fintamente forte di veri uomini frustrati e depressi che costituisce solo l’altro lato della stessa medaglia predatoria) e di coltivare fuor d’ogni buonismo una capacità d’amare. Purché effettiva, sana e vitale.

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L’ombra di un’ombra https://www.carmillaonline.com/2022/07/03/lombra-di-unombra/ Sun, 03 Jul 2022 20:29:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72823 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, La stirpe e il sangue, illustrazioni (splendide) di Darkam, pp. 171, € 18, Bompiani, Milano 2022.

Cosa può spingere un’autrice certo eclettica, capace di muoversi disinvoltamente tra mainstream e genere e comunque di offrire un genere elegantemente letterario, ma non cultrice del romanzo storico in quanto tale, ad allontanarsi dagli sfondi e dalle storie pur tanto crudeli della nostra epoca per precipitare indietro fino al XV secolo? Se lo chiedeva lei stessa, Lorenza Ghinelli, in una presentazione di questo libro tenuta di recente a Torino. Cosa può spingere [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, La stirpe e il sangue, illustrazioni (splendide) di Darkam, pp. 171, € 18, Bompiani, Milano 2022.

Cosa può spingere un’autrice certo eclettica, capace di muoversi disinvoltamente tra mainstream e genere e comunque di offrire un genere elegantemente letterario, ma non cultrice del romanzo storico in quanto tale, ad allontanarsi dagli sfondi e dalle storie pur tanto crudeli della nostra epoca per precipitare indietro fino al XV secolo? Se lo chiedeva lei stessa, Lorenza Ghinelli, in una presentazione di questo libro tenuta di recente a Torino. Cosa può spingere soprattutto a cercare in quel passato le dimensioni più oscure, umbratili e meno immediatamente attraenti per l’uomo della strada, persino per chi quegli sfondi – Valacchia, Anno Domini 1442 – studia per interesse alla nerissima saga dei Drăculeștii, ormai di dominio pop? Che qui invece resta assolutamente sullo sfondo e defilata. In scena sono invece gli ultimi e i senza storia, una madre Maria e i due piccoli Anna e Radu, sopravvissuti all’eccidio consumato nel loro villaggio al dilagare dell’esercito ottomano di Murad II: ultimi che dovranno reinventarsi un ritmo quotidiano per sopravvivere – mangiare, essere difesi, non impazzire – nelle circostanze più estreme: la foresta piena di pericoli concreti, poi la casa di un boiardo persino più insidiosa, quindi di nuovo la foresta e la casa di una “strega”.

Quel che si dipana – e l’immagine, considerando la visceralità, non va tanto a un gomitolo ma a intestini srotolati –, è una sorta di romanzo di formazione. Formazione per la madre, costretta a cambiare la propria vita in un modo drastico che mai avrebbe immaginato; per Anna, la piccola che però dovrà subire tutto, perché abbastanza cresciuta da non conoscere la pietà dell’incoscienza; per Radu stesso, che in mezzo a tutto ciò cresce, con il suo problema metabolico per cui solo il sangue può integrare davvero il suo vitto – o almeno di ciò è convinta la madre e dunque si convinceranno anche lui e (in qualche misura) la sorella. Una formazione terribile che, come nei riti di passaggio, vede consumarsi l’esplosione di ogni regola civile, in un’ostinazione a vivere che non pretende assoluzioni o simpatie di nessuno. Alla stirpe dei padri – i signori della storia, i coinvolti nella gestione di alleanze e voltafaccia ai tavoli dei principi e comunque gli amministratori della forza comunitaria – si oppone così la logica del sangue, delle madri, cioè le complicità e alleanze segrete delle donne, figure marginalizzate e ultime che però possono spalleggiarsi con effetti eversivi: e la storia (esilio, fughe continue e anzitutto da se stesse) è quella di una liberazione non condotta sotto le insegne della luce. Non per tutte le liberazioni è possibile, riflette l’autrice, e del resto la Storia invita a essere molto cauti verso chi pretenda di bandire gonfaloni luminosi. Più in generale è utile riflettere che nell’intreccio della Storia le lotte di liberazione possono conoscere dimensioni  oscure senza per questo perdere il loro valore di fondo (bene ribadirlo, in un tempo in cui per esempio la Rivoluzione francese è oggetto di una serie di scandalose svalutazioni da parte di bigotti, reazionari e ignoranti sempre più numerosi): ma il teatro simbolico qui in scena e volutamente enfatizzato (di fronte a certe trovate è impossibile non pensare all’amore, più volte dichiarato, dell’autrice verso il terribile Titus di Julie Taymor da Shakespeare, 1999) parla il linguaggio nero delle fiabe. Sia nel ritmo ipnotico, a tratti cantilenante, lucidamente eletto come cifra stilistica, sia nelle scelte estreme dei contenuti: il buonismo becero da società-chioccia confonde il sadismo inutile di Bambi con la necessità che una fiaba abbia connotati “impresentabilmente” neri. Del resto, chi non si fa inquietare all’infanzia dalle storie di ombre, ricorda Le Fanu in Carmilla, è candidato da adulto a farsi divorare dalle medesime, in quanto mancante di quel sacrosanto vaccino della fantasia che aiuta a tenervi testa.

Se, in un mondo estremo, il cuore della morale è rappresentato dalla sopravvivenza nostra e delle persone che amiamo – come quel cucciolo malriuscito e troppo pallido che la Morte stessa non ha toccato in vista di chissà quali progetti – a quel punto la lotta è aperta: ed è questa la fiaba nera che Ghinelli racconta. Dove l’ombra dilagante attribuita al voivoda arcivampiro si rivela invece, al netto di tutte le deformazioni dei fuochi notturni e della luna, quella esile di un ragazzo che le donne hanno fatto sopravvivere.

Per tornare dunque alle domande iniziali: da dove questa storia? Forse è normale che un’autrice come Lorenza Ghinelli, con una sensibilità accentuata al sentire dei ragazzi, l’allergia alle storie con la morale (manzoniana o meno) ma lo sguardo ben oltre quelle esaurite in un nero fino a se stesso, andasse prima o poi a sgattare nelle ombre e nel terriccio retrostanti l’antico mito vampirico: a stanare quei bambini perduti nell’orrore organizzato dai padri, e costretti a trovare nel sangue sghembe formule di sopravvivenza (c’entra fino a un certo punto, ma mi pare inevitabile ricordare Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, con la sua Svizzera/Transilvania). E insieme vien da pensare a un calare sciamanico tra i morti per coglierne le voci con la medianità della letteratura, e riportarle a noi, e traversare i mondi col suo fiato di rivolta.

Tanto più che il romanzo finisce col costituire insieme una potente, fiabesca metafora della sete di sangue di noi lettori, nelle terre occupate del neocapitalismo ostaggio di voci educatamente esangui, di romanzi da salotto tantopresentabili, di rovelli ombelicocentrici terreno di mamozzi altoborghesi le cui paturnie vengono paludate come spasmodicamente interessanti. Un grottesco impoverirsi della letteratura che spinge allora gli assetati a cercare storie dove vengano imbandite, magari di cattiva qualità o di cattive idee, perché quella sete di sangue (cioè di vita vera, di storie vere) c’è, e in sé è sana. E certo non vi sovvengono gli uomini delle Alte Poltrone, che hanno solo interesse a confermare questa forma del mondo. Mentre le storie terribili dobbiamo conservarle, tanto più se raccontano che i poteri cattivi si possono sovvertire: fiabe di formazione di cui, in momenti difficili come questo, abbiamo un gran bisogno.

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Lorenza Ghinelli: Nina in Wonderland https://www.carmillaonline.com/2021/06/04/lorenza-ghinelli-nina-in-wonderland/ Fri, 04 Jun 2021 21:04:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66612 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Bunny Boy, pp. 256, € 17, Marsilio, Venezia 2021

Scrivere un sequel espone a parecchi rischi: sia quelli generali legati al delicato rapporto tra riproposta e originalità – soprattutto ove non si faccia riferimento a un meccanismo apertamente seriale, che fa scattare un diverso patto col lettore – sia quelli peculiari delle potenziali trilogie, dove la seconda parte rischia d’essere recepita quale mero snodo tra inizio e gran finale. Eppure la scommessa è superata in modo brillante da Lorenza Ghinelli con Bunny Boy, magnifico seguito delle avventure di [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Bunny Boy, pp. 256, € 17, Marsilio, Venezia 2021

Scrivere un sequel espone a parecchi rischi: sia quelli generali legati al delicato rapporto tra riproposta e originalità – soprattutto ove non si faccia riferimento a un meccanismo apertamente seriale, che fa scattare un diverso patto col lettore – sia quelli peculiari delle potenziali trilogie, dove la seconda parte rischia d’essere recepita quale mero snodo tra inizio e gran finale. Eppure la scommessa è superata in modo brillante da Lorenza Ghinelli con Bunny Boy, magnifico seguito delle avventure di Nina, la bimba sorda che abbiamo conosciuto in Tracce dal silenzio (Marsilio 2019, Feltrinelli 2021): le sue capacità di ascolto di ciò che in teoria non potrebbe avvertire – un ascolto paranormale, a voler trovare un aggettivo per definirlo – si fanno sempre più impressionanti, e il risultato è un romanzo thriller/horror di grande forza, persino più compatto dell’ottimo precedente. Tanto più che lo stile è quello controllatissimo, polito e insieme vivido che conosciamo dai precedenti dell’autrice, nell’ambito di una scrittura che gioca col genere, ma di spessore genuinamente letterario.

Però il passaggio a questa seconda avventura costringe a modulare meglio gli aggettivi: più che paranormale (termine legato a una lettura del tutto esteriore dei fenomeni, senza accedere al livello più profondo di un’esperienza dell’interiorità) dovremmo dire sciamanica. Sia nel senso di una partecipazione personale, interlocutoria, simpatica, di Nina al dramma che ha schiuso la porta al Male, in questo caso il dramma di un bambino assoggettato per troppo tempo a forme abiette di violenza e a un abbandono/tradimento da parte dello spregevole padre; sia in quello di un intervento medicativo della realtà. La realtà è rimasta ferita, e dunque suscita lo sciamano a correggere il tiro, attraverso il passaggio su e giù per l’asse della Vita. Dove l’analisi del recensore – confortata da indizi e da discorsi dell’autrice nel corso d’interviste – rischia però di ridurre un tessuto più complesso, visionario e insieme umanissimo sul tema della crescita, nell’ambito di una storia tesa, incalzante, appassionante: e tento di limitare al massimo gli spoiler.

Bunny Boy, “ragazzo coniglio” può certo fotografare la situazione di una bocca in cui la dentatura sia cresciuta in modo poco armonico, ma richiama anche ad alcune figure mitiche. Personaggi umani con teste di coniglio – come taluni che zampettano nelle visioni di Nina – o invece conigli di statura antropomorfa hanno costellato l’immaginario moderno: per ricordare solo due casi emblematici, l’Harvey della deliziosa pièce di Mary Chase, vincitrice del premio Pulitzer 1945 (in Italia per Tre Editori 2011), da cui il film di Henry Koster 1950 con James Stewart, provoca sui limiti della salute mentale attraverso la presenza (?) del pooka conigliforme Harvey visibile solo al candido protagonista; ma non manca una sua nemesi sinistra nell’apocalittico Frank di Donnie Darko di Richard Kelly, 2001, evocante dimensioni parallele e il senso di una crisi epocale della realtà. D’altra parte, in radice, è impossibile non pensare a un’altra bambina che seguendo un coniglio finisce in una sorta di pozzetto – come alcuni qui evocati – e si ritrova nella terra della Meraviglia. Gli interlocutori conigliformi di Alice – Lepre marzolina compresa, anche quella con gli stigmi della follia – hanno più o meno le sue dimensioni, e suggeriscono nel dialogo e negli atteggiamenti un che di antropomorfo. Se aggiungiamo che spiriti coniglio sono presenti un po’ ovunque nel folklore, a partire idealmente da una certa tipica maschera Dogon con orecchie da coniglio, lungo naso e bocca protrusa che pare richiamare il devastatore cosmologico dei raccolti – fin dai primi, piantati dalla volpe in età ancestrale –, ci rendiamo conto che nello spazio interiore un simile trickster si trova benissimo. Assai meno nella vita concreta, e Nina per interagire dovrà calarsi nella paradossale Wonderland di sofferenza e atrocità in cui Bunny Boy è imprigionato. Non solo affrontando con gli amici – come Hänsel e Gretel che seguono la pista di sassolini – quel bosco oscuro che è un luogo fisico e insieme abbiamo dentro, ma calandosi poi nel pozzetto di Ragazzoconiglio per chiudere la partita come può farlo una piccola sciamana.

Il trickster permette di udire le ragioni del misrule, quel disordine che trova senso su un piano cosmico più ampio. Attraverso Bunny Boy, l’autrice ascolta le ragioni di una ribellione ai padri indegni, con un equilibrio straordinario tra infinita dolcezza e una rabbia che diventa ferocia e sparagmòs: a evidenziare senza facili giudizi i nodi critici attraverso l’esperienza di chi soffre, mostrare la Bellezza e il respiro pieno dell’essere umani – certo con conflitti, dolori, faticosi perdoni anche a se stessi – e a ricordare che il tempo è una dimensione costitutiva di noi. Cioè che si cresce – o almeno si può crescere – soltanto poco per volta, a strappi, e ciò comporta perdite di sangue: come il ciclo che arriva a Nina, o come la sghemba e malsana reazione (in fondo frutto di un tentativo di crescita e attribuzione di senso alla vita) di Bunny Boy. Certo è diversa la violenza di chi ha patito tanto, fino a scivolare nella follia, e quella che invece si fa abuso, predazione, egoismo in caduta libera – e questa non ha diritto di parola. Nella vita quotidiana come – vorremmo dire, di fronte a certi lamentosi revisionismi reclamati da ex-persecutori – nella Storia.

Molto belle, come sempre nei romanzi di Ghinelli, le altre figure. In particolare i ragazzi attorno a Nina (il fratello Alfredo, Nur e Rasha già incontrate nell’avventura precedente, Giaime per cui Nina impara a provare qualcosa di grande) che scoprono l’amore, l’avventura, il combattere fianco a fianco – che è un modo di amare –, ma anche la delusione, quello strappo doloroso che è la separazione o il non essere scelti; Sara e Marco, i genitori di Nina e Alfredo, che hanno superato le precedenti crisi e stanno riscoprendo il proprio rapporto al di là di paure e minacce; Luca, l’educatore di Rasha e Nur, alle prese con il fratello Ricky che mette a soqquadro tutto attorno a sé; lo stesso “Bunny Boy” e sua madre. Le famiglie possono essere luoghi di forza – anche se non necessariamente di utile ascolto – o di dannazione, e la buona volontà non basta: la speranza, nelle storie di Ghinelli, non è mai ottimismo becero o buonismo facile, e come a scongiurare tali vie banalizzanti l’autrice lascia mano libera alle mattanze di un ex-bimbo vessato. Senza orrori gratuiti, le scene atroci non mancano, rette sempre con assoluto controllo narrativo: ma c’è qualcosa in più di un’eccellente scrittura letteraria e una delicata ed empatica sensibilità. L’autrice si muove su una traccia autenticamente sciamanica, in un senso che è visione, capacità di analisi interiore e di accoglienza/valorizzazione della sorpresa, dello spazzamento, di un tremendum prezioso e minaccioso insieme: e qui la latitudine di un’interiorità si abbina a un profilo autorale dalle doti particolarissime. Che di certe dimensioni umane ha fatto non solo competente approfondimento ma – si direbbe – esperienza profonda.

Come per Hänsel e Gretel, il romanzo aiuta a riflettere sull’utopia di segnare piste nel buio – anche quello del logorio della quotidianità; e, come spesso nei romanzi di Ghinelli, vede un ripartire vitale – fuor d’ogni retorica – proprio dal limite, in questo caso la sordità. Quel limite che, nell’impasto insemplificabile e mai moralistico delle vite, può divenire la porta d’accesso al Male se vissuto in disperato abbandono, può all’opposto permettere di esperire il mondo da prospettive non usuali, battendo strade nuove nel segno della complessità, in presenza di doti personali e affetti che credono in noi.

Nina qui prende finalmente consapevolezza del proprio potere – e una prossima puntata, già si annuncia, dovrebbe vederla adolescente. Per cui la ragazzina esplora le proprie capacità lungo le vie sottili, un po’ come l’autrice che, in una recente intervista, risponde: “Vivo (e scrivo) in uno stato di perenne esplorazione”, anche attraverso le vie sottili della letteratura. Che può divenire, in qualche modo, buona prassi sciamanica, laddove ci aiuti a calarci nei pozzetti tra i morti – guidati magari da una bestia infera – per poi recarne qualche provocatoria medicazione alla realtà che ci sta intorno.

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Il senso di Ghinelli per l’autentico https://www.carmillaonline.com/2019/12/28/il-senso-di-ghinelli-per-lautentico/ Sat, 28 Dec 2019 22:05:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57044 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Tracce dal silenzio, pp. 334, € 14, Marsilio, Venezia 2019

La piccola Nina ha perso l’udito per un incidente: come può dunque, a impianto cocleare spento, sentire nottetempo una musica? Peraltro una musica che lei, dieci anni, ben difficilmente potrebbe conoscere: “Quando noi vediamo una ragazza passeggiar, cosa facciam? Noi la seguiam…”. E quella musica come si lega a orribili delitti consumati nella zona ai danni di giovanissimi?

L’ultimo romanzo di Lorenza Ghinelli – autrice eclettica, che ha battuto più registri di scrittura – è un esempio paradigmatico, [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Tracce dal silenzio, pp. 334, € 14, Marsilio, Venezia 2019

La piccola Nina ha perso l’udito per un incidente: come può dunque, a impianto cocleare spento, sentire nottetempo una musica? Peraltro una musica che lei, dieci anni, ben difficilmente potrebbe conoscere: “Quando noi vediamo una ragazza passeggiar, cosa facciam? Noi la seguiam…”. E quella musica come si lega a orribili delitti consumati nella zona ai danni di giovanissimi?

L’ultimo romanzo di Lorenza Ghinelli – autrice eclettica, che ha battuto più registri di scrittura – è un esempio paradigmatico, a confutazione esemplare di equivoci ormai rancidi, di come si possano scrivere testi di genere autenticamente letterari, per qualità narrativa, profondità e spessore. E anche in questo caso l’intensità e l’equilibrio sono quelli ai quali ha abituato i lettori, una sua cifra riconosciuta, per cui sul punto non mi soffermerò. Passerei invece ai contenuti di questo ritorno all’horror – o anche propriamente al (neo)gotico, come linguaggio del non-detto, della trasfigurazione e del mostruoso – idealmente sull’onda del primo, leggendario Il divoratore (Newton Compton 2011) che l’aveva fatta conoscere.

Sovente nei romanzi di Ghinelli i personaggi principali sono ragazzi. L’autrice è da sempre un’appassionata, simpatetica osservatrice del mondo dei giovanissimi e sa ricostruirne in modo estremamente felice dinamiche e impennate, sofferenze e insofferenze (basti ricordare lo straordinario La colpa, Newton Compton 2012, che l’aveva vista finalista allo Strega): con la marcia in più di una capacità introspettiva rara, legata a una personale sensibilità. Non stupisce che qui Nina e i suoi complici – il fratello sedicenne Alfredo, le compagne di lui Nur e Rasha venute da una guerra lontana, altri ragazzi – rappresentino il primo piano della vicenda e si scontrino in prima linea col Male. Ma due aspetti vanno rimarcati. Anzitutto che le dinamiche non devono nulla al politicamente corretto: tutto – l’handicap della piccola protagonista, lo status di migranti delle due ragazzine – è depurato da qualunque concessione a retorica del politicamente corretto e commozione facile per guardare al nocciolo della realtà evocata. E poi che il Male emerso non ha nulla di manicheo, anzi paradossalmente si compenetra (per evitare spoiler non è il caso di dire di più) con confusi conati di giustizia: anche se, di nuovo, il controllo assoluto sul piano della narrazione e una pietas genuina, profondamente empatica, impediscono paradossi interpretativi pelosi.

Ma se questa è la prima linea, ce n’è una seconda, una trincea dove troviamo gli adulti. Professori, educatori, terapeuti, ma soprattutto i genitori di Nina e Alfredo, Sara e Marco. Una coppia segnata in modo devastante dall’incidente che ha colpito la piccola – sensi di colpa di Marco e mancato perdono di Sara per la sua responsabilità nell’evento –, il cui slabbrarsi sembra però frutto di una crisi in sordina precedente, e con il cumulo da mille altre cause quotidiane che allontanano, portano alla deriva. In realtà, a ben vedere, problemi di ascolto si allargano a cerchio d’onda tutt’intorno a Nina, idealmente proprio a partire da quelli tra Sara e Marco, il cui amore sordo – nel senso di non riuscir più a percepire le ragioni reciproche, a sintonizzarsi nonostante la permanenza di un legame forte – vede un logorio di cattive comunicazioni. Ma come la sordità effettiva di Nina trova specchio in quella relazionale dei genitori, così la sua innaturale capacità di udire si rifrange in un altro ascolto di voci impossibili, da parte dell’anziana vicina Rebecca…

In una prova precedente dell’autrice, il bellissimo Con i tuoi occhi (Newton Compton, 2013) la co-protagonista Carla custodisce come segreto la propria acromatopsia – non riconosce i colori –  che però non ne indebolisce la vivida qualità di visione della realtà fisica e d’interpretazione del mondo: e un po’ tutto il romanzo è la storia di un vedere con gli occhi degli altri, un cercare di comprendere la loro visione più o meno particolare – fino a farsi in fondo metafora della scrittura, dove autrice e personaggi si prestano rispettivamente lo sguardo. Dal tema del vedere si passa in Tracce dal silenzio a quello dell’udire: e in calce a questo nuovo romanzo Ghinelli tributa anzi “un ringraziamento speciale al mio orecchio destro, sordo”. Cioè non una mera presa d’atto della grinta necessaria nell’affrontare dimensioni limitanti (che, in modo diverso, tutti abbiamo, fisiche o interiori), ma una messa a frutto intelligente e sensibile delle medesime, e anzi un volgerle in punti di forza: in questo caso un sentire “altro”, sintonizzato su frequenze essenziali della vita, che per una narratrice si svela prezioso. E permette di dare concretezza alla speranza e tempo verbale affidabile a una categoria-futuro: i romanzi di Ghinelli, che parlano di passati terribili e catabasi infere del presente, ci dicono che un futuro è possibile. Nulla è scontato, occorre lottare, ma è possibile. Potrà recare nuove ombre? Certo, è inutile nascondercelo. Ma ci strappa avanti dal loop dell’oggi, e non è un caso che nei suoi testi a sbloccare la situazione siano spesso il popolo del futuro, i ragazzi.

In effetti, al di là della finzione narrativa, ciò che sempre si respira nella pagine di Lorenza Ghinelli è l’autenticità (grazie a diretta esperienza e studio serrato) delle situazioni psicologiche e sociali esplorate: sia che il passo sia quello della commedia, sia che tratti invece drammi umani, magari concatenati in filiere come purtroppo – lo sappiamo – la vita talora ammannisce. Un’autenticità retta da una qualità di scrittura che permette alle sue trame intense di passare illese oltre le Rupi Cozzanti di tanta narrativa italica di successo, le tentazioni da un lato del melodramma con le sue cartapeste e dall’altro dell’educata narrativa da salotto con trame esili e paturnie addomesticate: nulla di più lontano da lei. Certo, le situazioni che spesso offre (e anche in questo caso) sono estreme, ma proprio quelle, se ci pensiamo, vedono più realistica e ineludibile una reazione dei protagonisti; e proprio in questo scoperchiare meccanismi autentici le sue storie svelano in qualche modo un’esemplarità. È quella dimensione di mito – nel senso originario e alto di discorso importante (su di noi, sul nostro essere tra gli altri, sulle sfide della vita) – che ha la letteratura vera: storie esemplari, mai didattiche ma veridiche, che ricapitolano idealmente tutte le altre attorno a noi il cui teatro è più sfumato o elusivo. E la stessa scelta di genere cui l’autrice in Tracce dal silenzio ritorna, il linguaggio neogotico, ci indirizza a questa chiave: certi echi dal profondo li conoscono i ragazzi con il loro linguaggio ancora tanto tributario del mito, e gli anziani come Rebecca con il peso montante di voci sepolte e di ombre. Ma in fondo anche noi stessi possiamo riconoscerli, quale forma delle ferite e contraddizioni che abbiamo dentro, che ci fanno male e non basta un cambio d’alloggio per superarle: almeno se siamo capaci di prendere sul serio le piume di corvo che ci pare di riconoscere di sguincio in fondo allo sguardo. E di non nasconderle sotto il tappeto.

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