linguaggio cinematografico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale nelle/delle immagini. La simulazione incarnata https://www.carmillaonline.com/2016/02/01/reale-nelledelle-immagini-la-simulazione-incarnata/ Mon, 01 Feb 2016 22:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27595 di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo [...]]]> di Gioacchino Toni

schermo empaticoVittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00

Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo centrale nelle pratiche di simulazione che gli individui mettono in campo tanto nella vita quotidiana, quanto nelle esperienze estetiche e mediate. La risonanza motoria che il linguaggio cinematografico è capace di generare nello spettatore è un tema scarsamente affrontato dagli studi sul cinema, in questo saggio viene proposto un approccio al cinema caratterizzato come “estetica sperimentale”, intendendo con estetica la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.

Forti dell’idea che le neuroscienze possano contribuire a comprendere il funzionamento del cinema ed il suo rapporto con gli spettatori, gli autori si propongono di articolare un nuovo modello di percezione e dell’iniziale comprensione del mondo da essa generata che possa essere applicato tanto all’esperienza della vita reale, quanto a quella del mondo della finzione cinematografica. Da ciò la definizione della teoria della “simulazione incarnata” (embodied simulation) che, sostengono gli autori, costituisce un «meccanismo di funzionamento di base del sistema cervello-corpo dei primati, uomo incluso» (p. 15). Grazie a ciò, affermano Gallese e Guerra, risulta possibile instaurare una relazione diretta non-linguistica con lo spazio, gli oggetti, le azioni e le sensazioni altrui attraverso l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie del cervello del fruitore. Una delle ipotesi del saggio ritiene che tale meccanismo sia coinvolto nella generazione delle capacità immaginative umane. «La simulazione incarnata […] costruisce sulle evidenze neurofisiologiche un modello integrato ed empiricamente fondato della relazione con le immagini e coi film», tale teoria tenta di chiarire «importanti aspetti della costruzione del film, della sua ricezione e della sua specificità estetica» (p. 15).

Gli autori intendono ricavare dalle neuroscienze un contributo alla percezione delle immagini e costruzione delle relazioni tra individuo e realtà e tra individuo ed altri suoi simili. L’approccio neuroscientifico al cinema proposto dal saggio sottolinea la volontà di dialogare con altri approcci e discipline ed intende darsi come obiettivo «il sapere coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali espressi dal cervello e dai neuroni che lo compongono» (p. 16).

Gallese e Guerra sono convinti che vedere il mondo significa sempre anche guardarlo per capirlo; «l’esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale» (p. 16). L’integrazione multimodale di ciò che viene percepito avviene sulla base delle potenzialità d’azione (intenzionali) espresse dal corpo (inserito in un mondo abitato da simili). Attraverso la simulazione incarnata si costruiscono le rappresentazioni non verbali dello spazio e ci si rapporta in modo altrettanto non verbale alle cose ed agli altri esseri umani. La simulazione incarnata descrive, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che mettono l’individuo in risonanza col mondo dando luogo ad una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto ed oggetto, io e tu. I due studiosi sottolineano che, pur avendo tratti in comune con l’empatia, la simulazione incarnata non può essere identificata con essa avendo un’applicazione assai più diversificata e vasta. Nel saggio viene delineato anche il concetto di “simulazione liberata”, una particolare espressione della simulazione incarnata che consente di comprendere meglio «la particolarità e insularità estetica dell’esperienza della […] finzione narrativa cinematografica» (p. 17), mostrando affinità e differenze rispetto all’esperienza di ciò che viene definito “mondo reale”.

Il saggio inizia (Primo capitolo) definendo le basi epistemologiche e neuroscientifiche poi applicate nei capitoli seguenti, di seguito (Secondo capitolo) vengono esaminate le forme della soggettività dispiegate dal cinema, indagando come esso abbia tentato di «creare una sovrapposizione credibile tra lo sguardo della macchina da presa ed il punto di vista dello spettatore, delegando alla macchina la responsabilità di simulare l’immanenza di un corpo umano entro lo spazio dell’inquadratura» (p. 18). Successivamente (Terzo capitolo) vengono analizzati i diversi movimenti di macchina ed i tipi di risonanza motoria che questi inducono nel pubblico e (Quarto capitolo) vengono indagati i diversi tipi di montaggio analizzandone le ricadute sullo spettatore. Nell’ultima parte del testo (Quinto capitolo) si riflette sul primo piano e sulla texture dell’immagine cinematografica ed, infine, (Sesto capitolo) si ragiona sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento.

Uno dei due studiosi, Vittorio Gallese, ha fatto parte del gruppo che nei primi anni ’90 ha individuato i “neuroni specchio” e da tale ricerca è emerso come si attivino i medesimi neuroni nel presiedere e controllare un movimento tanto in chi lo compie, quanto in chi lo guarda compiere. Ciò ha evidentemente aperto numerose riflessioni circa le modalità di apprendimento e l’empatia.
Dal punto di vista cinematografico, l’obiettivo di ogni regista è, per certi versi, quello di coinvolgere lo spettatore sino a portarlo “dentro” al film. Lo spettatore, pur seduto in poltrona al cinema, quando osserva un film è capace di “simularsi in azione” all’interno di quello spazio bidimensionale che è lo schermo. A partire dalla teoria della simulazione incarnata, legata alla scoperta dei neuroni specchio, gli studiosi tentano di capire in che modo il cinema favorisca tale tipo di immedesimazione.

notorius_keyTra i diversi esempi riportati dal saggio, vale la pena soffermarsi su una sequenza di Notorius (di Alfred Hitchcock, 1946), realizzata attraverso un movimento di macchina che riflette l’immedesimazione dello spettatore. Si tratta della sequenza in cui la protagonista, Alicia, interpretata da Ingrid Bergman, deve rubare la chiave al marito per accedere alla cantina in cui si trovano alcune pericolose bottiglie di uranio. Hitchcock avverte lo spettatore dei pericoli che la donna corre mostrando l’ombra dell’uomo oltre la vicina porta del bagno socchiusa. Il regista inglese è un maestro nel giocare con la suspense dello spettatore (vero obiettivo del film, essendo la trama narrata in realtà molto esile e pretestuosa) ed in questa scena decide di ricorre ad un movimento di macchina che è una “falsa soggettiva” cioè, ad un certo punto, la macchina da presa inizia a muoversi in avanti attraverso un «movimento complesso, che piega lievemente verso sinistra e man mano che procede si abbassa verso la superficie del tavolo fino a enfatizzare il dettaglio del mazzo di chiavi. Proprio nel momento in cui il mazzo è, per così dire, a portata di mano, un taglio di montaggio ci mostra Alicia, in figura intera, ancora ferma sulla soglia della stanza» (p. 95). Lo spettatore carica quel movimento di un significato corporeo, cioè “si muove” convinto che la protagonista si stia avvicinando al tavolo, poi il regista mette a fuoco le chiavi stimolando nello spettatore la simulazione del gesto dell’afferrare, cioè attivando quei neuroni canonici che stimolano tale tipo di funzione. In quel momento lo spettatore ritiene che la missione della donna sia andata a buon fine, che le chiavi siano ormai state prese, mentre, improvvisamente, scopre che la donna è restata ferma sulla soglia. Tale forma di proiezione dello spettatore all’interno dello spazio del film, fino alle chiavi, è stata solo una forma di simulazione, dunque il film, giocando con la capacità proiettiva dello spettatore, lo ha portato a muoversi in quello spazio, perché, fino a quel momento, ad essersi mosso è lo spettatore cinematografico, mentre a non averlo fatto è la protagonista che restata ferma.

«La simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo della sequenza che quando Hitchcock ci mette di fronte all’irrealtà di quel movimento (che è stato soltanto una proiezione mentale del personaggio, e nostra) siamo come frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato nel momento del dettaglio sul mazzo di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore» (p. 98).

silence of the lamb 01Nell’indagare come i diversi tipi di montaggio abbiano ricadute sullo spettatore, tra gli altri, il saggio ricostruisce la celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme, 1991) in cui gli agenti, credendo di aver individuato il luogo in cui si nasconde il serial killer, finiscono con il fare irruzione nell’abitazione sbagliata mentre, altrove, nel medesimo momento, l’agente Sterling, interpretata da Jodie Foster, si trova, sola, alla porta del pericoloso assassino. Il film mostra alternativamente l’esterno dell’abitazione del serial killer, ove la polizia sta circondando la casa, e l’interno ove l’uomo tiene prigioniera la nuova vittima.

silence of the lamb 2La sequenza si protrae facendo credere all’osservatore che si tratti del medesimo luogo ed al suonare del campanello da parte di un agente sotto copertura (si finge un fiorista che deve consegnare un pacco) l’uomo si appresta, dopo essersi ricomposto, ad aprire la porta e, solo in quel momento, si apprende che si tratta di due luoghi differenti: la polizia fa irruzione in un’abitazione disabitata mentre il serial killer, altrove, apre la porta alla solitaria Sterling che indaga autonomamente. In questo caso, scrivono gli autori del saggio, «la suspense non è gestita attraverso movimenti di macchina particolari, o attraverso pratiche di sovrapposizione di sguardi, ma si fonda su un impiego magistrale e ingannevole del cosiddetto montaggio continuo, prendendo in contropiede la piena fiducia che lo spettatore ripone in questa diffusissima tecnica narrativa. Il montaggio continuo caratterizza la stragrande maggioranza dei film, dei video […] questa tecnica […] si è dimostrata nel tempo la più capace di farci accedere con naturalezza alla dimensione della finzione narrativa» (p. 175).

Secondo Gallese e Guerra tali modalità narrative intendono creare sequenze di inquadrature che agli occhi dello spettatore devono essere percepite come “oggettive”, capaci di rendere intelligibili i rapporti di intersoggettività e le situazioni in cui si vengono a trovare i personaggi e quando tale “oggettività” viene meno, ciò viene esplicitato da un cambio di prospettiva, come nel caso delle inquadrature in soggettiva. Neuroscienziati e psicologi della visione hanno recentemente osservato come «le convenzioni formali su cui si fonda questo tipo di montaggio (che viene etichettato come “hollywoodiano”, ma è diffuso in tutte le produzioni) sono compatibili con le dinamiche naturali dell’attenzione e delle nostre aspettative sulla continuità di spazio, tempo e azione e i modi in cui siamo in grado di soprassedere alle differenze tra i film e la realtà ci offrono un’ottima prospettiva di studio anche su come utilizziamo quotidianamente i medesimi processi fisici e cognitivi impiegati al cinema nel percepire la continuità del mondo reale» (pp. 175-176)

Il film, sappiamo, è costruito attraverso una concatenazione di immagini raccordate il più delle volte attraverso un montaggio continuo. In un film hollywoodiano contemporaneo si trovano circa un migliaio di diverse inquadrature, nel caso di un film d’azione possono tranquillamente essere anche il doppio. L’unità spazio-temporale e causale tra le diverse sequenze viene percepita tale nonostante il flusso percettivo sia in realtà dato da una lunga successione discontinua di immagini. Si tenga presente, sottolineano gli autori, che le immagini che raggiungono i nostri occhi sono continuamente interrotte dall’abbassarsi delle palpebre che interrompono per circa 150 millisecondi il flusso visivo dieci/quindi volte al minuto, dunque da ogni minuto di visione della realtà vengono a mancare 1,5 – 2,2 secondi di immagini. Inoltre, ogni minuto, i nostri occhi compiono tra i 2 ed i 5 movimenti saccadici (rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare la zona di interesse a coincidere con la fovea) che determinano un momento di cecità della medesima lunghezza di quello indotto dagli ammiccamenti. Da tale punto di vista, sostengono gli autori, occorre dire che la visione della realtà e la visione di un film hanno in comune una condizione di discontinuità. Il montaggio ha pertanto saputo trarre vantaggio dalla natura della visione sfruttandone le caratteristiche al fine di potenziare il senso di continuità che consente allo spettatore di immergersi nella narrazione cinematografica.
Diversi studi empirici hanno dimostrato che una narrazione per immagini che sfrutta il montaggio continuo viene compresa facilmente anche da chi non ha avuto contatti precedenti con il linguaggio cinematografico. Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato che durante la visione di un film lo spettatore adatta ammiccamenti e movimenti saccadici a quanto sta osservando sullo schermo; gli intervalli fisiologici dell’occhio tendono a concentrarsi maggiormente nei momenti in cui l’attenzione per quanto viene proiettato diminuisce (es. durante un’interruzione tra un evento e l’altro). Quando il taglio del montaggio coincide con i momenti di ridotta attenzione, questo viene meno percepito dal pubblico. «L’efficacia delle tecniche di montaggio continuo dipende moltissimo dalla tipologia di immagini che si succedono prima e dopo il taglio» (p. 195).
Nella normale visione quotidiana i momenti di pausa visiva o di movimento degli occhi non compromettono l’esperienza soggettiva dell’individuo di una visione continua e coerente col mondo e ciò è dovuto alla capacità di anticipare l’esistenza, la localizzazione spaziale e i contenuti di ciò che si osserva grazie alle precedenti esperienze visive. Il montaggio continuo si basa sul rapporto tra anticipazione predittiva di ciò che verrà visto successivamente e percezione continua degli eventi narrati. Nel cinema si parla a proposito di ciò di “regola dei 180°”, cioè lo spazio in cui si filma deve essere pensato come diviso a metà da un asse ai cui antipodi prendono posto la macchina da presa e lo spazio profilmico (spazio ove si svolge l’azione da riprendere). Quando il montaggio non rispetta la “regola dei 180°” (“scavalcamento di campo”) viene fortemente notato dal pubblico; l’infrazione della regola determinerebbe un montaggio discontinuo in cui l’inquadratura successiva al taglio è ripresa da una posizione della macchina da presa che oltrepassa la linea dell’asse. Gli autori sottolineano come uno scavalcamento di campo comporti un’inversione speculare di quanto ripreso prima del taglio e lo spettatore si trova a sperimentare un’inversione della prospettiva egocentrica, perciò, «la seconda inquadratura montata violando la regola dei 180° non rappresenta soltanto un’incongruenza da un punto di vista visivo, ma si caratterizza anche per una profonda incongruenza sensori-motoria, causando una temporanea sospensione della simulazione incarnata mediante cui ci immergiamo nella scena [favorendo così] la focalizzazione della nostra attenzione sul taglio più che sul contenuto dell’azione filmata» (pp. 197-198). La dissonanza percettiva causata dall’assistere ad una sequenza montata violando al regola dei 180° viola le «aspettative sensori-motorie generate dalla nostra esperienza di interazione corporea e fattuale col mondo [ed interferisce] con il funzionamento dei meccanismi cerebrali che normalmente presiedono alla nostra produzione di azioni e alla loro osservazione quando eseguite da altri» (p. 198).

bergman002A partire dall’incipit di Persona (di Ingmar Bergman, 1966) Gallese e Guerra analizzano la valenza tattile e apatica determinata dalla visione di volti, mani, corpi od oggetti in primo piano, riprodotti decisamente fuori scala. L’opera del regista svedese rappresenta sicuramente uno dei film maggiormente legati all’espressività fisica del corpo, mostrato soprattutto attraverso il volto e le mani, e della materialità degli oggetti e della natura. Con tale opera Bergman «riesce a fare della visione il centro espressivo della psicologia dei personaggi e della loro ambigua ricezione da parte degli spettatori, incastonando il tutto in una riflessione metacinematografica sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo pubblico (di attrice, di infermiera, di madre mancata) e indefinibile identità personale, tra narrazione esplicita di sé e la sottotraccia delle pulsioni e delle memorie implicite che ne scindono la coerenza e ne modificano l’equilibrio, tra dialogo e monologo» (p. 211).

L’ipotesi che intendono verificare i due studiosi è che «il primo piano esalti le qualità riguardanti il dettaglio anatomico, la tessitura, trama e consistenza fisico-materiale dell’immagine, in modo da privilegiare una risonanza tattile e aptica da parte dello spettatore nei confronti delle stesse immagini, grazie all’evocazione potenziata della simulazione incarnata» (p. 217)

L’identificazione immersiva e la partecipazione da essa generata rispetto alle immagini cinematografiche passa attraverso una risonanza motoria con movimenti, azioni ed espressioni dei diversi personaggi, che non richiederebbe il ricorso all’ingrandimento dell’immagine. Il primo piano invece, sostengono gli studiosi, «esalta e focalizza la visione dello spettatore sugli aspetti più materici degli oggetti ripresi, siano essi volti, mani, paesaggi o costruzioni e oggetti prodotti dalla mano umana» (p. 217). A suffragare tale ipotesi concorrono alcune recenti scoperte relative alla «neurofisiologia del sistema somatosensoriale che ne hanno messo in luce la natura multimodale: […] il sistema corticale che mappa le sensazioni tattili, infatti, non si attiva solo quando esprimiamo un contatto sul nostro corpo, ma anche quando lo vediamo esperire a qualcun altro» (p. 217).

Lo schermo empatico si rivela un valido contributo al dibattito circa il nuovo il rapporto tra immagini e reale che, ormai da qualche tempo, viene indagato da diverse angolature. Il fatto che le modalità di fruire le immagini audiovisive siano per molti versi analoghe alle modalità con cui si fruisce il mondo reale offre spunti di riflessione importanti anche al fine di comprendere meglio quello che sembra essere ormai una sorta di groviglio inestricabile in cui risulta sempre più complicato discernere tra reale e finzionale. Il saggio si chiude in un interessante riflessione sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento dello spettatore.

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Estetiche del potere. Cinema, sport e propaganda. Olympia di Leni Riefensthal https://www.carmillaonline.com/2015/11/05/estetiche-del-potere-cinema-sport-e-propaganda-olympia-di-leni-riefensthal/ Thu, 05 Nov 2015 22:35:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24438 di Gioacchino Toni

studer_olympiaMassimiliano Studer, Olympia, Mimesis, Milano-Udine, 2014, 187 pagine + DVD del film Olympia (Germania, 1938) di Leni Riefensthal, € 19,90

Ancora oggi in Germania è in vigore una lista di film messi all’indice dagli Alleati al termine del Secondo conflitto mondiale. Sul suolo tedesco, i film di Leni Riefensthal possono essere proiettati in pubblico soltanto se affiancati da un intervento di contestualizzazione storica e politica. Senza aver mai rinnegato il suo entusiasmo per Hitler, a distanza di molti anni dalla fine della guerra, la cineasta tedesca viene assolta dall’accusa [...]]]> di Gioacchino Toni

studer_olympiaMassimiliano Studer, Olympia, Mimesis, Milano-Udine, 2014, 187 pagine + DVD del film Olympia (Germania, 1938) di Leni Riefensthal, € 19,90

Ancora oggi in Germania è in vigore una lista di film messi all’indice dagli Alleati al termine del Secondo conflitto mondiale. Sul suolo tedesco, i film di Leni Riefensthal possono essere proiettati in pubblico soltanto se affiancati da un intervento di contestualizzazione storica e politica. Senza aver mai rinnegato il suo entusiasmo per Hitler, a distanza di molti anni dalla fine della guerra, la cineasta tedesca viene assolta dall’accusa di collaborazionismo e giudicata “fiancheggiatrice del nazismo”. Il processo di denazificazione ha calato il sipario sull’attività cinematografica di una delle figure più importanti della storia del cinema a livello internazionale ma non ha certo fermato quel processo di spettacolarizzazione, da lei introdotto, dei grandi eventi di massa, soprattutto sportivi. Olimpiadi, Mondiali di calcio ecc. sono ancora oggi organizzati tanto a livello logistico, quanto a livello di copertura audiovisiva, sull’esempio di Olympia e Apoteosi di Olympia (Olympia. Teil I: Fest der Völker. Olympia. Teil II: Fest der Schönheit, 1938). Se sia possibile estrapolare dall’opera della Riefensthal esclusivamente l’aspetto spettacolare in cui la massa diventa ornamento, dal retroterra storico in cui tale estetica nasce, con implicazioni ideologiche ben precise, è davvero tutto da verificare.
Studer si chiede quanto si possano rintracciare nella nostra quotidianità quegli elementi cardine della modernità celebrata dal nazismo e dai film della regista; “burocrazia, efficienza organizzativa, tecnologia avanzata e perseguimento incondizionato e instancabile verso l’obiettivo sono le caratteristiche del progetto sulle Olimpiadi di Berlino. (…) Ma sono anche le caratteristiche del pensiero moderno e della prassi nazista”. Quanti di questi elementi permangono nella civiltà contemporanea dopo che il sipario sembra essere calato sull’epopea nazista e sulla sua cinematografia propagandistica? Dallo studio sull’immaginario contemporaneo veicolato dall’organizzazione e dalla copertura mediatica dei grandi eventi, soprattutto sportivi, si possono ricavare informazioni importanti su quanto, forse, non si è disposti ad ammettere circa il permanere di tracce di quel mondo che si vorrebbe celare dietro al sipario abbassato. Attraverso l’analisi di opere come Olympia è possibile comprendere meglio quanto il mondo degli audiovisivi sia in grado di produrre sull’immaginario collettivo.

Il saggio di Studer si apre con un’interessante intervista a Leonardo Quaresima, vera e propria autorità in fatto di cinema tedesco ed autore di quella che, ancora oggi, è l’unica monografia pubblicata in Italia sulla cineasta tedesca (Castoro cinema, La Nuova Italia, 1984). Nel corso dell’intervista, Quaresima introduce alcune caratteristiche proprie della poetica audiovisiva della Riefensthal che poi saranno riprese da Studer nel corso della trattazione. Le prove cinematografiche della cineasta riescono, con maestria assoluta, a miscelare, in continuità con i fondamenti ideologici e politici del nazionalsocialismo, l’elemento völkisch della tradizione culturale legata ai valori delle radici della provincia con l’estetica neoclassica ma, a tutto ciò, la regista tedesca, aggiunge anche elementi estetici desunti dalle sperimentazioni d’avanguardia degli anni ’20 e ’30, solitamente non amate dal regime.
In Olympia la cineasta non rispetta la fedeltà documentaria nel mostrare i giochi olimpici, tanto che le cronologie delle performance sportive spesso non sono veritiere e gli eventi tendo ad essere mescolati. A tal proposito, Quaresima, nell’intervista, parla di “sinfonia audiovisiva”, della costruzione di un’opera “che, grazie alle risorse linguistiche del nuovo mezzo, e a soluzioni di cinema sperimentale, riesce davvero a coinvolgere lo spettatore e perfino emozionarlo”. Nell’opera della cineasta, continua Quaresima, “ci si allontana quasi completamente dal valore tecnico e agonistico per costruire configurazioni formali la cui materia è composta sì da alcune gare sportive, ma la cui utilizzabilità, in termini di valutazione della performance sportiva, è assolutamente nulla. Il valore è solo e squisitamente cinematografico: altissimo e di grande fascino. (…) A lei interessa la resa estetica dell’evento”. Si tratti, dunque, di un lungometraggio che “documenta le straordinarie capacità del linguaggio cinematografico”.

olympia003Il saggio di Massimiliano Studer ricostruisce la formazione cinematografica della Riefensthal a partire dall’incontro con il cineasta tedesco Arnold Frank. Recitando in alcuni lavori del regista, la Riefensthal apprende i segreti della regia, del montaggio e delle inquadrature. In un’epoca in cui il cinema tedesco, e non solo, viene girato quasi esclusivamente in studio, Frank si cimenta con i cosiddetti “film della montagna”, opere che, girate in esterno, si confrontano con scenari montuosi in cui il fascino del paesaggio deve fare i conti con le difficoltà tecniche legate alle difficili condizioni ambientali ed alla variabilità della luce atmosferica. Da queste esperienze la cineasta impara l’uso espressivo del paesaggio naturale, oltre che elementi di sperimentazione tecnica e visiva ben presenti in Frank, nonostante le tematiche tradizionali. Altro cineasta a cui la Riefensthal deve molto è Walter Ruttmann, autore di vere e proprie “sinfonie visive”, votate all’astrazione, di grande originalità tecnico-espressiva. Il primo film realizzato dalla Riefensthal, La bella maledetta (Das blaue Licht. Eine Berglegende aus den Dolomiten, 1932), ottiene un buon successo in Germania ed in tale opera-prima, sostiene Studer, “le atmosfere magico-oniriche e gli scenari naturali in cui sono immersi i personaggi condensano in maniera eccellente le tematiche della Volkskultur che il nazismo e la visione nazionalistica hitleriana esalteranno negli anni successivi”. Si tratta dell’unico film di fiction; a questo seguono opere di carattere documentario commissionate direttamente dal regime a fini propagandistici. Vittoria della fede (Der Sieg des Glaubens. Der Film von Reichsparteitag der NSDAP, 1933), nonostante il successo di pubblico, viene fatto sparire perché in diverse scene, al fianco di Hitler, compare Ernst Röhm, capo delle SA, che poi verrà ucciso nel giugno del 1934 durante la Notte dei lunghi coltelli. Nella seconda opera documentaria, Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935), tutto sembra ormai “funzionale alla rappresentazione filmica della nuova liturgia nazista” e, stilisticamente, risulta caratterizzato dalla presenza ossessiva della geometria, probabilmente di ispirazione ruttmanniana, in una vera e propria celebrazione della precisione e del rigore delle sfilate e della gestione delle masse. A testimonianza della potenza espressa dalle modalità utilizzate dalla cineasta tedesca, Studer sottolinea come a questa si rifacciano palesemente, nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, diverse opere hollywoodiane, anche recenti. Ne Il trionfo della volontà, la cineasta si rivela particolarmente capace nel dare immagine all’idea di “comunità organica” strettamente subordinata a un capo. La realizzazione successiva, Giornata della libertà! La nostra Whermacht! (Tag der Freiheit! – Unsere Whermacht, 1935), dedicata alle parate militari riprese durante il Congresso Nazionalsocialista di Norimberga del settembre 1935, rappresenta la celebrazione dell’efficienza delle macchine da guerra della Whermacht. L’elogio della “tecnologia della velocità” intende promuovere il concetto di Blitzkrieg. Forte di queste premesse cinematografiche la Riefensthal inizia a lavorare al lungometraggio che intende celebrare quelle che passeranno alla storia come le “Olimpiadi dei nazisti” del 1936 e, con esse, nuovamente, il regime hitleriano.

L’opera Olympia deve essere collocata all’interno dello sforzo compiuto dal III Reich di sfruttare l’occasione dell’olimpiadi berlinesi, ottenute nel 1931, prima dell’avvento di Hitler al potere, per mostrare le capacità organizzative del regime sia ad uso interno, in termini autocelebrativi, che ad uso propagandistico esterno. Per tale motivo l’investimento economico-organizzativo per la realizzazione dei giochi olimpici e della relativa celebrazione audiovisiva dell’evento è esorbitante. Nelle vicinanze del monumentale nuovo impianto dell’Olympiastadion da centomila posti, viene individuato un castello come quartier generale in grado di alloggiare ben centoventi posti letto per la troupe addetta al documentario. Alla Riefensthal viene concessa un macchinario in grado di sviluppare e stampare 1200 metri di pellicola all’ora al fine di far fronte ad un progetto di riprese che prevede 15.000 metri di riprese quotidiane. Ben prima dell’inizio dei giochi, gli operatori iniziano ad esercitarsi ed a provare i macchinari costruiti appositamente, come cinecamere in grado di seguire lateralmente ed a velocità variabile le corse, cineprese insonorizzate per non infastidire gli atleti e persino a tenuta stagna per le riprese sott’acqua. Vengono anche scelte, direttamente dalla regista, le pellicole per le diverse riprese in base alle caratteristiche in termini di resa fotografica: Pellicole Kodak per i volti degli spettatori, Agfa per architetture marmoree e Petruz per i soggetti con gli sfondi verdi. Nulla viene lasciato al caso anche se, nei giorni delle gare, i problemi non mancano.

olympia 11La prima parte di Olympia (Fest der Völker) prende il via con un prologo realizzato dal regista sperimentale Willy Otto Zielke, vero e proprio genio della fotografia in movimento, come dimostrato da un suo precedente film girato per le ferrovie tedesche, vero e proprio inno al mondo delle machine e del lavoro operaio (film poi proibito per l’eccessivo sperimentalismo, oltre che per la mancanza di celebrazione del nazionalsocialismo). Il prologo di Zielke viene girato in buona parte in Grecia, culla delle olimpiadi antiche e le prime immagini insistono sulle nuvole che, diradandosi, lasciano il posto, tramite una dissolvenza, alle rovine dei templi antichi. Dunque si passa a statue greche e via via agli atleti in carne ed ossa che riprendono le gesta dei marmi. Le caratteristiche stilistiche dei quindici minuti d’apertura di Zielke, sono ben analizzati dal saggio, in particolare si descrive la sua abilità nell’uso delle dissolvenze incrociate e nel rendere un effetto dinamico alle statue attraverso sapienti movimenti di macchina e di luce, oltre che al ricorso al “principio ėjzenštejniano del conflitto” ed al montaggio ellittico.

Una volta iniziati i giochi berlinesi, la Riefensthal inizia a ricorrere a riprese dai punti di vista insoliti; nel salto in alto, ad esempio, parte delle riprese vengono effettuate da buche interrate. Spesso si ricorre a riprese slow motion “in grado di esaltare il gesto atletico e le capacità espressive del cinema”, oltre che di dilatare il tempo del racconto permettendo all’osservatore di indagare i dettagli del gesto atletico. Altro elemento di sicuro effetto, ripetuto più volte, nel corso del lungometraggio, è dato dalla ripresa delle ombre degli atleti. Molto contenuta risulta la cronaca della gara del commentatore che si limita a presentare i nomi degli atleti, la nazionalità ed il risultato conseguito in termini numerici. Quel che interessa alla cineasta è “filmare e montare la gara in modo da cogliere gli elementi più spettacolari della disciplina, soprattutto mediante inquadrature che esaltino i corpi in movimento e i volti che esprimono la tensione agonistica e lo sforzo fisico”. Particolarmente interessante l’analisi della maratona che chiude la prima parte dell’opera, Festa dei popoli, dedicata alle gara d’atletica.

olympia099La seconda parte del documentario, Apoteosi di Olympia (così nella versione italiana, anche se la traduzione letterale del titolo tedesco Fest der Schönheit sarebbe Festa della bellezza) è dedicata alle discipline più moderne e popolari come la ginnastica, la vela, la scherma, il pugilato e sport d’acqua. Anche la seconda parte di Olympia ha un prologo che, secondo Studer, “racchiude una perfetta sintesi di quanto è stato definito ‘ideologia völkisch’”, dalle immagini di una natura che pare incantata, fuori dal tempo, “radice mitica del Volk”, sbucano gli atleti che si stanno allenando. Con le immagini dell’armonia della ginnastica artistica prendono il via le varie gare; corpo libero, cavallo con maniglie, anelli parallele simmetriche ecc. Interessante il passaggio dagli spazi aperti e luminosi della gara di vela (con macchine da presa collocate su imbarcazioni che seguono le gare) e lo stacco, attraverso dissolvenza nera in chiusura, che porta nel buio dell’ambiente della gara di sciabola ove, nuovamente, parte della gara è mostrata attraverso le riprese delle ombre. Le gare dei tuffi rappresentano, forse, il pezzo forte della seconda parte del lungometraggio. Qua i punti di osservazione degli atleti diventano sempre più insoliti, tanto che le riprese “mettono in evidenza una prospettiva di visione che strabilia lo spettatore cinematografico perché lo mette in condizione di vedere un gesto atletico come mai nessuno è riuscito a fare, nemmeno durante l’effettivo svolgimento della gara nella piscina olimpica di Berlino”. I tuffi maschili, grazie al cielo plumbeo da cui compare qualche bagliore di sole, sono ripresi quasi in controluce tanto che gli atleti si trasformano in piccole sagome nere che volteggiano nell’aria con geometrie armoniose e perfette. “La gara dei tuffi diventa, grazie alla tecnica e alla sua capacità moderna di manipolare il reale, una rappresentazione, inspiegabile, di come sia possibile sospendere o infrangere le leggi fisiche del movimento: lo spettatore, infatti, non assiste mai in questo sintagma alla conclusione del tuffo e nessun atleta viene ripreso mentre penetra l’acqua della piscina”.

olympia 15Il film ottiene un grande successo europeo e viene premiato con la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia del 1938. Il Ministero della Propaganda stanzia una cifra considerevole per inviare la Riefensthal, tra il novembre del 1938 ed il gennaio del 1939, negli Stati Uniti per procedere ad una sorta di tour promozionale di Olympia. L’obiettivo del viaggio non è, ancor oggi, del tutto chiaro; la regista viene infatti fatta viaggiare sotto pseudonimo, in un paese in cui il sentimento antinazista blocca sul nascere la possibilità di ottenere la distribuzione nelle sale. Il tour potrebbe rispondere alla necessità di mostrare al paese che esercita, grazie al sistema hollywoodiano, una sorta di egemonia culturale anche in ambito europeo, un potente esempio di cultura tedesca, in grado di essere competitiva anche in terra americana. In altri termini, più che ad ambire ad una, decisamente improbabile, se non impossibile, distribuzione americana, l’obbiettivo vero può avere a che fare con il desiderio di mostrare, almeno agli ambienti hollywoodiani, la potenza di fuoco tedesca in termini audiovisivi. La questione di quanto, a prescindere da caso Olympia, la cultura popolare americana sia stata influenzata dalla cultura tedesca non è di poco conto. Quanto “germanesimo nascosto”, per dirla con Quaresima, è presente in moti aspetti della cultura occidentale contemporanea? E, soprattutto, verrebbe da aggiungere, quanto nazismo è presente nell’occidente contemporaneo?

 

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