Linus – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 5: Kamumilla Cocco Bill https://www.carmillaonline.com/2023/05/21/esperienze-estetiche-fondamentali-5-kamumilla-cocco-bill/ Sun, 21 May 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77034 di Diego Gabutti

Una volta intervistai Jacovitti. Roma, primi novanta. Una casa modesta, tanti libri, la scrivania, disegni sparsi dappertutto. Non ricordo cosa gli chiesi né cosa mi rispose. Non masticava il sigaro, come nelle foto che ancora lo tramandano. In compenso gli occhi, come nelle fotografie, erano a palla, il viso tondo, il sorriso lunare. Sembrava un po’ stanco. Portava occhiali à la Clark Kent. Non trovo più l’intervista, che apparve sul «Giorno», dove lavoravo all’epoca, ma immagino che parlammo soprattutto di Cocco Bill, il pistolero d’avant-garde, che «ha [...]]]> di Diego Gabutti

Una volta intervistai Jacovitti. Roma, primi novanta. Una casa modesta, tanti libri, la scrivania, disegni sparsi dappertutto. Non ricordo cosa gli chiesi né cosa mi rispose. Non masticava il sigaro, come nelle foto che ancora lo tramandano. In compenso gli occhi, come nelle fotografie, erano a palla, il viso tondo, il sorriso lunare. Sembrava un po’ stanco. Portava occhiali à la Clark Kent.
Non trovo più l’intervista, che apparve sul «Giorno», dove lavoravo all’epoca, ma immagino che parlammo soprattutto di Cocco Bill, il pistolero d’avant-garde, che «ha le rivoltelle chiacchierone e beve camomilla espresso», come veniva minchionato da un «avventato avventore» di saloon (subito ripagato con «una sciacquatina di piombo ai denti») già nella seconda tavola della sua prima avventura, apparsa sul «Giorno dei ragazzi», come si diceva, il 28 marzo del 1957.

Sei anni dopo, in Per un pugno di dollari, il primo western di Sergio Leone, Clint Eastwood avrebbe dato «una sciacquatina di piombo ai denti» dei bandidos che avevano offeso il suo mulo. Era un rimando non si sa quanto involontario ai dialoghi di Jacovitti. Ma anche il mulo di Joe, pistolero sbrindellato e con il poncho, suonava un po’ come una citazione di Trottalemme, il cavallo malmostoso di Cocco Bill. Come Cocco Bill, che aveva sempre una sigaretta spenta all’angolo della bocca, anche Clint Eastwood – nei primi tre western di Sergio Leone – aveva sempre tra le labbra, bitorzoluto e cincischiato, uno zampirone spento. Eastwood, in quei film, era un eroe ambiguo, double face, spietato e sentimentale insieme. Idem Cocco Bill, che agiva come il trickster delle mitologie – brutale e implacabile. Guardatelo bene: ha lo sguardo cattivo, da elfo crudele. Intorno vermi tabagisti, lische di pesce perplesse, matite sorridenti (alcune dotate d’attributi) e salami semiliquefatti, come gli orologi di Dalí.

Quanto all’«avventato avventore», se non ricordo male, è un’espressione che ho letto proprio in una storia di Cocco Bill (o di Gionni Galassia, o di Zorry Kid, o di Tom Ficcanaso, o di Mandrago, o di Jack Mandolino). Disegnatore eccezionale, Jacovitti fu anche – se non prima di tutto – un maestro di calembour linguistici e di balloons surreali, anzi surrealisti. Apro un albo a caso. Cocco Bill e sette pistoleros tutti eguali ma di colore diverso (baffoni compresi, chi li ha gialli, chi rossi, verdi o blu) sono in fila indiana in un saloon e ordinano ciascuno al suo turno da bere: «Una birra», «A me pure», «A me una birra al burro», «A me una in decoltè», «A me una birra al diapason», «A me birra Meloni», «A me una birra della Val Sugana». Ultimo Cocco Bill: «E a me una camomilla. Pagano loro». Altro albo: «Il capo degli indiani Ciuffettoni s’approssima a Cocco Bill e sbraita terribili minacce: “Naibò! Coccobille ciaccichine tantorollè paghironde pa ghighè!”» In altro albo ancora Cocco Bill spara a mitraglia dicendo: «Siamo al buio e io accendo gli abbaianti». Invece di «bang bang» le pistole fanno «bàu bàu».

Come di tutti i giornali in cui ho lavorato, del «Giorno» non ho buoni ricordi, se non dei primi due direttori che mi toccarono in sorte, il democristo Lino Rizzi (un grande giornalista e un’ottima persona, che perciò tutti detestavano, rosicando) e il mio amico Francesco Damato, in quota socialista, il miglior analista politico dell’epoca (tutti, sempre rosicando, detestavano anche lui). Ma prima di scrivere corsivi e recensioni per il Giorno fui un lettore bambino del «Giorno dei ragazzi».

Scoperte non so più in quale modo (o per dritta di chi) le storie di Cocco Bill, nei primi tempi era mia madre a comprare il Giorno dei ragazzi ogni giovedì, quando usciva come supplemento del quotidiano, ma presto fui io a procurarmelo tornando a casa da scuola. Oggi in edicola non c’è quasi più nulla da comprare, a parte la Settimana enigmistica, che tuttavia si può anche caricare sull’iPad, ma all’epoca le edicole erano miniere: Urania e Galassia, gialli Mondadori e Garzanti, KKK. I classici dell’orrore, Soldino e Nonna Abelarda, il Monello con Cuoricino e C. e Superbone, Nembo Kid, i primi Segretissimo, le enciclopedie a dispense, Cineromanzo (fotogrammi di blockbuster hollywoodiani, da Ulisse a Duello al sole, da Fronte del porto a Ben Hur, con didascalie e i dialoghi nelle nuvolette). Ma il clou era Cocco Bill (be’, Cocco Bill e la ristampa primi sessanta di Pecos Bill, gran fumetto di Guido Martina e Raffaele Paparella, ma questa è un’altra storia, e la racconteremo poi).

Trascuravo, per ragioni che oggi mi sono oscure, ogni altro fumetto presente sul Giorno dei ragazzi. So che erano opera di Pier Carpi, di Andrea Lavezzolo, di Stan Drake e persino di Bruno Bozzetto, pioniere del cinema d’animazione italiano d’eccellenza con West and Soda e Mio fratello superuomo, solo perché lo dice Wikipedia (dove scopro che, tra i fumetti del Giorno che trascuravo o che ho dimenticato, c’era anche «Dan Dare, pilota del futuro» di Frank Hampson, niente meno).

Logo del Giorno dei ragazzi era un ragazzino in pigiama a strisce verdi e gialle visto di schiena. Sa Iddio chi l’aveva inventato e perché l’Eni d’Enrico Mattei, khan politico del giornale, l’avesse adottato senza licenziare il grafico. Braccia aperte, i capelli ritti, come chi ha infilato le dita in una presa di corrente per vedere l’effetto che fa e l’effetto è che si è preso la scossa, il ragazzino reggeva il Giorno dei ragazzi. Formato tabloid, lo stesso del quotidiano, più immagini che colonne di stampa, il Giorno dei ragazzi era un lenzuolone a colori acidi.

Prim’attore, Cocco Bill.
Consumando «doppie camomille al limone», sparando revolverate «nelle gengive dei cattivoni», chiamando al soccorso le pistole dimenticate al saloon con «un fischio da pecoraro», sbattendo «vigliacconi matricolati» e «pezzentoni» dietro le sbarre «in nome e cognome della legge» per galoppare, infine, verso l’orizzonte in un far west psichedelico, Cocco Bill era diventato col tempo il personaggio più celebre e celebrato di Benito Franco Giuseppe Jacovitti, la cui opera è fitta di protagonisti e di comprimari quanto e più della Commedia umana di Balzac (e della Recherche proustiana, che della Comédie fu il sequel fluviale, come gli ultimi 22 film di James Bond degli eleganti e perfetti primi tre).

Alcuni di questi personaggi li ho già elencati. Ma ce ne sono infiniti altri, anch’essi diligentemente rubricati da Wikipedia: Alvaro il Corsaro, Cip l’arcipoliziotto, Battista l’ingenuo fascista, Gionni Peppe, Joe Balordo, Giorgio Giorgio detto Giorgio, Elviro il vampiro, Peppino il paladino, Oreste il guastafeste, Tippe Tappe, Zagar, Giacinto corsaro dipinto e, naturalmente, la signora Carlomagno e «i tre P», Pippo, Pertica e Palla – i personaggi con i quali aveva esordito nel 1939, a sedici anni, sul settimanale a fumetti dell’Azione cattolica il Vittorioso. Ma tra tutti Cocco Bill resta il suo personaggio più riuscito. Un classico.

Mentre il Giorno dei ragazzi, e prima ancora il Vittorioso, pubblicavano fumetti destinati a un pubblico di ragazzi e bambini, le tavole caotiche e indiavolate di Cocco Bill, dove al posto del sigaro qualcuno fuma un salame e i messicani portano sombreri con le corna, come elmi vichinghi, non erano e neppure sembravano roba per ragazzi. Cocco Bill era un fumetto senza un target preciso, ma certamente più per «grandi» che per «piccini». Era un fumetto letto con vantaggio anche o soprattutto dagli adulti senza essere per questo un «fumetto adulto», come si diceva pomposamente all’epoca («fumetto adulto» era un’espressione che faceva la sua figura nei repertori chic, ma che alle orecchie di Jacovitti avrebbe avuto il suono storto d’una barzelletta raccontata male). Cocco Bill, a differenza dei fumetti «adulti», eternamente organici ai magisteri e alle mode del momento, era piuttosto un fumetto «alto» e raffinato, come negli Stati Uniti dei sixties i fumetti di Al Capp: Li’l Abner, lo zoticone di Dogpatch, Appalachi, e Fearless Fosdick, il G-man stolido e mascelluto à la Dick Tracy protagonista delle strip preferite da Li’l Abner.

Come Jacovitti, che faceva di nome Benito, anche Al Capp era un vecchio reazionario. Una volta, incontrando Yoko Ono e John Lennon in un talk show, si presentò così: «Salve, ragazzi. Sono un terribile fascista di Neanderthal. Come state?» Jacovitti, più in piccolo, incontrò la redazione di Linus e Oreste Del Buono, che chiusero d’autorità una sua storia a puntate perché i lettori la giudicarono reazionaria levando alte e piagnucolose proteste. A Jacovitti, uno dei massimi artisti del Novecento italiano, non si perdonò d’aver preso per il naso il milieu goscista disegnando una manifestazione studentesca che un passante commentava così: «Raglia, raglia, giovane Itaglia». Da ragazzo, raccontava lui, «sono stato un tifoso d’Italo Balbo, che però disegnavo con due falci e martello al posto dei fasci nelle mostrine, e non so ancora perché». Dopo Linus, e nonostante Linus, pubblicò vignette, fumetti e «panoramiche» (paginoni a tema fisso zeppi di vignette concatenate) anche sul Male, su Cuore e su Tango: l’ideologia era l’ultimissima delle sue preoccupazioni.

Non soltanto inventò un suo originale e inimitabile linguaggio grafico e letterario, a metà tra le beffe filologiche di Carlo Emilio Gadda e gli «scandali» dei surrealisti, ma con la sua opera deformò e sbertucciò il costume del suo tempo, quando gli altri si limitavano a fotografarlo. Aggirandosi tra vilain che mangiano leoni vivi e saloon kafkiani, dove si consumano eterne merende del cappellaio matto, Cocco Bill aiutò Jacovitti in questa mirabile impresa.

Nato a Termoli, in provincia di Campobasso, nel marzo del 1923, Benito Jacovitti era figlio d’un ferroviere che tifava per il fascismo, da cui l’impegnativo nome di battesimo, e d’una donna d’origini albanesi. Nel 1939, quando diventò un fumettista di professione, viveva a Firenze, dove aveva seguito il padre ferroviere, e frequentava il liceo artistico. Franco Zeffirelli era uno dei suoi compagni di classe.

All’epoca i fumetti erano un’arte giovane.
Alcuni maestri del fumetto erano già al lavoro in Amer ica e in Europa. C’erano le storie di Flash Gordon e quelle di Tintin. Erano i tempi di Mandrake il Mago, di Topolino giornalista, di Cino e Franco. Ma c’è da dubitare che Jacovitti, uno che disegnava fumetti (o qualcosa di molto simile) da quando aveva sei anni, si sia ispirato a qualche modello, specialmente esotico. Lui fece tutto da solo. Era un talento naturale e gli obblighi del fumetto (la sceneggiatura lineare, la tavola sobria, il disegno disciplinato e pulitino, il dialogo igienizzato) gli andavano stretti. Nel 1945, subito dopo la guerra, fece uscire il primo DiarioVitt, prototipo di tutti i diari scolastici, che ancora «negli anni sessanta», raccontò in seguito, «era l’unico in circolazione e vendeva qualcosa come due milioni e mezzo di copie: i testi erano di Gervaso, Montanelli eccetera… io facevo i disegnini». Nel 1946 si stabilì a Roma, dove frequentava altri umoristi disallineati, da Marchesi a Metz, da Steno al giovane Fellini. Nel 1948 – di nuovo a proposito di politica – la Dc atlantista (ma bacchettona e clericale) gli commissionò un manifesto elettorale in vista delle elezioni che avrebbero deciso il destino del paese. Jacovitti pensò bene d’infilare in un angolino del manifesto, quasi invisibile, una legenda che diceva: «Abbasso il papa». Nel 1980-81, sulle pagine di Playmen, «rivista per soli uomini», Jacovitti pubblicò il suo Kamasutra, il più scapigliato, scombinante e imaginifico dei libelli pornografici. Ciò a dimostrazione che anche la pornografia, che già in sé è trasgressione e parodia, ha i suoi trasgressori e parodisti.

Jacovitti morì alla fine del 1997. Io l’avevo incontrato quattro o cinque anni prima. Prima o poi, frugando nei faldoni che conservo (senza una ragione al mondo) in soffitta, ritroverò l’intervista. Di quell’incontro mi restano, preziosissimi, due souvenir: due tavole di vignette del DiarioVitt cum dedica. Non gliele avevo chieste, sia chiaro. Non è che uno prende il caffè a casa di Picasso e prima d’andarsene chiede una tela in omaggio. Fu lui, molto, gentilmente, a farmene omaggio. «Per lei», disse. Adesso, trent’anni dopo, se ne stanno, incorniciate, bellissime, qui in casa. Sono appese accanto a una striscia, pagata carissima, di Lil’l Abner (ma ho anche un’intera bibliografia su John Lennon) e una tavola, pagata un po’ meno ma sempre cara assai, del Pecos Bill di Raffaele Paparella. Possiedo anche una tavola dei Teen Titans di George Peréz, un altro disegnatore straordinario. Ma il pezzo forte sono naturalmente le tavole di Jacovitti.

Arrivato in aereo il mattino, presi il volo di ritorno nel tardo pomeriggio. Non ebbi nemmeno il tempo di fare quel che facevo di solito a Roma: una passeggiata nel centro, Piazza Navona, Campo de’ Fiori, il Fontanone, Piazza di Pietra, il Pantheon, un cappuccino qui, un’aranciata là. Forse con Jacovitti parlai a lungo, o forse i tempi tra un volo e l’altro erano più stretti del solito. Sta di fatto che saltai il pranzo. Mi sarebbe piaciuto sedere in un’osteria di Via del Mortaro, alla quale m’ero affezionato anni prima, quando andavo e tornavo da Roma almeno due o tre volte al mese. Mi accontentai d’un panino o due e di troppi caffè nei bar della stazione e dell’aeroporto. Nel tascapane, dentro una busta di plastica comprata nella prima cartoleria in cui m’ero imbattuto dopo aver lasciato Jacovitti, avevo le tavole del DiarioVitt.

Avrei voluto anche passare, per dare un’occhiata, in una libreria antiquaria dov’ero capitato una volta, parecchio tempo prima e, per una di quelle «coincidenze oggettive» (come le chiamava Adorno) che si verificano di tanto in tanto, vidi in vetrina una copia d’un libro intitolato La doppia vita di Evno Azev, autore G. Pevsner, uscito nel 1936 nella collana Mondadori «Drammi e segreti della storia». Avevo parlato di Azef poco prima al ristorante (non l’osteria di Via del Mortaro, ma da «Fortunato al Pantheon») con Enrico Filippini, germanista di rango e grande firma di Repubblica.

Di Azev, mi disse, raccontava la storia Alberto Moravia nel suo ultimo romanzo, 1934, di cui non sapevo niente allora e poco so (e voglio sapere) anche adesso. Sapevo tutto, in compenso, di Azev, terrorista socialrivoluzionario e agente dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, terrore delle cellule clandestine. Azev era un agente così doppio che non sapeva più lui stesso per chi lavorasse davvero e a chi fosse fedele, al trono o alla rivoluzione. Sapevo tutto di Evno Azev proprio perché possedevo una copia del libro di Pevsner.

Ed eccone lì un’altra copia, evocata per magia, quasi certamente magia nera, come il diavolo di cui, solo a nominarlo, spunta subito la coda. Comprai il libro e lo lasciai a un amico comune (il capo della redazione romana del Giornale) affinché lo girasse a Filippini. Trovai anche, nella stessa libreria antiquaria, una copia della prima edizione italiana del Falcone maltese (più precisamente Il falcone maltese e quattro novelle) di Dashiell Hammett, sempre del 1936, sempre Mondadori, collana «Il romanzo mensile».

Avrei dato volentieri un’occhiata, dicevo, alle vetrine di quella fatata libreria antiquaria. Chissà cosa avrei potuto trovarci. Ma non ne ricordavo il nome, sapevo solo vagamente dove si trovava, e comunque non c’era abbastanza tempo. Mi consolai pensando alle tavole cum dedica di Jacovitti. C’erano ossa, salami e piedi nudi che spuntavano dal terreno come piante grasse da incubo. C’erano clessidre sorridenti, nonché vermi con vari tipi di cappelli e altri con enormi nasi.

]]>
Urgenze sovversive. “Perché la pazienza ha un limite, Pazienza no” https://www.carmillaonline.com/2017/09/16/urgenze-sovversive-perche-la-pazienza-ha-un-limite-pazienza-no/ Fri, 15 Sep 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39885 di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a [...]]]> di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a definirsi un disegnatore indolente, in realtà in una decina d’anni ha prodotto parecchio materiale. Questa propensione dell’artista a descriversi svogliato deriva forse dall’ambiente di fine anni Settanta entro il quale si trova a vivere, decisamente ostile ad obblighi, contratti, scadenze e più in generale a tutto ciò che odora di lavoro.

Lo studio di Cristante prende il via dalla pubblicazione nell’aprile del 1977 su “Linus” delle tavole che danno vita alla prima storia di Pazienza, Pentothal. Lo stile adottato risulta decisamente caotico e servono quasi quattro anni all’artista per giungere alla tavola conclusiva mostrante la scritta «“Le straordinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario, come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del disegno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio» (p. 28).

La situazione vissuta da Pazienza è quella del ’77 bolognese, quella della città del Pci che finisce col fronteggiare il movimento con i blindati dell’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga. Cristante rintraccia in Pentothal le modalità con cui il giovane di origini pugliesi vive la turbolenta realtà bolognese: «La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal (che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato. È dentro le cose dei suoi giorni […] e simultaneamente buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna. Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il bagaglio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale» (p. 29).

Nel saggio si sottolinea come Pazienza inizialmente pubblichi non secondo le modalità della serialità narrativa ma, piuttosto, con la logica dell’esemplarità di ogni apparizione che si manifesta come un connubio «tra equilibrismo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una pagina dalla linea chiara a quella scura» (p. 29). Le tante fonti d’ispirazione vengono per certi versi da lui esasperate a livello esponenziale e le singole tavole finiscono per rappresentare un universo visionario autosufficiente che Cristante definisce efficacemente «Polaroid a fumetti di un proletariato giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza» (p. 29).

Nel periodo in cui lavora a Pentothal, Pazienza introduce «una neo-lingua fattona-terrona» (p. 30) che utilizzerà, successivamente anche su “il Male”. Lo stile narrativo e grafico del giovane autore risulta fortemente autobiografico ed esistenziale e ciò lo differenzia da quello del francese Moebius, spesso citato in Pentothal. Pazienza rielabora «il postmodernismo futurologico di Moebius in un presente stralunato» (p. 30); le strampalate automobili del francese vengono riprodotte da Pazienza non per viaggi nello spazio ma per girare in un altrettanto stralunato paesaggio terrestre quotidiano. Mentre i personaggi di Moebius si presentano come creature eteree in ambientazioni future misticheggianti, «quelli di Pazienza corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferimenti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un monologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario, audacemente lirico» (p. 31).

In Pentothal fanno capolino diversi personaggi e situazioni che si ritroveranno nelle produzioni successive dell’autore. Nel primo episodio si viene proiettati nella quotidianità del movimento bolognese del quale, per certi versi, Pentothal si sente sia parte che estraneo e, sostiene Cristante, a tale “bipolarità situazionale” finisce col rispondere con improvvisi “scarti laterali”. «Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!» (p. 32).

Pentothal si presenta come una serie di flash improvvisi legati l’uno all’altro soprattutto dalla presenza dell’artista nei diversi frammenti. Nell’atmosfera onirica e alterata messa in scena dalle tavole, il protagonista ha ormai abbandonato ogni velleità eroica. Sulla falsariga di quanto proposto da Moebius, Pazienza ricorre a stralunati riassunti delle puntate precedenti e gioca su molteplici piani narrativi ricorrendo a citazioni colte e reinterpretando l’immaginario proposto da “Métal Hurlant”. «Dopo un paio di tavole moebiusiane (tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici personaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta della rivista “Cannibale” e l’ammissione di essere appena arrivato da Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demenziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pentokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro” […] “Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato [Zanardi] e penso: E se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripensarci, come fa?”. “L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordinate e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da “Frigidaire” – ma il marchio del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visivo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”» (pp. 34-35).

All’avventura di “Cannibale” ideata da Stefano Tamburini, danno manforte autori come Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e, successivamente, Tanino Liberatore. Nell’inverno del 1977, nel secondo numero della pubblicazione, quello delle “quattro copertine possibili”, Pazienza pubblica una storia che ha per protagonista una variante fricchettona di Pippo, il celebre personaggio disneyano, ricorrendo ad un tratto grafico che, sottolinea Cristante, cita esplicitamente lo stile di Robert Crumb, uno dei maestri dell’underground americano. «Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro […] Lo fa immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto fricchettone in mezzo al deserto» (p. 38). Toccherà a Topolino riportare a casa Pippo ma, suggerisce Pazienza, nonostante sia rientrato nei ranghi, Pippo non manca di fumarsi spinelli. «Siamo dunque così all’immagine capovolta del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del carattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mistero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro “perché Pippo sembra sballato…” “Sembra sballato perché È sballato!”» (p. 40).

Sempre nel secondo numero di “Cannibale” Pazienza pubblica Prixicel!!, una storia in sette tavole di ambientazione fricchettona in cui acidi tagliati con la nitroglicerina fanno esplodere chi ne fa uso. Personaggi strafatti tornano anche nei numeri successivi di “Cannibale”: E per me un Anco Marzio (1978), Ma cosa succede? (1978), Agnus Dei (1979).

Francesco Stella è invece indicato da Cristante come personaggio interstiziale che Pazienza fa comparire in svariate occasioni e sotto diverse vesti. Per la prima volta Stella compare in otto tavole pubblicate su “Cannibale” nel 1979, nelle vesti di un operaio che sogna di esportare i pelati negli Stati Uniti, poi lo si incontra nelle otto tavole della storia rock-fantascientifica Vita e gite (1981) su “Frigidaire”, fino a ritrovarlo nei panni del tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, protagonista delle quarantotto tavole di Aficionados (1981), «una storia piuttosto eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di misura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampatello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti. L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il trattamento è da racconto storico» (p. 44).

Su “il Male” del settembre 1979 compare, probabilmente per la prima volta, una vignetta di Pazienza ritraente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Da quel momento, di tanto in tanto, il personaggio viene riproposto dall’artista anche sulle pagine di “Frigidaire”. «Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti» (p. 52). Per qualche tempo Pazienza spinge sull’acceleratore del “rincoglionimento senile” del Presidente, dando vita a spassose vignette in cui l’ex-partigiano nel confondere le cose o i ricordi si lascia andare ad affermazioni surreali.

Nell’albo dedicato a Pertini il personaggio cambia e diviene un intransigente e collerico decisionista a cui Pazienza affianca «un altro personaggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato, psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione, codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chiama Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del “luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongruità spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione d’avanspettacolo» (p. 55). Su questa base l’artista inserisce una scrittura ricca di svarioni ortografici, giochi di parole e rime.

Nel 1979 Pazienza pubblica su “il Male” Il Partigiano, una surreale storia di resistenza all’invasione comunista nella sua San Severo nel foggiano di un personaggio dagli evidenti tratti autobiografici. Secondo Cristante «Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resistenziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclettico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano, inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori» (p. 63).

Nel racconto breve Giallo scolastico (1981), ove appaiono personaggi come Zanardi (Zanna), Colasanti (Colas) e Petrilli (Pietra), l’unità di misura generale, sostiene Cristante, è la tavola, ma è nella vignetta che si ritrova la precisione; «una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisionomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico» (p. 66). Il racconto è composto da quattordici tavole, ad alto numero di vignette per tavola, in totale sono quasi centosessanta, «anche se alcune sono in qualche modo doppie, perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano la portata» (p. 66). La serie prosegue con numerose storie fino all’incompiuta Zanardi medievale (1988).

Zanardi rappresenta un personaggio importante nella produzione di Pazienza. Con esso, l’autore non si accontenta di ritrarre il mondo giovanile dell’epoca all’interno di una cornice noir; Zanardi si trasforma «in una declinazione di stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio di imprese scaltre e buie […] brand di una devianza che si erge sopra ogni normalità» (p. 87).

Il personaggio Pompeo, un tossicodipendente capace di osservare il mondo in cui vive con un certo distacco, compare su “Alter” nell’aprile del 1985, pubblicazione che però, dopo poche uscite, decide di interromperne la collaborazione con l’autore. Grazie alle edizioni Grifo Pompeo giunge in libreria nel 1987. Gli ultimi giorni di Pompeo (1987) secondo Cristante può essere considerato un graphic novel di 116 tavole in cui a colpire, più che lo stile letterario, è «l’esibizione calligrafica realizzata con il pennarello [capace di creare] un lettering multiforme e attraente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatello maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tremolanti e oscure […] Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su foglietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale. L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una misteriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza» (p. 91).

Cristante analizza nei dettagli il mondo messo in scena da Pompeo a partire dalla prima pagina dell’opera definita dallo studioso metaletteraria e cross-mediale: metaletteraria perché viene citato un passo letterario all’interno di un’opera letteraria, e cross-mediale in quanto si cita il medium letteratura nel medium fumetto.

Campofame (1987) è invece un’opera, pubblicata in tre puntate da “Comic Art”, che Pazienza deriva da Hungerfield di Robinson Jeffers. Ad attrarre Pazienza, si sostiene nel saggio, è probabilmente il fatto che Jeffers con Hungerfield tenta di elaborare il lutto causato dalla perdita della moglie lo fa «affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield (Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere la Morte e di affrontarla» (p.123). Mentre la prima parte di Campofame è potente, le ultime sette tavole risultano un po’ approssimative con un finale affrettato che differisce sostanzialmente da quello di Jeffers.

Nella prima parte del saggio l’autore mette in evidenza soprattutto l’abilità di Pazienza nel concepire e trattare testi e aggiunge: «l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente all’olimpo dei comics […] Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli abbia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta» (pp. 140-142).

Il penultimo dei venti volumi dedicati all’opera di Pazienza, pubblicati nel 2016 da Repubblica-L’Espresso, intitolato Incompiute, presenta diverse tavole non finite. Tra queste ve ne sono alcune appartenenti ad Astarte, storia restata incompiuta a causa della morte dell’artista. Dalle dieci tavole, contenenti ottantacinque vignette, Cristante segnala l’altissima densità di inquadrature ed espressioni e la cura della lingua utilizzata, priva di strafalcioni ortografici o gramelot. «La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa, come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte, annunciata fin dalla prima tavola» (p. 146).

Nella parte finale del saggio viene riproposta per intero una lunga composizione scritta da Pazienza, probabilmente durante il suo primo periodo da studente del Dams, in quanto da essa è possibile derivare numerose informazioni circa la poetica dell’artista: «la smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli accostamenti demenziali» (pp. 152-153). Inoltre, grazie a questo scritto di Pazienza si possono ricavare alcuni tra i numerosissimi riferimenti artistici e culturali che hanno in qualche modo influenzato la sua produzione: Pratt, Wolinski, Pichard, Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz, Breccia, Claire Bretécher, Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Breton, Vladimir Tatlin, Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Sironi, Piero Manzoni, Pistoletto, Mondrian…

L’orizzonte espressivo di Pazienza è quello delle grandi trasformazioni che conducono agli anni Ottanta e l’artista testimonia i mutamenti «da una postazione inconsueta: quella del soggetto che si fa personaggio [entrando] nelle tavole a fumetti esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, portando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e universitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza rende pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della gioventù» (p. 185).

L’arte di Andrea Pazienza «è stata in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immaginario collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando se stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescelto, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello, erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascorso a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intorno a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimentale nelle chiese e nei musei toscani» (p. 187). La voglia di sperimentare e sovvertire non è mai venuta meno nel corso della breve vita dell’artista… perché se la pazienza ha un limite, Pazienza di limiti davvero non ne aveva.

]]>
Sulle rotte del disincanto prattiano (e dintorni) https://www.carmillaonline.com/2017/06/09/sulle-rotte-del-disincanto-prattiano-e-dintorni/ Thu, 08 Jun 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38449 di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento [...]]]> di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento cartesiano costituito dalla tavola» (p. 8). Visto che un sistema cartesiano è composto da un certo numero di rette ortogonali capaci di rappresentare il modello di realtà preso a riferimento e che al fumetto è concesso di rifarsi anche a realtà inesistenti, quando lo leggiamo «facciamo un esercizio di interpretazione di tutte queste n misure impossibili. In una storia a fumetti non ha particolare rilevanza chi fa cosa e dove la fa, ma quando la fa» (p. 9). Il fumetto, allora, sottolinea Battaglia, non è arte sequenziale ma potenzialità isometrica.

Riprendendo Umberto Eco (I limiti dell’interpretazione, 1990) che distingue tra mondi possibili, impossibili, concepibili ed inconcepibili, Battaglia trattiene per il suo studio la categoria dei mondi inconcepibili mirabilmente concretizzati a livello visivo dalle opere dell’olandese Maurits Cornelis Escher. Ebbene, nel fumetto «l’inconcepibile costruisce continuamente le coordinate della propria possibilità» (p. 10).

A differenza dei linguaggi verbali che non prescindono dalla linearità temporale, nel fumetto una vignetta si offre allo sguardo mostrando i segni tanto a livello spaziale che temporale nello stesso momento; nel fumetto «la mappa è il territorio» (p. 10). Nel fumetto, caratterizzato com’è dal “disordine probabilistico”, dalla mancanza di rigore sequenziale, non è per forza di cose il passato a determinare il futuro. A tal proposito Battaglia riprende le riflessioni di Ludwig Boltzmann (Fisica e probabilità) che vedono nel tempo una linea priva di direzione. «La direzione del tempo è dettata dal racconto che ne facciamo. Il fumetto potrebbe quindi essere un complesso sistema cartesiano di n ‘adesso’ organizzati arbitrariamente dall’autore/lettore» (p. 10).

Dunque, «anche quando una storia a fumetti è raccontata concatenando i suoi eventi in progressione lineare, non c’è nessun vincolo ineluttabile tra quegli eventi […] i segni e i fatti che la raccontano sono irreversibili, ma non c’è nulla di inevitabile nelle storie, né di temporalmente determinato» (pp. 14-15). E in Pratt, come mostra lo studioso, a volte, è il futuro a determinare il passato. «Parafrasando Godard: ogni storia a fumetti non ha un inizio, non ha un centro e non ha una fine, non necessariamente in quest’ordine. Ogni fumetto è un periplo» (p. 15).

Un periplo, dunque una circumnavigazione, ma anche una modalità scientifica di descrizione nautica e geografica che nulla ha a che vedere con la magia, il misticismo ed il romanticismo. È per questo motivo che Battaglia rifiuta l’idea di collocare Corto all’interno di categorie che hanno a che fare con il fantastico ed il romantico. «C’è tanto di immaginario, di ideale e di irrazionale, nell’opera di Pratt, ma non c’è nulla di romantico. Basterebbe leggerli, per rendersi conto che non è l’incantamento la ragione d’essere dei suoi fumetti» (p. 16). I fumetti di Pratt hanno a che fare, piuttosto, sottolinea Battaglia, con l’azione.

A questo punto lo studioso riprende le riflessioni del biologo libertario Henri Laborit in L’elogio della fuga (1976), ove si sostiene che l’unica ragion d’essere di una struttura vivente è essere, vivere. L’essere umano, a differenza di altri esseri viventi, quando si trova impedito all’azione, può rifugiarsi nell’immaginazione e ciò gli «permette, attraverso il moto di deriva della narrazione, di giungere ai limiti estremi di rottura della realtà senza muoversi dal proprio divano» (p. 17). Ed è questo che traspare, secondo Battaglia, dai fumetti di Pratt «persino quando i suoi protagonisti […] sembrano sospesi nei tempi morti delle attese e delle convalescenze, la retorica narrativa prattiana non ci permette mai di dimenticare che quel momento di pausa è possibile solo grazie alla sua causa prima: l’avventura. Accanto al pensiero c’è sempre l’azione» (p. 17).

Anche Corto, come Odisseo, fugge da una Calipso, così come ha la sua Penelope ma non vi è alcuna nostalgia che lo guida nelle diverse avventure; secondo Battaglia è lo stesso sistema narrativo del fumetto ad impedire cedimenti nostalgici. «La nostalgia è legata al senso di mancanza per qualcosa che se n’è andato o da cui si è andati via, collocato in un tempo precedente in cui si desidera tornare. Nel fumetto non esiste un tempo precedente e uno futuro, ma solo una più o meno lunga catena di adesso. Una storia è in continua evoluzione a seconda di come lo sguardo interpreta l’asse temporale» (pp. 115-116).

Viaggiatore, dunque straniero, estraneo, migrante, nemico, diverso, Corto non appartiene, per scelta, a nessuna comunità ed anche quando prova nostalgia non desidera alcun ritorno. «Fin dal suo primo apparire Corto Maltese si colloca in questa linea di ambiguità nomadica, caricata però di un’eccezionalità prometeica a sua volta così assolutamente ambigua da sconfinare in una normalità epimeteica. E sul mito di Prometeo e di Epimeteo ci torniamo per forza, appena cominciamo a parlare della Ballata del mare salato. La messa in crisi del discorso mitologico in Pratt è fondativa di tutta la sua opera» (pp. 21-22).

È da tali riflessioni che Battaglia giunge alle tre parole chiave indicate in apertura: “Adesso”, “disincanto” e “ambiguità”, ed è da queste che inizia il suo viaggio critico all’interno del mondo prattiano.

Il 1967 segna l’uscita di Una ballata del mare salato, si tratta di un momento importante per la storia del fumetto. Nata inizialmente come storia a sé, senza aver previsto una serie, il personaggio di Corto Maltese appare soltanto alla sesta tavola, quando sono già comparsi tutti gli altri personaggi principali, senza che il lettore conosca granché di lui, così come, a dire il vero, degli altri personaggi. Al momento in cui compare Corto questo ha la medesima rilevanza degli altri personaggi ma, sottolinea Battaglia, nelle cinque tavole precedenti si sono poste le basi per gli accadimenti futuri. «La storia si apre con una tavola intera in cui è riportata la lettera di un certo Raul Obregon Carrenza […], sedicente nipote di Cain Groovesnore, che sostiene di avere affidato all’autore i diari di suo zio affinché Pratt ne raccontasse la storia. Un espediente narrativo abusato, da Cervantes passando per Scott fino a Manzoni; solo che Pratt lo usa in modo assolutamente originale rispetto ai suoi modelli» (p. 52).

Qua il manoscritto serve all’autore per neutralizzarsi, per impedirsi commenti di carattere morale. Ciò che c’è da sapere è scritto in quella lettera; non vi sarà una voce narrante giudicante nelle tavole successive. Nel momento in cui la storia prende il via la voce narrante è quella dell’oceano, una voce indifferente.

La prima vignetta, quella in cui l’Oceano Pacifico comincia il suo racconto in prima persona, è costruita in modo da far coincidere il nostro sguardo con quello della voce narrante: guardiamo da lontano con la stessa indifferenza con cui il mare, prima in tempesta, ha spazzato isole e navi, e con cui ora accarezza in tranquillità la carena del catamarano che a quella tempesta è scampato. Guardiamo da lontano e ci sentiamo al sicuro, sia dalla tempesta, sia da qualsiasi responsabilità per ciò che accadrà. E ciò che accade è già nella seconda vignetta. Lo sguardo del mare, sulla cui direttrice ancora ci appoggiamo, ci mostra i marinai del catamarano che avvistano e recuperano un relitto con due naufraghi. Due giovani, maschio e femmina. Ancora vivi.
A questo punto scatta la trappola.
Neanche ce ne accorgiamo, quasi, ma nel giro delle ultime due vignette il nostro sguardo viene ribaltato nella semi-soggettiva del capitano Rasputin. Accompagnati dal movimento dei flutti ci ritroviamo alle sue spalle a guardare ciò che vede lui.
Quando, girata la pagina (nel fumetto è importantissimo il ritmo del girare le pagine), guardiamo la tavola successiva, è come se anche noi ci fossimo girati. Adesso siamo di fronte al capitano Rasputin. Diventiamo oggetto del suo sguardo, e della sua rabbia. La nave si è fermata per raccogliere i naufraghi senza un suo ordine, e questo lo ha fatto infuriare: per lui è una perdita di tempo. Invece, per noi lettori è l’inizio della storia, il motivo per cui non smetteremo di leggere (pp. 54-55).

Così, in poche tavole, lo sguardo del lettore da indifferente diviene implicato. «L’incontro tra il catamarano di Rasputin e la scialuppa dei naufraghi è necessario alla storia che l’Oceano ci sta raccontando. È il nostro sguardo, quindi, in buona sostanza, la causa di quanto accade» (p. 55).
Dunque, sottolinea lo studioso, Pratt in primo luogo ci presenta Rasputin definendo il suo carattere, la sua visione amorale in cui non vi è nulla di giusto ed ingiusto, è l’istinto a suggerire come agire in base all’utilità immediata. In secondo luogo Pratt conduce lo sguardo del lettore in una direzione desiderante; scopriamo ciò che lo sguardo di Rasputin desidera: Pandora Groovesnore.

armillaria_corto_boris_battaglia_cover_Circa i riferimenti al mito di cui è costellata la narrazione prattiana, sostiene lo studioso, occorre dire che esso «non interessa a Pratt in quanto forma definita e particolare di pensiero […] quanto piuttosto quale struttura articolata di organizzazione della casualità. In altre parole, quello che interessa a Pratt dei miti è la loro necessità narrativa, che si manifesta nel continuo tentativo di sottomettere l’hybris all’ethos al fine di dare ordine alla casualità delle vicende umane. Tutta la Ballata non è che la cronaca di questo tentativo reiterato» (p. 59).

Corto compare sulle tavole legato ad una struttura ad X, i rimandi al Cristo in croce ed al Prometo incatenato risultano palesi. «Cristologica vittima sacrificale, salva Pandora e viene salvato da Rasputin. L’eroe non salva la fanciulla in pericolo con un’azione mirabolante ma facendo mostra della propria impotenza» (p. 61). Se il fumetto d’avventura fino a questo momento ci presenta eroi che salvano il mondo, Corto non solo non salva il mondo ma non è nemmeno in grado di salvare se stesso, tanto che, nelle diverse storie, verrà salvato da altri in varie circostanze.

Interessante anche la scelta del nome che Pratt assegna al personaggio. Il nome Corto, secondo Battaglia, ha la medesima ambiguità del Nessuno omerico.

Corto è nessuno, quindi è tutti […] è contemporaneamente Abele, Prometeo e Cristo. Eppure, e qui sta l’ambiguità del personaggio, nonostante la costruzione iconica e l’uso di nomi pronti a farcelo pensare, Corto non è nessuno dei tre. Non può deciderlo. Pratt non glielo concede. Corto è continuamente in balia della narrazione, non la controlla mai; al limite può cercare di mettersi in disparte, ma spesso neppure questo gli è concesso. Non fa ma simboleggia delle possibilità, e in quanto vittima sacrificale e innocente – per quattro volte in qualche modo muore e risorge – non le esercita, le subisce.
Chi invece esercita continuamente opzioni sulla simmetria della narrazione (come causa scatenante, come tentatrice, come assassina, poi come innamorata e alla fine con la rinuncia) è Pandora. Potremmo dire che Pandora viene prometeizzata.
Il suo personaggio è il perno su cui Pratt fa ruotare il più radicale ribaltamento ideologico che mai sia stato realizzato nell’ordinata struttura del fumetto e della narrativa d’avventura (p. 62).

Dunque, secondo lo studioso, è attraverso Pandora che Pratt esplicita la volontà di sottrarre la narrazione alla funzione eroico-simbolica, tipica invece del fumetto italiano.

Pandora è il vettore di senso che permette l’articolazione del testo della Ballata. È attorno al suo corpo, e in particolare attorno al suo volto, che Pratt costruisce il campo figurativo che determina il racconto e l’esistenza degli altri personaggi. Il racconto è la trasformazione di Pandora, il suo personaggio è il luogo della coerenza logica della narrazione. La sua trasformazione grafica è continua, è il personaggio più instabile da questo punto di vista, perché questa instabilità […] è dosata da Pratt per mantenere l’analogia tra la rappresentazione grafica di Pandora e il suo carattere morale. La novità non sta nella trasformazione etica del personaggio, da rampolla viziata di una ricca famiglia a personaggio consapevole del proprio statuto narrativo, ma nel fatto che Pratt di questa consapevolezza ce ne dia certezza grafica usando proprio quella trasformazione grafica come motore delle trasformazioni narrative (p. 66).

In Una ballata del mare salato a compiere realmente il “viaggio dell’eroe” è lo sguardo del lettore.

Se nell’inverno del 1969 la rivista “Sgt. Kirk” pubblica l’ultima puntata della Ballata, storia nata non per aprire una serie, la svolta si ha nella primavera del 1970, quando sulla rivista francese “Pif Gadget” appare Il segreto di Tristan Bantam: con questo racconto Corto Maltese diviene un personaggio seriale. Secondo Battaglia se nella Ballata, la hybris di Corto riprende quella di Prometeo e Odisseo, in questo nuovo racconto viene fatto riferimento ad un personaggio storico. Mentre la Ballata si sviluppa in un tempo sospeso, mitico, ora le vicende vengono inserite all’interno di un tempo storico, che però Corto ha la facoltà di sospendere.

Con le storie brevi di Corto Maltese realizzate tra il 1970 e il 1973, Pratt esegue un’operazione sulla narrazione a fumetti che rivoluziona l’idea di avventura per come la si intendeva prima (e in Italia ancora oggi, purtroppo) nell’editoria a fumetti seriale, e – fatto molto più importante – quasi risolve il problema che toglieva il sonno a Sant’Agostino: la differenza fra il testo visto nella mente e il testo pronunciato dalla voce. In …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, dove la storia viene scandita dalle frasi scritte sulle carte dei quattro assi, Pratt dice una cosa che, come tutte le cose evidenti, è rivoluzionaria: il fumetto è guardare le figure e le parole (pp. 79-80).

È certamente l’ambiguità a farla da padrona in …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, visto che, evidenzia lo studioso, Pratt, oltre a giocare con l’ambiguità tra testo e parole, mantiene l’avventura in bilico tra storia e mito. Non a caso uno dei personaggi del racconto si chiama proprio Ambiguità. Nell’opera successiva, Per colpa di un gabbiano, nonostante il tempo mitico prenda decisamente il sopravvento sul tempo storico, l’ambiguità non accenna ad affievolirsi: la perdita di memoria di Corto lo rende «al contempo il personaggio Corto, per noi che leggiamo […] storicamente collocato, sia il prigioniero di Soledad Lokaarth […], novello Odisseo prigioniero di Calipso» (pp. 81-82).

[Ne La laguna dei bei sogni] il paradosso del ricordo giunge a compiutezza: ricordare qui significa morire. Però, non potendo far morire Corto Maltese, Pratt lo relega a meno che spettatore. Non è nemmeno presente mentre si svolgono i fatti. Toccherà al tenente Stuart affrontare la pazzia per recuperare il proprio passato e cambiare le conseguenze degli errori commessi, della propria vigliaccheria e della propria delusione d’amore. Se Corto aveva usato i funghi allucinogeni per ritrovare la memoria, patendo poi la delusione d’amore causata dalla fuga di Soledad, come nella Ballata l’addio di Pandora, il tenente Stuart entra nel delirio della febbre malarica per recuperare l’amore di Evelyn. Riuscendoci, perderà la memoria del presente e troverà conseguentemente la morte; perché, come afferma l’indio che l’ha assistito per tutto il tempo, “noi non abbiamo il diritto di cambiare l’ordine delle cose” (pp. 84-85).

Il tempo lineare ed irreversibile degli avvenimenti è fatto saltare e Pratt, grazie al fumetto, si permette di ripercorrere la linea temporale nella direzione che preferisce a piacimento.

Conquistato il successo in terra francese grazie alla pubblicazione di storie brevi, Pratt viene “arruolato” nel 1972 da “Linus” che inizialmente replica le storie pubblicate da “Pif”. Terminato il sodalizio con la rivista francese, Pratt accetta di realizzare per “Linus”, a partire dal 1974, il racconto Corte Sconta detta Arcana che si protrae, a cadenza variabile, addirittura fino all’estate del 1977.

Battaglia, nel soffermarsi sulla rivoluzione espressiva degli anni Settanta, si focalizza sull’uscita, nel 1975, della rivista francese “Metal Hurlant”, pubblicazione che, sovvertendo il fumetto classico, finisce con l’influenzare la generazione di giovani artisti italiani protagonisti della rivista “Cannibale” pubblicata a partire dall’estate del 1977. «Anche il fumetto popolare non sfugge a questa sovversione. La rivoluzione linguistica del decennio, unita alla rivoluzione tematica (e ideologica) di Pratt, che ha messo la disillusione al centro della sua poetica, reagiscono creando il terreno fertile per la nascita di due personaggi che non possiamo assolutamente trascurare per capire lo sviluppo stesso di Corto Maltese nel decennio successivo: Mister No e Lo Sconosciuto» (p. 121).

Mister No arriva in edicola nel 1975 ed il suo successo è dovuto al fatto che è il fumetto adatto all’epoca; il personaggio «coglie una richiesta del pubblico, soprattutto giovane, ancora inespressa ma che già era nell’aria. La necessità di uno spiraglio narrativo nella compressione ideologica e culturale di quegli anni. Prova ne sia che proprio l’anno dopo uno dei più grandi successi editoriali sarà Porci con le ali, in cui Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera mettevano in forma narrativa le istanze più diffuse della vita reale dei giovani del decennio. Invece, il maggior successo del 1979 sarà Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, in cui la formula narrativa prende addirittura il sopravvento sulla realtà» (p. 126).

Secondo Battaglia Mister No riesce ad inserire tematiche libertarie degli anni Settanta, liberate da un certo conformismo ideologico, innestandole su modalità narrative più classiche.

Dal 1975 al 1982 la narrazione di Mister No […] costruisce – incastrando in storie avventurosissime con una struttura tradizionale temi contestatari come l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, l’egualitarismo – una visione del mondo disincantata come quella prattiana, è vero, ma a differenza di questa molto più consolatoria […]
La grande riuscita poetica, e politica, del Mister No di quegli anni è questa precisa commistione tra piacere e dovere, mentre Corto il dovere lo rifugge. Nella lotta per l’utopia, godersela non è un peccato. E nonostante fosse solo un fumetto a raccontarci questa cosa, lo compravamo e lo leggevamo avidamente proprio per questo (p. 127).

Gli anni Ottanta si aprono con Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, un esempio di ricerca di una via alternativa ad una stagione, quella degli anni Settanta, ormai esaurita ma, sottolinea lo studioso, senza alcuna pretesa di tracciare una mappa. Se il libro di Tondelli testimonia la fine dello scontro frontale con cui prende il via il nuovo decennio, Mister No è ancora profondamente immerso nella realtà sociale del suo mondo; gli Altri libertini, invece, fuggono da quella realtà.

Sono arrivati gli anni Ottanta e con essi, inevitabilmente, anche Mister No inizia ad essere inattuale. Con il nuovo decennio il linguaggio inizia a ripiegare su se stesso tanto da giungere presto a diventare il luogo totalizzante dell’esperienza della verità ed è così che si arriva, nel 1986, a Dylan Dog «in cui è solo il linguaggio a raccontare sé. Nei fumetti di Sclavi il mondo diventa logos. Esclusivamente linguaggio. Ogni possibilità di verifica razionale della realtà come qualcosa che esiste al di là del linguaggio è abolita. L’unica esperienza possibile della verità per Sclavi è quella dell’appartenenza a un linguaggio, ma non del linguaggio che parliamo, bensì di quello che ci parla» (p. 131).

Con l’uscita nel 1982 della rivista “Orient Express” si giunge, secondo Battaglia, ad un punto nodale per comprendere quanto Pratt abbia influenzato il fumetto italiano. È sulle pagine di questa pubblicazione che compare Lo Sconosciuto: L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara di Magnus.
In questo fumetto Magnus tende a concedere molto spazio al testo rispetto alle immagini;

Il primo passo verso l’abbandono del classico modo di realizzare fumetti è segnalato da Magnus mettendo da parte Lo Sconosciuto. Egli, pur con tutta la sua peculiarità, può ben simboleggiare l’eroe tipico del fumetto seriale e in questa avventura la sua presenza è poco più che marginale. Però, pur comunicandoci la sua intenzione di cambiare registro, Magnus non vuole rinnegare niente del proprio passato di fumettaro ed è la partecipazione alla storia – in un ruolo non principale, ma comunque chiave – di quella ragazza che Lo Sconosciuto aveva conosciuto a Marrakech, a testimoniarlo. L’esperienza precedente è servita a Magnus per arrivare a questo punto, che è solo la base per costruire una nuova opera (pp. 134-135).

Lo studioso si sofferma sul personaggio detto El Lugubre evidenziando come questo sia un uomo che vive di ricordi ed illusioni artificiali, ossia fuggendo nelle immagini ed il suo riscatto lo si ha nel momento in cui diviene consapevole della vacuità di queste. «Esse cominciano a vacillargli davanti agli occhi, a sfocarsi, finché El Lugubre le rifiuta completamente attraverso un gesto simbolico e liberatorio: strappa il manifestino (Bolivia no serà otra Cuba) dal muro. Da questo momento diviene un altro personaggio, non è più El Lugubre ma diventa il comandante Inti. Rifiutando le immagini comincia ad agire» (p. 135).

Se Mister No e Lo Sconosciuto riportano «l’ambigua forza dell’immagine, e dell’immaginazione, dalla confusione libertaria delle ‘storie a forma di farfalla’ nel canone della narrazione a fumetti classica. In questo canone ciò che ha la supremazia è la parola» (p.136), Pratt prende invece la strada opposta, quella che concede tutto lo spazio del senso alle immagini.

corto-maltese-001Nel 1980 Pratt pubblica la seconda parte di Fort Wheeling su “Metal Hurlant” e l’anno successivo prende il via la pubblicazione sul quotidiano francese “Le Matin” di La Giovinezza, storia incentrata sulla fuga. «Corto, Rasputin, Jack London sono personaggi liberati dalla necessità, propria di quasi tutti gli altri personaggi seriali, di avere illusioni. Per questo fuggono, ognuno a suo modo. Rasputin cambiando continuamente divisa; Corto lasciando continuamente Venezia, la sua Itaca; Jack London navigando sullo Snark e raggiungendo, in altri fumetti realizzati da altri, luoghi in cui in realtà non è mai stato. Cosa che nel fumetto si può» (p. 163).

Ne Le Elvetiche, avventura pubblicata nel 1987 sulla rivista “Corto Maltese”, secondo Battaglia non si tratta di «un’esoterica affermazione dell’immortalità del personaggio Corto, quanto una divertita […] demistificazione del concetto di ‘letteratura disegnata’. In fondo, quando esce questa storia, sono esattamente vent’anni che Pratt non fa altro che affermare, attraverso Corto, la superiorità narrativa dell’immagine rispetto alla parola» (pp. 173-174).

Siamo così giunti, con qualche inevitabile salto rispetto alla puntuale analisi proposta dal libro di Battaglia, a Mu la città perduta, ultima avventura di Corto realizzata tra il 1988 ed il 1991 e pubblicata a puntate sempre su “Corto Maltese”. «Mu è un esperimento complesso in cui Pratt tenta, riprendendo il discorso cominciato con Le Elvetiche, di realizzare con i suoi fumetti un testo filosofico e teorico in cui rimettere in discussione, attraverso la storia del proprio personaggio (col serrato sovrapporsi di tanti personaggi passati e di situazioni topiche dell’intera saga di Corto Maltese), quella di tutta l’ermeneutica occidentale a partire dalle idee di Platone. Ma come lo farebbe ogni rispettabile flâneur, divagando» (p. 180).

Concludendo il volume lo studioso auspica di essere riuscito nell’intento di dimostrare come in Corto non vi siano né desideri di ritorno, né nostalgie per luoghi o tempi perduti. «Corto non è un eroe romantico, non è una rilettura prometeica, perché l’eroe rifiuta di rassegnarsi a circostanze a cui è impossibile rimediare nonostante il coraggio e l’intelligenza; Corto è piuttosto un eroe rassegnato, il cui continuo desiderio di andare è frustrato dal fatto che, nel fumetto, non c’è alcun luogo dove andare perché il fumetto è una struttura fatta di attimi continuamente presenti» (p. 184).

]]>