Libri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le brigate: distopia pandemica e stato d’eccezione https://www.carmillaonline.com/2020/07/22/61557/ Tue, 21 Jul 2020 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61557 di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi [...]]]> di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi contro il lockdown (leggi: arresti domiciliari), ho scoperto che in Francia, dove Macron si frega le mani soddisfatto per essersi tolto dai piedi i gilet gialli, è partita un’iniziativa inquietante: è nata una task force di “investigatori sanitari” che impegnerà almeno 30.000 membri per scovare i “positivi” al Covid19, tracciare e avvertire i loro contatti e organizzare misure di segregazione. Altro che app più o meno volontarie: 700.000 test a settimana, e quando qualcuno sarà trovato “positivo”, a tutti i suoi contatti verrà chiesto di “isolarsi da soli”, in casa o “negli hotel requisiti a questo scopo”. Ma è stato il nome scelto per questa task force a far scattare nella mia testa un campanello d’allarme e una rapida associazione mentale: “brigate”. 

Le brigate, infatti, è il titolo di un romanzo dello scrittore argentino Ariel Luppino (classe 1985), pubblicato dalla casa editrice Arcoiris nella collana Gli eccentrici (traduzione di Francesco Verde e postfazione di Federica Arnoldi), che avevo letto di recente nell’originale e che ha suscitato il mio entusiasmo.

Fin dalla prima pagina siamo immersi in un universo distopico e in una atmosfera a dir poco infernale: una misteriosa epidemia che si presume trasmessa dai topi e i cui sintomi sono strane macchie sulla pelle e disturbi del linguaggio – do you remember William Borroughs? “Il virus è il linguaggio” –, ha trasformato la città di Buenos Aires in una sorta di lazzaretto. Il sipario di questo vero e proprio teatro della crudeltà si apre in un Centro di Detenzione dove i reclusi sono costretti a “pelare topi” e vengono vessati da una figura archetipica, il Milite, uno psicopatico che si diverte a torturare senza motivo e a stuprare chiunque gli arrivi a tiro. Il suo motto: “Il lavoro rende liberi”. I prigionieri, costretti a girare in pigiama, hanno i capelli rasati a zero: “Tutti uguali, tutti la stessa merda: detenuti”, e ogni tanto qualcuno viene usato come cavia per qualche esperimento “scientifico”. “Il giuramento d’Ippocrate non valeva in quel merdaio. Potevano fare di noi ciò che volevano.”

I vecchi devono nutrire i topi, i giovani devono raccoglierne le palline di sterco (“i più curiosi dicevano che a mangiarle non facevano male, che avevano un buon sapore”), e intorno ai topi si sviluppa una fiorente economia: con le loro pelli si fabbricano stivali, e c’è chi se li mangia vivi o ne beve il sangue, incurante dell’epidemia, mentre la città è percorsa da orde di cacciatori, poliziotti corrotti, spacciatori e alienati.

La voce narrante è un detenuto qualsiasi, nei confronti del quale però il Milite, che “continuava ad atteggiarsi a peronista”, mostra una certa simpatia, tanto da affidargli incarichi meno obbrobriosi degli altri: “Il mio compito, spiegò, sarebbe stato quello di accendere il fuoco [per preparare il mate], ma pareva meno pesante che rispondere al telefono in un call center”. Nella seconda parte del romanzo l’io narrante, che legge il Mein Kampf come se fosse la Bibbia o l’I-ching, rivelerà di essere un aspirante scrittore impegnato nella stesura di un romanzo “che nessuno avrebbe mai voluto pubblicare”, oltre che un allucinato convinto di essere stato contattato dagli alieni, che gli infondono il loro sapere straordinario… eiaculandogli dentro.

È anche innamorato – “… lei, che dava un senso al non-mondo”, sempre che si possa parlare d’amore in questo girone infernale – di una donna di cui si fida assai poco e che lo trascinerà in situazioni scabrose ed estreme. L’unica traccia di umanità, di dignità umana, trapela dal comportamento della moglie di un carrettiere, che si suicida dopo aver cantato una canzone tristissima in guaranì, perché il Milite, invaghitosi di lei, le ha ucciso il marito. Tutti gli altri personaggi, che fanno capolino in una sequenza di scene in cui la violenza diventa sempre più parossistica, sono abominevoli: così l’Industriale con la moglie, che visitano il Centro di Detenzione per ottenere un fegato sano da trapiantare al figlio, o decisamente parodistici, come il concorrente di un programma televisivo che finge da dieci anni di vivere in stato vegetativo: “Otto infermieri, quattro sceneggiatori e un direttore di produzione lavoravano per rendere la storia credibile”.

Assistiamo persino a uno spettacolo teatrale allestito per i detenuti che mette in scena la loro stessa grottesca situazione (do you remember Shakespeare, il Sogno d’una notte di mezza estate?).

Il Milite sogna di scatenare una seconda guerra per riprendersi le Falkland/Malvinas (“Là, in quelle isole di merda, me ne stavo in fondo a una trincea, a pisciarmi addosso per cercare di scaldarmi”) e vuole estorcere, con i consueti sistemi brutali, il denaro all’Industriale e l’appoggio tecnologico di uno “scienziato”. All’obiezione secondo cui: “Non basta un conflitto diplomatico per scatenare una guerra”, risponde: “Dipende. Per questo ci sono i media, no?”.

Nel frattempo, “l’ossessione sanitaria cresceva di giorno in giorno e io non ne ero immune”: vi ricorda qualcosa? Bastano poche citazioni per evidenziare le qualità “profetiche” dell’autore, che ha pubblicato in Argentina il suo romanzo nel 2017: “La gente però circolava con le mascherine, e il ricorso alla fecondazione in vitro, per evitare che l’ovulo potesse essere fecondato da un ignaro portatore sano, andava aumentando”.

Le brigate è un romanzo denso, stratificato: en passant Luppino nomina alcuni autori che configurano una stirpe a cui appartiene a pieno titolo: “… cominciai a leggerle dei racconti. Onetti, Fogwill, Laiseca. Niente Saer!”. In un altro punto fa capolino anche Jorge Barón Biza, autore del magnifico Il deserto, mentre non viene fatto il nome di Osvaldo Lamborghini, che pure è assai presente, sia per la violenza del linguaggio – da apprezzare il lavoro improbo del traduttore – sia per le numerose scene a sfondo sessuale. Le metafore sono scarse e scarne: “Mise le mani come se stesse strangolando un suricato”; “non poté frenare l’impulso di andare controcorrente, come un salmone kamikaze”; del resto, se la strada dell’inferno è lastricata di metafore, qui siamo già arrivati a destinazione e non ne abbiamo bisogno.

In Argentina il romanzo è stato accolto con grande favore dalla critica. Ricardo Strafacce ha sottolineato che, facendosi carico della storia del genocidio militare argentino, il modo di narrare di Luppino “ce lo fa vedere meglio di qualsiasi descrizione realista di quel passato”. Agustín Conde De Boeck, che ha scritto la recensione più acuta ed esaustiva, dice che Le brigate “fa sembrare Meridiano di sangue di McCarthy una semplice puntata di Bonanza”. César Aira ha dichiarato di approvare senza riserve il romanzo. E secondo la scrittrice Gabriela Cabezón Cámara, con Le brigate “la letteratura argentina ha raggiunto uno dei suoi nuovi vertici, fra i migliori”. Un libro necessario, che serve a ricordarci che non viviamo affatto nel migliore dei mondi possibili.

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Hadi Danial su Epicrisi, opera del poeta palestinese Ashraf Fayadh https://www.carmillaonline.com/2020/01/04/hadi-danial-su-epicrisi-opera-del-poeta-palestinese-ashraf-fayadh/ Fri, 03 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56871 di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di [...]]]> di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di origine palestinese, nato e cresciuto nel regno Saudita. Ha partecipato alla Biennale di Venezia, rappresentando in tale occasione l’Arabia Saudita e la sua arte. Nell’estate del 2014, Fayadh è stato processato per accuse di apostasia relative alla sua raccolta di poesia “Le istruzioni sono all’interno”, che da allora è stata ritirata dalla circolazione, ma poi pubblicata in Libano nel 2008 dall’editore Dar al-Farabi.

Nel febbraio del 2019 è uscita la seconda raccolta di Ashraf Fayadh pubblicata in lingua originale dalla casa editrice tunisina Diyar. Nel settembre dello stesso anno la raccolta è stata tradotta in italiano da Sana Darghmouni e pubblicata dalla casa editrice Di Felice Edizioni.  Si tratta di 26 poesie scritte dal carcere, dove il poeta sta scontando una pena a 8 anni di reclusione e 800 frustate dopo la sua condanna per apostasia. Il volume tradotto in italiano comprende anche due prefazioni di Paolo Branca e Massimo Campanini. Attraverso questi testi il poeta presenta e descrive una serie di esperienze diverse che si alternano tra di loro all’interno della psiche umana e che toccano le sue sfere più sensibili e sacre, dimostrando una grande capacità espressiva. Il poeta ed editore siriano Hadi Danial ha partecipato all’incontro di Roma con questa relazione, la cui traduzione riportiamo di seguito.]

Hadi Danial – Roma 14/12/19 (trad. a cura di Sana Darghmouni) 

Buonasera! Per iniziare vorrei esprimere la mia profonda gratitudine all’amica, la prof.ssa Sana Darghmouni, perché mi ha permesso di essere su questo palco conoscitivo e militante circondato dalle vostre coscienze vive e dai vostri nobili cuori che battono per il destino di uno degli artisti creativi della bellezza umana la cui sorte da anni è quella di considerare con le ali di un’aquila le sbarre della propria prigionia, osservando con l’orgoglio del disperato come si accumula il silenzio e come esso possa diventare “una brutta abitudine praticata da tutti” di fronte alla sua crudele sofferenza. Un silenzio spietato che assedia il nostro amico comune, Ashraf Fayadh, non solo nel regno delle sabbie e dell’olio delle rocce nere dove è nato e cresciuto.

Questo folle silenzio ha contaminato tutta la nostra regione, soprattutto dopo aver invaso gli ambienti culturali e quelli dei media in cui la notizia della condanna a morte del poeta ha fatto esplodere grida di stupore e perplessità, e non tanto di disapprovazione e rivolta. E le grida che sono state subito spente dai venti del petrodollaro del Golfo che ha trasformato la maggior parte degli intellettuali arabi in tecnici della conoscenza, tranne alcune eccezioni che, purtroppo, non erano destinate a diventare una forza che fa pressione in comparazione con il vivo attivismo con cui persevera la prof.ssa Sana Darghmouni insieme alle sue colleghe e ai suoi colleghi, discendenti di Gramsci, con un entusiasmo che non si spegne. Anche le coscienze di coloro che sono stati scossi dalla notizia della condanna a morte nella nostra zona araba, sono tornate al loro antico letargo dopo aver appreso che la condanna era stata ridotta a otto anni di carcere e 800 frustate.

Tranne Sana e le sue compagne e compagni del popolo italiano amico, come se trascinassero la causa al posto di tutti noi dall’est fino all’ovest dei nostri paesi. E così la libertà di questo poeta rinchiuso ingiustamente è diventata una componente della causa personale di ognuno di loro. E sono stato fortunato quando l’amica Sana mi ha onorato e coinvolto parzialmente in questo grande lavoro nel momento in cui mi ha proposto di pubblicare la nuova raccolta di Ashraf tra le opere della casa editrice che ho fondato di recente a Tunisi. E questa è la seconda ragione della mia gratitudine nei suoi confronti.

Quando ho ricevuto la bozza di Epicrisi e ho cominciato a leggerla, avevo già deciso tra me e me di pubblicarla, spinto dal mio sentimento di solidarietà con un giovane palestinese che paga il prezzo di un’interpretazione ignorante e folle da parte delle istituzioni di una potenza araba, per via di un’espressione scritta dall’innocenza di un giovane poeta. Non avevo letto nulla di lui prima. Ma la lieta sorpresa è che mi sono trovato in presenza di una scrittura poetica che non ha precedenti per la sua capacità di spingere a pensare e immaginare allo stesso tempo. Con un tono tranquillo che strappa il fulmine dai vulcani dormienti nell’inconscio del lettore. Una scrittura libera che umanizza gli elementi essenziali della natura e dei suoi derivati e dialoga con i pianeti dell’universo e le sue galassie in approcci estetici affascinanti.

E da questi voli universali passa con una facilità non forzata ai dettagli quotidiani e intimi che sciolgono e si sciolgono in tenerezza e dolcezza. Queste atmosfere universali si risolvono in metafore dell’immagine e approcci sull’amore, la morte e la noia, la libertà e la patria, “che calza una scarpa della libertà consumata come il resto dei valori umani”[1], oltre che nella compattezza della struttura del testo e nel suo stile facile difficile. Tutto questo fa del testo di Ashraf Fayadh un testo degno di abbandonare la gabbia della lingua araba affinché i suoi uccelli possano posarsi sui rami degli alberi delle lingue del mondo. E qua esprimo la mia gratitudine all’amica Sana per il suo sforzo di far volare gli uccelli della penna di Ashraf nei boschi e nel cielo della lingua italiana.

Dopo la pubblicazione di Epicrisi dalla casa editrice Diyar a Tunisi, la notizia avrebbe dovuto attirare la curiosità delle élite politiche e letterarie, tunisine e arabe, soprattutto perché si tratta di un libro di un palestinese ancora imprigionato in un carcere della famiglia reale saudita. Ma purtroppo la metà delle cinquecento copie che abbiamo stampato sono ancora nei magazzini della casa editrice. La poesia non è più il diwan (“il libro di memorie”) degli arabi e il libro non è più il loro miglior compagno.

In quanto alla Palestina, si è trasformata in uno degli slogan che vomitiamo con la stessa velocità con cui la mastichiamo e inghiottiamo come altri slogan, quali libertà, democrazia e diritti dell’uomo, ma sono tutti usati nelle nostre guerre di parte. E in questo contesto alcuni hanno provato a strumentalizzare la causa di Ashraf Fayadh e sono stato invitato con generosità avvelenata (e non ho accettato gli inviti ovviamente) ad andare a Beirut e ad altre città per partecipare a programmi in alcuni canali come Aljazeera e Turchia Arabia per parlare di Ashraf, del suo libro e della sua causa. Ma non  per premura di questi per la libertà di espressione, quanto per utilizzare la causa di Ashraf nel conflitto di Doha e Ankara contro Riad. La realtà è che le autorità del Qatar avevano condannato a morte un poeta del Qatar e hanno ridotto la pena a 15 anni perché aveva composto una poesia in dialetto in cui elogiava la primavera araba e la sua partenza da Tunisi per cui non possiamo parlare eticamente da un palco del Qatar della causa di Ashraf e delle cause della libertà di espressione in generale. E il paradosso è che l’invito più generoso mi è stato rivolto dal canale americano Alhurra, il canale della potenza più grande, nota per essere la causa essenziale dietro l’impossibilità del popolo di Ashraf Fayadh di ottenere i suoi diritti legittimi nel decidere il suo destino e costituire la sua patria indipendente sul suo suolo nazionale. Allo stesso modo Washington gestisce le guerre usando lo slogan della “esportazione della democrazia” e della “libertà di pensiero e dei diritti dell’uomo” nella nostra regione, ma è la stessa potenza che sostiene il regime saudita nelle cui carceri si trova Ashraf perché è considerato un poeta apostata. E fabbrica il terrorismo religioso espiatorio, installandolo nelle nostre società e nei nostri paesi per poi usarlo come pretesto per interferire nelle nostre questioni interne, sempre con la scusa di combattere il terrorismo. La politica americana non nasconde il fatto che ciò che le interessa nella nostra zona non siano l’uomo o la sua vita sulla Terra, quanto piuttosto ciò che c’è sottoterra come il petrolio, il gas e i metalli. Perciò vuole che la consideriamo come “i gatti randagi”, di cui parla il nostro poeta in Epicrisi, considerano noi. I gatti randagi “ci credono divinità pronte a dispensare loro nutrimento” e Washington vuole che ci rifugiamo in lei per proteggerci dal “male dei gatti selvatici”, che rinnegano la misericordia dell’uomo[2] (e Israele è “troppo elevata” per essere il “gatto regionale selvatico” presso le divinità americane, ma potrebbe esserlo l’Iran ad esempio). Nonostante questo, l’arroganza americana scommette sulla possibilità di impiegare qualunque intellettuale arabo per promuovere il suo discorso deviante che pretende di “tutelare” la libertà di espressione nelle sue zone protette nel Golfo.

Ashraf Fayadh è ora senza inchiostro e senza colori, e noi con tutti i nostri inchiostri, colori e con le nostre gole, siamo incapaci di parlare e descrivere al posto suo, quindi non esiste un’alternativa alla necessità di rompere le sue catene e intensificare i nostri tentativi perseveranti per costringere il suo carceriere ad aprire la sua cella e fargliela lasciare definitivamente.

Infine, mi preme far presente che la questione di Ashraf Fayadh è una questione complessa, è una causa di libertà d’espressione quanto anche una questione di un popolo che soffre sotto il giogo della più lunga ingiustizia mai conosciuta dalla storia dell’umanità contemporanea, causata dalle avidità economiche e politiche del colonialismo occidentale, dal momento in cui ha spostato il progetto sionista dal Sud Africa e dall’America Latina in Palestina. E da allora è come se ogni palestinese nascesse prigioniero o martire nella Palestina occupata o nel mondo, è come se l’umanità dopo tante generazioni non potesse di fronte a ciò che reagire semplicemente con reverenza sottomessa nel tempio dei dolori. Se ci riuniamo oggi e domani per la vittoria del poeta prigioniero e del suo discorso libero, significa che il discorso poetico in Epicrisi è universale e la preoccupazione palestinese in questo discorso ha più di una chiave:

“Noialtri cerchiamo di imitare la terra nella sua capacità di resistenza,

ma alla terra manca un sistema nervoso!”[3]

E anche se il poeta fa parte di una generazione nata fuori dalla Palestina, egli non nasconde la sua brama e la brama del suo popolo per una patria, e invidia persino i batteri perché l’acqua inquinata fa degli intestini fini una patria ideale per loro:

“I batteri sono fortunati

Perché non hanno un vero problema a trovare una patria!”

Questo poeta insegue ancora la luce, perché “il buio fa paura anche se ad esso ci si abitua”.

Perciò non dobbiamo sconfortarci leggendo il suo grido con cui ha concluso Epicrisi:

“Mi rosica dentro la consapevolezza

E uccide ogni mia possibilità di sopravvivenza.

La consapevolezza mi uccide lentamente

Ed è davvero troppo tardi per trovare la cura.”[4]

Questo grido proveniente da una coscienza irrequieta, ci deve spronare di più non solo a lottare per la sua liberazione personale, bensì a liberare questo individuo-simbolo affinché si unisca a noi e ci conduca sulla strada della lotta più lunga verso la liberazione del suo popolo. Se personalmente sono deluso della condizione araba, impegnata nel suo sgretolamento e nelle sue guerre, il calore umano in questa sala avrà un’eco in altri luoghi e, senz’altro, nella lontana e fredda cella del poeta.

 

Proponiamo qui due estratti (cortesia di Di Felice Ed.):

Dentro il cielo

Il profumo della noia riempie la stanza,

il mio cuore, un libro marcio coperto da uno spesso strato di polvere,

il posacenere è troppo familiare

e i pensieri si attaccano alle pareti come mosche stanche.

Un ragno disoccupato si affaccia su alberi assonnati,

alcuni rumori all’esterno

e il freddo padroneggia sulla situazione.

 

Crepe di pelle

Il mio paese è passato di qua

calzando la scarpa della libertà…

poi se n’è andato, lasciando la scarpa alle sue spalle,

correva con un ritmo travagliato … come il ritmo del mio cuore,

il mio cuore che correva verso un’altra direzione … senza una giustificazione convincente.

La scarpa della libertà era consumata, vecchia e finta

come il resto dei valori umani in tutte le loro dimensioni.

Tutto mi ha abbandonato e se n’è andato … inclusa te.

La scarpa è un’invenzione sconcertante

dimostra la nostra ineleggibilità a vivere su questo pianeta,

dimostra la nostra appartenenza ad un altro luogo in cui non abbiamo bisogno di camminare molto,

o che il suo pavimento è arredato con ceramica economica … scivolosa!

Il problema non sta nello scivolare … tanto quanto nell’acqua,

nel calore … nel vetro rotto … nelle spine … nei rami secchi e nelle rocce appuntite.

La scarpa non è una soluzione perfetta

ma in qualche modo adempie allo scopo desiderato

esattamente come la ragione

e come la passione.

La mia passione si è estinta da quando te ne sei andata l’ultima volta,

non posso raggiungerti più

da quando sono stato detenuto in una cassa di cemento sostenuta da barre fredde di metallo

da quando mi hanno dimenticato tutti … a cominciare dalla mia libertà … e a finire dalla mia

scarpa affetta da una crisi di identità.

*traduzione di Sana Darghmouni

 

Link al libro e recensioni:

Feltrinelli on line – link

Ibs Libri – link

Da La macchina sognante-1

La macchina sognante-2

 

[1] Crepe di pelle.

[2] Le macchie difficili.

[3] Alla leggera.

[4] Ictus cerebrale.

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L’opera degli ulivi: anni ’70 – di università, utopia, amore, fascismi e ndrangheta https://www.carmillaonline.com/2018/05/25/lopera-degli-ulivi-anni-70-di-universita-utopia-amore-fascismi-e-ndrangheta/ Thu, 24 May 2018 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45732 di Pina Piccolo

Santo Gioffré, L’opera degli ulivi, Castelvecchi, Roma, 2018, pp .108, 13,50 euro.

Con una decisa virata che lo allontana dalle modalità classiche di racconto impiegate in precedenza nei suoi romanzi storici, l’ultimo romanzo di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi” si presenta come una coraggiosa e riuscita operazione culturale, sia a livello di scrittura che di contro-narrazione/controcanto  alle più diffuse e consuete narrazioni del sud, di quelli che furono i movimenti di contestazione giovanile degli anni 70, del ruolo dello Stato nell’eversione di destra e nella complicità con le associazioni criminose. Un controcanto che posiziona  le dinamiche che perpetuano [...]]]> di Pina Piccolo

Santo Gioffré, L’opera degli ulivi, Castelvecchi, Roma, 2018, pp .108, 13,50 euro.

Con una decisa virata che lo allontana dalle modalità classiche di racconto impiegate in precedenza nei suoi romanzi storici, l’ultimo romanzo di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi” si presenta come una coraggiosa e riuscita operazione culturale, sia a livello di scrittura che di contro-narrazione/controcanto  alle più diffuse e consuete narrazioni del sud, di quelli che furono i movimenti di contestazione giovanile degli anni 70, del ruolo dello Stato nell’eversione di destra e nella complicità con le associazioni criminose. Un controcanto che posiziona  le dinamiche che perpetuano  la sopravvivenza e sviluppo della ndrangheta in un contesto economico e politico più vasto, su scala nazionale ed internazionale, anche se a volte i personaggi stessi agiscono credendo di  essere spinti da antiche, ataviche maledizioni… Attraverso un alternarsi di cronaca dei fatti, disamina dei rapporti sociali ed economici che rimanda ai romanzi di inchiesta di Sciascia, con squarci di indagine psicologica, e a tratti animatissime contrapposizioni caratterizzate dal grottesco, specialmente quando  i lettori sono invitati a entrare nel gliommero, nel groviglio per dirla con Gadda. Nel suo ritmo la scrittura di Santo Gioffrè in questi momenti  rispecchia certi andamenti dei fermenti dell’epoca, nei quali lo scrittore cala il  personaggio di Enzo Capoferro, studente di grandi ideali di giustizia e cambiamento, in uno scenario specifico che contiene tutti i semi  del momento storico che stiamo attraversando adesso. Quegli anni 70 in cui a livello mondiale si gettano le basi del neoliberismo, anni in cui in Italia si saldano i rapporti tra Stato e movimenti eversivi di destra, Stato e associazioni criminose proprio nel momento in cui queste ultime si stanno trasformando da associazioni criminali a raggio limitato, di natura rurale/pastorale  a business  su scala nazionale, accumulando capitali attraverso i sequestri, capitali che verranno poi investiti nel narcotraffico.

Per lanciarsi eventualmente nel business  internazionale, operando in congiunzione con lo stato attraverso gli appalti, riciclaggio, etc.  Oggi queste operazioni, che avvengono su scala nazionale e internazionale vengono definite ‘infiltrazioni mafiose’, ma questa narrazione dominante dei fatti è una  che poggia sull’idea di una netta cesura tra le modalità sociali ed economiche che dividono il nord dal sud, una narrazione che non prende in considerazione la storia comune di clientelismi e trasformismi che ha caratterizzato e caratterizza l’intera nazione e che costituiscono il terreno fertile su cui attecchiscono, fenomeno abbastanza diverso dall’infiltrazione.

Ritengo infatti  il romanzo  di grande attualità per chi si sforza  di leggere tra le righe e  le pieghe, chi cerca di capire la contro-narrazione della cronaca dei fatti e dei rapporti umani che conducono un giovane di  grandi ideali di giustizia e cambiamento sociale a scivolare  suo malgrado dentro una faida famigliare, in quanto strategia per la propria sopravvivenza. Difendersi e attaccare in quelle modalità potrebbero apparire un astorico destino atavico, e in diversi punti del romanzo i personaggi stessi ne sono convinti,  ne parlano come di una maledizione che colpisce alcune famiglie e non altre. In questo rispetto è interessante il personaggio di Giulia il cui contesto famigliare  non ha contiguità  con quello della ndrangheta per cui stenta a capire le azioni di Enzo  e quest’ultimo la invita a evitare di entrare in quel suo mondo in quanto la sua purezza rimane  l’ultima isola su cui proiettare il suo amore e la sua speranza di futuro, una volta che perfino il mondo dell’ideologia si rivela intaccabile da quello della ndrangheta.  Le scelte, in apparenza obbligate, sono invece il frutto di specifici assetti economici, sociali, istituzionali che Santo Gioffrè delinea con grande maestria  nel corso di poco più di 100 pagine e 14 brevi capitoli regalandoci anche personaggi di intensa tragicità  come la madre di Enzo che si ritrova a dover imporre alla sua famiglia quella vecchia strategia di sopravvivenza alla quale credeva di aver definitivamente scampato.

Autore di 8 romanzi storici  che operano un’attenta disamina del territorio di provenienza, la zona di Seminara in provincia di Reggio Calabria, scavando dall’epoca bizantina su su fino  ad arrivare all’800,  creando personaggi quali Artemisia Sanchez che si fanno interpreti di risvolti della storia a cui negli anni si è dato poco risalto, ci si potrebbe chiedere perché  a questo punto della sua carriera letteraria Santo Gioffrè si prenda la briga di invertire la rotta e di occuparsi di un periodo storico  molto più vicino alla propria contemporaneità, a quaranta anni di distanza dai fatti di cui è stato testimone? di narrare  una storia che va in senso contrario a ciò che l’autrice nigeriana Chimamanda  Ngozi Adichie  chiama “the single story”, cioè la narrazione univoca di fatti , personaggi, circostanze, pratica deleteria che ha grandemente contribuito a impoverire il mondo della cultura  e l’immaginario a livello planetario? Non esistono già potenti contronarrazioni verrebbe la tentazione di obiettare basandosi  sul fiorire di tesi sociologiche negli ultimi anni sulle culture mediterranee: il pensiero  meridiano, le opere di Franco Arminio e di Franco Cassano, la controstoria del risorgimento di Di fiore et al.  Tutte queste opere potrebbero dare l’impressione che questa narrazione univoca si sia indebolita se non addirittura estinta e che adesso l’idea dominante rispetto al sud sia  l’elogio della lentezza o una specie di rivalsa di un sud come depositario di sapienze antiche superiori alla modernità.

In realtà nell’immaginario dominante si stenta a dissociare fenomeni storici come la ndrangheta da un discorso  di retaggio atavico, una specie di maledizione che condiziona  gli usi e i costumi di quelle popolazioni portandole  a seguire i dettami del “familismo amorale” ipotizzato dal sociologo statunitense Edward Banfield negli anni 50. Ed è implicitamente contro questo il tipo di storia che  si dispiega la narrazione fatta da Santo Gioffré della complessità dei rapporti umani, lo scavo dentro  il punto di intersezione  di vari fenomeni storici,  come i rapporti tra  movimenti fascisti di destra che spadroneggiavano all’università di Messina negli anni  1977-78-79, l’eversione internazionale rappresentata dagli studenti affiliati al regime dei colonelli greci che per motivi storici si trovavano frequentare università a Messina, in combutta con la massoneria che a livello istituzionale governava  la città e l’ateneo, per non parlare poi degli studenti ndranghetisti e  ed ella ndrangheta stessa che  ha in quel periodo le mani sull’università e sui vari servizi, per esempio la mensa.   Quando Santo Gioffrè  nel book trailer afferma, “Ho voluto raccontare la storia  di uno di noi, di uno che ideologicamente era destinato ad altro”, parla di tutta una generazione di ragazzi e ragazze che erano stati i primi della propria famiglia ad avere accesso  all’università. Nel caso di Messina si trattava anche di studenti  provenienti da famiglie contadine calabresi, che non avendo all’epoca un’università in regione  erano costretti a fare i fuori sede a Messina, Roma, Bologna o Napoli. Non avendo queste famiglie i mezzi economici per mantenere più di un figlio  all’università, accadeva che solo uno di essi  fosse prescelto per studiare. Il libro  registra la precarietà del rapporto di queste generazioni di studenti universitari sia all’interno della propria famiglia una volta determinata la scelta e nel loro nuovo habitat  in cui vengono trapiantati. Nel libro ci sono brani  che con grande maestria fotografano le tensioni o i sensi di colpa di Enzo verso i fratelli Nicola e Paolo destinati invece a portare avanti  il rapporto della famiglia con l’agricoltura e in un secondo momento, in un ribaltamento simbolico, si assiste a una sorta di rituale messo in atto da Nicola per spogliare il fratello della sua identità di studente,  cosa che avviene quando, mentre si dirigono a compiere il primo delitto di faida insieme gli fa togliere l’eskimo e lo fa sostituire con un vecchio giaccone stile latitante.  Scrive Santo Gioffrè:

“Arrivati al grande palmento della loro famiglia, Nicola diede d Enzo il suo fucile semi automatico e aprì la porta … Grandi botti di rovere , ricordavano anni passati quando il padre produceva vino, prima che la politica del governo, scoraggiandone la coltivazione,  portasse agli espianti dei vigneti. Da una di queste botti, Nicola estrasse un fucile a canne parallele calibro 12, perfettamente conservato. Lo diede a Enzo insieme a otto cartucce  caricate a pallettoni. Lasciato immediatamente il posto s’incamminarono fino al loro rifugio-  Nicola s’accorse solo allora di non avere un passamontagna per il fratello. Camminando tra gli uliveti e frutteti, notò una casa in uso a un contadino. Diede un calcio alla porta ed entrò.  Sul muro  appesi a un chiodo individuò gli indumenti di lavoro […] Con un coltello tagliò una manica e legò con lo spago una delle due estremità, poi con le mani allargò l’altra estremità e la infilò in testa al fratello, pizzicò la maglia nel punto corrispondente agli occhi e alla bocca  e tirandola verso di sé praticò dei buchi”.

Ricordando una scena speculare precedente in cui  Enzo Capoferro ancora in pieno possesso della sua identità di studente rivoluzionario estrae da un nascondiglio una P38 davanti agli occhi esterrefatti di Giulia, confrontandola alla scena nel palmento, il lettore può decifrare  la portata della discesa di Enzo agli inferi. Infatti lo stesso personaggio di Enzo Capoferro riflette amaramente sul fatto che  prima non aveva mai pensato di adoperare un’arma se non  per una convinzione ideologica che lo portasse a utilizzarla  in un atto di giustizia sociale.

L’andamento titubante di questi nuovi insediati  rispetto  alla loro nuova dimensione fatta di  spesso di insicurezze dalla precarietà, dall’essere sempre sul filo di una ricaduta verso il passato è registrato sia dall’indecisione (basti pensare ai ripensamenti di Giulia rispetto all’esprimere vicinanza a  Enzo colpito dall’omicidio del padre e poi quella di Enzo rispetto all’opportunità che Giulia l’accompagni al riconoscimento del padre all’obitorio), sia dall’intensità della  ricerca di un gruppo nel quale rispecchiarsi. La profondità dei legami di amicizia che si formano viene ,ad esempio, espressa dalla tristezza avvertita dall’intero gruppo quando vede Enzo scivolare nuovamente in un contesto da cui sembravano destinati a distaccarsi.  Il corteo dei vecchi compagni si ferma in silenzio davanti alla casa dello studente  per accennare un saluto a Enzo che non è più con loro  fisicamente e mentalmente, ma di cui avvertono la mancanza sia  come persona che come leader.   La mobilità  e l’irrequietezza sembrano rispecchiarsi a livello strutturale nei continui spostamenti dei giovani tra Sicilia e Calabria , gli attraversamenti dello stretto in traghetti della linea Caronte (ironico accenno al nefasto destino che l’aspetta?), i viaggi  Sicilia e Roma, tra l’università e il ‘covo’ che ospita i ‘latitanti’ politici . Della loro vita non vengono registrati i momenti statici ma quelli di mobilità.

È da questa esigenza di sicurezza  e in questo contesto che nasce anche la storia d’amore tra Enzo Capoferro e Giulia. L’incipit del libro è contraddistinto da un tono elegiaco, in cui l’accenno alla prima notte d’amore dei due  è da un lato velata da presagi nefasti “Quell’alba sembrava non avesse trovato nessuna pace nel cielo. Sembrava messa al rovescio, così pallida da pensarla vicino all’estinzione” E Giulia Ed Enzo nella loro prima introduzione nel libro cercano di allontanarsi da questa estinzione “Il riscatto nelle valli delle Serre era l’utopia per soffocare le ombre  della tristezza.  Giulia non voleva morire con il raschio dei calli di suo padre nelle braccia. Era la piccola di cinque sorelle: maritate già minorenni.  Messina era così perfetta, senza nessun intervallo né un vacillamento nel mare. Era la signora di una stirpe imperiale, un accecamento di luce. E le stava andando incontro.”   Quasi a contraddire in maniera eclatante il potenziale utopico di riscatto di cui Giulia investe la città di Messina, già nella pagina successiva il narratore introduce un grottesco cambio di scena contraddistinto dal parossismo dell’azione, che inizia col comizio  improvvisato di Enzo per denunciare la presenza di blatte nella mensa  universitaria “Guardatele le blatte ! Sembra che abbiano le branchie piantate in ogni spazio; questa mensa ha il primato mondiale della sporcizia. Compagni, non possiamo tardare la protesta! Alziamo la nostra lotta! Occupiamo l’Opera Universitaria! Cacciamo chi ha fatto del controllo della mensa un affare”. Il tutto seguito dal parapiglia creato della reazione degli studenti ndranghetisti  che disperdono i manifestanti con delle mazze chiodate e inconsapevolmente danno l’avvio alla love story buttando Giulia tra le braccia di Enzo che la salva dalle mazzate.

Oltre alla frenesia degli spostamenti il libro sembra caratterizzato dalla frenesia del fare e in questo contesto potrebbe essere interessante pensare a un’interpretazione del titolo  “L’opera degli ulivi”, parliamo dell’opera nel senso di melodramma o opera nel senso dell’operare, dell’agire?  I grandi boschi di ulivi della Calabria,  questa sorta di antica monocultura ereditata dalla civiltà greca, in che modo condizionano l’agire degli umani la cui vita ne dipende per necessità economiche e per attaccamento alla bellezza del luogo?  Che richiamo esercitano perfino nelle generazioni che stanno cercando di distaccarsene? Quali sono i saperi che essi racchiudono e le tragedie di cui sono testimoni?

 

 

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Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati. Su Fatti vivo di Chandra Livia Candiani https://www.carmillaonline.com/2017/09/29/guerrieri-indifesi-bisogno-mondo-sacra-ira-occhi-spalancati-fatti-vivo-chandra-livia-candiani/ Fri, 29 Sep 2017 06:39:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40888 di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra [...]]]> di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra Livia Candiani manifesta piena consapevolezza della propria poetica (“Il nudo / lo spoglio / ha splendore”) e rende esplicite urgenze implicite ne La bambina pugile (Einaudi 2014). Se nel primo libro appassionava la capacità di accoglienza della realtà, in questo nuovo si è scossi e coinvolti dalle implicazioni sociali ed etiche dell’accoglienza. È una accoglienza che non ha nulla di quietistico e che non arretra di fronte al dolore e al male del mondo: “Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto”. Perciò la poesia di Livia Candiani esprime un desiderio di “aspirare / il cielo” ma anche di “farsi terra e polvere”. Senza opporre barriere e difese: “Lasciati bruciare”.

Il libro segue “la sotterranea trama / che fa di una cronaca / storia” attraverso cui si diventa ciò che si è. Questo processo si realizza con un doppio movimento: dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno. Dalle cose all’io, dalla casa al mondo.

Il portone è “un cuore a orologeria

Nella prima sezione, Il sonno della casa, la bambina è dentro la casa ma è vista dall’esterno. Non è lei a parlare in prima persona, ma gli oggetti della casa, il soffitto, il portone, la maniglia, il muro, i vetri, il sofà a parlare di lei. È la antigrammaticalità della poesia, cioè la non corrispondenza tra il livello grammaticale e il livello del significato. Se a parlare è un frigorifero, una frase come “Accolgo quello / di cui non mi nutro” è corretta sul piano grammaticale, ma sul piano del significato è un assurdo. Queste antigrammaticalità sono inciampi preziosi. Esse rendono l’arte qualcosa di imprevedibile che suscita la nostra meraviglia. Al contempo ci dicono che su di esse bisogna soffermarsi, perché sono la spia attraverso cui cogliere la significanza della poesia.

Questi inciampi sono anche un bellissimo esempio del procedimento dello straniamento. Abitualmente “l’oggetto si trova davanti a noi” scrive Sklovskij, “noi lo sappiamo, ma non lo vediamo”. Lo straniamento consiste nella sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione, nel non chiamare l’oggetto o l’evento col proprio nome, ma nel descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta. Scopriamo così che il portone è “un cuore a orologeria”, il pavimento è “un bastimento carico”, il muro è “l’orizzonte verticale”, i libri sono “parole / che di notte sussurrano / da sole”, il sofà è una “astronave”. Così ciò che abitualmente passa inosservato, è reso percepibile con la sua trasformazione in qualcosa di insolito. È la maniglia a farci notare che “Dormono tutti ma lei (la bambina) / scavalca le ore come / camicie di forza e vaga / dritta e impetuosa”, mentre la lampada ha il compito di “Consolare di notte / il gelo della bambina”. E il sofà sa che la bambina ha “un dolore / pari a quello di un adulto / ma senza mondo”.

In queste immagini della bambina trasmesse dalla casa si concentrano meccanismi di metaforizzazione della realtà e personalizzazione dei suoi elementi, che diventano viventi e animati, e questo, oltre a essere un suggestivo espediente stilistico, corrisponde a un processo conoscitivo infantile che anziché allontanarci ci trasporta nell’intimità della bambina.

Dov’è mondo per elefante?

Il processo che si attua nel libro va dunque da una indifferenziazione tra interno ed esterno all’acquisizione della consapevolezza della propria identità. Ciò avviene tramite la rottura della soggezione al padre nella sezione Buio padre (“Io resto, padre, non ti seguo / non eseguo il tuo volere, io resto, padre”) e la conquista di una relazione con il mondo nella sezione Dov’è mondo?Sono buttata in tutto ferito / in questo solo questo mondo” dice la voce poetica. Da qui derivano la capacità e la volontà di cogliere i conflitti tra la propria interiorità e il mondo, e di cogliere i conflitti presenti nel mondo. Poiché “Dov’è mondo per elefante / per leone e rinoceronte / dov’è mondo / per tigre e orso bruno / per lince / per storione e delfino / dov’è mondo per aquila e farfalle / per anatre migratrici / dov’è cielo”. Ma, anche, dal mondo vengono tratte “istruzioni per farsi vivi”, poiché come dice Hölderlin “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”.

L’acquisizione di consapevolezza è contrassegnata sul piano linguistico dal progressivo cambiamento del pronome personale. Prima la bambina è una “lei”, per riferirsi a essa gli elementi della casa usano la terza persona. Con l’uscita dalla casa, con l’avventura nel fuori, a partire dalla sezione Dov’è mondo?, la bambina dice “io”: “ballo ballo nella luce tenue / naturale dove solo gli alberi / e ogni filo d’erba canta / che sono nata per diritto / sono nata per mondo”. In alcune poesie, soprattutto nelle due ultime sezioni Fatti vivo e Chi cade, e nella poesia che chiude la raccolta, la voce che ha la parola parla a se stessa dandosi del tu, come nell’emozione di una identità stabilita e di un dialogo tra sé e sé conquistato attraverso il mondo. E si fa maestra a se stessa: “Vai da sola. / Vai da sola nel mondo grande / abbi paura / portala con te / che ti tiene a terra / ti arma le spalle fa barriera”, “Chiedi l’arte di perdere”, “chiedi agli animali / come si azzarda un orientamento”, “Non smettere di guardare il cielo / ti assegna la precisa misura”, “Allora senti… / … lasciati bruciare…”.

Non c’è io / senza noi / non c’è me

Sentire i conflitti del mondo, e sentirli fortemente, è un passaggio fondamentale, poiché ogni conflitto nel mondo ci interpella, è anche un conflitto tra sé e il mondo. Il respiro, ciò che di più intimo abbiamo, “porta brandelli di mondo”. Viene in mente Rilke: “Non è permesso al creatore di estraniarsi da alcuna forma di esistenza”. L’opera d’arte è basata infatti su attenzione e rispetto per il mondo, per culminare nell’amore. Come dice Iris Murdoch, “Amore significa comprendere, ed è molto difficile, che qualcosa di altro da sé è reale. L’amore, e quindi l’arte e la morale, è la scoperta della realtà”. La grande arte spodesta l’io-monade della tradizione occidentale dal suo trono per fare posto al mondo e all’io stesso in quanto frammento di mondo. “Non c’è io / senza noi / non c’è me”. Non c’è io senza “chi cade”, non c’è io senza “Abu faccia sbriciolata”. Il libro si chiude con la capacità di vivere nello squilibrio tra sé e il mondo e interno al mondo, consapevoli che “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”.

Anche Fatti vivo, come La bambina pugile, è un libro da portare con sé, con l’auspicio che possa verificarsi per il lettore quello che nella prima sezione del libro dice Il portone: “quelli che entrano / non usciranno uguali”.

 

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Gli eBook di Carmilla: L’Era del Cazzaro, di Alessandra Daniele https://www.carmillaonline.com/2016/05/30/gli-ebook-carmilla-lera-del-cazzaro/ Mon, 30 May 2016 21:07:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30836 di Alessandra Daniele

cover1Dopo Fuga di Mauro Baldrati e Malevisione di Marilù Oliva, L’Era del Cazzaro è il terzo eBook gratuito della nostra collana carmilliana. Mentre sceglievo e impaginavo i corsivi per questo best of della mia rubrica Schegge Taglienti, mi sono resa conto che nel sub-universo nel quale ci troviamo il tempo non scorre in modo cronologico, ma alfabetico. Dopo l’era Andreotti abbiamo avuto l’era Berlusconi. Adesso tocca alla C di Cazzaro. Una metastasi dell’era precedente. Di Matteo Renzi non conta il nome, ma [...]]]> di Alessandra Daniele

cover1Dopo Fuga di Mauro Baldrati e Malevisione di Marilù Oliva, L’Era del Cazzaro è il terzo eBook gratuito della nostra collana carmilliana.
Mentre sceglievo e impaginavo i corsivi per questo best of della mia rubrica Schegge Taglienti, mi sono resa conto che nel sub-universo nel quale ci troviamo il tempo non scorre in modo cronologico, ma alfabetico.
Dopo l’era Andreotti abbiamo avuto l’era Berlusconi. Adesso tocca alla C di Cazzaro. Una metastasi dell’era precedente.
Di Matteo Renzi non conta il nome, ma solo la qualifica. Non perché Andreotti e Berlusconi non fossero cazzari, ma perché Renzi è soltanto un cazzaro.
Non è nient’altro.
Chi lo appoggia per opportunismo lo sa bene, chi lo sostiene per cieca disperazione, temendo un vuoto di potere in sua assenza, non si rende conto che Renzi stesso è il Vuoto al potere.
Il vuoto entropico che è lo Zeitgeist di quest’era, in tutto il mondo.
Un vuoto famelico che come un buco nero risucchia le nostre vite e le nostre storie nel nulla.
Finché non sapremo darci la spinta necessaria per uscire da quest’orbita.

Per scaricare l’ebook L’Era del Cazzaro: EPUB, MOBI, PDF

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Le Lettere Mai Arrivate di Mauricio Rosencof https://www.carmillaonline.com/2016/03/03/le-lettere-mai-arrivate-di-mauricio-rosencof/ Wed, 02 Mar 2016 23:00:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28814 front_rosencof_letteremaiarrivate[Estratto dal libro di Mauricio Rosencof, Le lettere mai arrivate, Nova Delphi, Roma, pp. 184, € 12 – Traduzione di Fabia Del Giudice, postfazione di Diego Símini] In cucina, le lettere le legge papà. Le lettere si leggono in cucina. Le legge sempre il mio papà perché la mam­ma non sa leggere. La mamma ascolta le lettere che legge papà e a volte scuote la testa. “E di mamma non dice niente?” La mia mamma dice che anche lei ha una mamma. León dice di sì, che lui l’ha conosciuta, e per questo [...]]]>
front_rosencof_letteremaiarrivate[Estratto dal libro di Mauricio Rosencof, Le lettere mai arrivate, Nova Delphi, Roma, pp. 184, € 12 – Traduzione di Fabia Del Giudice, postfazione di Diego Símini]
In cucina, le lettere le legge papà. Le lettere si leggono in cucina. Le legge sempre il mio papà perché la mam­ma non sa leggere. La mamma ascolta le lettere che legge papà e a volte scuote la testa. “E di mamma non dice niente?” La mia mamma dice che anche lei ha una mamma. León dice di sì, che lui l’ha conosciuta, e per questo lei domanda: “E di mamma non dice niente?” Stiamo arrivando, Isaac. Grazie a Dio. Riderai, ma pen­so al film che ho visto a Varsavia e mi domando se an­che per noi ci sarà una tazza di tè caldo.

Dalle fessure del vagone abbiamo visto un nome: Tre­blinka. Il treno riduce la velocità. È un sollievo sapere che stiamo arrivando, che tra pochi istanti apriranno le porte ed entrerà una boccata d’aria. Qui si respira un’aria spes­sa come un brodo, acre, acre di escrementi e corpi sudici. Da molti giorni – quanti? – viviamo nella penombra. Ire­ne mi dice che ha fame. Chi non ce l’ha? Sara non è con noi, nemmeno la mamma. Credo che siano state desti­nate a un altro treno. Spero che non ci separino. Il treno si ferma. I vagoni rimangono chiusi. Dalle fessure vedo pile di vestiti ammucchiati. È strano. E sarebbe strano se ti dicessi che quello che più desidero in questo istante – non ridere – è pisciare comodamente, il bacino in avanti, le braccia a giara con le mani appoggiate in vita. Conosci un modo migliore di pisciare, Isaac?

D’un tratto si aprono le porte con fragore, si sente gri­dare “fuori, fuori!”, e alcuni uomini con dei vestiti a strisce e fasce al braccio con la stella di David salgono e ci spingono, sussurrando, a voce molto bassa, parole incomprensibili:

“Nessuna giovane donna scenda con bambini in braccio”.

“Le donne incinte cerchino di nascondersi”.

E continuando a gridare:

“Fuori, fuori! Le valigie restano nei vagoni, lasciate tut­to sul treno!” E spingono e spingono e sussurrano:

“Che nessuno si faccia vedere malato”.

E: “Muoversi, muoversi, più in fretta!” e nessuno capi­sce niente. Non ho mai sentito nulla di simile.

In ogni caso, sulle valigie sono verniciati i nostri nomi. Ce le consegneranno.

Adesso le grida sono assordanti. Gli uomini delle SS pullulano sul marciapiede, accompagnati da feroci cani alsaziani. Le famiglie sono state separate, i genitori, gri­dando, cercano i propri figli, la luce, dopo tanti giorni, ci acceca, le madri reclamano i loro figli.

“Jaime, Jaime!”

“Ruth! Dov’è Ruth! Dove ti portano, Ruth?”

“Abraham, Abraham, vieni qui! Non senti? Sei sordo?”

“Jaime! Ti sto chiamando!”

E la guardia urla e nessuno sa in che situazione ci tro­viamo, ecco, danno l’ordine di svestirsi.

Treblinka, Isaac, è una stazione ferroviaria. Ci sono di­verse costruzioni in legno, una che sembra una cucina, laboratori. Si vede anche un ampio spiazzo dove vengo­no raccolti vestiti, scarpe, indumenti intimi, lenzuola, pennelli da barba e molte altre cose. Ci sono centinaia di uomini che li classificano e li suddividono.

Di fronte al marciapiede, le baracche. Una strada fian­cheggiata da piante e persino da qualche fiore, come il sentiero di un giardino, muore all’altezza di quella che sembrerebbe una fabbrica.

E nel frattempo, Isaac, io sono nudo, me la faccio ad­dosso per il freddo e non ho ancora pisciato.

Il mondo è qualcosa che non so molto bene cosa sia. Fito dice che ha un cugino a Buenos Aires che si chia­ma Pascualito, e che Buenos Aires ha una luce che sem­bra rossa. A volte noi la vediamo. Vediamo in cielo, da quella parte, la luce rossa che è Buenos Aires. Non è come una lampadina. No. È come una nuvola. La ve­diamo di notte. Buenos Aires è una nuvola rossa dove vive Pascualito. Mio fratello dice che quello che dicia­mo non è vero. Che quella nuvola viene da un palco di carnevale che, suppergiù, è a tre isolati più in là. Mio fratello dice che una sera di queste ci porta, me e Fito, a piedi, “per farci vedere”.

Buenos Aires è un palco di carnevale.

La mia mamma ha un mucchio di foto, grande così, in una scatola da scarpe. Le scatole servono per conservare le cose. Nelle scatole c’è di tutto. E la mia mamma, nella scatola da scarpe conserva le sue sorelle, la mamele, che è la mamma di lei, della mia mamma; e la mia mamma mi chiama e indicando con il dito dice: “Questa è Irene e questa è Anna, che ha due bambini” – ma nella foto non si vedono – “e che sono come voi”; e “perché non vengono?”; e la mia mamma, “e come fanno a venire?” Perché stanno in Polonia, che ha un colore che non so come sia. E la mia mamma, indicando col dito, dice: “E lei come si chiama?”; e io dico: “Irene”, e “Anna”, e “Rosa”, e a volte non lo so, perché sono tante.

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#RazzaMigrante, un progetto di narrazione collettiva sulle migrazioni contemporanee https://www.carmillaonline.com/2016/02/27/razzamigrante-un-progetto-di-narrazione-collettiva-sulle-migrazioni-contemporanee/ Sat, 27 Feb 2016 22:58:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28808 di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, [...]]]> di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, rifacevo i conti insieme alla giornalista e mi lasciavo prendere dal fascino malsano della quantità, che serviva a misurare il dramma. E associavo involontariamente queste addizioni ad altre recenti, pure sparse per il mondo, e che parlavano di virus. E accortomi del volo mi domandavo se quella malattia sarebbe stata debellata come le altre, o se invece sarebbe stata amministrata per un tempo tutto da definire. I conti giusti non erano quelli, naturalmente. Perché da quel mucchio di “non più” venivano volutamente espunti molti altri. I trentamila sacrificati nel mar Mediterraneo nei dieci anni precedenti, per esempio. Loro erano, lo sapevamo tutti, quelli che veramente ci davano la misura del dramma storico in corso. Morti tutti sul confine, come accadeva cento anni prima, nella logorante guerra che chiamammo prima e mondiale, combattuta in realtà su un paio di fronti.
Morti, durante la fuga che era la loro unica alternativa alla guerra e al terrore.

Dicembre del 2015. Era una fase di rialfabetizzazione politica, quella. E ci rendemmo conto che non eravamo mai usciti dalla Storia, né eravamo mai stati in pace. Si può morire tutti allo stesso modo, dissero, ma solo per alcuni suonano gli inni. Ci accorgemmo anche di questo.E del fatto che gli inni suonati continuavano a essere nazionali. Non c’era niente che parlasse di noi altri, al di là dei paesi singoli. Che parlasse delle plebi offese, dei disperati, o di quelli sul limite, di quelli che venivano dopo, della manodopera a perdere transnazionale, plurinazionale, internazionale, delle menti in fuga verso l’altrove. Ed era un gran peccato.

Suonò la Marsigliese per giorni e giorni perché Parigi era stata offesa e con lei il mondo. O una fetta grande di. Ma non tutto. Era difficile capire quello che stava accadendo con un nemico pubblico capace di terrorizzare, ma non di produrre conflitto. Quando ci chiesero di “stringerci a coorte” un brivido mi attraversò il corpo e la schiena, era una paura vecchia di normalità e sentimenti mediocri. Ma noi avevamo per fortuna già cominciato l’esodo dalle retoriche e non ci fu difficile fare un passo indietro, o di lato, sottrarci cioè al gioco dei conquistatori e portatori di civiltà. Ma per non essere da meno del nemico redigemmo anche noi una costituzione alla quale non abbiamo ancora messo il punto e selezionammo alcuni testi, per tenere a portata di mano i principi che ci fondavano. Uno di questi testi portava il titolo Le vie dei Canti e faceva riferimento alle strofe che si scioglievano sulle labbra di molte e molte persone. Esse avevano segnato la terra di parole e sapevano dove andare, recitando versi risalenti al tempo del sogno. Lo si poteva leggere in molti modi Le vie dei canti, ma non c’era possibilità alcuna di integralismo. Eravamo noi a dirla tutta, totalmente privi di integralismo. Non avevamo nessuna interezza da costruire e diffondere, nessuna assurda organicità, se non un’appartenenza al mondo per rispettare la quale era necessario muoversi. Col corpo, con il pensiero, con le parole. Erano questi i tre elementi che fondavano i discorsi che facevamo, pilastri da cui costruire le pratiche necessarie a vivere la vita.

Tra i versi dei canti che segnavano le vie, ce n’era uno che ripeteva: vidi sopra di me il cielo infinito, vidi sotto di me la valle dorata, questa terra è fatta per te e per me. E via, a tracciare percorsi affinché ogni corpo avesse il diritto di essere. Per meglio affinare la nostra arte prendemmo a prestito alcune abitudini degli uomini e delle donne che abitavano nel deserto. Per camminare e vivere in quegli immensi banchi di sabbia, sapevamo, era necessario uno spirito vasto e accogliente, impossibile da irrigidirsi in presunzioni di superiorità e in aride certezze. Il deserto era al contempo la minaccia che dovevamo tenere a mente, ma anche lo spunto da cui partire, perché il nostro cammino fosse prodigo di creazioni.

Immaginare, nel deserto, è un atteggiamento naturale, diciamo pure un istinto. Niente di ascetico dunque: camminare, immaginare, desiderare, creare. Partimmo così, ognuno dai luoghi in cui era cresciuto e senza destinazione certa, se non l’obbligo di incontrarsi prima o poi, da qualche parte e raccontarsi com’era andato il viaggio, scambiarsi appunti e ipotesi di percorso. Decidemmo in breve anche di rivendicare il nostro diritto all’autodeterminazione, essendo noi un popolo. Senza patrie, è vero, ma non per questo meno popolo di quelli che si erano chiusi in confini incerti, rigati sulle mappe con l’astuzia dei geometri, o arginati da fiumi e monti che li inchiodavano al suolo come arbusti.

Popolo eravamo, di una mescolanza che non saprei da dove cominciare a raccontare e un’imperfezione che quasi metteva paura a noi stessi. Quale dio poteva proteggerci? Nessuno. A nome di quale dio potevamo parlare? Di nessuno. Eravamo una moltiplicazione di minoranze, l’unica certezza era questa: minoranze. E volevamo il diritto all’autodeterminazione. Il nostro inno era un canto che si intonava portando il tempo camminando, lungo una marcia, la nostra, che mai sarebbe stata marziale ma inesorabile, questo sì. Era, il nostro inno, un canto blues, che faceva così…


Cos’è e come si partecipa a #RazzaMigrante

Maz Project è alla ricerca di narrazioni, collettive o individuali, che raccontino una condizione contemporanea e condivisa: la migrazione, intesa sia nella sua accezione letterale sia in quella metaforica. Migrazione come spostamento perpetuo da un paese all’altro per studio, lavoro, e necessità di sopravvivenza, ma anche come odissea del quotidiano, spostamento territoriale alla ricerca di approdi emotivi e materiali. Lo scopo del progetto è quello di tracciare il profilo di un soggetto nomade e inquieto, intrecciando racconti di corpi, luoghi, lotte ed equilibri precari generati dalle esperienze migratorie intra ed extra europee. Un soggetto in movimento, che si riconosce in un comune sentire, orchestra relazioni e produce conflitto. #RazzaMigrante sono gli studenti in fuga nell’europa dell’austerity, sono i lavoratori precari che combattono per un reddito, i profughi dalle guerre in cerca di dignità, le minoranze insorte al tempo di un sistema in crisi. Una razza accomunata non da patriottismi o nazionalismi, ma da percorsi di lotte condivisi, attraversate dalle stesse storie.

Le forme di narrazione: così come abbiamo fatto in questi mesi su Maz, siamo aperti a contributi narrativi sotto forma di racconto, fumetto, produzione audiovisiva (cortometraggi, videoclip, reportage) e multimediale, e in generale a tutti gli “oggetti narrativi non identificati” inerenti al tema proposto. Sfruttando al massimo le potenzialità delle nuove tecnologie, ci lanciamo con la prospettiva di dare vita a contenuti stimolanti, che non hanno la pretesa di essere etichettati in base alla loro forma narrativa.

Le opere e i testi: sebbene siano ammessi contributi individuali, vorremmo dare la precedenza ad opere e testi collettivi, agli incontri di più persone che vogliano sciogliere in un unico oggetto narrativo le loro idee. #RazzaMigrante è un invito alla condivisione di esperienze, alla moltiplicazione, allo scontro dei punti vista, alla sperimentazione.

Le misure: Per racconti, fumetti e testi in generale il limite massimo è di 10 cartelle/pagine (circa 1800 battute a pagina, interlinea 1,5, Garamond 12).
Per le produzioni audiovisive il limite è di 10 minuti.
(Per eventuali eccezioni ne possiamo comunque discutere).

Le scadenze: con una certa costanza, vi stimoleremo, provocheremo, inviteremo a prendere la penna da oggi fino al 31 maggio 2016.

La pubblicazione: tutti i contributi verranno raccolti in un “contenitore multimediale” che verrà edito e distribuito da Maz Project, in collaborazione con i partecipanti e sarà liberamente consultabile e scaricabile su www.mazproject.org.

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«Segnali di Fumo»: la nuova rubrica a fumetti di Carmilla https://www.carmillaonline.com/2016/02/11/segnali-di-fumo-la-nuova-rubrica-a-fumetti-di-carmilla/ Wed, 10 Feb 2016 23:10:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28563 Segnali di Fumodi Redazione

Partirà venerdì 19 febbraio, anniversario della nascita del calciatore brasiliano Sócrates e avrà cadenza bimensile. Si chiamerà «Segnali di fumo» e si proporrà di segnalare e recensire, con gli strumenti del fumetto, libri che riteniamo degni di attenzione.

Nicola Gobbi, autore dei fumetti In fondo alla speranza. Ipotesi su Alex Langer (Comma 22) e Come il colore della terra (Eris Edizioni) curerà i disegni, mentre le parole saranno affidate a Simone Scaffidi, redattore di Carmilla e curatore di una raccolta di racconti illustrati sull’evasione, di [...]]]> Segnali di Fumodi Redazione

Partirà venerdì 19 febbraio, anniversario della nascita del calciatore brasiliano Sócrates e avrà cadenza bimensile. Si chiamerà «Segnali di fumo» e si proporrà di segnalare e recensire, con gli strumenti del fumetto, libri che riteniamo degni di attenzione.

Nicola Gobbi, autore dei fumetti In fondo alla speranza. Ipotesi su Alex Langer (Comma 22) e Come il colore della terra (Eris Edizioni) curerà i disegni, mentre le parole saranno affidate a Simone Scaffidi, redattore di Carmilla e curatore di una raccolta di racconti illustrati sull’evasione, di prossima uscita per Eris Edizioni.

Le tavole e le sceneggiature saranno il risultato dello scontro tra lettere e immagini, significati e immaginari; fumi e nuvole di un conflitto in cui siamo vogliosi d’immergerci e ci guardiamo bene dal voler sanare.

L’esperimento forse è un po’ folle.
Quanti in questo Paese leggono recensioni?
Quanti leggono fumetti?
Quanti potranno mai leggere recensioni a fumetti di libri che non hanno ancora letto e forse mai leggeranno?
Chi lo sa, ma ci importa fino a un certo punto “quanti”, convinti che l’ibridazione dei generi e delle forme attraverso cui raccontare storie possa far emergere significati non quantificabili.

Abbiamo appena acceso il fuoco, presto manderemo i primi «segnali di fumo».
Restate di vedetta.

[Per info e contatti: segnalidifumo@inventati.org]

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L’Arca della Fattanza (Epilogo) https://www.carmillaonline.com/2016/01/17/larca-della-fattanza-epilogo/ Sat, 16 Jan 2016 23:00:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27839 di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste [...]]]> di Jago Malteni (copertina di l’éparvier)

Coperta(1)SGOMINATA BANDA DI PERICOLOSI CRIMINALI!

La scritta, a caratteri cubitali, stavolta non campeggia su un muro, ma sopra un cartello posto dinanzi al chiosco d’un edicolante. Giobi, uscito stamane solo per godersi gli ultimi avanzi d’estate, la legge diffidente: il solito sensazionalismo di facciata dei quotidiani locali, versione silente degli strilloni che le testate di un tempo sguinzagliavano per le strade, dopo aver mandato in stampa le edizioni straordinarie.

No, con lui non funziona. Ci vuole ben altro per farlo abboccare!

E però non resiste alla curiosità e ne piglia una copia. La prima pagina non parla d’altro. L’occhiello recita: Colti in flagrante mentre spacciavano droga nei sotterranei della città.

L’articolo di fondo non è da meno…

Tempestiva ed efficace l’azione della polizia, che durante la mattinata di ieri ha snidato e tratto in arresto quattro componenti di una pericolosa banda criminale (oltre che un loro assiduo cliente), da tempo dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti. I banditi conducevano il traffico illecito nei canali sotterranei della città di Bologna, dove avvenivano gran parte dei rifornimenti e degli scambi di droga. Proprio nei sotterranei ha preso avvio l’inseguimento, che si è poi concluso sui tetti del quartiere ebraico, dove, in un appartamento in via dell’Inferno, è stato stanato il quartier generale della cosca. «Abbiamo colto i malviventi in flagranza di reato, – ha dichiarato il Commissario, – mentre il traffico di stupefacenti era giustappunto in corso. Il tallonamento è stato a dir poco spettacolare, degno di un action-movie hollywoodiano, ed ha avuto buon esito solo grazie alla tenacia e alla prontezza dei nostri ragazzi». (segue a p. 2)

Ma tu senti di che va cianciando quell’esaltato di un commissario! “Flagranza di reato, traffico di stupefacenti in corso… Tallonamento spettacolare, degno di un action-movie…” Che megalomane! E poi chi sarebbe ‘sto “assiduo cliente”? Stupidaggini, frottole inventate per incastrare i presunti colpevoli, cazzate bell’e buone, e tanto strepitose da risultare persino credibili!

Già se lo vede il caposbirro, tutto impettito, con l’aria tronfia del salvatore della patria, che strizza l’occhietto al cronista di turno e gli fa così col gomito, mentre gli dice: “questa scrivila, eh, mi raccomando”. Roba da Bollywood, altro che Hollywood! Roba che al massimo potrebbe finire in un “b-moovie da spazzatura”, per citare, con tanto di refuso, una scritta che gli è cara.

Lesto, Giobi apre il giornale a pagina due. È in leggero ritardo, ma Luca può aspettare. Intanto, per non perdere tempo, riprende a passeggiare, la visuale coperta dall’inchiostro ancora fresco della carta stampata…

L’azione è partita grazie alla segnalazione di un anziano signore che alle prime luci dell’alba, dalla sua finestra in via de’ Musei, ha scorto tre persone in strada nell’atto di forzare un accesso ai seminterrati del Museo del Risorgimento. L’uomo, però, ben lucido nonostante la veneranda età di 84 anni, non ha potuto fornire alla polizia l’identikit dei delinquenti, poiché, come egli stesso ha tenuto a precisare, «i tre avevano il viso coperto da maschere, di quelle che indossano i sovversivi durante le manifestazioni». Alcune di queste maschere, in effetti, sono state ritrovate sul luogo della retata: due erano nel covo dei malviventi, un’altra galleggiava sulle acque del fiume sotterraneo e una quarta stava a terra, a pochi passi dal portone d’entrata del palazzo. C’è dunque ragione di pensare che costoro, oltre che spacciatori senza scrupoli, fossero altresì dei pericolosi antagonisti. È assai probabile, in tal caso, che essi abbiano partecipato ai recenti scontri tra studenti e forze dell’ordine in Piazza Verdi, dove gli agenti sono stati vittime del lancio prolungato di oggetti contundenti. Questo, però, potrà essere acclarato solamente nel prosieguo delle indagini.

– Ehi tu, imbecille, sta’ attento a dove metti i piedi!

Giobi inciampa su un rialzo del lastrico e quasi va a finire addosso a uno. Ma l’attimo dopo è di nuovo con gli occhi incollati all’articolo.

Che storia è mai questa? Certo che in questa città ogni occasione è buona per gettare fango sui movimenti studenteschi e sui centri sociali. Ai giornalisti dovrebbero metterli a scrivere sceneggiature, non resoconti di cronaca. Nelle redazioni sono sprecati, braccia rubate alla MinCulPop-Fiction!

Confermata è invece l’identità dei fuorilegge: Z. W. B., 31 anni, di nazionalità camerunense, percussionista di una ben nota band di strada, immigrato da qualche mese e in possesso di regolare permesso di soggiorno; U. Y. G., moldavo 37enne, l’unico ad avere già precedenti penali nel suo paese d’origine; L. X., 27 anni, cinese, laureata  presso la sede bolognese della Johns Hopkins e banconista in un famoso locale del centro; e infine V. E., di anni 52, al momento ricoverato al Sant’Orsola perché colto da un malore mentre cercava di scappare a nuoto attraverso le acque del canale sotterraneo.

L’unico di cui non si dice la provenienza è lui, il capoccia, che guarda caso è un bolognese purosangue. Stampa locale di merda! Ben gli sta, comunque, se l’hanno pescato moribondo dal fiume!

Di tutti gli altri, invece, vita morte e miracoli: del bestione esteuropeo che ha la fedina penale sporca; del tizio centrafricano che fa il bonghettaro a piazza Verdi (e dove sennò?); della cinesina (dev’essere lei la tipa che gli ha fregato l’accendino…) che fa la barista interinale con in tasca una laurea alla Johns Hopkins (di nuovo ‘st’università americana di mezzo: ennesima e mai ultima coincidenza?)…

Curioso, poi, che i tirapiedi fossero tutti di nazionalità diversa. Gli tornano alla mente le parole del prof. a lezione, tra le poche che s’era segnate sul quaderno: La creazione di divisioni su base nazionale tra i lavoratori sembra costituire una necessità strutturale per la classe imprenditrice… (Non che sia la stessa cosa, però ci può stare…)

È momentaneamente in stato di fermo anche un cliente della banda, D. T., studente universitario pugliese, anch’egli recuperato dalle acque del fiume in stato confusionale. Malgrado costui si ostini nel dichiarare la propria estraneità ai fatti, non è ancora stato in grado di fornire agli inquirenti un alibi che giustificasse altrimenti la sua presenza nei sotterranei al momento della retata.

Cazzo, alla fine pure Mimmo è stato accalappiato! Rachid no, quelli della redazione lo avrebbero sottolineato a dovere, e pure con dovizia di particolari: un palestinese immigrato e senza fissa dimora che si trova coinvolto in una storia simile sarebbe pane per i loro denti marci!

Non resta che incrociare le dita e sperare che Mimmo venga rilasciato al più presto, prima almeno che faccia nomi. Ma quello squinternato di un pugliese non è un infame, sa il fatto suo e saprà tenere la bocca chiusa. Giobi è disposto a scommetterci.

Nessun grosso quantitativo di droga è stato ancora rinvenuto nell’appartamento, tuttora sotto sequestro, in cui i malviventi coordinavano le attività illegali. Gli agenti però assicurano che stanno facendo il possibile per scovarne il deposito.

Dunque la cassaforte è ancora lì, intonsa e stracolma di roba. È probabile a ‘sto punto che gli sbirri, presi dalla foga del tallonaggio, ci siano passati davanti senza manco rendersene conto. Sai altrimenti quanto avrebbe goduto il caporedattore nel rivelare in esclusiva quanti quintali di droga fossero andati in sequestro?

L’abitazione al centro delle indagini è di proprietà di una facoltosa signora bolognese, la quale ha espressamente manifestato la propria volontà di rimanere nell’anonimato. Costei ha ammesso di aver affittato l’immobile con regolare contratto al più anziano dei componenti della banda, ma ha altresì affermato di non essere minimamente al corrente di quanto avveniva tra quelle mura. La signora si è dichiarata, anzi, parte lesa, e per il tramite del suo avvocato sta facendo pressioni affinché l’appartamento venga sollecitamente dissequestrato. «L’istanza – fa sapere il Questore – verrà certamente accolta e l’appartamento tornerà presto a disposizione della legittima proprietaria, la cui innocenza è stata appurata al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Ma il dissequestro dell’immobile avverrà solo dopo che la polizia vi avrà effettuato, come da regolare procedura, i dovuti controlli».

Interessante: un appartamento che presto resterà sfitto e una cassaforte piena di roba negli scantinati dello stesso palazzo…

Thom Yorke ha ragione, cazzo: due più due fa sempre cinque!

Il signor questore ha concluso il suo intervento congratulandosi con gli agenti che hanno condotto l’arresto ed encomiando le forze dell’ordine per l’indispensabile servizio che svolgono quotidianamente per contrastare l’increscioso, e negli ultimi tempi purtroppo crescente, degrado cittadino.

Giobi ripiega il giornale e si sfrega le mani imbrattate d’inchiostro, mentre sale le scalette del giardino del Guasto dove Luca, seduto su una panca, lo sta aspettando da un pezzo.

Gli racconterà delle pieghe inattese che hanno preso gli eventi, gli farà leggere l’articolo e poi gli dirà come stanno veramente le cose. E alla fine pondererà di certo quello che sta ponderando lui. Anche gli altri saranno d’accordo. Rachid compreso, naturalmente.

Un sorriso gli spunta a fil di labbra.

Non può sapere, né saprà mai, che dietro alcune frasche, a margine del murale battezzato qualche notte addietro come arca della fattanza, una scintilla balugina al suo passaggio, fugace e impercettibile, nelle pupille di un coniglio nero.

 

Titoli di coda.

Di tutti i graffiti che compaiono nella storia sono frutto di fantasia solo la citazione “dantesca” nei sotterranei, quella “tibetana” nei bagni del 36, il coniglio al 10 di via dell’Inferno e quello a cui si fa cenno in chiusura. Gli altri roditori, invece, non soltanto sono reali, ma pare che stiano persino sopravvivendo al repulisti generale. La speranza è che nessuno si accorga mai di loro.

Reale è anche la scritta “io ti vede”, di cui il protagonista ha ricordo approssimativo alla fine dell’ottava puntata: è al 32 di via Zamboni, nel bagno dei maschietti al pianterreno.

Le descrizioni degli ambienti sotterranei e dei passaggi per accedervi sono liberamente ispirate al romanzo I sotterranei di Bologna di Loriano Macchiavelli. Nel testo, poi, sono disseminate diverse citazioni, a volte nascoste altre volte meno, tratte da opere di Andrea Pazienza.

Il film a cui si accenna nella quarta puntata, in riferimento alla tentata rapina alla Cassa di Risparmio nel ‘77, è Lavorare con lentezza, film del 2004 con regia di Guido Chiesa e sceneggiatura di Wu Ming.

Il protagonista e gli amici del suo giro sono personaggi di finzione, costruiti però enfatizzando i caratteri di persone in carne e ossa, di cui, si può dire, essi sono caricature.

Per il resto, eventuali riferimenti a persone o fatti reali sono da considerarsi casuali.

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Haiti e l’industria della fame https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/haiti-e-lindustria-della-fame/ Mon, 11 Jan 2016 23:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27560 di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie di Haiti, 5 anni dopo il terremoto”. Il numero attuale di NRL è dedicato a “nazionalismi, populismi di destra e razzismi”. Lo trovi qui e puoi leggerne una recensione su Carmilla qui. Sulle nuove e vecchie schiavitù e la migrazione dei lavoratori haitiani nelle coltivazioni di canna da zucchero della vicina Repubblica Dominicana segnalo l’uscita del bel libro di Raùl Zecca Castel Come schiavi in libertà, Ed. Arcoiris, Salerno, 2015]

Aggiornamento introduttivo (12/01/2015). Gli effetti del devastante terremoto del 12 gennaio 2010 ad Haiti furono e sono tuttora amplificati da una lunga lista di fattori storici, politici, economici e sociali. Sei anni dopo il sisma, che fece circa 250mila morti, il paese più povero delle Americhe vive una profonda crisi politica e non è avventato ricorrere alla definizione di “Stato fallito” per parlare del suo sistema di governo e istituzionale. Il quadro è fosco: le elezioni parlamentari, che erano state rimandate per ben tre anni, si sono svolte (primo turno) il 9 agosto in un clima da guerra civile; pacifico, invece, lo svolgimento del secondo turno delle parlamentari e il primo delle presidenziali, il 25 ottobre, anche se da settimane i partiti sconfitti protestano nelle strade denunciando brogli per cui il Consiglio Elettorale ha dovuto posticipare il ballottaggio per l’elezione del presidente dal 27 dicembre al 17 gennaio; l’epidemia di colera, scoppiata a fine 2010, ha fatto 9.000 vittime fino ad ora e nel 2014 era praticamente sotto controllo, mentre nel 2015 c’è stata una nuova impennata dei contagi; il parlamento è rimasto praticamente inoperante e l’esecutivo ha governato via decreto nell’ultimo anno; continua la crisi diplomatica e umanitaria con la Repubblica Dominicana, che sta espellendo in massa haitiani dal suo territorio in base a risoluzioni giudiziarie dal tenore palesemente razzista; le proteste e le manifestazioni post-elettorali denunciano anche cooptazioni massicce del voto e la strategia governativa in favore del suo “candidato ufficiale” (Jovenel Moïse, delfino del presidente Michel Martelly, del partito PHTK, Parti Haïtien Tet Kale); il rinvio del voto al 17 gennaio è anche conseguenza di questa situazione e si sfideranno il governativo Jovenel Moïse e il rappresentante d’una opposizione moderata, Jude Celéstine; anche il nuovo parlamento s’insedierà dunque in ritardo, in attesa dei risultati elettorali].

Haiti e l’industria della fame. Flashback (inizio 2010)

Claire indossa una camicia bianca elegante, i jeans puliti e le scarpe da tennis nuove, adatte alle lunghe camminate. E’ uscita di fretta, il passo deciso. Brilla in mezzo alle macerie. Trotta in salita evitando immensi cumuli di mattoni, tombini scoperchiati e pali della luce divelti in mezzo al marciapiede. Stanca di questa gincana senza scopo, si siede sullo spigolo di un macigno che invade la carreggiata rallentando il traffico. Lungo la Rue Delmas si boccheggia, il sole sembra rimanere fisso allo zenit per tutta la giornata, portando l’asticella del termometro sopra i 30 gradi. Lo smog tipico di una caotica metropoli caraibica si mischia alla polvere della distruzione, al vagare disperato di moltitudini alla ricerca di un motivo per spiegare la tragedia e di un pezzo di pane per palliare i morsi della fame.

Sono passate tre settimane dal terremoto, una tremenda scossa che in 39 secondi ha fatto 250mila vittime nella capitale di Haiti, Port-au-Prince (colloquialmente, PAP). Il 12 gennaio, giorno della catastrofe, Claire era fuori di casa e s’è salvata. A suo cugino, sua zia, a molti amici del quartiere e a tantissime altre persone non è toccata la stessa fortuna. Lei ha ancora una casa e una madre. Un milione e mezzo di suoi concittadini invece dormono nei giardini pubblici, sui marciapiedi o nei campi di accoglienza allestiti alla buona in oltre mille siti d’emergenza sparsi per la città.

Claire, però, ha fame. Sua madre non si fa vedere da un paio di giorni. Qualsiasi bene di prima necessità è diventato un lusso inaccessibile. Solo chi vive nelle tendopoli può accedere a qualche razione di riso e fagioli. Gli altri devono arrangiarsi, ingegnarsi, cercare lavoretti giornalieri o chiedere la carità. Sì, ma a chi? La ragazza osserva i passanti da dietro lo scoglio su cui s’è accovacciata, che in realtà è ciò che rimane del secondo piano di un piccolo albergo. Claire è in attesa d’incrociare qualche blanc, qualche straniero a cui parlare e chiedere aiuto. Siamo in due, in esplorazione nel mezzo delle macerie e della confusione, a pochi giorni dall’arrivo sull’isola. Due sconosciuti di nome Diego e Fabrizio che Claire avvista e segue. Trenta, quaranta, cinquanta passi accelerati dietro di noi, e poi effettua il sorpasso. Gentile, domanda se abbiamo da mangiare. Semplicemente, con lo sguardo abbassato e il tono risoluto. Le offriamo dell’acqua e la invitiamo ad accompagnarci.

La chimera della ricostruzione

Subito dopo il terremoto partì un’ipocrita e sfrenata gara per la solidarietà. Chi offre di più? ONU, governi, impresari, cittadini, siti web, associazioni e ONG riversarono una massa di promesse e buone intenzioni monetizzabili in circa 11 miliardi di dollari. Di questi, a oltre un anno dal sisma, solo il 5% era stato stanziato e “messo a budget”, cioè destinato a opere di ricostruzione. La vera gara, allora, diventò quella per gli appalti, la cui gestione fu affidata all’ex presidente USA Bill Clinton, a capo della CIRH (Commissione Interina per la Ricostruzione di Haiti) insieme al Primo Ministro haitiano. Questa carica, tra l’altro, rimase per più di un anno scoperta per via dell’impasse politica in cui si trovò il presidente-cantante Michel Martelly dopo il suo insediamento nel 2011. E’ allora facile immaginare chi fosse a prendere realmente le decisioni sul destino delle donazioni.

Haiti cite-soleilNei primi due anni di “ricostruzione” la situazione è rimasta stabile, stagnante, identica a quella che imperava nel febbraio 2010, il mese in cui sono stato a PAP. In quel periodo il presidente René Préval dovette consegnare il paese “chiavi in mano” a un consorzio di banche e governi che avrebbero deciso come (e se) ricostruirlo. Oggi l’80% delle macerie è stato rimosso, ma gli sforzi per la ricostruzione sembrano essersi orientati più all’edificazione di hotel di lusso, impianti d’assemblaggio e fabbriche di indumenti, in beneficio di compagnie e investitori in prevalenza stranieri, che ai bisogni della gente. Tra il 2010 e fine 2012 i fondi stanziati dalla comunità internazionale per Haiti hanno raggiunto la cifra di 6,43 miliardi di dollari, ma solo il 9% di questi è passato in qualche modo dal governo locale. L’ammontare dei contratti concessi dall’agenzia americana UsAid è stato di 485,5 milioni di dollari di cui solo l’1,2% è andato a imprese haitiane.

Nel 2012, quando ancora mezzo milione di persone abitava nelle tendopoli, il “fondo umanitario” per Haiti degli ex presidenti USA Bill Clinton e George Bush (figlio) investì 2 milioni di dollari nell’hotel a cinque stelle Royal Oasis, un’enclave nel mezzo di un’area urbana devastata. Un anno dopo, con 300mila sfollati ancora nelle tende, l’International Financial Corporation (IFC), parte del gruppo della Banca Mondiale, decise di finanziare la costruzione di un nuovo hotel Marriott che avrebbe generato “ben” 200 posti di lavoro dal 2015 e 300 durante la costruzione. L’albergo farà compagnia ad altre strutture dell’americana Best Western e della spagnola Occidental Hotels & Resorts, anch’esse risorte per il benessere turistico dell’isola, anche grazie ai fondi della solidarietà internazionale e a benefici fiscali inusitati di cui godono durante i primi quindici anni di attività. I meccanismi della cooperazione e una bella fetta delle donazioni fungono da ingranaggi e lubrificanti per l’apertura di nuovi mercati, attraenti per le multinazionali americane, giapponesi, latinoamericane ed europee, e per un manipolo di compagnie nazionali in mano alla ristretta élite locale.

haiti pirates“Haiti ha le condizioni fondamentali per una crescita economica sostenuta, incluse una forza lavoro competitiva, la prossimità a grandi mercati e attrazioni turistiche e culturali uniche”, sosteneva Ary Naim, rappresentante di IFC ad Haiti. Probabilmente si riferiva alla schiavizzazione dei lavoratori nelle mine e nelle “fabbriche miserabili”, note in inglese come sweatshops, impiantate dagli investitori statunitensi e poco rispettose del già infimo salario minimo nazionale, fissato a 4 dollari e mezzo. Si tratta, dunque, di una forza lavoro altamente “competitiva”, cioè sfruttata e a basso costo, ma comunque produttiva nonostante la fame, il colera e la precarietà salariale e abitativa imperante nel paese.

Nel 2014, con circa 140mila persone sparse in 243 tendopoli, non s’investe più solo nei progetti alberghieri, ma si punta sull’espropriazione e privatizzazione delle coste e delle isole haitiane, come nel caso della Île à Vache, un piccolo paradiso che  è diventato territorio di conquista per investitori americani, dominicani e di altri paesi. Il Collettivo dei Contadini di Île-à-Vache (KOPI), costituito nel dicembre 2013, lotta per difendere gli abitanti dell’isola dalla migrazione forzata, dall’espulsione dalle proprie terre e dalla crisi alimentare e ambientale che i nuovi megaprogetti turistici stanno provocando: disboscamento, riduzione delle coltivazioni e 20mila persone cacciate via dalle brigate motorizzate della polizia, a cambio di 2000 posti di lavoro promessi dal settore alberghiero e 1500 residence che occuperanno la costa. Il Collettivo non osteggia il turismo in quanto tale, combatte gli effetti nefasti di progetti calati dall’alto e dall’estero, in spregio delle comunità locali, costrette a migrare ingrossando le file dei disoccupati o dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche che popolano i quartieri slum delle grandi città.

Flashback (continua)

Haiti tourism-development-projects-haitis-caribbean-coast-2-638Claire si guarda intorno curiosa. Avrà diciott’anni. Ci troviamo a soli tre isolati dalla sede dell’AUMOHD, l’associazione di avvocati per la difesa dei diritti umani che ci ospita. Il suo presidente, Evel Fanfan, usa la casona dell’organizzazione come ufficio, magazzino di viveri e medicine, dormitorio improvvisato, “centro servizi” per gli abitanti del quartiere, e infine come mensa e rifugio d’emergenza per alcuni terremotati e per i cooperanti o i giornalisti in visita. E’ il nostro caso. Claire ha accettato con piacere il nostro invito a pranzo. A sprazzi, in un francese didattico e ben scandito, necessario a farci capire, ci racconta un po’ della sua vita e del giorno del terremoto, le douce janvier, che ha cambiato l’esistenza di tutti e il corso della storia haitiana. Di fronte a noi, adesso, ci sono un muro di cinta bianco e una porta con un cartello in creolo. L’AUMOHD s’è trasformato in un piccolo centro d’accoglienza. Gli operai di un sindacato indipendente usano la sede dell’associazione per fare le loro riunioni e ricostruire vincoli, contare i danni e rimboccarsi le maniche. Le donne e gli uomini incaricati delle pulizie lavorano di mattina e aspettano l’ora di pranzo prima di andarsene.

Instancabile, Evel è sempre indaffarato. Il suo cellulare squilla ogni 5 minuti. Risponde in inglese, in creolo o in francese. Cerca fondi, ascolta racconti, appunta piani d’azione su una lavagnetta, visita tendopoli e ambasciate, cliniche e prigioni. A volte sembra agire d’istinto, in preda a una strana frenesia. Sta provando a rintracciare gli altri avvocati del gruppo per riprendere le attività, ma la situazione è troppo grave, i palazzi ministeriali e i tribunali sono crollati, tutti i lavori sono fermi. Per un po’ non ci sarà tempo per seguire processi, urge sopravvivere, procurare il cibo, comprare la benzina per il generatore, l’acqua e le medicine.

haiti sweat shopsDopo il sisma, l’acqua è diventata un bene di lusso. Per acquistare una bottiglia o una bustina di plastica, da bucare con gli incisivi e succhiare fino all’ultima goccia, ci vogliono 2-3 dollari. Haiti ha sete e trova l’acqua potabile solo nei campi d’accoglienza, allestiti in ogni quartiere cittadino e per la strada, o in vendita sulle bancarelle degli ambulanti. Il supermercato, sebbene abbia riaperto poco dopo il terremoto, è privo della metà dei prodotti e carissimo, inaccessibile agli haitiani. Se prima del 12 gennaio i tre quarti della popolazione vivevano sotto la soglia della povertà, la situazione s’è drasticamente aggravata dopo la scossa tellurica che ha raso al suolo quasi tutta la capitale e il suo hinterland.

La cacciata del presidente, i caschi blu e il colera

Nel 2004, quando Haiti stava per festeggiare 200 anni d’indipendenza, l’ex prete Jean-Bertrand Aristide, primo presidente eletto in democrazia nel 1990 e costretto all’esilio da un golpe tra il 1991 e il 1994, fu deposto nuovamente da un colpo di stato e inviato fuori dal paese, anzi, fuori dall’emisfero occidentale. I militari USA lo deportarono nella Repubblica Centroafricana, dove rimase per più di sette anni, prima di tornare in patria nel marzo 2011. Oggi Aristide deve difendersi da vari capi d’accusa: traffico di droga, sottrazione di beni pubblici, espropriazioni illegali, concussione e riciclaggio. Due mesi prima era rientrato anche l’ex dittatore (1971-1986) Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier, figlio di un altro tiranno, François “Papa Doc” Duvalier (al potere dal 1957 al 1971). Pasciuto e ora disposto a “aiutare il suo popolo”, dopo un quarto di secolo di esilio dorato in Francia grazie ai soldi di famiglia, cioè del popolo haitiano, Baby Doc è stato messo sotto processo per crimini contro l’umanità e corruzione, ma ad Haiti i processi andavano al rallentatore e i gruppi organizzati di vittime della dittatura hanno presentato il caso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Ma purtroppo nemmeno in quella sede otterranno giustizia. Infatti, il 3 ottobre 2014 Duvalier è morto d’infarto. Ha potuto passare serenamente gli ultimi momenti della sua vita nel suo paese, nel lussuoso quartiere della capitale in cui risiedeva, e rimanere impune.

Haiti flagAristide, da presidente, aveva osato troppo: tentativi d’aumento del salario minimo, soppressione dell’esercito, protezione sociale per i più deboli, rivendicazione del debito storico pagato da Haiti alla Francia e un piano per recuperare il controllo di alcune risorse strategiche suscitarono i timori americani e internazionali di dover fronteggiare un “Hugo Chávez caraibico”. Gli USA, tramite la CIA e l’IRI (International Republican Institute), fomentarono gruppi ribelli e paramilitari per destabilizzare il suo esecutivo e tra il 2004 e il 2006 sostennero il governo autoritario di Alexandre Boniface e del Primo Ministro Gérard Latortue. Fu un periodo d’eccezionale violenza politica, con scontri tra i “ribelli” e la polizia, da una parte, e le bande armate pro-Aristide, le note chimères, ma anche gruppi di comuni cittadini, dall’altra. In pochi mesi si contarono quattromila omicidi politici e l’incarceramento di decine di leader sociali e oppositori.

Nel frattempo la Missione ONU ad Haiti, la MINUSTAH, si stava occupando di “ripulire” con la violenza i quartieri marginali della capitale, in particolare Citè Soleil, dove con la scusa di combattere la criminalità, nel luglio 2005, le “forze di pace” fecero decine di vittime sparando sulle case della povera gente, proprio in uno dei bastioni elettorali del partito del presidente in esilio (il Fanmi Lavalas). Da un decennio l’avvocato Evel Fanfan difende alcune vittime delle stragi di Citè Soleil e di altri brutali episodi del terrorismo di stato. Perciò è stato minacciato di morte, vive con la scorta, formata solo da un poliziotto che fa atto di presenza, e qualche mese fa, dopo nuove minacce e un attentato cui è riuscito a sfuggire per puro caso, ha deciso di mettere al sicuro sua moglie e i suoi due figli negli Stati Uniti.

WikiLeaks ha rivelato che nel 2008, durante il mandato dell’ex delfino di Aristide, Préval, l’ambasciatrice americana a Porto Principe, Janet Sanderson, parlò addirittura di una minaccia emisferica costituita dal risorgere di “forze politiche populiste e anti-mercato”, e poi chiarì che “l’impegno latinoamericano coordinato regionalmente ad Haiti non era possibile senza l’ombrello delle Nazioni Unite che aiuta gli altri principali donatori, con in testa il Canada, gli USA, la Francia, la Spagna, il Giappone e altri, a giustificare internamente la loro azione d’assistenza bilaterale”. In soldoni l’ONU e la MINUSTAH, che è comandata dal Brasile e svolge funzioni di polizia e militari, aiutavano e aiutano i paesi coinvolti a spiegare alle loro rispettive opinioni pubbliche perché investono in imprese e missioni neocoloniali sotto l’egida statunitense. Proprio i caschi blu, in particolare il contingente nepalese, sono responsabili di aver portato sull’isola il virus del colera che ha fatto 9mila vittime e quasi 750mila contagi dall’ottobre 2010. Ci sono voluti 813 giorni dallo scoppio dell’epidemia perché l’ONU presentasse delle scuse.

Flashback (fine)

haiti graph Breakdown of HUMANITARIAN fundingIl pranzo all’AUMOHD è un rituale. A turno uno degli ospiti o qualcuno dello staff, formato da conoscenti di Evel che lui prova ad aiutare con piccoli lavori, un tetto e un paio di pasti al giorno, s’occupa di preparare un pentolone di riso coi piselli o coi fagioli, oppure una copiosa razione di pasta, condita con improvvisate salse di pomodoro e pesce maciullato. Noi, oltre a svariati pacchi di spaghetti, abbiamo portato tre chili di cuscus che rende tantissimo. Spugnoso e assorbente, si gonfia d’acqua, imbiondisce e cresce a dismisura per sfamare tutti e tutte. Arricchiamo il piatto con zucchine, cipolle e carote soffritte per offrire un pasto completo. Qui lo chiamano “Piti Mi”, il “piccolo me”, anche se abbiamo scoperto che quel termine significa miglio o sorgo e non cuscus. Essendo un alimento mediterraneo, risulta quasi sconosciuto a queste latitudini e viene assimilato al locale Piti Mi. E’ una parola molto musicale che i commensali non si stancano mai di ripetere, ridendo fragorosamente e chiudendo il verso con la rima “Piti-Mi-Haitì”, “il-cus-cus-Haitì”, un vero rap culinario. Claire ne mangia due porzioni, ride di gusto, ringrazia e ci saluta: “Au revoir”, ma non l’abbiamo più rivista.

Ogni mattina e dopo pranzo, io e Diego siamo gli incaricati ufficiali della preparazione del caffè espresso. Abbiamo con noi un’impeccabile moka da quattro, quindi dobbiamo fare almeno quattro caffettiere una dopo l’altra per poter accontentare tutti. Per gustare meglio la bevanda, abbiamo riciclato una decina di vasetti di vetro degli omogeneizzati come tazzine. Li abbiamo comprati al supermercato per avere a disposizione delle “merendine extra” o dei rinforzini per la cena, ma poi, una volta consumate le saporite pappette per bebè, abbiamo preso a riutilizzare i contenitori per berci il caffè. Abbiamo scoperto, però, che i nostri compagni haitiani non li lavavano insieme alle altre stoviglie, ma li buttavano e preferivano usare al loro posto dei grossi bicchieri di plastica che, a loro volta, finivano nella spazzatura. Ci abbiamo comunque riprovato. Abbiamo acquistato un nuovo set di tazzine-vasetti e, dopo aver rimosso l’etichetta degli omogeneizzati, siamo riusciti a fargli ottenere un posto d’onore nell’apposito scaffale insieme agli altri veri bicchieri di vetro.

Haiti, le ONG e l’emergenza permanente

Haiti nike-sweatshopsNell’aprile 2014 il World Food Program ha lanciato un allarme sull’insicurezza alimentare nel Nordovest di Haiti, ma, anziché fungere da denuncia delle cause reali del problema o da invito per il governo e la comunità internazionale a stimolare la produzione locale, il monito è servito da scusa per chiamare a maggiori sforzi nelle donazioni e nell’invasione di prodotti alimentari dall’estero. Negli ultimi due anni il prezzo di fagioli, riso e altri alimenti è cresciuto del 40% e si sono moltiplicate le proteste popolari, soprattutto nel Nord, nel distretto di Cap-Haïtien. For Haiti With Love, organizzazione cristiana “non profit”, ne ha approfittato per chiedere ai suoi sostenitori maggiori sforzi: “Dobbiamo pregare veramente affinché più gente s’interessi ad Haiti e più gente aiuti a condividere il fardello degli aiuti laggiù, ma l’aiuto finanziario diretto è quello di cui abbiamo realmente bisogno proprio ora”. E così, tappando qualche buco con cibi importati e orazioni, la protesta sociale viene ammansita e il business può continuare.

L’80% dei dieci milioni di haitiani vive in povertà, con un reddito inferiore al già di per sé miserabile salario minimo di 4,54 $ al giorno. Un milione e mezzo di loro soffre la fame, 6 milioni e 700mila non riescono a coprire regolarmente i loro bisogni alimentari e un quinto dei bambini è in stato di denutrizione, nonostante gli innumerevoli programmi assistenziali internazionali. Anzi, è più realistico, anche se paradossale, pensare che alla radice del problema ci siano proprio questi. La stampa tende a presentare i problemi di Haiti, estrapolandoli dal contesto neocoloniale in cui si sono generati, come causati dal clima o dalle catastrofi naturali, dalla presunta violenza dei suoi abitanti o dalla corruzione dei suoi politici. Le responsabilità e gli abusi dei governi e delle agenzie straniere, che si spartiscono gli aiuti e limitano lo sviluppo democratico, sono spesso taciuti o normalizzati. E così succede anche con le operazioni delle ONG, oltre 10mila in territorio haitiano, i cui sprechi e costi logistici arrivano a mangiarsi fino al 60% del loro budget. Inoltre Haiti non è un paese violento, il suo tasso di omicidi è di 7 ogni 100mila abitanti, mentre la media dei Caraibi è 17, in Messico è 24, in Honduras 91 e nella “pacifica” Costa Rica 10.

Perché Haiti ha fame?

Haiti graph money goesGli appelli sulla “emergenza fame” ad Haiti finiscono spesso per soccorre le economie dei produttori americani e degli intermediari, agenzie governative e non, che amministrano la distribuzione o rivendita degli alimenti. Haiti Grassroots Watch (HGW) è uno dei pochi media alternativi su Haiti. “Perché Haiti ha fame? Perché la fame morde più adesso che negli ultimi 50 anni?”, recita il titolo di un articolo sul loro sito. I portavoce della Rete Nazionale per la Sovranità e la Sicurezza Alimentare (RENAHSSA) imputano al governo l’aggravamento della situazione, ma è da molto più tempo che economisti, agronomi agenzie umanitarie ed “esperti” internazionali disegnano progetti e vincono commesse, contratti e generose borse per affrontarla.

I donanti controllano miliardi di dollari per “aiuti alimentari”, “allo sviluppo”, “assistenza umanitaria” e programmi agricoli che non toccano le cause strutturali della fame. HRW ne cita sei: (1) la povertà, la precarietà salariale e la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, indisponibili alla maggior parte della popolazione; (2) il sistema di proprietà della terra e la mancanza di una gestione razionale, l’inesistenza di un catasto, l’uso politico della terra data in ricompensa dai governanti ai propri alleati; (3) le politiche commerciali neoliberali, impulsate da USA, BM e FMI, che hanno ridotto le protezioni tariffarie sui prodotti nazionali e causato esodi dalle campagne alle città (anche per questo la sovrappopolazione e la precarietà abitativa a PAP fecero incrementare i danni e le vittime del terremoto del 2010); (4) l’aumento demografico in un contesto di produzione agricola stagnante, basata su tecniche e strumenti obsoleti, abbandonata dallo stato e soffocata da donazioni e importazioni straniere e dall’uso del carbone vegetale come combustibile, con la conseguente deforestazione quasi totale del territorio; (5) l’impatto negativo di vari meccanismi di “assistenza” che portano soldi a progetti e organizzazioni estere ma non al governo haitiano o alle associazioni locali, per cui non ci si concentra sulle cause strutturali della fame ma solo su emergenze e contingenze; (6) le inefficienze del mercato interno, le pratiche oligopolistiche degli importatori di cibo che mantengono i prezzi alti.

L’industria della fame

Gli aiuti internazionali e le politiche commerciali legate alla fame di Haiti, al settore alimentare e a quello agricolo, sono state disastrose e contradditorie. Secondo HGW la quota maggiore (più del 50%) degli aiuti alimentari mondiali diretti a Haiti proviene da programmi governativi statunitensi e arriva in parte al governo haitiano, in parte ad alcune agenzie come il World Food Program e in parte a contrattisti come World Vision, CARE, ACDI-VOCA e Catholic Relief Service. Tra il 5% e il 10% del cibo consumato ad Haiti entra con queste “importazioni” a basso costo che sfiancano i produttori locali facendo dumping e favorendo la cosiddetta “monetizzazione” degli aiuti alimentari. In pratica il governo USA compra riso, grano, farina, oli vegetali, carne di pollo e fagioli ai propri produttori, dato che per legge la stragrande maggioranza del cibo donato deve essere made in USA. Poi lo spedisce a enti governativi stranieri o alle organizzazioni umanitarie che a loro volta possono venderlo, “monetizzandolo”, per ottenere contanti freschi per i loro progetti.

La “industria della fame” è un grosso affare per cui si devono creare mercati coatti e negli USA il governo deve periodicamente segnalare le emergenze alimentari internazionali per attribuire contratti e riattivare consumi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ottanta e novanta Haiti è stata forzata da FMI, USA e World Bank a fissare le più basse tariffe all’importazione di prodotti agricoli tra i paesi dei Caraibi, mentre prima la protezione arrivava fino al 50%. Così nel 2011 l’esportazione agricola americana verso Haiti ammontava a 326 milioni di dollari e la dieta degli haitiani era cambiata: il riso e il pollo avevano sostituito il mais, il sorgo (il Piti-Mi!) e i tuberi. I coltivatori locali sono stati progressivamente estromessi dai più produttivi e sovvenzionati competitors statunitensi e gli aiuti hanno contribuito ad aprire mercati che in precedenza erano marginali o serviti dagli agricoltori nazionali. Anche per questo le campagne haitiane languiscono e la fame è una piaga endemica. La fame e le macerie di Haiti non hanno bisogno di carità e promesse ma dell’autonomia e della libertà che le possano rimuovere, trasformandole in nuove lotte e speranze.

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