Livio Crescenzi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Miseria delle miniere e bellezza della natura https://www.carmillaonline.com/2018/08/29/miseria-delle-miniere-e-bellezza-della-natura/ Wed, 29 Aug 2018 21:20:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48173 di Sandro Moiso

James Still, Fiume di terra, a cura di Livio Crescenzi, Mattioli 1885, 2018, pp. 220, € 17,00

In un’intervista rilasciata a François Busnel, nel corso del programma televisivo America tra le righe, lo scrittore James Lee Burke ha dichiarato che molto probabilmente il patriottismo americano si fonda principalmente sull’amore che ogni cittadino degli States prova per il paesaggio, la natura, il territorio e i grandi spazi che lo circondano. Se questa affermazione fosse vera, sicuramente il romanzo di James Still appena tradotto in italiano per le edizioni Mattioli 1885 ne fornirebbe una prova consistente e significativa.

L’autore [...]]]> di Sandro Moiso

James Still, Fiume di terra, a cura di Livio Crescenzi, Mattioli 1885, 2018, pp. 220, € 17,00

In un’intervista rilasciata a François Busnel, nel corso del programma televisivo America tra le righe, lo scrittore James Lee Burke ha dichiarato che molto probabilmente il patriottismo americano si fonda principalmente sull’amore che ogni cittadino degli States prova per il paesaggio, la natura, il territorio e i grandi spazi che lo circondano. Se questa affermazione fosse vera, sicuramente il romanzo di James Still appena tradotto in italiano per le edizioni Mattioli 1885 ne fornirebbe una prova consistente e significativa.

L’autore originario dell’Alabama, nato nel 1906 e scomparso nel 2001, è stato romanziere, poeta e studioso del folklore, oltre che militante per i diritti civili, che ha vissuto per la maggior parte della sua vita in una contea del Kentucky che sembra essere stata la fonte di ispirazione per le sue storie e, in particolare, del suo romanzo più famoso: River of Earth.
Mentre le altre fonti di ispirazione per il romanzo sembrano essere stata la sua infanzia e quella del padre che, oltre alla attività di agricoltore, svolse anche quella di horse doctor (colui che si occupa della salute dei cavalli, soprattutto al momento del parto), proprio come l’io narrante del romanzo, un bambino non ancora adolescente, afferma più volte di voler fare.

Fiume di terra fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1940, un anno dopo Furore di John Steinbeck, all’apice di quel New Deal roosveltiano che avrebbe dovuto risolvere i gravi problemi economici e sociali causati dalla Grande Crisi che aveva avuto inizio nel 1929. Ma mentre il romanzo di Steinbeck, pur importantissimo, prendeva spunto dall’indagine giornalistica che lo scrittore aveva condotta nel 1936 tra i profughi interni provenienti dall’Oklahoma e dalle aree rurali sconvolte dalla crisi e dalle tempeste di polvere1, l’opera di Still prende l’avvio, in maniera abbastanza evidente, dalle narrazioni e dalle memorie udite in famiglia e nell’ambiente che lo circondava sulle difficili condizioni di vita dei minatori del Kentucky e del West Virginia, negli anni a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.

Lo stile letterario si pone a metà strada tra Mark Twain e William Faulkner, poiché dal primo Still trae la leggerezza della descrizione anche degli avvenimenti più drammatici e l’umorismo con cui vengono osservate dal piccolo narratore vicende e personaggi, mentre dal secondo la creazione di una contea povera e popolata da individui spesso ignoranti e analfabeti, come quella di Yoknapatawpha nel Mississippi inventata da Faulkner per ambientare le sue storie, che hanno spesso come unico riferimento culturale una Bibbia il cui discorso è conosciuto soltanto attraverso l’interpretazione datane da predicatori girovaghi e in odor di santità popolare, come il Fratello Sim Mobberly che attraversa le pagine del romanzo quasi soltanto per celebrare funerali o per presenziare a cerimonie improvvisate in mezzo alle campagne impoverite.

Il linguaggio utilizzato e messo in bocca ai personaggi oppure nella “penna” del piccolo narratore, di cui purtroppo una parte cospicua va persa per forza di cose nella pur attenta traduzione italiana a cura di Livio Crescenzi, è un misto tra la lingua degli individui che popolano i racconti di Mark Twain e la sperimentazione linguistica di Faulkner e da sola rende l’idea di un mondo e di una sottocultura locale in cui l’istruzione primaria e la scuola costituiscono un autentico, e talvolta violentemente respinto, lusso.

Lingua che però presenta enormi differenze tra le parti in cui è la vita miserabile degli esseri umani ad essere descritta e quelle in cui è la descrizione estremamente precisa di una natura minuta (alberi da frutto, cespugli, insetti, volatili selvatici e da cortile) oppure grandiosa di boschi e torrenti dalla acque ancor a cristalline a far da padrona. Dando vita in questo modo ad un autentico contrappunto, anche linguistico, tra le semplici meraviglie della Natura e le complesse vicende che definiscono le miserie degli uomini e delle donne che popolano la narrazione.

Una storia famigliare che assume anche, nel corso del suo svolgimento, le caratteristiche di uno studio antropologico sulla trasformazione di una società prevalentemente agricola in una società in cui sarà l’attività industriale e mineraria a caratterizzare le vite degli uomini. L’autore coglie infatti un momento decisivo della trasformazione delle strutture sociali, mentali e comportamentali avvenuta nel passaggio tra società agricola e industriale o, per lo meno, tra una vita spesa nel lavoro dei campi e nella relativa indipendenza dei nuclei famigliari e una in cui la dipendenza da un salario renderà gli individui sempre più schiavi e succubi del lavoro coatto e della produttività.

E’ uno scontro che attraversa tutto il romanzo e la famiglia stessa del narratore. Uno scontro che vedrà cadere più facilmente preda dell’illusione salariale gli uomini, disposti a scambiare la loro libera iniziativa con una promessa di continuità lavorativa che non verrà mai mantenuta. Mentre d’altro lato saranno le donne, madri e nonne, a difendere maggiormente l’autonomia famigliare e il legame con la terra, questo fiume possente sul quale tutti sono destinati a nascere, generare e morire senza sapere, come afferma il Fratello Sim Mobberly in una delle sue prediche, dove li sta portando. Ma a cui è inevitabile affidarsi, come a Dio.

Una commistione di fede biblica e di legame con la terra che rende le donne particolarmente forti all’interno delle vicende: soffrono, partoriscono, vedono morire i figli più piccoli, ubbidiscono a mariti un po’ troppo disponibili a scambiare la propria fatica in cambio di uno stipendio e l’indipendenza in cambio di un lavoro incerto, educano i figli, coltivano i campi, cucinano, muoiono sole e lontane dall’affetto di mariti che sono deceduti prima e di figli che non hanno più tempo per loro. Donne che, nonostante tutto, mantengono vivo dentro di sé la fiamma della memoria. E magari anche quella della vendetta, condotta però senza la brutalità tipica degli uomini.
Continuando a rappresentare la continuità delle famiglie e della specie, al di sopra di tutto ciò che una società maschile può ordire per andare incontro alla propria autodistruzione.

Fuori e dentro dalle miniere di carbone, con il lavoro e senza il lavoro; fuori e dentro il carcere, colpevoli o meno, questo sembra invece essere il destino riservato agli uomini ormai succubi del duro lavoro e della fiducia in un progresso soltanto apparente.

“Kell Haddix parlando sollevava le braccia. «Quelli lì avviarono la fonderia di Willardsborough con un tozzo di pane, un centinaio di dollari. Un affare d’oro. E’ così fratello…Cristo, la vidi funzionare io con i miei stessi occhi, e come bruciava.» […] Con il piede Papà colpì un gancio a tre punte appeso al bordo della griglia. «Sì, ma trent’anni fa» disse, volendo sminuire la cosa. «Sono quasi venticinque anni che ormai la fonderia sta cadendo in rovina. Oggigiorno non rende più scavare il minerale su per questi monti. Per ogni vagoncino, ci rimettono un sacco di soldi.»
Le labbra serrate, Kell sorrise, amaro. «E’ proprio quello che sto dicendo anch’io. Buttano via i soldi. Li bruciano. E si tratta della stessa società che possiede anche questa miniera. Quella è gente che è sempre stata ben attenta a non perdere nemmeno un centesimo dal portafoglio che hanno sul culo. E qui sprecano soldi, fratello, per cui, vedrai, lunedì inizieranno a tagliare una giornata lavorativa a settimana. E sì che in questo periodo dell’anno gli affari della miniera dovrebbero andare a gonfie vele.»
«Quando mi sono trasferito a Blackjack, mi figuravo che avrei lavorato regolarmente. Ma ho vissuto abbastanza a lungo stringendo la cinghia per cui non mi spaventa eccessivamente se mi riducono un po’ il salario.»
Kell si passò la mano tra i capelli, dandosi una grattata alla testa. Gli occhi gli fiammeggiavano nelle orbite. «E invece a me altrochè se mi preoccupa. E’ una faccenda che ho visto ripetersi altre volte, da queste parti. Prima riducono di una giornata lavorativa, poi due e poi tre. E poi chiudono le miniere, Gli scaffali dello spaccio vuoti e nessun credito per i viveri […] Poco dopo la gente se ne andò, solo Dio sa dove. Se poi trovarono lavoro, beh, io non l’ho mai sentito dire […] Una faccenda che ti dà da pensare.»” (pp. 168 – 169)

Unica consolazione alle disgrazie degli uomini e delle loro famiglie rimane, negli occhi del piccolo io narrante, la natura. Cosa che lo spinge a desiderare di diventare horse doctor per non dover mai occuparsi degli esseri umani. Così miseri, sfortunati e “brutti” ai suoi occhi. Uno stratagemma, quello di raccontare gli eventi attraverso lo sguardo di un bambino, che dona alla narrazione un senso straordinario di oggettività.

Un piccolo, grande romanzo sulle trasformazioni sociali, sulla condizione femminile, sulla crisi e sul lavoro che, senza per forza descrivere grandi tragedie, può tranquillamente essere riproposto ancora oggi, proprio per la sua estrema attualità fatta di miseria, ignoranza e precariato.

Con uno stile narrativo asciutto, lontano anni luce dal naturalismo europeo, sempre fin troppo carico di pathos, quanto dal realismo di stampo socialista, sempre troppo ideologico e didascalico, che avrebbe predominato negli anni successivi in altre parti del mondo, il romanzo di Still ci fa comprendere ancora una volta, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, cosa fu a spingere i migliori autori italiani della generazione cresciuta nel fascismo ad abbracciare la letteratura americana.
Così come è successo anche al sottoscritto.


  1. Oggi in John Steinbeck, I nomadi, Il Saggiatore, Milano 2015  

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