Licio Gelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera» https://www.carmillaonline.com/2024/11/21/bologna-1980-la-bomba-per-me-scoppio-la-sera/ Thu, 21 Nov 2024 22:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85372 di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola [...]]]> di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.

È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:

Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.

Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:

Dopo aver vagato a lungo per le strade che corrono intorno all’ospedale a un certo momento mi trovai a fianco un giovane che silenziosamente mi seguiva. Allora incominciai a parlare, a raccontare di mio figlio, delle sue condizioni, delle sue menomazioni, del suo stato d’animo e delle mie certezze che tutto si sarebbe concluso ancor più tragicamente. Lui seguendomi nel peregrinare mi ascoltò a lungo, ogni tanto cercava di dirmi qualche cosa, ma io non capivo le sue parole e non mi importava di non capirle. […] Stanchi di camminare ci sedemmo sul ciglio di pietra di un marciapiede e lì continuai a lungo il mio soliloquio, ogni tanto interrotto da un momento di commozione più intensa dovuta a un ricordo più caro. Era tardi, ci salutammo.

Il giovane misterioso è un personaggio liminare, affacciato sulla soglia fra l’impossibile e la realtà: un doppio del figlio? un’ombra venuta da non si sa dove? o semplicemente uno dei tanti bolognesi che vollero portare solidarietà come potevano, anche solo con un po’ di compagnia, di umanità? L’episodio va preso così com’è, col suo tesoro di senso e nonsenso, senza pretese.

Secci è ancora più sincero e forte quando ci si offre con l’interrogativo del superstite:

Mi sentivo in colpa, la colpa di non aver saputo difendere Sergio dalle avversità della vita che ora avevano finito per travolgerlo. Non ero stato un padre capace di difendere la mia creatura dall’attacco mortale che gli era venuto da una società in cui gli egoismi, la difesa dei privilegi e la lotta per assicurarsene una parte sempre più grande era ancora e rimaneva il motore principale delle azioni di coloro che avevano in mano il potere. Mi sentivo impotente e avevo chiara, evidente la misura delle mie modestissime possibilità. Avevo lottato, con notevoli sacrifici nel corso della mia vita, per ideali altruistici, per imporre almeno un limite agli egoismi e ai privilegi. La strada era ancora tanto lunga, seminata di tanto dolore e di tanto pianto, ma non era stata ancora percorsa tutta.

Insomma, senso di colpa. Ingiustificato, ovvio. Come al solito, a portarne il peso sono i migliori, gli onesti: gli innocenti. Le carogne non hanno scrupoli. Ma è un senso di colpa che non invischia, non imprigiona: presto è affiancato dalla consapevolezza delle cause storiche e sociali del lutto, per essere affrontato collettivamente e concretamente. Subito la narrazione si allarga: attivismo cittadino, soccorsi, energie.

E subito comincia la critica alle autorità, perché lo stragismo, fascista e addomesticato agli interessi padronali, nel 1980 miete vittime già da oltre dieci anni, impunito. Ai funerali ufficiali ci sono poche salme perché 68 famiglie le portano via prima:

I familiari di queste vittime si erano rifiutati di partecipare alla cerimonia comune, di attendere i discorsi ufficiali, le bandiere e tutta quella liturgia che ormai già per troppe volte aveva accompagnato fatti di questo genere. Erano le prime avvisaglie di una riservata e silenziosa contestazione che non aveva nulla di emozionale ma che si radicava in una seria e meditata mancanza di fiducia nei vari organi dello Stato. Lo Stato non era stato capace di difenderli contro la violenza, di conseguenza non aveva il diritto di curarsi di loro, dopo morti.

Ed è chiaro che l’impunità del prima è la migliore garanzia per ciò che accade dopo:

Le stragi che avevano preceduto quella di Bologna avevano insegnato come fosse facile per terroristi, spioni, servizi di sicurezza, personaggi con responsabilità accertate, ottenere l’impunità giudiziaria. Queste protezioni avrebbero raggiunto anche lo scopo di permettere la continuazione e il rafforzamento di quel tipo di terrorismo.

La continuazione non è solo ripetizione; siamo di fronte a una diversa versione della continuità, quella dello Stato italiano – burocrazia, personale in divisa, magistratura – , tra fascismo e democrazia: in fondo, è un altro volto della continuità studiata da Claudio Pavone. E infatti, nella strage di Bologna si sente l’eco dell’occupazione del paese, del collaborazionismo, di Salò. Il crimine, del resto, come altre stragi degli anni Settanta e Ottanta, e come la più grave delle stragi nazifasciste in guerra, quella di Monte Sole, colpisce sulla direttrice che unisce la Valle Padana all’Italia centro-meridionale: si mira anche all’Unità d’Italia, nelle pieghe del bersaglio c’è il Risorgimento.

L’esigenza di giustizia è senza compromessi; Secci non cede a retoriche intimiste. Non ci sono neanche surrogati riparazionisti, come quelli che dal 2008, con la connivenza di governi, autorità, storici famosi, hanno ostacolato i risarcimenti delle stragi nazifasciste commesse dal 1943 al 1945:

Il perdono può essere del singolo, in quanto sentimento privato chiuso nella coscienza di ognuno e quindi non giudicabile dall’esterno. Ma quando la collettività viene offesa con orrendi delitti come le stragi indiscriminate, non può perdonare finché sussistono i motivi di condanna, in quanto deve difendere la sua propria essenza[1].

Severissima, Anna Maria Montani: ha perso la madre e non accetta il risarcimento offerto dallo Stato. «“Cento milioni per testa di morto”, secondo il decreto del governo. “Non li voglio. Li sento sporchi di sangue. Se quelli vogliono fare qualcosa cerchino chi ha ammazzato”»[2]. Proprio lei accetta i funerali di Stato, sì, ma solo come occasione per dire basta alle autorità, e in chiesa non stringe neanche la mano del presidente Sandro Pertini.

L’unione fa la forza. Oltre all’Associazione tra i familiari del 2 agosto, nel 1983 nasce l’Unione dei familiari delle vittime di stragi, che riguarda le stragi fasciste, compresa quella di Bologna. Il gruppo incontra difficoltà:

Cozzammo contro ostacoli insormontabili di miopia politica, di settarismo, di scetticismo, di sfiducia nei risultati, ma non ci lasciammo convincere e non ci lasciammo fermare, li superammo tutti pensando che le stragi avevano molte cose in comune e che perciò ciascuno di noi, chiedendo giustizia per sé, l’avrebbe chiesta per tutti.

Fra gli scopi dell’Unione c’è una modifica legislativa per vietare il segreto di Stato sulle stragi (e una proposta simile era già nel primo programma dell’Associazione). Così ad Arezzo, al convegno La vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, Secci incontra il magistrato Marco Ramat, che prepara una bozza di intervento sulla legge 801 del 1977. Le idee sono chiare:

Il segreto di Stato nei processi per strage aveva sempre fermato i giudici nel corso delle loro indagini, pensavamo che al processo di Bologna sarebbe accaduta la medesima cosa, occorreva quindi prevenire questa eventualità. […] Non permettendo più il segreto, l’impunità, per questo crimine, cadeva e coloro che avevano pensato ed eseguito la strage sarebbero stati perseguiti senza ostacoli dalla giustizia[3].

Raccolgono le firme. Ci sono promesse di aiuto non mantenute; li riceve il presidente del Senato, Francesco Cossiga, e anche lui promette. Consegnano la proposta il 25 luglio 1984 e la data non è casuale: «Il 25 luglio era caduto il fascismo, il 25 luglio 1984 speravamo che cadesse il segreto di Stato per le stragi».

Secci non vedrà la limitazione del segreto di Stato, che sarà legge nel 2007, durante il secondo governo Prodi. C’è chi semina perché altri raccolgano.

Il comportamento di alte autorità, compresi nomi considerati affidabili, è un misto desolante di disattenzione, pochezza o peggio. L’Associazione sollecita invano la discussione di interpellanze alla Camera; quindi, a marzo 1983, manda un telegramma alla presidente, Nilde Iotti:

Familiari vittime strage Bologna ritengono offensivo, mortificante e antidemocratico comportamento Camera da Lei presieduta che dal mese di luglio 1981 malgrado insistenti solleciti non ha trovato il tempo necessario alla discussione di cinque interpellanze sulla strage mentre per Sua decisione si giunge a programmare anche prossime sedute straordinarie notturne per svolgere discussione relativa al ritorno in Italia del signor Umberto Savoia[4].

La presidente è da una vita una dirigente del Pci e ha fatto parte della Costituente; però la strage fascista aspetta e si discute su un passo indietro rispetto alla Costituzione (e quanta dignità, in quel «signor» Savoia).

Le vittime scrivono più volte a Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro e in seguito presidente della Repubblica. Hanno buoni motivi: «In più di un’intervista Scalfaro, allora ministro degli interni, aveva fatto comprendere che le stragi non derivavano dalla deviazione dei servizi segreti ma dalle deviazioni del potere politico»[5]; però non c’è risposta. Gli scrivono ancora:

In un articolo del 30 gennaio [1988] Lei scrive di «colpevoli silenzi di fronte alla turbativa della verità sul terrorismo». A noi non risulta che Lei abbia ancora riferito ad alcun giudice quanto disse di sapere e di ciò La riteniamo gravemente colpevole. Noi pensiamo che chi conosce certe verità e non le denuncia favorisce il permanere del terrorismo e il ripetersi delle stragi. Per questa ragione l’Associazione Le rinnova l’invito a riferire alla magistratura tutto quanto è a Sua conoscenza che possa contribuire all’accertamento della verità, sulle trame eversive che si sono abbattute sulla democrazia nel nostro paese[6].

Neanche stavolta, Scalfaro risponde.

La correttezza è notevole. Per esempio, Secci, quando riceve lettere da un imputato della strage, le consegna agli avvocati di parte civile perché le diano ai magistrati. Le virtù non sono apprezzate, anzi:

La nostra richiesta di giustizia e verità era martellante e continua e a un certo momento per ostacolarla si cominciò a dire che coloro che chiedevano incessantemente giustizia erano dei «caini»[7].

Forse non c’è da stupirsi. Pochi anni fa, quando le vittime delle stragi belliche hanno chiesto giustizia, qualcuno ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[8].

Naturalmente si fanno avanti possessori di verità. Nel 1983 Secci è avvicinato da un uomo che dice di essere un agente di un servizio segreto straniero e un giornalista; sostiene che a Bologna è stato usato un esplosivo speciale, piccolo come una moneta.

Sia singolarmente sia come Associazione, Secci pubblica sui giornali annunci a pagamento con frasi come «Sergio Secci – Morto in un giorno di sole / per una bomba incosciente. / Ma vive d’insana follia / chi mi ha negato il presente»; oppure «La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannia» (sono parole di Pascal); o ancora «Strage di Bologna 2 agosto 1980. Chi copre i terroristi è un terrorista». In seguito le pubblicazioni vengono rifiutate e le rimostranze non hanno risposta. Nel 1986 è «la Repubblica», dopo aver incassato il prezzo, a rifiutare la pubblicazione di: «Strage di Bologna. Sergio Secci, anni 24. Chi ha deciso di ammazzarlo?»; la domanda è elementare ma il quotidiano restituisce il denaro. Caparbio, il volume mostra la ricevuta.

Il processo e ciò che gli accade intorno svelano un abisso fra due Italie. Davanti alla Corte compare Francesco Pazienza:

Per ogni fatto cercava e tirava fuori dalla sua capace borsa un foglio, un documento che secondo lui lo scagionava. Pazienza chiamava sempre in causa personaggi importanti per darsi importanza, per influenzare favorevolmente la Corte. Con il suo mellifluo comportamento cercava di entrare nelle grazie di tutti[9].

Il name-dropping è tipico degli ambienti striscianti, del sottobosco che vuole emergere. Secci ha altre radici, le sue parole sanno di pulito e di necessario come il sapone:

L’operato di Francesco Pazienza da quanto è risultato dalle indagini giudiziarie e confermato da sentenze non è sostenuto da ideologia. È un soggetto partorito da una cultura intrisa di falso perbenismo, di massoneria, di affarismo e di costante ricerca di privilegi a danno degli altri, non lo hanno mosso né idee politiche né il dovere che incombe sul militare, ma ha agito solo per denaro e quindi non è altro che un «terrorista mercenario»[10].

Quando sfilano come testimoni i feriti c’è qualche amarezza:

Alla domanda rivolta dal presidente ai feriti se dopo sette anni erano guariti, rispondevano tutti affermativamente, anche quelli che portavano ancora evidenti i segni delle lesioni subite; perché vergognarsi di essere vittime?.

Già, perché? La coscienza retta di Secci si tormenta.

Quando poi è respinta un’istanza di libertà provvisoria del fascista Paolo Signorelli, e la difesa protesta, c’è una lettera degli avvocati di parte civile al presidente della Corte, ben precisa:

Appare chiaro che l’intolleranza verso la parte civile, che è una parte processuale che sta legittimamente esercitando il proprio diritto nel processo, così come manifestata dall’avv. Bordoni [difensore di Paolo Signorelli] è del tutto fuori luogo. […] Il processo fino ad ora si è svolto con un rispetto delle garanzie processuali degli imputati particolarmente accentuato, mai contrastato dalle parti civili[11].

Anche considerando il modo in cui le parti civili sono state trattate nei processi sulle stragi belliche, a partire dal primo caso in cui la Germania è stata chiamata in causa in sede penale per i risarcimenti, cioè dal processo del 2006 sulla strage di Civitella, si sente quanto vale la presenza di una parte civile risoluta[12].

Sempre al processo su Bologna, nel 1987, depongono anche pentiti e fascisti estranei al crimine ma al corrente di elementi utili; fra loro Angelo Izzo, colpevole del delitto del Circeo del 1975:

Detenuto per un orrendo crimine comune, molto intimo in carcere degli elementi di destra, tanto da raccoglierne le confidenze. Confermò e ampliò i suoi precedenti interrogatori, sgomberando il terreno da ogni dubbio sulla veridicità delle sue affermazioni[13].

Da una parte le vittime che si organizzano, col perito industriale Secci che sente le sue «modestissime possibilità» ma mette in pratica i suoi ideali contro egoismi e privilegi; dall’altra i conciliaboli fra uno stupratore assassino e i fascisti, che in carcere fanno comunella perché annusano a vicenda i loro trascorsi.

Se a fiutare aria cattiva sono le vittime, invece, si tirano indietro, a costo di rinunciare al palcoscenico. Nel 1985 sono invitate in televisione da Maurizio Costanzo e rifiutano:

Non abbiamo ritenuto di dover discutere del crimine della strage del 2 Agosto con il signor Costanzo, membro di quella Loggia P2 che dallo stesso Parlamento viene indicata come il centro occulto «che svolse opera di istigazione agli attentati» che hanno insanguinato il paese e che può ritenersi «in termini storico-politici gravemente coinvolta anche nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale»[14].

Il 16 aprile 1988 – dopo la requisitoria del pubblico ministero al processo, e prima delle arringhe delle difese – a Firenze c’è il convegno Massoneria e architettura, in cui il gran maestro Armando Corona esclude o minimizza le colpe di Licio Gelli. L’Associazione prende posizione:

Contrariamente a quanto da Lei affermato in merito all’estraneità, negli attentati e nelle stragi, di Licio Gelli, La informo che dai documenti riportati nella relazione della Commissione di inchiesta sulla Loggia P2 risulta che tale Loggia, dallo stesso Parlamento, viene indicata come il centro occulto che svolse opera di istigazione agli attentati che hanno insanguinato l’Italia, e che può ritenersi in termini storico-politici gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Recenti condanne confermano questo giudizio[15].

Magnifico per la fermezza contro tutte le ipocrisie, Cento milioni per testa di morto merita di essere riconsiderato, adesso che una nuova sentenza ha ribadito le colpe della P2, di fascisti e di livelli dello Stato nel massacro. Tutto ciò, a proposito di piduisti, tenendo presente che Secci ha fatto in tempo a vedere al governo il più ricco e potente di loro: un nome che oggi è un punto di riferimento per chi è al potere.

All’infinita autostima di Berlusconi, alla sua immagine smodata anche nell’età avanzata e nella morte, va contrapposta una cosa accaduta a Bologna, subito dopo l’eccidio:

Il numero dei morti si profilava talmente alto che si pensò subito di trasportarli all’obitorio con un autobus; la cosa sembrò straordinaria, fuori dalla realtà, ma poi risultò pratica e a tale scopo si adeguò l’autobus n. 4.030 della linea 37. I vetri erano stati internamente coperti da lenzuola, sul pavimento era stata gettata della segatura.

Il mezzo pubblico è adattato a un uso anomalo, con l’aiuto dei lavoratori. Dentro l’episodio ci sono un’intercambiabilità apparente di morte e vita (quella di chi usa i mezzi pubblici) e, più in profondità, un timbro che Aldo Capitini avrebbe chiamato compresenza dei morti e dei viventi. L’autobus della linea 37 che va dalla stazione all’obitorio, segnando la città, è un ultimo taglio e una prima sutura, una linea d’ombra: la comunità si prende carico, si muove, anche forzando le regole. Intanto le ricostruisce: chi era alla stazione usava un mezzo pubblico, e con un mezzo pubblico, insieme agli altri, si avvia per l’ultima volta. Proprio Capitini, vertiginoso, scrive: «Perché come si potrà apprezzare la liberazione se non saranno con noi anche i morti a festeggiare?»[16].

 

 

[1] Torquato Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, Targa Italiana Editore, Milano 1989, p. 144.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ivi, p. 142.

[6] Ivi, p. 158.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Sono parole di Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, lanazione.it.

[9] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 146.

[10] Ivi, p. 154.

[11] Ivi, pp. 148-149.

[12] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, La sentenza della Corte costituzionale del 2014, la giurisprudenza italiana e una storia aperta, in Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023, pp. 106-108.

[13] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 157.

[14] Ivi, pp. 124-125.

[15] Ivi, p. 160.

[16] Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p. 225.

 

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La Destra politica italiana e la Costituzione del 1948 https://www.carmillaonline.com/2024/01/19/la-destra-politica-italiana-e-la-costituzione-del-1948/ Fri, 19 Jan 2024 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80740 di Pietro Garbarino

Ci fu un tempo in cui l’Italia visse sotto l’incubo di attentati sanguinosi a banche, ferrovie e luoghi pubblici in generale. Li possiamo ricordare ancora tutti: Piazza Fontana (1967), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza Loggia di Brescia e Italicus (1974), e altri episodi, precedenti e successivi, che non sono rimasti nella memoria storica, ma sono purtroppo avvenuti.

Ma in quegli anni avvenne anche altro; la bomba di Milano aveva lo scopo di fare proclamare la legge marziale, o comunque leggi di emergenza che avrebbero limitato le libertà democratiche e neutralizzato il Parlamento, [...]]]> di Pietro Garbarino

Ci fu un tempo in cui l’Italia visse sotto l’incubo di attentati sanguinosi a banche, ferrovie e luoghi pubblici in generale.
Li possiamo ricordare ancora tutti: Piazza Fontana (1967), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza Loggia di Brescia e Italicus (1974), e altri episodi, precedenti e successivi, che non sono rimasti nella memoria storica, ma sono purtroppo avvenuti.

Ma in quegli anni avvenne anche altro; la bomba di Milano aveva lo scopo di fare proclamare la legge marziale, o comunque leggi di emergenza che avrebbero limitato le libertà democratiche e neutralizzato il Parlamento, come supremo organo elettivo e democratico dello Stato. Cosa che non avvenne perché le istituzioni reagirono e perché i cittadini avevano capito cosa stava bollendo in certe pentole.

Ma nel Dicembre 1970 ci si riprovò, con un colpo di stato tentato dal nostalgico fascista Junio Valerio Borghese, che fece male i conti delle proprie forze, ma che si diede poi alla fuga senza pentirsene mai.
Nel 1973 ci riprovarono, assieme, esponenti delle forze armate, politici provenienti anche da partiti dell’arco costituzionale (antifascista) ma schierati a destra in nome dell’anticomunismo, ex partigiani bianchi sempre rimasti ferocemente anticomunisti e, come sempre, insieme a loro, fascisti e neofascisti, in parte contrapposti del MSI-D.N., ma anche appartenenti a gruppi oltranzisti come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Anche questa volta andò per loro male, ma il seme era ormai gettato.

Cosa volevano costoro?
1) Togliere ogni potere a partiti (quelli veramente antifascisti) e sindacati.
2) Ridimensionare il ruolo del Parlamento come principale espressione dell’ordinamento democratico e della rappresentatività popolare.
3) Imbavagliare la stampa libera.
4) Ridimensionare il potere della magistratura, assoggettandola al potere politico.
5) Fare modificare la natura dello stato da parlamentare a presidenziale.
6) Affidare il potere esecutivo (cioè quello politico) al Presidente della Repubblica. Cioè,ad un uomo solo al comando.

In pratica, pur con qualche diversa forma e modalità, si trattava di ripristinare i tratti salienti dello stato fascista.
Ma proprio per evitare ciò i Padri Costituenti avevano pensato, e realizzato, una Costituzione che negava, e nega, ogni carattere dello stato fascista; e proprio per tale motivo i nostalgici, reazionari e neofascisti volevano e tutt’ora vogliono abbattere quei principi e quegli istituti, che impediscono loro di restaurare lo stato autoritario di Mussolini e C.
Non a caso, il fascista Almirante definì la Repubblica risorta dalla Resistenza dalle dittature come “repubblica bastarda”, avendo egli in testa solo i principi demagogici, autoritari e servili della Repubblica di Stato, stato fantoccio al servizio dello stato hitleriano e nazista.

Ma le lotte operaio e studentesche di quegli anni, in primo luogo ispirate dall’antifascismo e tendenti all’allargamento degli spazi della democrazia, condizionarono un ceto politico, già tentennante e in declino culturale e ideale, e fecero si che lo stato democratico reggesse.
Tutto ciò peraltro non scoraggiò alcuni potenti sostenitori della trasformazione in senso autoritario dello Stato, tanto è vero che il massone eversore Licio Gelli ebbe modo di riformulare in modo organico il programma dei bombaroli e golpisti degli anni ’70 dello scorso secolo, inserendolo nel “programma di rinascita democratica”.

I cui temi fondamentali di tale programma eversivo vennero poi fatti in parte propri non solo dalle potenti cosche mafiose di Calabria e Sicilia (molti membri delle cupole di comando di quelle organizzazioni criminali erano anche adepti di logge massoniche), ma vennero recepite nei programmi di governo delle forze della nuova destra, che furono riunite, unificate, legittimate e perfino foraggiate, dall’entrata in politica di Silvio Berlusconi.
Questi, sfruttando la notorietà che gli fruttavano inopportune e fuorvianti compagnie di stampa sulla sua vita privata, fece passare ad uno ad uno quasi tutti gli obiettivi del “programma di rinascita democratica” formulato dalla massoneria capitanata da Gelli, e tentò perfino la carta della modificazione costituzionale in senso antiparlamentare e per il rafforzamento dell’esecutivo (leggi, Governo), senza però riuscirvi perché ancora una volta prevalse tra i cittadini il punto di vista democratico e costituzionale.

Ma, dopo il tramonto politico di Berlusconi, il paese non fu più comunque quello che aveva, negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo, sconfitto le bombe fasciste, i tentativi di golpe e il terrorismo di ogni specie e provenienza.
E ciò perché Berlusconi legittimò la destra di origine fascista e minò l’unità antifascista dei partiti che avevano partecipato alla Resistenza, rompendo il cosiddetto “arco costituzionale”.

E da allora, sulla scena politica nazionale, ebbero ingresso quelle proposte e pulsioni che l’Assemblea Costituzionale aveva isolato, negato e definitivamente archiviato, nella consapevolezza che lo stato democratico si dovesse fondare sulla ripartizione di poteri uguali fra loro, sulla sovranità del parlamento, e sul diritto.
Ma la rottura della residuale unità antifascista dei partiti dell’ex arco costituzionale, che significava essenzialmente osservanza rigorosa e rispetto della Costituzione del 1948, ha fatto venire meno proprio quel livello di valori per cui, specialmente a destra, ma anche nello schieramento opposto, si sono fatte strada idee e proposte di modifica della carta costituzionale, in nome di un malinteso efficientismo dell’azione politica e di una altrettanto inutilizzata e ideologizzata “governabilità” che nulla ha a che vedere con la carta fondante del nostro Stato.

Entrambi gli opposti schieramenti (si è infatti tentato di passare, senza successo alcuno ad un sistema politico di stampo anglo-sassone, e cioè bipartitico, e ad un sistema elettorale di tipo maggioritario) hanno infatti inteso il governare come affermazione esclusiva di proprio punto di vista, in funzione di negazione e sopraffazione dell’opposizione, nonostante che la carta costituzionale indichi chiaramente che si governa nell’interesse generale del paese, che il sistema politico è e deve essere pluralista, e che tutte le forze politiche presenti in parlamento devono contribuire al miglior governo possibile della cosa pubblica.
In altri termini la buona ed efficiente governabilità del paese si ha quando si verificano quelle circostanze e non quando uno schieramento politico riesce a soverchiare quello opposto.

E così avviene che il secondo governo presieduto da Berlusconi (era il 2007) tentò di modificare la Costituzione attribuendo al Governo e al Presidente del Consiglio poteri maggiori e più estesi di quanto sono oggi.
Ma anche alcuni importanti forze del centro sinistra, nel 2016, tentarono un’operazione analoga.
Fortunatamente entrambe fallirono, ma la tendenza diffusa trasversalmente tra i vari partiti, di imporre la maggioranza politica uscita dalle urne elettorali in modo prevaricante, non si rassegnò affatto e ha ripreso fiato e forza, in particolare dopo le ultime elezioni politiche, che hanno visto prevalere la destra più estrema; quella che non ha mai digerito i capisaldi costituzionali che sino ad oggi hanno garantito la natura democratica della Repubblica Italiana.

Così si è verificato che il partito vincitore delle elezioni del 2022 avesse inserito nel proprio programma politico proprio quella repubblica presidenziale che era stata l’obiettivo dei fautori delle stragi degli anni ’60 e ’70 del ‘900, ma anche del programma massonico di “rinascita democratica”.
E’ vero che successivamente, nelle concrete circostanze e nello spirito autoritario del programma politico della destra attualmente al governo, tale proposta di modifica sostanziale della Costituzione del 1948, si è tradotta in una proposta di “premierato forte”, ma non si può negare che il principio ispiratore di fondo di entrambe le soluzioni prospettate, sia quella di superare il principio della tripartizione dei poteri, di eliminare e neutralizzare il Parlamento, imponendo in modo autoritario e unilaterale la legge del più forte.
Proprio quello che l’Assemblea Costituente evitò e condannò in modo chiaro e inequivoco.

La proposta di premierato, oggi avviata verso l’approvazione (che tuttavia prevede un iter parlamentare abbastanza lungo e complesso) si fonda sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, quale leader dello schieramento politico risultato vincente alle elezioni, che fruisce automaticamente della maggioranza assoluta dei membri delle Camere, in forza di un abnorme previo di maggioranza, e potrà così governare indisturbato per 5 anni, di fatto detenendo il potere di impulso delle leggi che potrà dettare alle Camere, sotto il ricatto che, se cade il governo, si sciolgono anche le assemblee parlamentari.

Ciò comporterà che il Governo potrà contare su un massiccio (e subalterno) consenso nelle aule, che gli permetterà anche di eleggere parte dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e perfino della Corte Costituzionale (il Giudice delle leggi) e perfino, alla terza votazione, il Presidente della Repubblica.
Questi, invece, verrà limitato nei suoi poteri di scioglimento delle Camere e nella formazione del Governo, e perderà la sua funzione di garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato.

In definitiva, premesso che una simile proposta di nuovo assetto costituzionale non sarebbe stata neppure concepibile allorché vigeva l’unità antifascista dell’arco costituzionale, lo scopo della modifica istituzionale, che il governo di destra propone, mira proprio a sbilanciare i poteri dello Stato, oggi basati sulla centralità del Parlamento, come organo democratico rappresentativo dei cittadini, e la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica; e ciò a tutto vantaggio del “Premier” che avrebbe non solo il potere di formare il governo, indicando al Capo dello Stato i ministri, ma avrebbe in pugno il Parlamento e influirebbe in modo notevole sul potere giudiziario, e perfino sull’organo massimo di garanzia della corretta applicazione, delle leggi approvate nonché dei principi e diritti costituzionali.

Come si vede, si tratta del ritorno del principio di “un uomo solo al comando” già così caro al cavaliere Berlusconi, ma che rimanda chiaramente ai prodromi storici dell’ascesa al potere del fascismo.
Dunque, in conclusione, possiamo ritenere, e i fatti storici ce lo confermano, che c’è un filo continuo (non certamente rosso) tra le stragi fasciste degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo e che il certosino lavoro di erosione delle istituzioni democratiche da parte non solo della destra politica, ma anche di neo-fascisti, gerarchie militari, comandi atlantici e servizi segreti, sta purtroppo dando i suoi nefasti e mefitici frutti.

L’opinione pubblica democratica è avvertita e deve essere cosciente.
Saprà reagire?

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La nonna di tutte le riforme https://www.carmillaonline.com/2023/12/12/la-nonna-di-tutte-le-riforme/ Mon, 11 Dec 2023 23:05:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80303 di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la [...]]]> di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la collegialità è da riattivare, perché è sbiadita da un pezzo, almeno dai tempi di un giocattolo di Bettino Craxi, il «consiglio di gabinetto», frutto bacato degli anni Ottanta, che già accentrava il potere a spese del Parlamento.

C’è da dubitare che la manovra presidenzialista, se riuscisse a imporsi sul governo, lascerebbe intatta la presidenza della Repubblica. A quel punto, comunque, il sistema sarebbe sbilanciato e finirebbe per non reggere: il Quirinale non potrebbe più scegliere il presidente del consiglio, e anche nella scelta dei ministri cambierebbero i rapporti di forza. Il titolare di Palazzo Chigi diventerebbe simile a un capo del governo e avrebbe dalla sua una designazione popolare, diversamente dal capo dello Stato, scelto con un sistema indiretto. Le due figure entrerebbero in conflitto: prevarrebbe quella elettiva o finirebbero per essere riunite. Un passo alla volta, l’esito è sempre quello.

Così si possono realizzare le ambizioni coltivate da almeno mezzo secolo. In fondo, simili a quelle cominciate prima, perché l’attacco alla Costituzione non aspettò neanche che si finisse di scriverla: risuonò nei colpi di mitraglia a Portella della Ginestra nel 1947. Seguirono gli anni Cinquanta, con l’Italia prigioniera di una cappa di piombo immobilista; l’Italia presa di mira, quando per paura di un cambiamento si tentò il colpo di mano, con la legge truffa del 1953. Un arnese quasi ingenuo, al confronto con altri più recenti, come la legge elettorale del 2005 con cui Berlusconi destabilizzò la legislatura seguente per tornare presto al potere.

Nel 1953, per pochi voti, la legge truffa non ebbe effetto e De Gasperi tramontò. Ci vollero ancora anni per vedere aperture a sinistra: moderate, ma già troppe per la suscettibilità dei reazionari e dei fascisti. Cominciò la stagione delle trame e delle bombe nere, una fase in cui il Msi – il partito che Fratelli d’Italia ha per riferimento persino nel simbolo – ebbe i suoi tentacoli. L’atto terroristico che segna una svolta, in quella stagione, è a Milano, a piazza Fontana nel 1969; oggi è l’anniversario. All’epoca la loggia P2, col suo gran maestro Licio Gelli e coi suoi grandi bidelli, presidi e provveditori agli studi, senza volto o visibili sfocati, fu un’altra piovra coinvolta nelle strategie antidemocratiche.

A rileggere il progetto della P2 emerso all’inizio degli anni Ottanta, il «Piano di rinascita democratica» (c’erano già trucchi verbali e fascisti in maschera), si vedono lenti successi. Nel 1993 viene scardinato il sistema elettorale proporzionale, grazie a un brutto referendum. Nel 2020 di quel Piano, grazie alla propaganda populista e a un referendum bruttissimo, è realizzato un altro obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari, e in misura più grave del taglio voluto dalla P2. Un’altra modifica ad alto livello, quella dell’elezione diretta, che va persino oltre il Piano, si affaccia adesso: appunto, sulla presidenza del consiglio. Altro che viva la mamma, la patria e le riforme.

Bisogna ammettere che i confezionatori del Piano ci sapevano fare; a disegnare il futuro non erano certo i boia delle bombe, come quelle di piazza Fontana e sui treni e nelle stazioni. Non erano neanche i loro immediati mandanti e complici nella burocrazia securitaria e nel mondo militare. C’erano notabili manovratori, e alla lontana c’erano teste d’uovo danarose, con suggeritori cresciuti negli studi di psicologia sociale, di ingegneria politica e di manipolazione del consenso.

La trappola contro la democrazia era ben congegnata. Da un lato si riduce la rappresentanza: il voto non è più uguale per tutti; tutti quelli che votano hanno un voto che pesa di meno; diventano di meno quelli che vanno a votare. Dall’altro si crea l’illusione di un rapporto diretto con una persona sola. Quella sì, si prende cura di noi; quella sì, interpreta i bisogni del paese, anzi del popolo, anzi via: della nazione, della patria, meglio se scritta tutta in maiuscolo, come un tempo la parola duce.

Adesso si propone di dare una delega a chi promette, a chi strilla, a chi strabuzza gli occhi, a chi aguzza lo sguardo, a chi fa il sorrisone o gli occhiacci, a chi smania contro quelli lì e quelli là, a chi gonfia il gozzo e la prosopopea. A chi fabbrica meglio il suo passato, se occorre. Magari a chi assolda le migliori agenzie di comunicazione, perché anche se costano e bisogna far debiti, poi si pagano col denaro del padronato e dei settori sociali forti e organizzati. Un capo con l’applausometro è una garanzia, per chi è in alto.

Il lavoro è trattato sempre peggio: il rafforzamento dell’esecutivo favorirebbe i privilegi di classe tagliando le gambe alla mediazione; e direbbero che è meglio così, perché diversamente si fa il consociativismo. Lo sciopero e la democrazia sui luoghi di lavoro, già ora malmessi, potrebbero diventare cari ricordi. Quanto alle pensioni, sarebbero tutelate a seconda dei settori interessati, ma non in proporzione alla grandezza numerica né al peso del lavoro: i gruppi produttivi sono parcellizzati dalle nuove tecnologie, il resto è carne da sudore, indistinta; solo i gruppi uniti o in posizioni particolari fanno pacchetto elettorale, gli altri sono spinti nell’individualismo e nell’apatia. Un modello dal vago sapore medievale, percorso da consorterie e rivendicazioni confuse: una camera delle corporazioni frammentata nei social, col tumulto dei ciompi in videogioco. Coincidenza, nella presentazione del disegno di legge si parla di «democrazia di investitura»; proprio investitura, come per le cariche feudali o ecclesiastiche nell’età di mezzo, prima della modernità.

La sanità, sempre più importante con l’invecchiamento della popolazione, sarebbe in cima alle preoccupazioni governative: sì, ma la sanità frammentata, quella per i ricchi, o per i settori protetti, o per aree geografiche che garantiscono bacini elettorali.

L’ambiente, a un presidente eletto, sarebbe caro come i bilanci delle società estrattive e delle imprese di smaltimento rifiuti, perché chi controlla denaro e pacchetti elettorali, appunto, è ancora più decisivo, in una singolar tenzone, dove per una manciata di voti vinci tutto o perdi tutto.

Per la giustizia il capo scelto dal popolo sarebbe veleno. La mozione approvata dal congresso di Magistratura democratica del 2023 sottolinea sia il rischio di «riforme costituzionali che nel loro insieme consentirebbero a una maggioranza politica di erodere la separazione dei poteri», sia la «valenza contro-maggioritaria dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali». In una società incarognita, percorsa dalla polverizzazione dei lavori, da suscettibilità nervose e dalla conta delle identità, la maggioranza muscolare col tribuno è pericolosa: non è la maggioranza in democrazia, è folla sotto un balcone. Folla irritabile, pronta alla rissa spaccatutto, al piagnisteo purgativo, all’ovazione salvifica finale.

Sull’informazione, già ora l’industria televisiva e il servizio pubblico occupato dal governo fanno il tutto mio; col presidenzialismo ci sarebbe una sana, igienica, nazional-ginnica cinghia di trasmissione fra governo e popolo; sarebbe garantito un intrattenimento vivace, soccorrevole: una persuasione camuffata da ascolto, un altoparlante travestito da orecchio.

I numeri nelle Camere li hanno, grazie all’attuale andazzo elettorale del malanno e della malapasqua, ma non grossi come li vorrebbero. Quindi è possibile che si vada al referendum. Varrà per questo, come per le altre chiamate alle urne: non andare a votare non è il rimedio. C’è ancora chi crede di sì, perché ha capito il gioco, perché la sa lunga, perché sono tutti uguali, perché tanto peggio tanto meglio, perché col discredito che la casta si tira dietro, presto viene giù. In altri paesi, chi ha seguito queste suggestioni le ha consegnate intatte agli eredi, che adesso non sanno cosa farsene.

Se la proposta di presidenzialismo sarà coltivata sino in fondo, man mano che la discussione si scalderà sentiremo uno scilinguagno di argomenti, vedremo un fuoco d’artificio di parole, faremo scorpacciate di propaganda. Per chi ricorda il referendum del 1993 sarà un ritorno al passato, a quel clima di illusione di massa, tutto all’insegna della lotta alla partitocrazia e della fine della corruzione (che da allora corre più di prima), col sistema proporzionale messo al bando e quello maggioritario esaltato come chiave della modernità, in un pettegolaio ipnotico dall’esito disgraziato, su cui Silvio Berlusconi, un anno dopo, andò a sedersi in trono.

Attenzione ai paragoni con altri modelli costituzionali, e non accontentarsi di sapere che un’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, come quella che si propone, non c’è da nessuna parte. Il diritto comparato, nelle mani sbagliate, è un Arlecchino servitore di molti padroni. I modelli sono tanti, e anche solo limitandosi all’Europa c’è l’imbarazzo della scelta. Gli argomenti che tirano in ballo un paese o un altro sono come il caleidoscopio, che a girarlo ci vedi quello che ti vogliono far vedere.

Il sistema costituzionale italiano è frutto del lavoro di un’assemblea, finalmente uscita da elezioni vere, dopo vent’anni di dittatura con cinque guerre dentro. Anche dopo tanto tempo e alcune modifiche scriteriate, il testo ha pochi eguali per chiarezza, bilanciamenti, altezza di principi, bassissima dose di retorica e nessuna traccia di fanatismo o metafisica. Se la Carta fa perno sulla mediazione politica, anche quella faticosa, estenuante, e se sta alla larga dai decisionismi, dai carismi e dalle ovazioni, è perché allora certi ricordi erano freschi. Bastavano le macerie delle città, i lutti delle vedove e i cenci degli orfani, a spiegare come va a finire quando si grida che un capo ha sempre ragione.

Ma ecco due gonfiabili colorati. La governabilità: un jolly nella manica. La stabilità: una porta girevole. Ci sono stati decenni con governi brevi e uguali: stabilità marmorea. Con la riforma proposta, invece: effetto assurdo. Inamovibilità ufficializzata; e anche se – è il caso del governo Meloni – le promesse del programma svaniscono. Insieme, spinta al rovesciamento, perché la norma antiribaltone – l’hanno notato i costituzionalisti più attenti – suggerisce al secondo partito della coalizione vincente di colpire alla schiena il primo.

E poi, governabilità e stabilità non sono nella Costituzione. La parola governabilità, ancora decenni dopo la Carta, non era nei migliori vocabolari; poi c’è entrata, ma perché i linguisti prendono atto dell’uso. Parlamentabilità o regionabilità non sarebbero parole assurde? Adesso si vuole la governabilità nel testo. Non per estetica ma per sostanza, al letterato Pietro Pancrazi nel 1947 fu affidata la revisione linguistica della Costituzione (bei tempi). Il concetto di stabilità non va d’accordo con l’articolo 3: la Repubblica deve «rimuovere gli ostacoli» allo sviluppo della persona umana e alla partecipazione dei lavoratori alla vita della comunità. Piero Calamandrei diceva che di solito le costituzioni sono in polemica col passato, mentre la nostra lo è anche col presente. È una coraggiosa instabilità verso il meglio, che non esclude più governi nella stessa legislatura.

Occhi aperti. La voglia di padrone ha giuristi e politologi dalla sua, anche quelli che fanno i perplessi, gli equanimi, i tecnici. E sono tutt’altro che sprovveduti: per esempio, lo scriba del 1925, quello che firmò col re e Mussolini la legge fascistissima, si chiamava Alfredo Rocco, professore e codificatore e molto altro. Gli scribi di oggi sono intervistati e rispettati. La furbizia paga, e di storie furbe è pieno il passato, anche recente. Hanno voluto Camere rimpicciolite, invitando a ridurre il numero dei parlamentari prima e promettendo la legge elettorale per dopo; poi hanno riso di gusto sulla promessa, e adesso un Parlamento nato da elezioni con rappresentanza inadeguata, votato da una percentuale del corpo elettorale mai stata così bassa, mette mano alla Costituzione.

I progetti dei famigli del potere vantano un’antica araldica, perché libertà, partecipazione e condivisione danno fastidio da almeno due secoli. Si vuole spostare il baricentro verso gli abbienti e i clan immutabili, per fare degli altri una plebe vociante, ignorante, spaurita. Ben diverso, l’inno all’albero della libertà: «Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge, è il popolo che regge, sovrano ei sol sarà»; e si cantava negli ultimi anni del Settecento.

Altro che la madre di tutte le riforme. Questa non è una riforma, è una restaurazione ed è decrepita come Plozia, quella dell’iscrizione funeraria che Marziale, venti secoli fa, consegnò all’epigramma Pyrrhae filia, Nestoris noverca… Sa di polvere e di sepolcreto. Eccola, Plozia, nella traduzione pepata di Guido Ceronetti:

Figlia di Pirra, di Nestore matrigna,

da Niobe verginetta

veduta già canuta,

da Laerte decrepito

nonna definita,

da Priamo balia,

suocera da Tieste,

a innumerevoli sopravvissuta

di cornacchie generazioni,

col suo calvo Melanzione

qui finalmente tumulata,

Plozia supplica ancora

cazzo.

Però, diciamolo. La vecchissima Plozia è simpatica, con la sua voglia di vivere che non si spegne neanche in fondo a una tomba. Il presidenzialismo, invece, è orrendo perché sotterra gli interessi popolari, la Repubblica fondata sul lavoro, la democrazia e quel che resta della giustizia sociale.

 

 

 

 

 

 

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Uomini che sapevano tutto. Vite parallele di Giulio Andreotti e Elio Ciolini https://www.carmillaonline.com/2013/06/17/uomini-che-sapevano-tutto-vite-parallele-di-giulio-andreotti-e-elio-ciolini/ Mon, 17 Jun 2013 21:55:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6339 di Girolamo De Michele papa_nero A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e [...]]]> di Girolamo De Michele papa_nero

A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E questi è l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini”[Aldo Moro, 1978]

“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce” [Keiser Soze, I soliti sospetti]

 

La morte di Giulio Andreotti è caduta a brevissima distanza tra la pubblicazione di due libri resi ancor più emblematici dal decesso del Divo: l’antibiografia dello stesso Andreotti ad opera di Michele Gambino, e la ricostruzione, col consueto taglio controinformativo e un’attentissima lettura delle fonti, di Elio Ciolini, uno dei più inquietanti inquilini del “Residence Faccendieri” in cui abita il peggio della storia della repubblica (senza ordinali) da parte di Antonella Beccaria, che pochi mesi prima, assieme a Giacomo Pancini, aveva pubblicato una rilettura della storia della Repubblica attraverso la biografia politica del sette volte presidente del Consiglio.

Tanta ricchezza informativa fa da contraltare all’incredibile “leggerezza”, al limite dell’elogio servile, con la quale gran parte della stampa italiana ha delicatamente glissato sulle peggiori pagine della nostra storia nel momento in cui, morto Andreotti, sarebbe stato imperativo un bilancio non formale della sua carriera politica. C’è voluto “Il Post” di Luca Sofri perché venisse ripubblicata – con scarsa cura per i refusi – la durissima pagina del Memoriale in cui Aldo Moro, dalla galera brigatista, tracciava un ritratto a lettere di fuoco della statura politica e morale dell’ex amico di partito.

Se Andreotti è persona nota, Elio Ciolini risulta invece ignoto ai più. E, come mostra il lavoro di Antonella Beccaria, resta ignoto anche a chi lo ha conosciuto.
Chi è davvero questo personaggio che sembrava saper tutto della strage del 2 agosto e della strategia stragista di Cosa Nostra nella primavera-estate del 1992? Un agente segreto infiltrato nell'”Organizzazione Terroristica” responsabile della strage alla Stazione di Bologna? E se sì, di quale servizio: italiano o francese? «Un guardaspalle di Gelli»? Un uomo talmente vicino a Stefano Delle Chiaie da condividerne alcuni segreti? «Un “delinquentello”, un po’ mitomane e megalomane, ma fondamentalmente onesto», iscritto alla Loggia Montecarlo? «Uno strano e pittoresco personaggio che andava gridando ai quattro venti: “So tutto della bomba” [della stazione di Bologna]»? «Un “pataccaro” che spaccia “patacche”»? (Faccendiere pp. 65, 92, 153, 197)

Forse tutte queste cose, forse nessuna. Sta di fatto che nel dicembre 1981 un presunto piccolo truffatore detenuto nel carcere di Champ-Dollon, in Svizzera, inviò al console italiano un primo memorandum sulla strage della Stazione, cui seguirono altre “rivelazioni” (il virgolettato è d’obbligo). In breve, esisteva, secondo Ciolini, un’organizzazione terroristica internazionale denominata OT, collegata alla Trilateral e diretta da una loggia massonica denominata “Loggia Riservata” che «non ha niente in comune con la loggia massonica “P2”, anzi è la vera P2». Al vertice di questa Loggia Riservata ci sarebbero stati i «fratelli fondatori»: Giulio Andreotti, Gianni Agnelli, Roberto Calvi (allora presidente del Banco Ambrosiano), Attilio Monti, il “cavalier Artiglio” proprietario di giornali e petroliere, Umberto Ortolani e Licio Gelli, e Angelo Rizzoli (ancora proprietario del “Corriere della Sera”).
In questo contesto era maturata la decisione, presa da Gelli, di un eclatante attentato terroristico alla stazione di Bologna, la cui esecuzione era stata affidata a Stefano Delle Chiaie, per distrarre l’opinione pubblica dalla scalata finanziaria all’ENI.

faccendiereSi trattò di una raffinata operazione di depistaggio. Ciolini infatti falsificava il quadro complessivo mescolando elementi veri, verosimili e falsi, e lanciava al tempo stesso messaggi obliqui. La Loggia P2 veniva ridimensionata nel momento in cui era stato scoperto l’elenco dei suoi affiliati, ma al tempo stesso veniva ipotizzata l’esistenza di una più alta Loggia. La strage veniva attribuita ai fascisti, ma a quelli “sbagliati”, facendo il nome di Delle Chiaie, che con la strage non c’entrava, ma era impigliato in una fitta rete di sospetti (e aveva avuto per qualche tempo al suo fianco, in Sud America, lo stesso Ciolini, presentatosi come ufficiale dei carabinieri). E soprattutto: dagli accertamenti bancari non emerse alcuno spostamento significativo di fondi destinati alla presunta scalata all’ENI. Ma le indicazioni fornite da Ciolini sfioravano in modo allusivo quel “Conto Protezione” aperto nel 1978 da Silvano Larini presso l’Union Banques Suisses di Lugano, il “tesoro” del Partito Socialista di cui nel 1981 non si aveva notizia, e che sarebbe emerso solo nel 1993 con l’inchiesta “Mani Pulite”; un conto – il n. 633369 – sul quale erano transitati «in più tranche anche i soldi dell’ENI diretti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e tangenti varie. Di esso si parlava a bassa voce nei corridoi del potere italiano, e la sua presunta esistenza, per quanto sussurrata, avrebbe potuto costituire un fattore usato per condizionare l’andamento della politica italiana nel decennio che precedette Tangentopoli» (Faccendiere, p. 74). Un conto sul quale, nel 1989, stavano indagando Carla Del Ponte e Giovanni Falcone, al tempo dell’attentato all’Addaura.

Se le date hanno un significato, il memoriale-Ciolini compare a sette mesi di distanza da un celeberrimo editoriale vergato di proprio pugno da Bettino Craxi, nel quale il segretario socialista paragonava Gelli a «un attivissimo arcidiavolo, un Belfagor dalle mille risorse, dai mille contatti, intese, dossier, trappole e anche ricatti». Insomma, una specie di «grand commis dell’organizzazione, […] un uomo molto abile, una volpe, ma non un capo […]. Belfagor resta una specie di segretario generale di Belzebù. E se c’è Belzebù, ognuno se lo potrà immaginare come meglio crede, sforzandosi di dargli una fisionomia, una struttura, un nome» (Belfagor e Belzebù “Avanti!”, 31 maggio 1981; Divo Giulio, p. 139). Come se all’io so (l’identità di Belzebù) si volesse rispondere con un anch’io so (del conto aperto dal tuo uomo Larini a Lugano).
Anni dopo, alla domanda di Michele Gambino se ritenesse Andreotti essere Belzebù, Giovanni Falcone, con quella sua saggezza degna delle migliori creazioni letterarie di Leonardo Sciascia, rispondeva, con una battuta degna del Keiser Soze de  I soliti sospetti che «per quanto gli riguardava lui non poteva dire nemmeno se Belzebù, inteso come diavolo, esistesse o meno». Aggiungendo che «certe domande erano sbagliate, perché semplificavano argomenti complessi» (Papa Nero, pp. 75-76).

Ancor più interessante la vicenda della Loggia di Montecarlo, «un organismo super che la P2 al confronto deve considerarsi zero», dichiara Federico Federici, personaggio inestricabilmente legato a Ciolini, che si attribuisce la responsabilità («purtroppo», aggiunge) di averlo fatto entrare nella Loggia Riservata: «”al suo interno c’era anche ‘il grande babbo’ [che] è uno dei fondatori […], ma è tanto potente in Italia e all’estero che nessuno ha il coraggio di toccarlo”. Del resto, continuò ironico [Federici] alludendo chiaramente a Giulio Andreotti, “al grande babbo la gobba gli porta fortuna”» (Faccendiere, p. 99).
Una super-Loggia riservata? Bisognerà tenere a mente che personaggi come Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci hanno costituito il “vero” servizio segreto attraverso la loro “infiltrazione” nei servizi di Stato. L’esistenza di una super-Loggia implicherebbe allora l’esistenza di un servizio segreto di livello superiore, quantomeno come ipotesi logica. E infatti Licio Gelli lo ammise: «Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della P2? Per carità… Cossiga aveva Gladio, io la P2 e Andreotti l’Anello» (Divo Giulio, p. 260; Papa Nero, p. 162).
Ma di questo a suo tempo.
Torniamo a Ciolini.

Passano dieci anni, e Ciolini è di nuovo al centro dell’attenzione. Di nuovo dall’interno di un carcere – questa volta Sollicciano, condannato per calunnia e truffa ai danni dello Stato – il Faccendiere torna a scrivere dell’esistenza di una struttura internazionale anticomunista con legami con la Chiesa cattolica. E il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’assassinio di Salvo Lima, in una lettera al giudice di Bologna Grassi, intitolata «nuova strategia della tensione in Italia», preannuncia che:

Nel periodo marzo-luglio avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come:
esplosioni dinamitarde intente [sic] a colpire persone “comuni” in luoghi pubblici
sequestro ed eventuale “omicidio” d’esponente politico Psi, Pci, Dc
sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro presidente della Repubblica
Tutto questo è stato deciso a Zagabria – Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra e in Italia è intesa a un nuovo ordine “generale” con relativi vantaggi economico-finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine-deviato-massonico politico culturale, attualmente basato sulla comercializzazione degli stupefacenti! La “storia” si ripete – dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno delle strategie omicide… (Faccendiere, p. 179)

Di nuovo mescolando il vero, il verosimile e il falso, Ciolini fornisce anticipazioni impressionanti: tra marzo e luglio Cosa Nostra salda i conti con Salvo Lima, assassina i giudici Falcone e Borsellino, e di fatto crea le premesse perché la candidatura di Andreotti alla presidenza della Repubblica sia irrimediabilmente compromessa: «Il sette volte presidente del Consiglio ha sempre attribuito alla strage siciliana la perdita della partita per il Quirinale, e probabilmente non ha torto: i processi per mafia e omicidio erano ancora di là da venire, e tuttavia nell’Italia ferita dalla morte di uno dei suoi eroi, l’elezione a capo dello Stato del protettore della “famiglia politica più inquinata della Sicilia”, come diceva Dalla Chiesa, era un boccone troppo grosso per l’opinione pubblica» (Papa Nero, p. 201).

Il diavolo ci mise la coda, facendo fare ad Andreotti la stessa fine di Moro (quasi certo prossimo presidente della Repubblica al momento del rapimento, e al quale si fa riferimento in modo neanche troppo velato col «ritorno delle strategie omicide»), pur senza il «sequestro e “omicidio”». Sembra quasi sentire un’eco (voluta?) del “commiato” di Moro ad Andreotti, al termine del “Memoriale”: «Le auguro buon lavoro, on. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente, e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di presidenti del Consiglio in carica». A questa precisa sequenza temporale va aggiunta – dislocata nel tempo, con il tipico movimento depistante di nascondere il vero nel falso – la consapevolezza dell’avvio della strategia stragista di Cosa Nostra del 1993.
All’elenco del Faccendiere manca solo l’appendice di settembre, l’uccisione di Ignazio Salvo: ma Ignazio Salvo era già, come si dice, “un morto che cammina”. Lima e Salvo erano i due “garanti” presenti, secondo il racconto dei pentiti, all’incontro tra Andreotti e Totò Riina, il 20 settembre 1987:

«Vero o falso, se questa storia fosse un film, l’incontro narrato dagli otto pentiti sembrerebbe quello che nel gergo degli sceneggiatori si chiama “punto di svolta”: il ministro incontra il mafioso per garantirgli un rinnovato interessamento ai guai giudiziari della cosca, alla presenza di due garanti. Il mafioso registra la promessa e la riferisce ai picciotti. Anni dopo, quando la promessa si rivelerà vuota, i due garanti presenti nella stanza con Riina e Andreotti – Salvo Lima e Ignazio Salvo – pagheranno con la vita la mancata promessa, secondo le regole di Cosa Nostra» (Papa Nero, p. 105).

Vero o falso (o verosimile) che sia l’incontro tra Andreotti e Riina, è un fatto che nel marzo 1992 un omicidio eccellente a Palermo era non solo possibile, ma atteso: si trattava solo di sapere se sarebbe toccato a Lima o a Mannino. E alla notizia dell’esecuzione di Lima, alcuni limiani provarono per qualche giorno l’esperienza – così comune tra i militanti della sinistra rivoluzionaria da piazza Fontana in poi – di non rientrare a casa, di dormire da qualche amico senza avvertire le famiglie, di rendersi irreperibili.

Ciolini voleva preannunciare o mettere in guardia? A chi lanciava segnali di così immediata decifrazione? Poter rispondere significherebbe poter rispondere alla domanda iniziale: chi è davvero Elio Ciolini? Resta che a distanza di vent’anni e dopo vicende giudiziarie e processuali non ancora concluse possiamo dire che le bombe – secondo il documenti-Ciolini già pianificate prima del 12 marzo, e non dopo la “reazione dello Stato” – «avevano uno scopo, recavano con sé un messaggio, “fare la guerra per fare la pace”, come disse Totò Riina […]. Ma il messaggio non era solo quello. Per usare un’espressione tributata ad altre stragi […], si voleva destabilizzare il paese per raggiungere un accordo che riportasse la calma» (Divo Giulio, p. 198-99). Un accordo che oggi è noto come “trattativa Stato-mafia”; una ben strana trattativa nella quale non è chiaro chi, e a che titolo, abbia rappresentato una delle due parti (per la mafia il delegato fu Vito Ciancimino): se a trattare non furono ministri o dirigenti delle forze dell’ordine, con chi avrà trattato Ciancimino? E soprattutto: di cosa e su cosa si trattava?

divo_giulioQuali che fossero le sue intenzioni, collegando Andreotti con i suoi referenti mafiosi, la mafia stragista e le lobby politico-massoniche, Ciolini forniva tutti gli elementi per ricordare l’intreccio Gelli-Sindona-Calvi-Andreotti ai tempi in cui Andreotti aveva «non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale [=Cosa Nostra] ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi» (sentenza 2001, Papa Nero, p. 121). Queste relazioni non si limitavano alla supervisione della corrente “Primavera” capeggiata da Salvo Lima, o agli incontri tra Andreotti e il capo della mafia Stefano Bontate, ma anche, come risulta dai documenti processuali, al sostegno alle candidature all’assemblea regionale di “uomini punciuti” quali Raffaele Bevilacqua (capo della famiglia di Barrafranca) e Giuseppe Gianmarino (inserito nei quadri di Cosa Nostra) (Divo Giulio, p. 198).

Sulla storia di Michele Sindona ormai sappiamo quasi tutto. Il “banchiere mandato dalla Provvidenza” ebbe accesso, grazie alla firma di Paolo VI, ai fondi vaticani, in particolare quelli dello IOR (Istituto Opere Religiose), con i quali mise in piedi un giro di scatole cinesi nelle quali entrarono anche le disponibilità liquide di Cosa Nostra provenienti dalla produzione e smercio di eroina. Con Cosa Nostra, peraltro, Sindona era in affari sin dai tempi del sacco di Palermo, all’indomani del famoso summit organizzato da Lucky Luciano all’Hotel delle Palme di Palermo nell’ottobre 1957, quando fu sancita la pax mafiosa tra le cosche palermitane, furono regolati i rapporti tra le famiglie americane e siciliane, regolamentato il traffico di eroina tra le due aree, e decisa l’eliminazione di Albert Anastasia a New York.

A Sindona, caduto in disgrazia, subentrerà Roberto Calvi, fino all’epilogo sotto il Ponte del Black Friars a Londra, al culmine di una vicenda nella quale chiunque fosse in possesso di informazioni moriva prematuramente: Boris Giuliano, le cui indagini avevano dapprima scalfito, e poi intersecato, Sindona; Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banca Privata Italiana di Sindona; l’ambiguo giornalista Pecorelli; gli stessi Sindona, avvelenato in carcere, e Calvi, impiccato a Londra; a cui si aggiunge Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, scampato al tentato omicidio da parte di uno dei capi della banda della Magliana Danilo Abbruciati; e Aldo Moro, che nel suo “Memoriale” ricorda il ruolo avuto da Andreotti nell’ascesa di Sindona:

«Che cosa ricordare di Lei [on. Andreotti]? […] Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli?».

Sindona consulente finanziario del Vaticano e della Mafia palermitana, dunque; mentre Gelli, secondo quanto riferito al pentito Mannoia da Stefano Bontate, era l’uomo dei corleonesi: «Come Gelli faceva investimenti per conto di [Pippo] Calò, [Totò] Riina, [Francesco] Madonia e altri dello schieramento corleonese, Sindona faceva investimenti finanziati per conto di Bontate e Inzerillo» (Divo Giulio, p. 156).

Questo spiega perchè «la Chiesa ha sostenuto e protetto in molto modi l’uomo politico ad essa più fedele; in cambio Andreotti ha militato a tutti gli effetti nel mondo laico come un soldato della Chiesa, fin dall’inizio, quando da sottosegretario di De Gasperi faceva da ambasciatore tra il governo e la Santa Sede, e si occupava di censurare la produzione di Cinecittà e di polemizzare con i registi del neorealismo in nome della morale cattolica e del buoncostume». Come confermava Cossiga, Andreotti «è un grande statista del Vaticano. Il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II… mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare» (Papa Nero, p. 199).

Ma c’è un altro filo che collega Andreotti a Vaticano, Cosa Nostra e Loggia P2: l’anticomunismo.

«Se guardiamo bene, tutti i rapporti inconfessabili con cui si è sporcato le mani il sette volte presidente del Consiglio hanno la matrice comune dell’anticomunismo: la mafia con cui Andreotti “dialoga” fino all’omicidio Mattarella è la stessa cui gli americani si sono appoggiati dopo lo sbarco in Sicilia, la stessa che da Portella delle Ginestre in poi ha stroncato le gambe al movimento contadino, e ha portato voti spesso decisivi alla Dc, sottraendoli ai partiti di sinistra. I generali golpisti cui Andreotti ha fatto da sponda e da copertura tramano contro le istituzioni e contro i cittadini in nome del pericolo anticomunista, così come il Noto servizio, sorto nell’ombra intorno ad Andreotti, è formato da reduci della Repubblica di Salò dal dente avvelenato; la P2 è una congrega di arrivisti e affaristi che hanno in comune la fede anticomunista, e infatti gode nei suoi primi anni di un imprimatur e di appoggi anche finanziari della destra americana. Anche i rapporti con Sindona e Calvi, hanno al fondo una matrice “politica”: Sindona si muove come un agente degli americani su un territorio nemico, stringe patti con la mafia, vagheggia avventure separatiste in Sicilia. Calvi subentra nel ruolo a Sindona e prima di morire simbolicamente impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri compie il miracolo di reinvestire i soldi dei corleonesi di Pippo Calò nell’appoggio alle dittature sudamericane minacciate dai movimenti di liberazione e nel finanziamento a Solidarnosc, il movimento anticomunista polacco di Lech Walesa che in prospettiva storica è la prima crepa nel blocco dei Paesi della Cortina di Ferro» (Papa Nero, pp. 199-200).

operazione-via-appiaEd eccoci all’ultimo punto: il “Noto Servizio”, o “Anello”, un servizio segreto al di sopra dei servizi, creato e diretto da Andreotti sin dalla fine della guerra, poi evolutosi in Ufficio Zone di Confine nella Venezia-Giulia, una struttura coperta di cui Andreotti era a capo, e poi tramutatosi in Servizio Speciale Riservato, secondo la dizione che lo stesso Andreotti gli dà in un libricino in forma di romanzo, Operazione via Appia, pubblicato nel 1998.

Ricapitolando, in Italia ci sono stati tre servizi segreti, dei quali uno – SIFAR, SID o SISMI, a seconda delle epoche – al di sopra degli altri, e attivamente impegnato in ogni operazione sporca, dall’approvvigionamento clandestino di armi alla schedatura di politici, sindacalisti, giornalisti riconducibili all’opposizione, fino all’appoggio – quantomeno di suoi alti esponenti -, in forma di fornitura di armi, copertura o depistaggio, delle stragi di Stato o delle manovre golpiste. All’interno di questo servizio, in particolare negli anni del governo Andreotti-Cossiga-Berlinguer, esisteva un organigramma non ufficiale, che ridisegnava le gerarchie in funzione dell’appartenenza alla Loggia P2. Al di sopra di questo, il Noto Servizio che afferiva a Giulio Andreotti.

Ha ancora senso chiedersi se Andreotti fosse Belzebù, il vero capo della P2, o se esistesse una Loggia Montecarlo al di sopra della Loggia P2? O non è più sensata l’osservazione di Giovanni Falcone: che certe domande erano e sono sbagliate, perché semplificano argomenti complessi?

Decostruire gli apparati dello Stato, portare la luce negli uffici e negli archivi è opera fondamentale per giornalisti, magistrati, e ovviamente investigatori: su questo non ci piove.
Ma al tempo stesso, fare di questa decostruzione il fine ultimo di un’analitica del potere rischia di ridurre tutto a una dimensione spionistica o thrilleristica di second’ordine. Perché quello di fondamentale che rischia di essere perso è la funzione che questi dispositivi di potere hanno avuto, al di là degli organigrammi e dei funzionigrammi. Come scrive Gambino in conclusione del suo libro,

«Sarebbe stupido addebitare a Giulio Andreotti i mali del Paese, ma di essi egli è la più perfetta cartina di tornasole, per aver guidato l’Italia più a lungo di tutti, e per essere stato, tra tutti i politici italiani, il più influente e il peggiore. Forse senza di lui la storia del Paese non sarebbe stata migliore, ma certo sarebbe stata una storia più ricca di speranza e meno avvelenata dal cinismo» (Papa Nero, pp. 209-210).

Il cinismo, la sistematica distruzione di ogni moralità, l’individualismo implicito nella scorciatoia dell’appoggio politico e della raccomandazione, la prevalenza dell’economico su ogni altro valore, la corruzione inoculata in ogni angolo della società: questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a quella degradazione antropologica degli italiani che Pasolini indicava come uno dei crimini per i quali Andreotti e almeno una dozzina di dirigenti democristiani avrebbero meritato di essere trascinati sul banco degli imputati in un pubblico processo penale, in assenza del quale era «inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese» (Pier Paolo Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, “il Mondo”, 28 agosto 1975; Perché il Processo, “Corriere della sera”, 28 settembre 1975). Questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a forgiare la coscienza dell’italiano medio attraverso la percezione d’impotenza di fronte ad apparati indecifrabili, coi quali conviene trovare un accordo o un modus vivendi

«Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. [Lei] durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia», scriveva nell’ultima pagina del “Memoriale” Aldo Moro. Dimostrando di non aver compreso la vera natura del demonio, nel crederlo Persona.

Andreotti è passato, l’andreottismo no: la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce.

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