Londra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Blue bayou https://www.carmillaonline.com/2024/10/16/blue-bayou/ Wed, 16 Oct 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84897 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.» (Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.»
(Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio quel superamento del limite dell’intimismo e della soggettività che tanto lo infastidiva nella maggior parte della produzione letteraria contemporanea. Soprattutto italiana.

Un soggettivismo e un intimismo che, troppo spesso, si cela anche all’interno di storie forzatamente drammatizzate, ma sostanzialmente prive di alcuno spessore epico, sociale e collettivo, che qui invece il lettore potrà trovare. Un’epica non basata su avvenimenti roboanti, portati in giro sotto le spoglie di comode etichette già da tempo cadute in disuso, ma sui fatti della vita quotidiana e della normalità esistenziale che si intrecciano con i movimenti della storia e della società nel suo caotico complesso. Una vicenda in cui, comunque, l’essere collettivo domina sull’essere individuale, irrevocabilmente destinato alla sconfitta.

Una storia di amicizia e, in qualche modo, di “tradimento” che ha fatto venire in mente a chi scrive queste righe, anche se non si tratta assolutamente di un noir, il romanzo forse più bello di Raymond Chandler: Il lungo addio. Metafore, entrambe le opere, dello scorrere inarrestabile del tempo e della vita, destinato come un grande fiume a portare via con sé amicizie, esperienze, vite e amori. Tutti espressione di momenti e di istanti irripetibili, che sembrano galleggiare disordinatamente sulla corrente, a tratti impetuosa e a tratti rallentate, della memoria collettiva o del singolo.

E’ certamente un luce crepuscolare quella che illumina le vicende, grandi e piccole, drammatiche o romantiche, che costellano la narrazione. Attenzione però, una luce crepuscolare che non corrisponde alla sempre banale e distorta nostalgia del ricordo a sé stante. Isolato dal contesto specifico e ridotto a semplice testimonianza dell’esperienza del singolo.

La storia del legame di amicizia, fratturato e contorto, tra Rhys Campbell, l’io narrante che come afferma lo stesso ha «scavalcato i sessanta da qualche anno», e Sal Smolinski, «di due anni più giovane», si snoda attraverso la storia sociale, politica ed economica degli Stati Uniti del secondo Novecento e degli inizi del secolo attuale. Anche se non mancano, attraverso altre presenze e personaggi, riferimenti ai tempi della schiavitù o delle lotte sindacali del periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Una narrazione pacata e allo stesso tempo radicale, che ci accompagna in un viaggio ambientato per due terzi in Louisiana lungo le sponde del Mississippi, a New Orleans e nel bayou che caratterizza la regione1, ma che non manca di rinviare alla descrizione di altre città come New York, Chicago, Kansas City e Los Angeles, di cui vengono forniti ritratti sintetici ma efficaci, per poi concludersi a Londra, sulle rive di un altro fiume, il Tamigi.

La scelta della città in cui si ambienta la maggior parte della vicenda, New Orleans, con le vicine De Allemands e Venice, non è certo casuale poiché attraverso le memorie custodite tra le vie e le piazze di questa città è possibile ricostruire lo sviluppo della società americana e dell sue culture. Dalla tratta degli schiavi in Congo Square alla nascita del jazz fino all’uragano Katrina del 2005, anticipazione drammatica di tutti gli uragani a venire, fino a quelli che hanno recentemente colpito la Florida e altri stati del Sud degli Stati Uniti, e che sembra aver malignamente portato via con sé i ricordi di una storia secolare insieme ai quartieri più poveri della stessa città.

Una città di musica che è presente quasi in ogni pagina del romanzo: musica cajun dei francesi immigrati lì fin dal Settecento dopo la loro espulsione dai territori canadesi da parte dell’impero britannico, all’epoca ancora in piena espansione; lo zydeco derivato dall’incrociarsi di questa con quella degli schiavi africani portatori dei ritmi caribici; il blues e il jazz delle origini insieme al rock’n’roll e alle ballate folk del recentemente scomparso Kris Kristofferson, l’indimenticabile interprete del Billy the Kid portato sugli schermi da Sam Peckinpah. Ma tutte queste forme di espressione musicale, che compaiono in vari momenti della narrazione, non costituiscono però mere note di colore, marcandone piuttosto il ritmo: ora triste, ora allegro, ora solenne e talvolta caotico.

Si diceva all’inizio del paragone possibile con Il lungo addio di Chandler, ma qui non ci sono delitti o crimini evidenti. Il “tradimento” di Sal, in fin dei conti, non è soltanto nei confronti dell’amicizia con Rhys o dell’amore, mai del tutto compiuto, per la figlia Belle, è un tradimento “generazionale”. La fuga verso il successo individuale contro il sogno comunitario e ribelle di una generazione, o più generazioni, che hanno cercato e cercano di superare i limiti dell’esistente attraverso, sì, il disincanto (rappresentato nel romanzo dal personaggio di Marc, il “marxista” del gruppo), ma anche per il tramite della condivisione degli affetti e delle esperienze, delle storie vicine e lontane, per quanto drammatiche queste possano essere.

Tutto scorre, come nel celebre romanzo di Vasilij Semënovič Grossman. Scorrono i fiumi, il tempo, le vite, le rivolte, gli amori, le amicizie e i modi di produzione e riproduzione della vita stessa. Senza sosta, senza nostalgie, senza i sempre inutili rimpianti. Ciò che è stato è stato e non è possibile comunque tornare indietro, sembra suggerire l’autore. Che, con quest’opera, fa viaggiare il lettore avanti e indietro anche nel suo stesso percorso di scrittura, ricerca, vita e impegno: dai testi sul Mississippi e il Tamigi oppure su città come New York e Londra, a quelli sulla cultura e letteratura degli Stati Uniti (di cui è stato per anni docenti presso l’Università Statale di Milano); dalla vicinanza politica alla Sinistra Comunista fino ai testi, pubblicati già all’inizio degli anni Settanta sulle culture dell’Underground, la musica rock e popolare americana e la rappresentazione letteraria e politica della storia della lotta di classe in America (qui ).


  1. Il bayou (dalla lingua dei nativi Choctaw bayouk, che significa “tortuosità”) è un ecosistema, caratterizzato da acquitrini, fitte foreste e case su palafitte tipico del delta del Mississippi, in Louisiana. E’ costituito da distese paludose che si sviluppano tra i diversi bracci dello stesso fiume, mentre i corsi d’acqua formano una rete navigabile che la popolazione locale ha usato per secoli per spostarsi, pescare ed eventualmente sottrarsi al braccio del potere, come, ad esempio, ben narrano i romanzi noir di James Lee Burke.  

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Vite brevi ed esemplari delle spie / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/08/14/vite-brevi-ed-esemplari-delle-spie-2/ Mon, 14 Aug 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78009 di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a [...]]]> di Diego Gabutti

Donald Maclean, quarta storia

Inglese di rango, sapendo d’aver perduto un Impero, Donald Maclean non trova di meglio che sostituirlo con la più nobile delle cause: l’imperialcomunismo. Verso i vent’anni, con una mascherina sul viso e il conforto di pochi compagni e di molte bottiglie di whisky, comincia a battersi nell’ombra in favore del Soviet supremo. Troncata da un tumore nel 1983 a Mosca, dove fugge nel 1951 insieme al suo amico Guy Burgess, la sua carriera spionistica è cominciata a Cambridge alla fine anni venti.

È a Cambridge, prestigiosa fucina della classe dirigente britannica, che Mclean e i suoi amici (Burgess, Philby, il consigliere artistico della Regina Sir Anthony Blunt) vengono reclutati da un misterioso arruolatore sovietico. È costui il vero eroe della storia: ingaggia esclusivamente gentlemen, la grande aristocrazia del tradimento, e semina talpe che potranno raccogliere informazioni utili, sempre che la fortuna e il talento li assistano, soltanto molti anni più tardi. Costui insinua un gruppo di sabotatori, tra cui Maclean, nel cuore stesso del sistema nemico, poi rientra nell’ombra.

Figlio d’un baronetto scozzese, morto nel 1932, che ha dedicato tutta la vita alla comunità presbiteriana e al partito liberale, la futura spia cresce in un ambiente nutrito di puritanesimo e buone maniere. Vive la sua omosessualità con vergogna e senso di colpa, a differenza di Guy Burgess, che invece l’ostenta, e buona parte del suo odio contro l’Occidente è forse dovuto al fatto che i suoi compagni di college, tra i quali gli omosessuali suicidi erano stati parecchi, lo chiamavano «Lady Maclean», cosa effettivamente poco simpatica.

Il gruppo dei marxisti segreti di Cambridge, dopo l’università, si separa con una strizzatina d’occhi e, ciascuno secondo la propria vocazione, comincia ad aprirsi una strada verso le casseforti che custodiscono i segreti della nazione. Kim Philby passa al Times e si guadagna un’onorificenza franchista come corrispondente durante la guerra civile spagnola, Anthony Blunt si rende indispensabile presso i curatori delle collezioni d’arte della Real Casa e Guy Burgess infiltra per primo l’Intelligence grazie alle sue entrature omosex con alcuni politici francesi.

Maclean, che tutti giudicano un perfetto tipo fisico da Foreign Office per via dei capelli biondi e dei gelidi occhi azzurri, abbraccia la carriera diplomatica a Parigi dove si segnala, in breve tempo, come una delle speranze diplomatiche del Regno. Il Grande Gioco è cominciato: gli assi truccati sono stati introdotti nel mazzo. Gli anni della guerra, per Maclean, sono operosi e silenziosi. Si sposa (un diplomatico dev’essere sposato, specie se la gente mormora). Come un alpinista che punta alla cima del monte, scala le pareti del Foreign Office fino a raggiungere la suprema vetta del Dipartimento di Stato americano a Washington: esattamente dove i russi pregano di poter infiltrare un loro uomo. Di lassù il suo sguardo spazia tranquillo sulla valle misteriosa della ricerca atomica americana.

Ma è un alcolista, soffre di depressione, e gli cedono d’un tratto i nervi. Maltratta la moglie in pubblico, fa aperta professione d’antiamericanismo senza lacrime per la sua copertura e passa le giornate a sbronzarsi. Washington è irritata dal suo comportamento e la Cia comincia a tenerlo d’occhio. Alla fine, il Foreign Office lo trasferisce al Cairo affinché smaltisca la sbornia e si curi le paturnie. Al Cairo Maclean s’immerge in un’atmosfera di scandalo e una volta tenta persino di strozzare la moglie durante una gita sul Nilo. Sa il cielo perché, in queste condizioni, abbia ancora accesso alle carte segrete.

È proprio allora, quando sbraita e ulula al Cairo, che Maclean prende visione del foglio ultrariservato, da tenersi a tutti i costi lontano da occhi indiscreti, col quale gli americani comunicano agli alleati la loro decisione di non allargare il conflitto coreano neppure in caso di sconfinamento delle truppe cinesi. Proprio l’idea che il conflitto potesse essere allargato ha tenuto a freno, fino a quel momento, l’esercito maoista. Maclean rifischia il documento al suo controllo sovietico e, non appena i cinesi sono informati, subito si lanciano al salvataggio dei fratelli coreani. Tutta l’Asia, ahinoi, sta ancora piangendo lacrime di sangue.

Alla fine, inevitabilmente, c’è il punto di rottura. Ubriaco fradicio, reduce da una rissa, senza scarpe e con gli abiti stracciati, Maclean viene arrestato dalla polizia egiziana. Un paio di giorni più tardi, appena scarcerato, lo caricano su un aereo per Londra. Melinda, sua moglie, s’invola con un principe egiziano e lui, sotto inchiesta da parte dell’Intelligence, si mette in cura da una psicoanalista che, dopo averlo ascoltato per una mezz’ora, gli consiglia d’accettare la sua omosessualità senza scalmanarsi tanto. Dice a tutti di lavorare per Baffone e i più ormai gli credono senz’altro. Melinda, finito l’idillio col bel principe, lo raggiunge in Inghilterra mentre il cerchio degli inquisitori gli si stringe intorno.

A quel punto, ridotto com’è, anche se le prove a suo carico sono solo indiziarie, Maclean sta mettendo a rischio l’intera rete sovietica in Inghilterra. Così deve sparire. Non si capisce bene perché anche Guy Burgess, la cui copertura regge ancora, decide di espatriare con lui. I mastini del Mi5, per ragioni sindacali, smantellano le guardie durante i week end e le due talpe, la sera del 25 maggio 1951, prendono il volo da Southampton per ricomparire a Mosca tre giorni dopo. Philby ammette d’aver messo sull’avviso Maclean «perché, maledizione, dopotutto siamo stati compagni d’università». Poco ci manca che la sua correttezza venga premiata con una medaglia.

A Mosca Maclean è nominato redattore capo d’una rivista scientifica e ogni tanto, in compagnia di Burgess, tiene qualche conferenza stampa per le gazzette occidentali. Melinda lo raggiunse a Mosca: dal che si deduce che l’utopia sovietica ha contagiato anche lei. Philby la scampa fino al 1963 e Anthony Blunt viene individuato solo nel 1979 (ma può darsi che sia stato smascherato insieme a Philby e che in seguito l’Mi5 lo abbia usato come agente doppio). Maclean muore a settant’anni, trenta dei quali trascorsi in un appartamento del centro di Mosca, lontano dai clubs eleganti di Regent’s Park, a un’infinita distanza da Berkeley Square e dal bel mondo londinese.

Trent’anni così, trascorsi a fissare dalla finestra le cupole del Cremlino, senza un amico al mondo. Burgess era morto di cirrosi epatica verso il 1960. Quanto a Philby, col quale avrebbe almeno potuto commentare i risultati del cricket vuotando una bottiglia ogni tanto, gli aveva soffiato la moglie non appena era giunto a Mosca nel 1963, anche lui braccato dagli antichi colleghi, e così non erano più molto amici.

Wystam Hugh Auden

C’era probabilmente un quinto uomo nella banda dei «Cambridge Four», i quattro agenti segreti usciti dalla prestigiosa università inglese, che negli anni Cinquanta fuggirono in Unione Sovietica dopo avere fatto a lungo il «doppio gioco» per Mosca. Come complice o perlomeno «compagno di strada» ebbero uno dei più grandi poeti del Regno Unito: Wystan Hugh Auden, caposcuola di una generazione di scrittori accomunati dall’ impegno politico e dall’interesse per le dottrine di Marx.

Documenti resi noti per la prima volta dagli Archivi di Stato di Kew Gardens, a Londra, rivelano i frequenti contatti che Auden ebbe con Guy Burgess e Donald McLean, due dei «quattro di Cambridge», in particolare nei giorni precedenti la loro defezione in Urss; e descrivono i febbrili tentativi dell’ MI5, il servizio di controspionaggio britannico, e dell’Fbi, suo equivalente americano, per pedinare, intercettare, interrogare il poeta. È un thriller che si conclude senza una soluzione chiara: alla fine il caso viene chiuso, senza che Auden riveli nulla e che i sospetti nei suoi confronti vengano suffragati da fatti.

Ma il dossier ora reso pubblico aggiunge un’altra pagina al romanzo della «Guerra Fredda». Una pagina, va precisato, più nello stile ironico dei libri di Evelyn Waugh che in quello dei thriller di Graham Greene o Le Carrè. Lo interpretano, certo, alcuni dei protagonisti del conflitto a colpi di spionaggio tra Occidente e blocco comunista: Kim Philby, Anthony Blunt e gli altri succitati membri dei «Cambridge Four». Ma sullo sfondo c’è il jet set degli artisti e degli intellettuali di sinistra: salotti letterari, circoli accademici, fino alla villa che Auden aveva a Ischia, dove a un certo punto il poeta va in vacanza, per ritrovarsi assediato dai giornalisti e seguito dalla polizia, anche quella italiana, che lo interroga, alla fine di giugno del 1951, apparentemente su richiesta di Londra.

Un colpo di scena lascia intravedere una sorta di «tradimento», volontario o involontario, da parte di un altro scrittore, Stephen Spender, grande amico di Auden: sarebbe stato proprio Spender a confidare a un giornalista le telefonate intercorse tra Auden e Burgess, uno dei «quattro di Cambridge», pochi giorni prima della defezione in Urss. Omosessuale dichiarato ma sposato con la figlia di Thomas Mann, volontario con le forze repubblicane nella guerra civile spagnola, Auden si trasferì poi negli Stati Uniti e prese la cittadinanza americana. Con Philby e gli altri non si rivide più. «Un intellettuale comunista fortemente idealista», lo descriveva un dispaccio dello spionaggio britannico. Morì a Vienna nel 1973. (Enrico Franceschini, la Repubblica, 2007).

Sentimentalismo progressista

Si potrebbe scrivere un pezzo interessante sul mutamento delle mode e sull’autenticità del sentimentalismo progressista della classe media. Negli anni Trenta abbiamo avuto Mister W.H. Auden, l’idolo dei giovani, che inneggiava alla gloria dei lavoratori per rovesciare il capitalismo con la forza. […] Nonostante il colore politico dominante nelle opere di Spender, Auden e Cecil Day Lewis, va detto che non vi era alcuna profondità politica in esse. Perfino in un lavoro relativamente banale come The Dog Beneath the Skin di Auden e Christopher Isherwood il contenuto politico effettivo, perfino il significato antifascista, è risibile. Il desiderio di fondo di Auden & Co. pare quello di denunciare e ridicolizzare la borghesia di Flaubert più che quella di Marx, dal cui vocabolario si limitano a mimare qualche termine, qualche vago concetto. In un certo senso, questi scrittori conducono in pubblico una vendetta personale contro i propri genitori – vedi The Ascent of F6 [da noi L’ascesa dell’F6, Tararà 2004] del duo Auden-Isherwood ­– o contro le autorità che stanno loro antipatiche. Questa nozione di scrittura politica, dunque, è una specie di terapia per superare alcune difficoltà personali più che un contributo alla riforma della società: una chiave importante per capire l’intero approccio intellettuale alla politica, non solo negli anni Trenta. In effetti, a volte penso che l’intero ceto medio britannico prediliga la politica per una questione, diciamo così, di temperamento. Chi ama la consuetudine e la regola è attratto a destra; chi la odia opta per la sinistra. Lo stesso accade con la famiglia: ad alcuni pare un caldo nido, ad altri, come Isherwood, «l’enorme pipistrello sulla casa», qualcosa da cui fuggire. (Kingsley Amis, Socialism and the Intellectuals).

(Fine seconda partecontinua)

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Esperienze estetiche fondamentali / 2: Bartleby, lo scrivano, e Wakefield, il fuorilegge dell’universo https://www.carmillaonline.com/2023/02/24/esperienze-estetiche-fondamentali-2-bartleby-lo-scrivano-e-wakefield-il-fuorilegge-delluniverso/ Fri, 24 Feb 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76121 di Diego Gabutti

Non ricordo più chi venne prima, se Bartleby o Wakefield. Forse Wakefield, nel quale m’ero imbattuto bazzicando le bancarelle di Piazza Carlo Alberto, nel centro di Torino, sotto le grandi arcate progettate da Guarino Guarini. Alle spalle l’antico parlamento sabaudo, di fronte la Biblioteca Nazionale con la sua soleggiata facciata neoclassica.

“Wakefield” venne prima di “Bartleby” anche quanto a data d’apparizione. Nathaniel Hawthorne lo pubblicò nel 1835 (nel 1937 fu uno dei “Twice-Told Tales”, i racconti narrati due volte) mentre Herman Melville pubblicò “Bartleby, the Scrivener. A Story of [...]]]> di Diego Gabutti

Non ricordo più chi venne prima, se Bartleby o Wakefield. Forse Wakefield, nel quale m’ero imbattuto bazzicando le bancarelle di Piazza Carlo Alberto, nel centro di Torino, sotto le grandi arcate progettate da Guarino Guarini. Alle spalle l’antico parlamento sabaudo, di fronte la Biblioteca Nazionale con la sua soleggiata facciata neoclassica.

“Wakefield” venne prima di “Bartleby” anche quanto a data d’apparizione. Nathaniel Hawthorne lo pubblicò nel 1835 (nel 1937 fu uno dei “Twice-Told Tales”, i racconti narrati due volte) mentre Herman Melville pubblicò “Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street nel 1853, due anni dopo Moby Dick”, diciotto anni dopo “Wakefield”. Quando io lo lessi per la prima volta doveva essere il 1966, o forse il 1967, poco prima (o poco dopo) che da Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche, affacciato sulla stessa piazza delle bancarelle, cominciassero a rullare i tamburi del movimento studentesco e delle occupazioni.

Abitavo poco lontano e, da quando avevo dieci anni, passavo di lì regolarmente, dapprima due o tre volte la settimana, poi ogni giorno, puntuale come Carosello. All’inizio facevo incetta di vecchi Urania, di vecchi Gialli Mondadori; poi di tutto quel che c’era, da Hawthorne e Melville alle farse del Signor Bonaventura scritte da Sergio Tofano, dai fumetti di Flash Gordon disegnati da Dan Barry (bisognerà parlarne, prima o poi) a Proust (che però mi decisi a leggere soltanto molti anni dopo, pentendomi di non averlo fatto prima). Dice Charles Simic, grande poeta serbo-americano: «Ho letto di tutto, da Platone a Mickey Spillane». Vale anche per me. E un po’ per tutti gli adolescenti dell’epoca; e se non per tutti, almeno per molti, e di sicuro per i coetanei che conoscevo e frequentavo io, a scuola e fuori (più fuori che a scuola, a scuola ci andavo poco, e di malavoglia). In giro per libri usati dopo un po’ tutti conoscevano tutti. Un cenno del capo, un caffè.

Trovato un libro, lo sfogliavo, e talvolta leggevo per intero, seduto al tavolino di qualche bar. Cappuccini. Mandrake, La fiera letteraria. Caramelle. Una brioche. Fumavo già come un dannato.
Di Wakefield e della sua enigmatica epopea fui subito un fan. Assai meno chiacchierato di Bartleby> – che col suo inespugnabile «preferisco di no» ha ispirato saggisti e romanzieri diventando malgré lui un cliché abusato dagli intellò di scarso impegno e d’ancor più scarso ingegno, e pertanto tutti giù a citare Beckett, Kafka, Il pasto nudo, Bergman, Antonioni, Magritte – Wakefield merita altrettanta attenzione, se non di più.

«In qualche vecchia rivista o giornale», scrive Hawthorne, «ricordo d’avere letto la storia, riferita come vera, di un uomo, cui daremo il nome di Wakefield, il quale abbandonò per lungo tempo sua moglie. Questo fatto, così astrattamente enunciato, non è particolarmente insolito, e senza un’opportuna descrizione delle circostanze, non può essere giudicato crudele o insensato. Non di meno, anche se non il più grave, questo è forse il più strano caso registrato d’inadempienza dei doveri coniugali, nonché un singolare esempio tra quanti se ne possono trovare in tutti gli annali delle umane stravaganze. La coppia abitava a Londra, e l’uomo, con il pretesto di partire per un viaggio, prese alloggio in una strada vicina alla sua casa e lì, all’insaputa della moglie e degli amici, e senza un’ombra di motivo per questo volontario esilio, visse per più di vent’anni».
Wakefield ama il mistero. Gli piace far credere alla moglie d’avere segreti affari da sbrigare fuori città e, per il gusto di stupirla, di tanto in tanto s’assenta da casa, all’inizio forse soltanto per poche ore, poi per un giorno pieno, due giorni, tre, quattro, una settimana.

«Immaginiamo Wakefield mentre si congeda dalla moglie», continua Hawthorne. «È il crepuscolo di una sera d’ottobre, e lui indossa uno sbiadito cappotto, un cappello coperto di tela cerata, stivali alti, tiene un ombrello in una mano e una valigetta nell’altra. Ha informato sua moglie che deve prendere la diligenza della sera per la campagna. Lei vorrebbe informarsi sulla durata del viaggio, sul suo scopo e sulla probabile data del ritorno, ma rispettando la sua innocua passione per il mistero, si limita a interrogarlo con uno sguardo. Lui le dice di non aspettarlo con certezza al ritorno della diligenza e di non preoccuparsi se mai dovesse trattenersi fuori casa per tre o quattro giorni, ma di attenderlo in ogni caso per venerdì sera all’ora di cena. Si può pensare che nemmeno lo stesso Wakefield abbia ancora idea di ciò che accadrà. Le porge la mano, lei gli dà la sua, e si scambiano un bacio distratto come avviene dopo dieci anni di matrimonio, poi il signor Wakefield, un uomo di mezza età, se ne va, già quasi deciso a sconcertare la sua buona moglie con un’intera settimana d’assenza. Dopo che la porta si è chiusa alle sue spalle, lei si accorge che viene leggermente scostata, e attraverso lo spiraglio le appare il volto del marito, che le sorride e un attimo dopo scompare alla sua vista».
Alla fine, per averlo evidentemente fissato troppo a lungo, l’abisso ricambia il suo sguardo, e adesso eccolo lì, povero Wakefield, fuori al freddo, nel buio, trasformato in «fuorilegge dell’universo».

E Bartleby, intanto? Spalle all’ufficio, lo sguardo perso in qualche iperspazio oltre la finestra, la decisione di non fare niente di quel che gli viene chiesto, una dieta stretta di biscotti allo zenzero, «innocuo e passivo», Bartleby è con piena evidenza una variazione sul tema delle «umane stravaganze». Un semblable, un avatar di Wakefield. Sono fatti della stessa sostanza: l’amor vacui, o fascinazione del vuoto.

Bartleby è di New York, Wakefield un londinese, ma abitano sostanzialmente la stessa città, come Batman e Superman (Gotham City e Metropolis, le città dove operano separatamente i due supereroi, sono entrambe New York en travesti). Nichilista originario, primo della specie e protagonista di Delitto e castigo, Rodion Romanovič Raskol’nikov potrebbe essere un loro concittadino (e San Pietroburgo un’altra manifestazione della stessa «città premeditata» abitata da fantasmi metropolitani senza pace) se soltanto il giovane assassino non scrivesse libelli su Napoleone Übermensch, e non parlasse troppo.

Wakefield, per quanto ne indoviniamo, non parla con nessuno. Per dire cosa, poi? Stabilire un qualunque contatto umano potrebbe spingerlo a fuggire anche da questa sua seconda incomprensibile vita verso una terza e poi una quarta, all’infinito, col rischio d’aumentare la distanza tra sé e la sua vita originaria fino a smarrirne il senso e la memoria, esponendosi così «al terribile rischio di perdere il proprio posto per sempre». Quanto a Bartleby, «spiaggiato» come una balena (strano che Melville non ci abbia pensato) in un anonimo ufficio di Wall Street, una zona di New York che «ogni notte si spopola», di lui conosciamo una frase sola, eternamente ripetuta.

«Ricordai» – scrive Melville – «che Bartleby non parlava mai se non per rispondere; che sebbene avesse a volte considerevole tempo a sua disposizione, tuttavia non l’avevo mai visto leggere nulla, nemmeno un giornale; che trascorreva lunghi periodi di tempo presso la sua finestra dietro il paravento, a contemplare un desolato muro di mattoni. Non si recava mai in alcun refettorio o trattoria, e il suo volto pallido rivelava chiaramente che non beveva birra e neppure tè o caffè. Non mi risultava che andasse mai in nessun posto, non usciva mai a fare una passeggiata; si era sempre rifiutato di dirmi chi fosse, di dove venisse, se avesse parenti nel mondo; sebbene così magro e pallido, non si lamentava mai. Soprattutto ricordavo quella sua inconscia aria di pallida – come potrei dire? – di pallida alterigia, o meglio quell’austero riserbo, che lo circondava e con il quale era effettivamente riuscito a imporsi, obbligandomi a tollerare le sue eccentricità, tanto che ormai temevo di chiedergli di compiere il più insignificante lavoro, anche quando capivo dalla sua lunga immobilità che in quel momento, dietro il paravento, egli doveva essersi perduto in una di quelle sue fantasticherie,» lo sguardo sempre fisso sul «muro cieco» oltre la finestra.

Bartleby preferiva di no.
Wakefield non era meno tormentato e storto d’anima.

Amico e per un po’ anche vicino di casa di Hawthorne, Melville conosceva bene l’opera dell’autore della Lettera Scarlatta. E Wakefield, tra tutti i personaggi di Hawthorne, doveva essergli apparso come una rivelazione, più dei fauni di marmo o delle bambine di neve. Melville – che aveva lanciato il Capitano Achab sulla pista del Leviatano: «Morte al mostro, morte a Moby Dick! Che Iddio dia la caccia a tutti noi, se non la diamo noi a Moby Dick fino alla morte!» – aveva un debole evidente per gli ossessi, e Wakefield era un perfetto esemplare della categoria. Con Bartleby, l’autore di Moby Dick intese certamente elevare a Wakefield un monumento. Indecifrabile quasi quanto il personaggio cui rendeva omaggio, era naturalmente un misterioso monumento.

Più che la statua equestre di Carlo Alberto di Savoia posta al centro della piazza delle bancarelle (dove avevo trovato la mia copia dei Racconti narrati due volte, nell’edizione Vallecchi del 1950, l’unica all’epoca in circolazione) il monumento eretto da Melville a Wakefield ricordava piuttosto il singolare monumento che Nikolaj Vasil’evič Gogol’ aveva eretto allo sventurato assessore di collegio Platon Kuz’mic Kovalëv: un Naso ribelle, in fuga dal corpo.

Perché è di fuggiaschi, naturalmente, che stiamo parlando.
Di fuggiaschi, e d’imperscrutabilità.

Come Wakefield, in fuga dal focolare domestico, che poi scruta di lontano, celato a ogni sguardo, anche Bartleby è un fuggiasco, però in piena vista. Se Bartleby è, come credo, il Naso di Wakefield, egli manifesta (diciamo così) la stessa sinusite. Qualcosa che lo soffoca, come qualcosa soffoca Wakefield. A una prima riflessione sembrerebbe che siano gli obblighi sociali a pesare come incubi sulle vite di questi oscuri eroi metafisici: Bartleby che rinuncia alla sua attività di copista e si vieta ogni proposito, Wakefield che si perde in una fantasia come in un bosco stregato. Dire che sono stati gli «obblighi sociali» (due parole al vento) a cacciarli in quell’angolo dal quale non sanno o non vogliono uscire è ribadire il gran mistero. Attenzione, però: se dire «obblighi sociali» è come dire niente, «dire niente» è un modo per affermare l’inconoscibile. Nel mondo di Bartleby e Wakefield, tutto si confonde, ogni cosa s’imbroglia. Qui chi è in fuga rimane immobile, come un ciclista in surplace, pronto a schizzar via, come i topi messicani dei cartoni animati.

Soffocati, in ogni modo.
Prima di tutto il panico, l’affanno.

Soffocati come Charles Bronson e Steve McQueen nella Grande fuga di John Sturges (uno dei pochi film «semplicemente perfetti» degli anni sessanta) erano soffocati dal filo spinato che delimitava il lager nazista. Dal sentirsi soffocati a diventare icone immortali dell’evasione il passo è breve. Solženicyn, in Arcipelago Gulag, chiama queste icone «fuggiaschi convinti, uomini che sanno a cosa vanno incontro». Prendete «Georgij Tenno, al quale, negl’intervalli tra due evasioni non riuscite, i detenuti dicevano: “Perché non te ne stai un po’ fermo? Che bisogno hai di scappare? Cosa ci trovi nella libertà, specie al giorno d’oggi?” Tenno si stupiva. “Come cosa ci trovo? Ventiquattr’ore nella taiga senza catene! La libertà, ci trovo!”»

Può darsi, allora, che anche Bartleby e Wakefield, come Tenno in Arcipelago Gulag, si siano avventurati nella taiga: un bugigattolo a Wall Street, una falsa identità a pochi passi da casa, il primo indecifrabile, il secondo invisibile. «Niente catene», naturalmente, è dire troppo. Anche la taiga, a suo modo, è un lager, sia pure dall’orizzonte sgombro. Ma troppo sgombro: nessuno con cui parlare, le notti gelide, il silenzio, la fame, «el magun» (come diceva Alberto Sordi vigile urbano in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo di Mauro Bolognini, Anno del Signore 1956).

Be’, tiriamo le fila.
Prima (o dopo) mi capitò di leggere Wakefield e solo dopo (o prima) Bartleby lo scrivano, quest’ultimo in un’edizione sciccosa, un libro da nababbi: Billy Budd e altri racconti, nella collana dei Millenni, Einaudi chic. Chissà dove, in uno scaffale in alto, fuori mano, devo averlo ancora, sempre che non l’abbia prestato a qualcuno trenta o quarant’anni fa. Libri così erano le avventure che capitavano ai lettori compulsivi in fuga ontologica (cioè in caccia di ciò che è reale) nella taiga di Piazza Carlo Alberto.

C’erano altre botteghe di libri usati in giro per la città. Per esempio Corso Siccardi, un vialetto alberato a lato di Via Cernaia, sulla strada per la stazione di Porta Susa. C’era soprattutto la Casa del Libro (ma per tutti l’«Ebreo») nella Galleria Subalpina, un «passage» severo e signorile, anzi elitario, al centro una fioriera, che congiungeva Piazza Carlo Alberto e Piazza Castello. Però nulla di paragonabile alle bancarelle di Piazza Carlo Alberto, che alla fine dei settanta sarebbero state trasferite sotto i portici di Via Po, due o tre isolati più in là, perdendo per strada un po’ della loro magia», come si dice con espressione orribile ma veritiera (o meglio «oggettiva», come si cominciava a dire, con espressione più orribile ancora, nelle assemblee studentesche). Anche Corso Siccardi è stato smantellato. Niente più bancarelle: panchine. C’era un’edicola: sparita anche quella. Quanto all’«Ebreo», nessuno lo chiama più così, e in vetrina ci sono sempre meno libri e sempre più stampe, monete, cartoline.
Erano tempi strani.

In giro per libri usati un ragazzino poteva scoprire Bartleby e Wakefield senza cercarli e senza averne mai saputo niente prima. Per bandiera un grande ignoramus, poche lire in tasca, e ci si poteva imbattere in queste star della grande letteratura come si trova una sorpresa nell’uovo di Pasqua. Per bancarellari e consumatori all’ingrosso di libri usati la seconda metà degli anni sessanta è stata un’epoca senza eguali. Furono i libri, soprattutto usati, per il loro basso costo e la loro vasta circolazione, a provocare l’evento clou del decennio: il Sessantotto, con rispetto parlando.

Gli studenti in tumulto, prima che motivati dall’ideologia e dalle congiunture politiche, erano sotto incantesimo letterario, come Madame Bovary e Don Chisciotte. Ogni libro letto o sfogliato era un invito all’avventura: giganti da abbattere, fanciulle da salvare. Erano finestre di Magritte aperte su universi paralleli. Alcuni di questi inconoscibili, nebbiosi, tipo gli uffici legali di Wall Street, o le strade londinesi percorse da Wakefield in stretto incognito, dove sembravano brillare altre stelle nel cielo sopra di noi e palpitare altre leggi morali dentro di noi. Fumetti, libri usati, Linus, i primi tascabili: fu questo il vento che gonfiò le vele dei movimenti giovanili, presto messi in caricatura dalle passioni politiche.

E Wakefield, che «aveva sfidato l’ordine del mondo»? Wakefield scopre che «gli individui sono così ben adattati a un sistema, e i sistemi l’uno all’altro, e a tutto un insieme, che un uomo, se si fa da parte per un solo momento» può finire in un’altra dimensione, nella «zona fantasma» dove i tribunali di Krypton, per citare di nuovo Superman, confinavano i criminali (al confronto, il 41 bis è Parigi in primavera). Fortunatamente, alla fine della storia, Wakefield ritrova la strada di casa, smarrita decenni prima.

«Sale i gradini con passo pesante» – scrive Hawthorne – «perché vent’anni gli hanno rattrappito le gambe, da quando li ha scesi l’ultima volta, anche se lui non se ne rende conto. Fermati, Wakefield! Se vuoi proprio andare nella sola dimora che ti è rimasta, calati piuttosto tua tomba! Ma la porta si apre, e mentre lui ne varca la soglia diamo un ultimo sguardo di commiato al suo volto e riconosciamo quel furbesco sorriso che aveva anticipato l’innocente burla che egli ha continuato a giocare ai danni della moglie. Come ha imbrogliato quella povera donna! Be’, auguriamo a Wakefield una buona notte di riposo!»

E Bartleby? Che fine fa lo scrivano? Muore. O meglio chiude gli occhi, stremato, consunto, e «dorme, con i re e i consiglieri», come mormora il suo principale, mentre qualche velo del suo passato pare squarciarsi.

«Eppure» – conclude Melville – «a questo punto sono incerto se divulgare l’eco di una diceria che giunse al mio orecchio alcuni mesi dopo la morte dello scrivano. Su quali basi poggiasse non sono mai riuscito ad accertare; quindi, non sono in grado di dire quanto ci sia di vero. Ne farò qui un breve cenno: Bartleby era un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all’improvviso licenziato per un cambiamento nell’amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come “uomini morti”? Pensate a un uomo incline alla disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta il pallido impiegato estrae dalla busta un anello e il dito al quale era destinato forse imputridisce nella tomba. Spunta la banconota inviata in un moto di pronta carità e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia né soffre più la fame. Parole di speranza per quanti morirono disperati, o di perdono per coloro che morirono nello sconforto; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere», scrive Melville «rovinano verso la morte».

Sia da Wakefield che da Bartleby sono stati tratti dei film (cercateli su Wikipedia, o meglio ancora su IMBD, l’Internet Movie Database). Intanto che scrivevo questo capitolo, li ho scaricati, ma ancora non ho avuto cuore di vederli. Bartleby, diretto e interpretato da Maurice Ronet nel 1978, è ambientato a Parigi, nonché recitato in abiti moderni. Anche Wakefield (Robin Swicord, 2016) è in abiti moderni. Un giorno o l’altro, tempo avanzandomi, forse li guarderò.

Intanto, evocato Raskol’nikov, l’Ur-nichilista, che ha fatto da modello a delinquenti pallidi e mostri morali, anche lui in fuga nella taiga della nascente cultura pop, mi torna in mente un altro fuggiasco convinto: Joe Doppelberg, protagonista di What Mad Universe, il cult fantascientifico di Fredric Brown. È il 1948, e Joe Doppelberg, giovanissimo nerd, sogna un mondo in cui è Salvador Dalí a popolare di mostri alieni e ragazze in minigonna le copertine delle riviste di fantascienza. Fellini avrebbe voluto cavarne un film. Ne girò di più strani. Nessuno, però, sarebbe stato più estraniante.
O Doppelberg! O umanità!

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Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora https://www.carmillaonline.com/2021/06/25/black-noise-tecnologie-della-diaspora-sonora/ Fri, 25 Jun 2021 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66875 di Francesco Festa

Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie, I feel like me heart gwine burs Jamaica people colonizin Englan in reverse.

What a islan! What a people! Man an woman, old an young Jus a pack dem bag an baggage An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie,
I feel like me heart gwine burs
Jamaica people colonizin
Englan in reverse.

What a islan! What a people!
Man an woman, old an young
Jus a pack dem bag an baggage
An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse 1. O precisamente, di una profezia avveratasi. Fra le righe, con sarcasmo, Bennett denuda l’ipocrisia della cultura borghese inglese, infarcita di identità cristallizzata e tradizioni inventate2. Chiediamoci con lei: colonizzazione inversa? Hic Rhodus, hic salta! Così è stato.

Il 22 giugno 1948, nella SS Empire Windrush, un tempo nave militare tedesca, stipati l’uno sull’altro, vi sono quattrocentonovantadue giamaicani. Attraccando al porto di Tilbury in Inghilterra, quella nave funge da punto d’innesto di un processo inarrestabile. Dopo pochi anni si stimano attorno ai centosessantamila i giamaicani i residenti in Gran Bretagna.

Londra diviene il primo approdo della diaspora umana, dalle terre del disfatto Impero coloniale. I giamaicani s’insediano a Brixton, Finsbury Park e Notting Hill, portandosi dietro i costumi dominanti della piccola isola caraibica, come la cultura dei Sound System, che ha fatto la sua apparizione nei primissimi anni Cinquanta nei ghetti di Kingston. Camion sui cui cassoni sono caricati un generatore di corrente, dei giradischi ed enormi altoparlanti, per organizzare degli street party. Il primo Sound System anglo-caraibico viene allestito nel 1955 da Duke Vin, il “Duke Vin the Tickler’s” attivo a Ladbroke Grove nell’area di Notting Hill. Negli stessi anni, “inna Kingston style”, si diffondono anche i blues party illegali, in cui si ascolta e balla musica diffusa dalle casse di un grammofono casalingo e si consumano alcol, cannabis e curry di capra. Dei numerosi Sound System, germogliati dall’esempio di Duke Vin, negli anni Sessanta, si diffonde un altro genere giamaicano, lo ska, poi il rocksteady, l’early reggae, e via via in una lunga eterogenesi di stili e generi.

Ormai Londra – e con essa il Vecchio continente, dell’ammuffita borghesia capitalista – diviene teatro di incontenibile trasformazione, a partire dalle culture della diaspora. È un processo di rinnovamento dello spazio metropolitano e di ridefinizione delle identità sociali, destinato a scardinare tanto la tradizione quanto i paradigmi della modernità capitalistica. Dopotutto, il capitalismo di per sé non inventa nulla, né tanto meno la sua cultura, che parassitariamente cattura talenti ed estorce valore dai rapporti sociali. Parimenti accade nello spazio metropolitano, che è vissuto, attraversato, striato e raccontato, secondo Homi Bhabha, da coloro che si muovono verso il centro dalla periferia. È la marginalità a essere centrale negli spazi e nei territori del capitalismo.

Il punto di vista della marginalità è il metodo di lavoro che in controluce si coglie fra le pagine di Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora di Brian D’Aquino. Corredato di un’ampia bibliografia anglofona, questo libro è un osservatorio straordinario della condizione moderna degli spazi metropolitani occidentali, cioè – per dirla con Iain Chambers – di quella composizione sociale “multiforme, eterotopica, diasporica”, che è materia umana di periferia, eppure è il cuore pulsante della modernità capitalistica.

Questo volume è l’esito di ricerche condotte fra i ghetti di Kingston e i quartieri popolari londinesi. Come una danza oscillante fra periferia e centro, esso si muove all’interno di un insieme di miti della società moderna; fra cui vi sono i rumori e/o i suoni. Apparentemente arcaici, essi fungono invece da matrice delle sonorità riprodotte nelle società occidentali. Metodologicamente, D’Aquino cammina con destrezza lungo il confine fra studi sociologici, antropologici e semiologici. Un confine, in realtà, già battuto dallo stesso Chambers, nella prima metà degli Ottanta, con Ritmi urbani. Pop musica e cultura di massa: un testo avanguardia degli studi culturali e musicali. Sia in questo che in Black Noise si coglie l’eco della critica di Barthes ai comportamenti e ai linguaggi di massa nella società moderna, in cui vengono decostruiti miti e significati, ricostruendo invece il senso del rapporto di forza che li sostiene.

Le ricerche di D’Aquino così dischiudono un ventaglio di osservazioni e di linguaggi, colti in presa diretta (come un “ricercatore scalzo” o un “osservatore partecipante”), tipico metodo di chi anziché osservare, ascoltare e annotare, preferisce sporcarsi le mani, indossare i panni, adoperare gli stessi strumenti. Difatti, egli è un attivista dei movimenti di resistenza sonora legati ai Sound System.

La ricerca si muove, dunque, nella diaspora fra le due sponde dell’“Atlantico nero”, focalizzandosi su un determinato registro musicale, mentre si situa in un luogo di predilezione, i ghetti giamaicani che, secondo l’autore, rappresentano “uno dei più influenti laboratori sonori della modernità”. Ecco l’ambivalenza della modernità disvelata attraverso il black noise ed è questo, uno fra i tanti pregi del suo lavoro, ossia l’aver tradotto il suono in parole.

A Kingston la musica non si spegne mai. Complici le alte temperature, le basse frequenze fuoriescono dalle finestre senza vetri di bar, case e barber shops; risuonano dai minibus che viaggiano a porte aperte, facendo sfoggio di impianti hi-fi autoassemblati e fuori misura. In questo costante rumore di fondo spazio e territorio, identità locale e globale, tecnologie del suono e corpi in movimento, economia formale e sotterranea trovano una sintesi dinamica. Tuttavia, il black noise della dancehall non produce necessariamente pace sociale. Al contrario, come rumore in lontananza, funge spesso da catalizzatore per le tensioni materiali che strutturano lo spazio sociale della città. Nonostante la risonanza globale, a Kingston quello della dancehall rimane ancora il suono della vita nel ghetto; il motore di un’economia costantemente in bilico tra legale e illegale; la colonna sonora per le dance moves ipersessualizzate e scandalose.

Davvero potente questo passo, e la sua scrittura. Le pagine di Black Noise hanno infatti una scrittura a tratti colloquiali e a tratti adoperante un linguaggio proprio delle dance hall (“equalizzazione, bilanciamento, preamplificazione”). La cifra di questa scrittura versatile è la capacità di trascinare il lettore nella materialità delle contraddizioni sociali, a suon di dub e reggae, mantenendo sullo sfondo una polifonia di spunti. Ad esempio: la storia del suono nella stagione futuristica della prima metà del Novecento; la nascita del reggae nei ghetti di Kingston, con i richiami alle radici diasporiche africane, incarnate nell’imperatore etiope Haile Selassie (noto come Jah); la moltiplicazione dei generi, a partire dal reggae alla mercificazione degli stessi, così come la lotta per un’ecologia acustica (eco al “progetto ecologico” teorizzato da Felix Guattari); la produzione, in una tensione costituente fra potere e sapere, di soggettività radicali che rivendichino la Diasporic citizenship; i conflitti urbani come processi di liberazione dai dispositivi di cattura e dalle politiche di sorveglianza, soprattutto nelle forme dei controlli del rumore e del suono.

C’è poi un concetto assai prensile della modernità nella gestione dello spazio e del territorio, vale a dire il concetto della tecnologia. Come scrive Tiziana Terranova, sulla scorta di alcune riflessioni di Paul Gilroy, “il black noise è il prodotto o emanazione di un’arte nera del suono, ingegneria della frequenza e della vibrazione, laboratorio tecnologico e performativo, archivio sonoro sotterraneo, strategia di fuga dal ghetto-prigione, resistenza elettropolitica che si propaga dalla Giamaica al resto del mondo.” D’altronde, cadrebbe in un grosso inganno chi pensa che il black noise e la musica caraibica siano un retaggio passato, una tradizione primitivistica, prodotto di una cultura bassa e popolare delle rotte afro-americane. Invece questi suoni sono i “rumori del futuro”, ci avverte l’autore. Effettivamente, nell’ascoltare le musiche delle società occidentali, se ne percepisce propriamente la radice in quelle rotte atlantiche; così come la finanza della city londinese ha le proprie radici nell’estrazione di risorse, manodopera e terre nel Sud del mondo. “È il capitalismo, bellezza”, com’ebbe a dire Michael Moore.

D’Aquino opera un intreccio fra il concetto di tecnologia (“futuristica visione”) e quello di tradizione. Detto altrimenti, compie un’analisi della differenza culturale come scarto tra cultura alta e cultura bassa o popolare. Qui, si sente il debito verso Stuart Hall e, indirettamente, verso Gramsci. Entrambi autori che hanno indagato il campo dell’ideologia e della cultura, abbandonando le semplificazioni tanto del marxismo classico quanto del riduzionismo e dell’economicismo, andando oltre cioè quel preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante, e leggendo invece gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata. Hall rileggendo Althusser si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato “la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” e “anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle tradizioni”; seccamente risponde: “ne conosco uno solo: Gramsci”. Dunque, è l’approccio gramsciano che consente di inquadrare i movimenti diasporici e la cultura che portano dietro, in grado di plasmare gli spazi metropolitani quanto le condotte collettive delle società capitalistiche. In altre parole, di dar vita a quella colonizzazione inversa.

Black Noise è un lavoro prezioso all’interno dell’archivio dei cultural studies e dei postcolonial studies. Prezioso perché è un’eccellente sintesi dei lavori decennali curati dal “Centro Studi Postcoloniali e di Genere” e dal “Technoculture Research Unit” dell’Orientale di Napoli, cui siamo ampiamente debitori per gli studi sull’intersezione fra razza, genere, sesso. E D’Aquino, lungo quest’intersezione, innesta lo studio del legame fra “suono, tecnologia, razza e potere”.
È un volume da ascoltare, Black Noise. Il che potrebbe sembrare un ossimoro. Ma, leggendo le pagine più evocative, sembra di ascoltarne i suoni e i rumori neri che riecheggiano interpellando la nostra identità e minando le nostre certezze.

Non in ultimo, Black Noise appare come un bellissimo ricordo di Lidia Curti (fondatrice del “Centro Studi Postcoloniali e di Genere”), del suo sguardo molteplice, eretico, appassionato verso le differenze, nel ricercarne i chiaroscuri e le ricchezze. Un’opera che, per dirla con Deleuze, ha agito da “effetto ottico” per illuminare il “gioco più profondo di differenza e ripetizione alla base delle identità”, per scegliere su quale due termini puntare e per scegliere da che parte stare.


  1. Che notizia gioiosa, signorina Mattie / Sento che il mio cuore sta per scoppiare / Il popolo giamaicano colonizza / l’Inghilterra al contrario. / Che isola! Che popolo! / Uomini e donne, vecchi e giovani / Basta fare le valigie e i bagagli / e mettete la storia a testa in giù! 

  2. Che diavoleria l’Inghilterra! /Affrontano la guerra e affrontano il peggio, /ma mi chiedo come faranno a resistere / Colonizzazione al contrario. 

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Educazione maremmana #3. Interrail https://www.carmillaonline.com/2020/10/25/educazione-maremmana-3-interrail/ Sat, 24 Oct 2020 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63023 di Stefano Erasmo Pacini

[Qui tutte le puntate]

Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

[Qui tutte le puntate]

Per mio padre la differenza tra l’essere un ancora un ragazzo o qualcosa di più consisteva nell’aver conseguito la patente C, con cui si poteva guidare quasi tutti i mezzi. La mattina che tornai vittorioso dall’esame di guida a Follonica mi strinse la mano fino quasi a stritolarmela e mi disse col suo tono più solenne: “Bravo! Ora sì che sei un uomo!” Immediatamente ereditai la vecchia Opel, quella col bagagliaio che avrebbe potuto contenere tranquillamente due maiali, e che tenere in strada era più che un problema, un miracolo. Iniziai a scorrazzare a tutte le ore del giorno e della notte, visto che bruciava anche la benzina agricola. Inoltre fui assunto come operaio stagionale alla cantina sociale dove mio padre era stato eletto presidente: facevo i campioni dell’uva che arrivava per determinarne il grado zuccherino dopo averla pesata, meritandomi bestemmie e maledizioni a strascico appena comunicavo i risultati ai soci che l’avevano conferita. Contadini, proprietari terrieri, autisti, vignaioli della domenica, tutti egualmente convinti di avere l’uva migliore del mondo e di essere truffati nel peso, nelle analisi, nel vino a cui avevano diritto. Tutti assetati già di prima mattina, pronti a riempire bottiglie e fiaschette dai tini del vino vecchio sfuso, scegliendo con cura e mano lesta tra rosso, rosato o vermentino. La squadra con cui lavoravo era composta quasi unicamente da marchigiani pensionati della “Repubblica di Ca Bernardi”, ovvero un palazzo di Massa abitato interamente dalla comunità marchigiana che aveva raggiunto la Maremma dopo guerra, alla chiusura della miniera locale per trovare lavoro a Niccioleta. Sicuramente grandi lavoratori, fin troppo per i miei gusti, visto che spesso ripartivo dopo le mie otto-nove ore lasciandoli a fare straordinari su straordinari, per il miraggio di qualche lira in più.

Con loro c’era Ganascia, un omaccione che il cantiniere chiamava “baffino” pur essendo sbarbato e calvo, che nel mezzo del lavoro non era raro sentir cantare con un vocione da orco le arie più famose della lirica. Ganascia cantava specialmente la sera quando era stanco, e mentre stava cantando con trasporto “ridi pagliaccio” mise la mano nella diraspatrice che si era ingolfata pensando che fosse ferma e ne uscì con quattro dita mozzate. Lo vidi arrivare con un fazzoletto che teneva stretto sulla mano farra, con calma, e come non fosse accaduto nulla mi chiese: “Paco mi fai per favore questo numero al telefono?” Mentre facevo il numero che mi aveva chiesto guardavo il fazzoletto intriso di sangue e la sua faccia tranquilla, rilassata. Gli portai la cornetta vicino alla bocca quando sentii che squillava dall’altra parte: “Nina, o Nina senti, stasera faccio più tardi del solito che ho avuto un problema, devo andare in ospedale, no, no, ’un è niente di che, non ti preoccupare, ti ho detto che ’un è niente Maremma avvelenata, o su, e basta eh!” La faccia era diventata bianca come un cencio, e fece fico svenendo ma fummo pronti a sorreggerlo e lo adagiammo su un tavolone in attesa dell’ambulanza.
Il lavoro più delicato che svolgevo, in segreto, era quello di assaggiatore dei vini prodotti. Sì, perché la tradizione voleva che il presidente avesse l’ultima parola prima di passare all’imbottigliamento e alla commercializzazione del vino. E mio padre era astemio, il massimo che riusciva a concepire in piena estate era una birra che allungava con acqua zuppandoci certe volte anche il pane. Un po’ se ne vergognava, ma mi aveva raccontato che da ragazzo era stato male per via della vinella, e da allora proprio non riusciva a bere vino. La vinella era la risciacquatura delle botti, il vino buono andava al padrone, il mezzadro consumava anche quella infernale brodaglia. Ma non potendo deludere i soci che lo avevano eletto, portava a casa i vini e il vinsanto da assaggiare, e lì davo il meglio di me nel senso che non ricordo nessuna bocciatura, ma tante bocce vuotate. Solo una volta ebbi qualche scrupolo ad assaggiare un vermentino peraltro notevole. È che in quella vasca ci erano finite le dita di Ganascia.

Dopo la prima vendemmia come operaio di cantina, vista la busta paga gonfia, comprai una tessera ferroviaria Interrail di un mese e partii con Nico Manolesta per Parigi, giorni in giro col naso all’insù, a conoscere gente con i sacchi a pelo da tutto il mondo, a dormire in ostelli sgangherati e barconi sulla Senna. Poi arrivammo ad Amsterdam ospiti di Jan, serate a giocare a carte, bere birra, fumare canne, e ogni tanto mangiare patate fritte. Infine dirigemmo su Londra. Qui, dopo poco, ci separammo: Nico rimaneva nonostante tutto un bravo ragazzo ligio alla famiglia piccolo borghese e aveva promesso di essere a casa entro i trenta giorni per preparare gli esami universitari. Io non ne avevo nessuna voglia, mi aspettavo la cartolina precetto militare e avevo deciso di non partire, di rimanere a Londra come avevano fatto già molti prima di me. Quando lo accompagnai alla stazione mi sembrò nel salutarlo di avere reciso l’ultimo cordone ombelicale, quello con gli amici cari. Nico Nasone lo avevo conosciuto davanti al juke-box della Lucciola, entrambi tredicenni brufolosi e timidi, mettevamo gli stessi dischi dei Rolling Stones e Santana: ci eravamo riconosciuti al volo.

Adesso ero solo, ma avevo conosciuto Michael, un vero maestro. Ebreo di Jaffa, piccolo, sempre in movimento, pareva non potesse mai star fermo, biondo con gli occhi grigi, riscuoteva un visibile successo tra le indigene e le turiste, e oltretutto pareva conoscere tutti dai saluti che somministrava a destra e manca in continuazione. Mi aveva subito preso a benvolere e raccontato, in un linguaggio gesticolato tutto suo che mischiava inglese, francese e spagnolo con parole italiane e yiddish, di essersi rifugiato a Londra perché ricercato due volte: una per aver rapinato una farmacia per procurarsi anfetamine e l’altra per essere fuggito per non essere richiamato militare, per non voler combattere. Girare per Londra con lui era una meraviglia. Mi insegnava tutti i trucchi per non pagare il bus o pagare poco la metro, dove trovare vestiti gratuiti all’Esercito della Salvezza, dove biblioteche con ogni ben di dio compreso il caffè, dove fabbriche di birra con visite e degustazioni, supermercati aperti anche di notte dove imboscare facilmente del cibo, e nel mentre faceva questo mi raccontava instancabile i suoi viaggi in Oriente, traffici piccoli e grandi di droga, icone e opere d’arte, arresti e fughe dalle finestre all’irruzione della polizia. Da due anni abitava con altri squatter in una casa occupata nell’East End vicino al mio ostello gestito da un nazionalista scozzese instancabile ascoltatore dei Led Zeppelin e riscossore a tutte le ore del giorno e della notte della quota giornaliera. Convincermi a lasciare quei letti a castello a due sterline al giorno fu facile, avere una mezza camera per me bello, anche se la cucina spesso non era agibile perché, per motivi a tutti noi oscuri, ci si chiudevano Full e Janis, vestiti di pelle nera da capo a piedi, a scopare urlando e a farsi di coca per ore. Meno facile fu convincermi a investire parte dei miei risparmi per fare con gli altri un acquisto collettivo di mezzo chilo d’erba con cui sostenere la casa, secondo il principio “mezza da fumare e mezza da vendere agli amici”. Alla fine dopo una trattativa araba riuscii a versare un quinto di quanto mi aveva chiesto Michael e per festeggiare decidemmo di arrivare in un pub vicino per un concerto live. “Sono degli sconosciuti” mi disse, “ma faranno strada”. Dopo il concerto mi misi a ridere, “Michael, erano davvero forti, mai visto niente di simile ma questi non sanno suonare, di strada ne fanno poca mi sa”. Lui replicò con un gesto infastidito, come quando si caccia via una mosca.

Quella notte mi sentii entrare Janis nel letto, pensai avesse sbagliato camera, al mattino non c’era più, mi rimase il dubbio di un sogno erotico particolarmente vivido e violento. La situazione con lo scorrere dei giorni stava prendendo una piega interessante, non mi vergognavo più di espropriare i supermarket, dichiarare di aver perso il biglietto su bus e metro e nel caso della richiesta di generalità dare nomi italiani di personaggi pubblici che detestavo. Certe notti Janis mi raggiungeva in camera quando Full si metteva a russare come un treno, senza dire mezza parola, con mezza bottiglia di scotch che mi passava in bocca attraverso i baci o con un po’ di coca. Il giorno mi ignorava quasi del tutto.
Stavo precipitando verso il nirvana meglio che ai tempi della motocicletta. Ma un malcelato senso del dovere continuava ad allignare in qualche mio recesso, per cui una mattina telefonai a carico del destinatario a mia madre in negozio. Non rispose, ringhiò:
“Disgraziato, dove sei? Nico è tornato e te no, ma sei rincitrullito del tutto? Accidenti a te e a chi t’ha fatto! Figlio d’una troia! Uh, l’ho detto, porcoddissi!”
“Ma’ ascoltami, ma’ diolupo chetati, sono a Londra, sto bene, sono in una casa con amici, faccio foto, giro, vedo gente, imparo la lingua e se trovo lavoro ci resto che il militare non lo voglio fare! Non preoccuparti ma’, voi tutto ok?”
Ruggì: “Sei sempre il solito legno torto e i legni torti non si addrizzano! Ecco ci mancava Londra ci mancava! Sì, si sta bene senza te! Comunque ieri è arrivata una raccomandata dal distretto militare di Grosseto, ti hanno scartato per sovrannumero, mai una gioia, ti avrebbe fatto bene un po’ di disciplina, eh, ti avrebbero addrizzato la schiena loro!”
“Come hai detto? Ma’, sei sicura?”
“Sì, sì, il congedo, ti è arrivato il congedo, ora scommetto torni, che roba che mangia torna a casa, e ora fai un po’ come ti pare, io qui in bottega ho gente, devo lavorare!”
Buttò giù il telefono che vedevo le fiamme della sua rabbia a quasi duemila chilometri di distanza. Al ritorno dalla cabina telefonica alla casa non camminavo, galleggiavo a mezza altezza, ero beato, mi si schiudevano un sacco di possibilità, potevo tornare, ma anche rimanere, che cominciavo a masticare bene l’inglese e trovare quello che Michael definiva di volta in volta il ritmo vitale, l’onda perfetta da cavalcare, il momento decisivo, la sliding door. Magari mettere su una storia “lavorativa” alternativa con lui, qualcosa che mi facesse svoltare, magari una storia con Janis, chissà.

Anche Michael aveva telefonato a casa. Pareva un albero schiantato da un fulmine, continuava a scuotere la testa e lamentarsi con una cantilena profonda, viscerale. Janis lo abbracciava e ogni tanto baciava sul petto e sul collo, gli accarezzava i capelli. Aveva appena saputo che sua madre era morta e suo padre lo incolpava per questo. Una settimana più tardi decisi di partire, Michael era troppo dolente e incerto se tornare o andarsene comunque da Londra, l’inverno stava arrivando, i soldi se ne andavano per l’erba e altre droghe che avevamo ripreso a consumare in quantità. Gli lasciai le ultime sterline, ci scambiammo gli indirizzi, ma non seppi più niente di lui. Tornai a casa con la mia Rolleicord biottica rimediata a un mercatino e tre pellicole di scatti londinesi, palazzi occupati, vie grigie, arabi con piccioni a Piccadilly Circus, due foto sfuocate, mosse e buie di quel concerto, di un gruppo di pazzi che si chiamavano Sex Pistols. Dentro la Rolleicord un tocco di fumo e alcuni trip su carta assorbente. Trovai il foglio di congedo illimitato firmato, ironia del nome, dal maresciallo Spezzacatene. Lo incorniciai e poi feci una settimana di festeggiamenti con gli amici, dando fondo alle droghe che avevo portato. Mia madre non cambiò mai idea sul servizio militare: quando si ricordava quei mesi scuoteva la testa guardandomi.

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Vaccinismo di guerra https://www.carmillaonline.com/2017/06/10/38785/ Sat, 10 Jun 2017 12:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38785 di Alexik

Sui vaccini credete agli scienziati ! Non ai cialtroni!”. Da qualche mese questo messaggio ci viene ripetuto come un mantra da tutta la compagine renziana, dai vertici del dicastero della salute, da esponenti della classe medica e da gran parte del giornalismo e opinion makers nostrani. Ma all’indomani della entrata in vigore del decreto Lorenzin diventa più che mai una ‘questione di necessità ed urgenza’ capire, in tema di vaccini, il cialtrone chi è.

Certo, io non mi permetterei mai di pensare che sia un cialtrone chi impone la vaccinazione forzata,  da [...]]]> di Alexik

Sui vaccini credete agli scienziati ! Non ai cialtroni!”.
Da qualche mese questo messaggio ci viene ripetuto come un mantra da tutta la compagine renziana, dai vertici del dicastero della salute, da esponenti della classe medica e da gran parte del giornalismo e opinion makers nostrani.
Ma all’indomani della entrata in vigore del decreto Lorenzin diventa più che mai una ‘questione di necessità ed urgenza’ capire, in tema di vaccini, il cialtrone chi è.

Certo, io non mi permetterei mai di pensare che sia un cialtrone chi impone la vaccinazione forzata,  da effettuarsi in pochi mesi, di 816.836 bambini e ragazzi, con 8 vaccini supplementari da sommare ai quattro precedentemente obbligatori,  mandando nel delirio le ASL e le segreterie scolastiche che dagli asili alle superiori dovranno controllare la documentazione vaccinale (cioè i libretti vaccinali, le autocertificazioni, le prenotazioni alla ASL, oltre a tutti i casi di esenzione e di ricorso) per bambini e ragazzi dai 6 mesi ai 16 anni, tenendo conto che la popolazione in tali fasce d’età è di circa 8 milioni di persone.

Non mi permetterei mai di pensare che sia un cialtrone chi trasforma i presidi in poliziotti,  obbligati a denunciare i genitori che non vaccinano abbastanza i loro figli, o a vietare ai bambini  ipovaccinati l’accesso ad asili e materne, escludendoli dalle classi e dai contesti relazionali ed affettivi che magari fino all’anno prima frequentavano….

Non mi permetterei mai !

Perchè questi – sia pur dolorosi – provvedimenti sono indispensabili per far fronte alle terribili epidemie che dilagano nella penisola o incombono sull’italica stirpe.
E poco importa se bisognerà radiare dall’ordine i medici dissenzienti, mettere a tacere ogni voce critica tramite una violentissima campagna denigratoria, imporre TSO, trattare alla stregua di criminali, untori e potenziali assassini i genitori che non intendono obbedire !
Perché il fine ultimo è la salvezza nazionale, a fronte dell’attacco simultaneo da parte di miliardi di invisibili, multiformi e microscopici nemici. A cominciare dal morbillo, i cui eserciti virali hanno già da tempo assalito le estremità occidentali d’Europa.

Il ministro Lorenzin lanciò l’allarme all’inizio dell’invasione, il 22 ottobre 2014, davanti alle telecamere di “Porta a Porta” (min.36): “solo di morbillo a Londra, cioè in Inghilterra, lo scorso anno (2013) sono morti 270 bambini per una epidemia di morbillo molto grave”.
Esattamente un anno dopo, il 22 ottobre 2015, il ministro ribadiva a Piazza Pulita che  “Di morbillo si muore, in Europa!c’è stata una epidemia di morbillo a Londra lo scorso anno (cioè nel 2014), sono morti più di 200 bambini …”.

La Lorenzin, a cui non sfugge nulla, ne sapeva più che i londinesi, ai quali quei 270 bambini morti di morbillo nel 2013, sommati ai 200 dell’anno successivo, proprio non risultavano.
Infatti i dati del Department of Health di sua maestà britannica parlavano, per il 2013, di n. 1 decessi per le conseguenze del morbillo a livello nazionale. La vittima in questione non era un bambino ma un 25enne, morto per una polmonite acuta. Nessun decesso, invece, per fortuna, nel 2014.

Ora, io non ce l’ho con la Lorenzin, poveretta, ma – che diamine ! –  almeno quelli del suo entourage di ‘luminari’ dell’Istituto Superiore di Sanità non avrebbero potuto dirle qualcosa ?
Anche perché se non le dicono niente quella persevera, come nell’intervista rilasciata al Messaggero il 21 luglio 2016, dove ribadisce: “in Gran Bretagna tre anni fa c’è stata una epidemia di morbillo – dovuta proprio al fatto che molti avevano rinunciato al vaccino – che ha causato la morte di centinaia di persone”.

Insomma, non solo per il ministro ci sarebbero stati in UK centinaia di morti mai esistiti, ma l’origine di tale ecatombe andrebbe ricercata nella scarsa copertura vaccinale, addebitabile alla nefasta propaganda dei biechi no-vax.

A questo proposito è però interessante leggere il rapporto redatto dai diretti interessati del UK Department of Health:

Nei primi tre mesi del 2013, c’è stato un incremento a 587 casi di morbillo, nonostante il livello di copertura da parte del vaccino trivalente MMR (per parotite, morbillo e rosolia, ndr) non sia mai stato così alto, con il 94% dei bambini fino ai 5 anni che ne avevano già ricevuto due dosi. 
I casi di morbillo risultavano distribuiti in tutta l’Inghilterra, con i numeri più alti nel nord ovest e nel nord est”.

In pratica, non era vero che la copertura vaccinale fosse bassa. Al contrario, era altissima, ma ciò nonostante, l’epidemia si era sviluppata ugualmente.
Anche il rapporto del ministero della salute britannico puntava il dito contro il calo delle vaccinazioni generato, alla fine degli anni ‘90, dalla paura del MMR, rilevando come fossero maggiormente colpiti dal contagio i ragazzi nati proprio in quegli anni, cioè la fascia di età che nel 2013 aveva dai 10 ai 16 anni.
Ma successivamente, i dati definitivi sui casi di morbillo accertati nell’intero anno non mostravano queste abissali differenze per fasce d’età: 711 ammalati nel 2013 in Inghilterra dagli 0 ai 9 anni, 769 dai 10 ai 19.
Londra, dove le vaccinazioni MMR dei bambini arrivavano solo al 87%, era stata colpita dal morbillo meno del nord ovest e del nord est del paese. Complessivamente, fra gli 8 milioni e seicentomila londinesi, gli ammalati di morbillo nel 2013 furono 192 (lo 0,0022% della popolazione) e 59 nel 2014.
In tutta l’Inghilterra, 108 malati necessitarono di ricovero ospedaliero, e 15 subirono complicazioni quali polmoniti, infezioni dell’apparato respiratorio, meningiti e gastroenteriti.
Con tutto il rispetto per le persone ammalate e per il morto, gli effetti dell’epidemia non potevano essere paragonate a quelli delle grandi catastrofi.

Più grave, invece, la situazione in Romania, dove il morbillo ha contagiato, da gennaio 2016 a fine marzo 2017, 3400 persone, con 17 morti.
Anche in questo caso l’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità, gran supporter delle vaccinazioni di massa, ha esortato ad innalzare in tutta Europa la copertura del MMR oltre il 95%, esortazione immediatamente ripresa dal nostro ministero della salute e dalla stampa tutta.

Nessuno dei nostri maestri del giornalismo ha però sentito l’esigenza di scomodarsi per andare a verificare sul posto le caratteristiche dell’epidemia, magari accompagnato dai colleghi rumeni, che hanno fatto sull’argomento degli interessanti reportages.
Sulla Gazeta de Nord-Vest, in una corrispondenza del 9 marzo da Rătești, un villaggio del distretto di Argeș dove si è verificato un focolaio, una dottoressa dice: E ‘una situazione più sfavorevole, la madre non è a casa, i bambini sono allevati dalla nonna. Si tratta di una situazione sociale difficile. Qui abbiamo una comunità dove abbiamo 35 casi di morbillo accertati.

Rătești. Foto: Gazeta de Nord-Vest.

Codruţa Simina, giornalista di Press One, è autrice di una corrispondenza da Măgura, frazione di Bocșa, nel distretto transilvano di Caraș-Severin, dove si è verificato uno dei focolai, e la morte di un bambino.
La corrispondenza è del 14 maggio scorso, e rileva come il contagio continui come prima. Descrive come a Măgura i bambini giochino a piedi nudi su strade sterrate, tra la sporcizia, perchè il municipio non le fa pulire. Descrive la scarsa scolarizzazione, l’indifferenza delle autorità sanitarie nella prevenzione, monitoraggio e cura.

Il fatto è che quando parlano di epidemie, né l’OMS, né le nostre autorità sanitarie si curano di indagare le condizioni socioeconomiche, igieniche, nutrizionali, l’accessibilità ai farmaci e ai servizi sanitari, dei contesti dove il virus si inserisce. O di chiedersi se è più facile passare dal morbillo alla polmonite quando si vive in abitazioni umide e malriscaldate, e poi morirne per le difficoltà di accesso agli antibiotici.
L’unica causa dell’epidemia e dei morti risulta essere la mancanza di vaccinazioni di massa, non la miseria.
L’unica soluzione prospettata è la vaccinazioni di massa, non il superamento di quelle condizioni di marginalità.
Davanti all’emergenza rumena, il nostro ministro della salute ha colto l’occasione per rilanciare l’indiscutibilità delle vaccinazioni forzate anche in Italia, seppure le condizioni di miseria presenti in posti come Rătești o Măgura qui da noi siano molto più limitate che in Romania. Per ora.
Questo fatto mi induce un dubbio ed una preoccupazione.
Negli ultimi tempi il ministro Lorenzin e la sua crociata sui vaccini sono state fatte oggetto di numerosi attacchi.
Qualcuno ha tirato fuori anche la corruzione a suon di rolex.
Ipotesi che non mi trova d’accordo.
Se la questione fosse così semplice, sarebbe semplice anche la soluzione.
Basterebbe organizzare un crowdfunding.
Della serie: il rolex te lo regaliamo noi, basta che non ci imponi le tue politiche sanitarie deliranti.
Comincio a temere però che la spiegazione sia un’altra.
Non è che nella sua ‘estrema lungimiranza’, la Lorenzin stia tentando in qualche modo di preparare il sistema immunitario di gran parte della popolazione italiana alle condizioni di miseria crescente, prodotte dalle politiche sociali, abitative e del lavoro, che da anni, in maniera bypartisan, questa classe politica e i suoi mandanti economico/finanziari stanno continuando a infliggerci ?(Continua)
Nota:
Ringrazio per le dritte sulla Lorenzin e l’epidemia londinese Paolo Bellavite, Professore Associato di Patologia Generale, Università degli Studi di Verona. Il contenuto del suo documento ‘Scienza e vaccinazioni. Aspetti critici e problemi aperti‘ sarà uno dei testi che ci accompagneranno nelle prossime puntate di ‘Vaccinismo di guerra’ … proprio perchè è bene credere agli scienziati e non ai cialtroni.
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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

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Marx eroe fantahorror https://www.carmillaonline.com/2015/01/14/marx-eroe-fantahorror/ Tue, 13 Jan 2015 23:01:23 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20056 sangue_e_plusvalore_fb [Pubblichiamo un estratto di Sangue e plusvalore (Imprimatur, 2015, pp. 208, € 15,00) il nuovo romanzo di orrore soprannaturale di Luca Cangianti ambientato nella Londra vittoriana e nella Parigi comunarda. Protagonista: Karl Marx]

Marx sollevò un sopracciglio: «Constantin vuol far credere di guadagnare nuove fette di un mercato in contrazione. Ma non è così! Almeno secondo le informazioni di Beck». «Ma perché? Non riesco a capire». «I motivi possono essere molti, ma di sicuro qualcosa non torna» fece Marx pensoso. «Quattro incidenti mortali in un anno significa un quarto del numero complessivo a livello nazionale. Mi sembra un’enormità per un [...]]]> sangue_e_plusvalore_fb [Pubblichiamo un estratto di Sangue e plusvalore (Imprimatur, 2015, pp. 208, € 15,00) il nuovo romanzo di orrore soprannaturale di Luca Cangianti ambientato nella Londra vittoriana e nella Parigi comunarda. Protagonista: Karl Marx]

Marx sollevò un sopracciglio: «Constantin vuol far credere di guadagnare nuove fette di un mercato in contrazione. Ma non è così! Almeno secondo le informazioni di Beck».
«Ma perché? Non riesco a capire».
«I motivi possono essere molti, ma di sicuro qualcosa non torna» fece Marx pensoso.
«Quattro incidenti mortali in un anno significa un quarto del numero complessivo a livello nazionale. Mi sembra un’enormità per un singolo stabilimento».
«Certo!» confermò il filosofo con ira. «E non è tutto: spesso la grande stampa non ha riportato le notizie. Il breve articolo che mi avete consegnato è una rarità, per di più proveniente da un giornale scozzese. La tabella che vi ho appena mostrato è compilata sulla base delle informazioni che ha raccolto Beck continuando a frequentare i compagni di suo fratello».
«Be’, forse la stampa è ancora concentrata sul matrimonio di Federico di Prussia con la principessa Vittoria».
«Al di là di qualche faziosità, il “Times” pubblica un deprimente e aggiornato bollettino di infortuni sul lavoro, includendo incidenti di entità ben inferiore a quelli cui ci troviamo di fronte. La stessa polizia britannica, devo ammettere, svolge diligentemente le indagini. Ma in questa specifica circostanza non è così. Mi risulta che i casi siano aperti e immediatamente archiviati come “incidenti fatali”. Non lo trovate strano?»
«Abbastanza».
«Ma la cosa più bizzarra non ve l’ho ancora detta» continuò Marx andando avanti e indietro per il soggiorno con le mani unite dietro la schiena. «L’altro ieri non riuscivo a trovare la giusta concentrazione per dedicarmi al mio… sì, al mio fottutissimo libro che mi sta dannando la vita, e ho pensato di andare a dare un’occhiata di persona a questi strani stabilimenti. Ho camminato per un’ora e mezza fino al Blackfriars bridge, ho attraversato il Tamigi e sono arrivato davanti alla Vulcan in Holland street. Mancavano una quindicina di minuti al suono della campana delle diciotto, era buio e l’illuminazione era scarsa. L’edificio sembrava un castello medioevale. La ciminiera, altissima come una torre maledetta, sbuffava vapore nero. Attutiti dalle mura di mattoni sporchi, udivo i tonfi delle presse e lo stridere dei congegni meccanici. Mi misi ad aspettare non lontano dal cancello, sotto un lampione. La campana suonò con un quarto d’ora di ritardo, ma per veder uscire gli operai dovetti attendere ancora una ventina di minuti. Pensai di morire dalla noia e temetti anche che la desolazione del luogo spingesse qualche disgraziato a puntarmi un coltello alla gola. Ma nell’ora scarsa di attesa non vidi anima viva, cosa che a Londra è davvero inconsueta. Infine, gli operai cominciarono a defluire lentamente, stremati. Assieme a loro c’erano anche alcuni giovani apprendisti e molti manovali dal colorito diafano. Mi accodai a un gruppetto di questi come provenissi da una strada laterale. Non essendomi preparato nessuna particolare strategia d’approccio, dissi che ero il corrispondente del “New-York Daily Tribune” (cosa vera tra l’altro, anche se quegli spilorci pagano una miseria!) e che stavo svolgendo un’indagine sugli infortuni nelle fabbriche di Londra. Quattro lavoratori si fermarono inebetiti proprio sotto un lampione ed ebbi quindi modo di chiedere che cosa ne pensassero degli incidenti dell’ultimo mese. “Quella macchina è come un mostro, signore, siamo disperati!” disse il più anziano con un filo di voce, mentre gli altri si allontanavano. Tuttavia, prima che questo tornasse fra i suoi compagni e uscisse dal cono di luce, notai una cosa che, vi confesso, mi provoca ancora i brividi. Forse sarà stato qualche riflesso del lampione, ma quell’uomo mi parve essere affetto da una malattia, o da una forma d’intossicazione, perché aveva l’iride fortemente scolorita, sicché i suoi occhi sembravano quasi interamente bianchi».
Marx continuava a parlare come un torrente in piena agganciando una deduzione all’altra: pronunciava la parola “dunque” come un colpo di timpano. Ma Daniel ormai non lo seguiva più. Era come una statua di pietra con i gomiti poggiati sul tavolo. Una folla di immagini confuse si accavallavano nella sua mente: quelle del suo delirio etilico nel quale aveva creduto di vedere Constantin con cavità bianche al posto degli occhi, quelle dei lavoratori appena descritti da Marx e quelle di Lucy al Red Lion. Così avvenente, ma così strana, con quello sguardo opaco. Scattò in piedi.
«Dottor Marx, dentro quella fabbrica sta succedendo qualcosa di strano, di malvagio. Dobbiamo avvisare la polizia, dobbiamo fare qualcosa! Subito!»
«Lo penso anch’io, ed è per questo che sono corso da voi. I capitalisti filantropi m’insospettiscono: sono sempre peggio degli altri. Se fanno qualcosa di buono è perché hanno un secondo fine o una magagna da nascondere. Ascoltate il mio piano».

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Slam X 2014 – La rivoluzione che non lascia indietro https://www.carmillaonline.com/2013/12/13/slam-x-2014-la-rivoluzione-che-lascia-indietro/ Thu, 12 Dec 2013 23:00:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11408 di Lorenzo Fe

cartolinaslamx

Venerdì 13 e sabato 14 dicembre 2013, nel c.s.o.a. Cox 18 (via Conchetta 18, Milano) avrà luogo la quinta edizione di Slam X, il festival di reading e performance organizzato da Agenzia X (per la direzione artistica di Marco Philopat e Andrea Scarabelli) con la partecipazione di numerosi scrittori, musicisti e artisti che rappresentano stili, sensibilità e opinioni differenti, ma pronti a salire sul palco per leggere testi, alcuni musicati altri figurati, che richiamano a un’idea critica della società contemporanea.

“L’epoca che scrivo, la rivolta che mordo”

di Lorenzo Fe

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Venerdì 13 e sabato 14 dicembre 2013, nel c.s.o.a. Cox 18 (via Conchetta 18, Milano) avrà luogo la quinta edizione di Slam X, il festival di reading e performance organizzato da Agenzia X (per la direzione artistica di Marco Philopat e Andrea Scarabelli) con la partecipazione di numerosi scrittori, musicisti e artisti che rappresentano stili, sensibilità e opinioni differenti, ma pronti a salire sul palco per leggere testi, alcuni musicati altri figurati, che richiamano a un’idea critica della società contemporanea.

“L’epoca che scrivo, la rivolta che mordo”

20 settembre 2008, è il mio terzo giorno a Milano. Sono alla manifestazione anti-razzista in seguito all’omicidio di Abba. Un corteo selvaggio partito dal Duomo sta arrivando al luogo della tragedia. Ho vent’anni, non conosco nessuno e sono dotato di un’idea quanto mai approssimativa della toponomastica dei movimenti locali. Mi sento come Renzo Tramaglino che, arrivato per la prima volta a Milano, si trova nel bel mezzo delle rivolte per il pane del 1628. Nella confusione vedo, alla testa del corteo assieme ai compagni, giovani con la bandana e il cappellino da baseball con il frontino dritto, che all’estero sarebbero considerati “banlieusards”. Tra qualche tafferuglio, ragazzine in ghingheri ballano sulle rime di Tupac sopra ai furgoncini, accanto ai cordoni di una polizia quanto mai tesa. Un MC vestito come un presentatore degli Mtv Awards dirige gli interventi, sotto gli sguardi un po’ sorpresi di militanti con la kefiah o la maglietta dell’EZLN.

Questo almeno è il mio ricordo, da ultimo arrivato, di un episodio che per me simboleggia la capacità dei centri sociali italiani di penetrare i territori che li circondano anche grazie a un’apertura a subculture che vengono trasformate in controculture. Il mio termine di paragone è Londra, altra città in cui ho trascorso diversi anni. Nei pochi squat politicizzati di Londra, circolava una certa diffidenza verso l’organizzazione di eventi che avrebbero “trasformato lo spazio in un club”. Ricordo un sabato sera a un’occupazione a Southwark con un gruppo di espatriati italici. Ci dissero che non c’era il bar, non si poteva bere, non si poteva fumare. La serata prevedeva venti studenti in cerchio con una chitarra acustica. Tentammo di fuggire in una stanzetta per girare una canna: fummo scoperti e ci sorbimmo una colta quanto patetica ramanzina. L’occupazione durò venti giorni e non ci fu neanche un presidio di solidarietà. Qualche settimana dopo, alla manifestazione davanti al parlamento britannico contro una legge epocale sulla repressione delle occupazioni, eravamo meno di cento. C’era però l’immancabile chitarra acustica.

Non credo sia un caso se nel fatidico anno 2011 il movimento Occupy, che aveva realizzato due presidi permanenti in centro a Londra, sia rimasto completamente scollegato dalle rivolte che si sono scatenate nelle periferie. Rivolte che, per quanto sicuramente legate alla commercializzazione di tutto e alle disuguaglianze sempre più profonde che attanagliano la città, si sono indirizzate contro obiettivi quanto meno discutibili.

Con questo non voglio togliere nulla all’importanza storica di Occupy, un movimento che è stato senza dubbio in grado di creare indignazione e immaginario. Sappiamo che spesso è fin troppo facile criticare dall’esterno. Dico solo che una sinergia tra cultura di strada e militanza dal basso è oggi impensabile in una città come Londra, che pure ha così tanto potenziale artistico e sociale. Il tipico ragazzino dei quartieri non sa neanche che cosa sia un’occupazione. Questa incapacità si traduce in una conseguente debolezza dei movimenti. Eppure tale sinergia c’è stata negli anni ’90, quando le grandi mobilitazioni di Reclaim the Streets riuscirono a unire la promozione di un underground in esplosione con le lotte per il diritto alla città e alla salute.

Nel recente dibattito sulla “narrazione mancante”, è stata giustamente problematizzata una crisi nel rapporto tra subculture e movimenti anche qui da noi. Ma questa incrinatura fa parte di un processo più ampio che va oltre il contesto nazionale. Non è solo un problema dei movimenti ma anche dello stesso mondo delle subculture. Nel suo ultimo libro, Simon Reynolds registra uno stallo nella capacità di innovazione delle culture popolari, che faticano sempre più a creare nuovi generi e immaginari ma tendono invece a recuperare e ricombinare, anche con prodotti di qualità assai elevata, stilemi e idee del passato. Nonostante tutti i limiti dell’attuale situazione odierna, bisogna riconoscere che la “forma centro sociale” è stata in grado di garantire una continuità anche durante un decennio nel quale le condizioni esterne sono state sfavorevoli.

Questo non è certo un invito a dormire sugli allori. Il rapporto tra movimenti e controculture è ancora molto forte ma, come è stato detto in questi giorni, non è più una luna di miele e merita di essere rinnovato. Anche grazie a questi processi di diffusione di contenuti culturali di dissenso nei territori si possono costruire mobilitazioni “che non lasciano indietro”. Slam X, nel suo piccolo, si inserisce in questo sforzo collettivo, creando un canale di incontro e comunicazione tra autori, artisti e utenti legati per scelta di vita o anche per caso al mondo degli spazi autogestiti. Anche il Premio Dubito, che si muove in parallelo a Slam X, è un fragile tentativo di cercare nuove strade, mettendo al centro l’attenzione verso under 30 non necessariamente affermati e forme espressive a cavallo tra la letteratura in senso stretto e le subculture giovanili. Possiamo ancora scrivere il nostro tempo.

Collegati:

SLAM X —-> http://www.agenziax.it/slam-x-2013/
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COX 18 ——-> http://cox18.noblogs.org
PREMIO DUBITO ——-> http://www.premiodubito.com/
ALBERTO DUBITO ——> http://www.albertodubito.it/

STREAMING SLAM X—->http://cox18.noblogs.org/ascoltaci-in-streaming/

*Lorenzo Fe è autore di Londra zero zero e In ogni strada (Agenzia X)

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