Letteratura russa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ti ustionava toccandola https://www.carmillaonline.com/2024/09/08/ti-ustionava-toccandola/ Sun, 08 Sep 2024 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84154 di Giorgio Bona

Giovanni Greco, Bruciare da sola. Una notte di Nadja Mandel’štam con i suoi fantasmi, pp. 144, € 15, Ponte alle Grazie, Milano 2022.

Vivere nel ricordo. Oltre il tempo. Perché il tempo è memoria e la memoria spinge avanti i ricordi, soprattutto quelli belli, o meglio quelli che lo sarebbero stati se la brutalità di quei tempi non avesse spento gli ardori e gli impeti che fiorivano dentro cuori in tumulto.

27 dicembre 1968: Nadežda Jakovlevna Khazina, vedova del poeta Osip Mandel’štam ricorda. Ricordare è stata una sua missione, un dovere, un atto d’amore verso l’uomo che amava [...]]]> di Giorgio Bona

Giovanni Greco, Bruciare da sola. Una notte di Nadja Mandel’štam con i suoi fantasmi, pp. 144, € 15, Ponte alle Grazie, Milano 2022.

Vivere nel ricordo. Oltre il tempo. Perché il tempo è memoria e la memoria spinge avanti i ricordi, soprattutto quelli belli, o meglio quelli che lo sarebbero stati se la brutalità di quei tempi non avesse spento gli ardori e gli impeti che fiorivano dentro cuori in tumulto.

27 dicembre 1968: Nadežda Jakovlevna Khazina, vedova del poeta Osip Mandel’štam ricorda. Ricordare è stata una sua missione, un dovere, un atto d’amore verso l’uomo che amava e che la storia aveva messo in ginocchio. Nonostante tutto, anche se gli eventi e le persecuzioni lo stavano annichilendo Osip Mandel’štam non aveva smesso di comporre versi di grande bellezza, tali da farne uno dei più grandi poeti del Novecento.

“Nadežda” in russo significa speranza e mai come nella memoria di Nadežda Mandel’štam sperare, nonostante tutto e contro tutti, è stato un imperativo e un insegnamento.

 

Ci si ammala di somiglianza dopo tutto questo tempo insieme. S’infetta la memoria e non si sa più chi ha detto cosa, chi ha mangiato cosa, chi ha pensato per primo ad aprire la finestra e ci si ferma un attimo prima di dire in coro quello che si è concepito insieme per poi dirlo insieme comunque, dopo due, tre esitazioni, con un sorriso rassegnato. Al punto che si finisce comunque per credere molte volte sia accaduto quello che non è mai accaduto, si ricorda quello che brilla feroce e quello che non è male, si spera, cioè si è convinti, che l’altro abbia fatto quello che non è andato in porto, mentre si crede di essersi inventati quello che invece è stato davvero, senza dubbio, la coperta rubata e ripresa ogni notte tra la veglia e il sonno o la mano confusa con la propria, a forza di tenerla stretta mesi e anni con le dita che tendono a incastrarsi perfettamente le une con le altre.

 

La compagna di vita di uno dei più grandi poeti del Novecento nelle pagine di questo Bruciare da sola è rappresentata in uno straordinario monologo sulla sopravvivenza di quei versi proibiti, mentre dialoga con i fantasmi che le hanno fatto compagnia per tutta la sua esistenza. Nadežda sarà la custode dell’opera del marito, figura capitale della resistenza intellettuale al regime sovietico.

La voce di Osip Mandel’štam attraverso il racconto in prima persona della moglie diventa un unico coro perché si uniscono all’unisono i tanti compagni delle purghe staliniane, un’intera generazione di scrittori che è passata nel tritacarne della ferocia di un regime che, come diceva l’autore medesimo, non ha amato i suoi poeti. Ecco comparire nel loro straziante dolore Marina Cvetaeva, Anna Achmatova. La prima si suiciderà dopo il tentativo di intercedere presso Lavrentij Berija per perorare la causa del marito arrestato per attività controrivoluzionarie e condannato a morte, la seconda perseguitata e condannata a vivere in miseria dopo la fucilazione del marito, il poeta Nikolaj Gumilëv con la vita del figlio appesa a un filo perché giurava di vendicare la morte del padre.

Il titolo del libro Bruciare da sola già offre tutti gli ingredienti: dolore, amore e potere suonano tutti la musica di una condizione di disperazione.

Occorre ricordare che il poeta russo Iosif Brodskij nel suo celebre saggio Fuga da Bisanzio caratterizzerà la figura di lei in un racconto importante.

 

La vidi l’ultima volta il 30 maggio 1972, in quella sua cucina a Mosca. Il pomeriggio era agli sgoccioli e lei sedeva, fumando, in un angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa. Nadežda assomigliava all’avanzo di un grande incendio, una minuscola brace che ti ustionava toccandola.

 

L’essenza di quei tempi feroci è diluita in una narrazione diretta, minuziosa, una prosa che è un tributo del dolore. Giovanni Greco in queste pagine fa trapelare un senso di gratitudine. nella certezza che il lavoro di Nadežda in vita non è stato vano: nonostante il buio che ha accompagnato il suo lungo cammino nel tormento, nella fame e nella fatica, ha sempre camminato a testa alta tra le tante difficoltà con un senso di responsabilità incrollabile.

 

Ogni notte le mie labbra carezzano il tuo nome, Osip. E ogni notte lotto contro l’oblio, perché non divori questa bocca e anche questa mia preghiera.

Ti prego, non perdermi. Ti prego non abbandonarmi!

Ricordi il tuo sorriso quando ti dissi che il mio nome, Nadežda, significa speranza?

 

Osip Mandel’štam morì in un campo di transito in Siberia, a Vtoraja rečka, mentre era diretto a Vladivostock. Data della morte sembra, secondo le testimonianze più attendibili, il 27 dicembre 1938.

Dal momento del suo arresto, nel maggio dello stesso anno, Nadežda non ebbe più notizie, ma gran parte della sua opera fu salvata e molti versi conservati nella cassaforte della memoria della moglie.

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Vabbè, vabbè, silenzio! https://www.carmillaonline.com/2024/03/20/vabbe-vabbe-silenzio/ Wed, 20 Mar 2024 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81633 di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre [...]]]> di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre bene leggerlo. E il testo appena riproposto da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca con il numero 800, e magnificamente curato da Serena Vitale è proprio uno di questi.

Prima di parlare del testo di Gogol’, però, occorre dedicare ancora qualche parola al lavoro della curatrice. Professoressa di Lingua e letteratura russa, ha insegnato in diversi atenei italiani (tra cui l’Istituto Orientale di Napoli e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) dal 1971 al 2015. Scrittrice e autrice di saggi, curatele e traduzioni, si è misurata con i maggiori autori russi e cechi quali Josif Aleksandrovič Brodskij, Marina Ivanovna Cvetaeva, Aleksandr Sergeevič Puškin, Vladimir Nabokov, Sergej Esenin, Michail Bulgakov, Sergei Timofeevič Aksakov, Vladimir Majakovskij. Ha tradotto anche Milan Kundera, Osip Mandel’štam, Vladimir Zazubrin, Andrej Platonov e Fëdor Dostoevskij. Traduzioni e curatele in gran parte svolte per la stessa Adelphi presso la quale ha pubblicato anche due fondamentali saggi su Puskin e Majakovskij. Entrambi travestiti da romanzi-indagine sulle cause della morte dei due autori1.

Dedicato quanto dovuto alla serietà ed esperienza della curatrice, occorre ora passare all’opera qui recensita con una prima considerazione sulla follia di questi tempi di guerra. Cosa che ha fatto sì che mentre una parte del demimonde intellettuale e politico che frequenta i media mainstream si sia scandalizzato per le decine di migliaia di firme di artisti raccolte contro la partecipazione di Israele alla prossima Biennale di Venezia, altrettanto non abbia fatto nei confronti della, realmente, spaventosa richiesta di cancellazione, in Occidente o lungo i suoi confini ucraini, della grande cultura letteraria russa, successiva all’invasione putiniana dell’Ucraina. Sia in ambito pubblicistico che universitario e di dibattito mediatico.

Tanto da far sì che, mentre si cercava e si cerca tutt’ora una valida opposizione al regime putiniano accettandone anche personaggi xenofobi e nazionalisti quali Alexei Navalny2, ci si è dimenticati o, per meglio dire, è cancellato il fatto che gran parte della grande letteratura russa, prima, e sovietica, successivamente, del XIX e XX secolo è stata sempre esemplarmente critica nei confronti sia del regime zarista che di quello staliniano. Affrontando spesso, proprio per questo motivo, lunghi periodi di detenzione, esilio se non addirittura la morte.

Una letteratura che, anche nel caso di autori come Gogol’ (1809-1852) e Dostoevskij, è stata recentemente definita come eccessivamente russofila e slavofila per l’ironia con cui a volte venivano trattate le mode culturali occidentali e per le critiche contenute anche a quelle politiche, che pur avevano animato grandi critici dell’arretratezza russa e del regime arcaico che la prima causava sia a livello politico che economico e culturale in autori e filosofi come Aleksandr Herzen (1812 – 1870). Contestandole, spesso, un richiamo arcaico alla comune contadina tradizionale russa, l’obščina, che pur fu uno degli elementi che fecero ripensare anche a Karl Marx, nell’ultima parte della sua vita, la teoria univoca dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni3. D’altra parte, parlando nello specifico di un autore come Gogol’, il riferimento al giudizio di Marx sui possibili sviluppi della comune contadina russa non è affatto fuori luogo. Scriveva infatti il filosofo tedesco:

Lo Stato ha contribuito all’arricchimento di una nuova feccia capitalistica, che succhia il sangue già impoverito della “comune rurale”. Schiacciata dalle imposte dirette dello Stato, sfruttata in maniera fraudolenta dagliintrusi capitalisti, mercanti, ecc. e dai “proprietari” fondiari, essa è per sovrammercato minata dagli usurai del villaggio, dai conflitti d’interessi provocato al suo interno dalle condizioni che le sono statte imposte4.

Tema sul quale Nikolaj Gogol’ aveva scritto uno dei suoi capolavori, Le anime morte, un romanzo pubblicato nel 1842 originariamente col titolo Le Avventure di Čičikov, e il sottotitolo Poema imposto dalla censura zarista, che narra in tono satirico-grottesco le disavventure di un piccolo truffatore di provincia nell’Impero russo del 1820. La trama prendeva spunto dal fatto che nell’Impero russo, il termine «anime» designava i servi della gleba maschi. L’intento di Cicikov è infatti quello di acquistare a buon prezzo le “anime morte” dall’ultimo censimento fino a quando non ne verrà registrata la morte nel successivo censimento quinquennale. Čičikov punta così a crearsi, con il minimo sforzo, un numero di servitori (“fantasma”) elevato al punto tale che, ipotecandoli, possa costituire un grosso capitale.

Così come in altri testi, l’autore gioca le carte della narrazione lungo un filo sottile fatto di paradossi, ignoranza, avidità e follie burocratiche che aveva già sviluppato nel racconto Brani dalle memorie di un pazzo scritto nel 1834 e pubblicato per la prima volta nel 1835 nella raccolta di racconti intitolata Arabeschi e successivamente inserito nella raccolta Racconti di Pietroburgo con il titolo abbreviato utilizzato anche dall’attuale edizione Adelphi.

In questo caso lo spunto, come spiega fin dalle pagine introduttive la curatrice, è fornito dalla “tabella dei ranghi” voluta dallo zar Pietro il Grande nel 1722 che

aveva diviso i sudditi – esclusi, ovviamente, i servi della gleba – in quattordici classi, formalizzando il čin (grado), la condizione giuridica e sociale di chi serviva lo Stato nell’esercito, a corte, nella pubblica amministrazione. A ciascun grado corrispondeva un abbigliamento di cui veniva prescritto ogni particolare (lunghezza, ampiezza, numero di bottoni, colletti, baveri, cappucci, pellegrine, colore, tipo di stoffa, mostrine, galloni). Un enorme impero in divisa…5

Un progetto di uniformare una società e un impero che uniformava non soltanto strutture e ruoli amministrativi, ma anche le mentalità individuali e lo stesso comportamento sociale, riducendo le tensioni che lo animavano ad una velleitaria, spesso comica e talvolta tragica competizione tra miserevoli individui tutti affaccendati, principalmente, a competere con coloro che li affiancavano o superavano di un grado o poco più nella scala dei “meriti” acquisiti nei confronti dei superiori, fino al massimo grado.

Un vasto impero burocratizzato in cui il protagonista, Propriščin, in qualche modo da un lato si ispira (e finirà con l’ispirare ancora) ad uno dei più classici personaggi di tanta letteratura russa dell’Ottocento, il činovnik ( il funzionario, l’impiegato nell’amministrazione pubblica) e, dall’altro, alle esperienze dello steso autore che rivestì tale funzione per circa un anno e mezzo tra la fine del 1829 e l’inizio del 1831, a Pietroburgo, col grado più basso in qualità di “registratore di collegio” nel dipartimento dell’Economia statale e degli edifici pubblici. Un breve periodo durante il quale ebbe modo di detestare il lavoro, i colleghi, la farraginosa e soffocante macchina burocratica.

Il racconto riporta tutto ciò, anche se la figura di Propriščin non è affato destinata a suscitare la simpatia o almeno la pietà del lettore. Come sempre, quello di Gogol’ è un mondo in cui la miseria morale supera ampiamente quella economica di cui è il prodotto e tutti i maneggiamenti del protagonista, prima nei confronti del suo diretto superiore, poi nei confronti della figlia del Direttore di cui è innamorato, destinati a portarlo alla follia e in manicomio, pur facendo sorridere il lettore certo non lo commuovono.

Il fatto che Propriščin poco per volta si convinca che i cani possano parlare tra di loro come gli umani e addirittura scriversi lettere e, in seguito, di essere il vero erede al trono di Spagna serve a Gogol’per dipingere un mondo assurdo che il solo realismo non sarebbe certo servito a denunciare e a smontare. Un mondo in cui ognuno spia il suo vicino, a partire dall’abito naturalmente, pronto a prenderne il posto, pur di salire in una scala di valori che sembra esser stata definita apposta per dividere e rendere impossibile qualsiasi tipo di solidarietà tra concittadini più che realmente premiare qualsiasi tipo di merito che non sia esclusivamente legato al servilismo nei confronti dell’autorità statale.

Una situazione che è impossibile non paragonare a quella descritta in altre opere di scrittori dello stesso periodo, ma anche a quella che il lettore può ritrovare in tanta letteratura russa di età sovietica, in cui la posizione sociale e all’interno di un occhiuto partito era definito dal prestigio acquisito attraverso ruoli, spesso bizzarri, vili o servili, o dalla possibilità di avere a disposizione appartamenti meno miserabili se non di lusso oppure semplicemente occupati da un minor numero di famiglie6.

In particolare, il paragone che salta immediatamente agli occhi del lettore più attento è quello con Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (1891-1940), romanzo dell’assurdo e magico che metteva drammaticamente e, allo stesso tempo, comicamente alla berlina il regime staliniano nel momento del suo massimo “splendore”7, considerato uno dei massimi capolavori della letteratura del XX secolo.
Non a caso l’autore fu un grande ammiratore di Gogol’, da cui carpì la satira feroce e la comica magia come arma per disarmare il colosso statuale russo.

Una capacità, quella di far ridere o, almeno, di suscitare il sorriso anche nei momenti più drammatici che costituisce una delle caratteristiche tipiche della grande letteratura russa, come succede anche nelle opere sul Gulag di Varlam Šalamov8 e che, erroneamente, è stato accostato al realismo magico oppure, come nel caso di Gogol’, fin dall’Ottocento, criticato per l’apparente scarsa attinenza alla realtà.

«Vabbè, vabbè, silenzio!» allora, come avrebbe potuto commentare il protagonista del racconto di Gogol’. Racconto che nell’edizione Adelphi è accompagnato da alcuni frammenti di una pièce teatrale che Gogol’ non completò, Vladimir di terzo grado, nella certezza che avrebbe subito pesanti interventi da parte della censura. Una pièce in cui l’autore si riprometteva di rappresentare la follia in cui precipita un funzionario che non riesce in alcun modo a ottenere una prestigiosa onorificenza.


  1. S. Vitale, Il bottone di Puskin, Adelphi Edizioni, Milano 1995 e Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015.  

  2. Significativo che a inizio marzo di quest’anno la moglie di Zelensky non abbia voluto incontrare a Washington, sotto l’egida del presidente Biden, la moglie del dissidente russo, Julija Naval’naja. Si veda anche M. Flammini, Navalny a Kyiv, il Foglio, 22 febbraio 2024, per capire quanto “rispetto” provino gli ucraini per il dissidente russo osannato quale simbolo di liberalismo e democrazia. Senza contare, infine, che sono stati proprio i servizi ucraina a sostenere che Navalny sia morto per “cause naturali”: M. Romeo, Navalny, clamorosa dichiarazione dello 007 ucraino Budanov sulla causa di morte dell’attivista russo, TG.LA7.IT, 25 febbraio 2024.  

  3. Si vedano in proposito: P.P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1978 e E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014.  

  4. Cit. in E. Cinnella, op. cit., pp. 148-149.  

  5. S. Vitale, « Una città di mezzi matti » in N. Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 11.  

  6. Si veda in proposito Y. Slezkine (alias Jane K. Sather), La casa del governo. Una storia russa di utopia e terrore, Feltrinelli, Milano 2018; J. Trifonov, La casa sul lungofiume, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992 (prima edizione italiana Editori Riuniti 1977)  

  7. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Giulio Einaudi editore, Torino 1967.  

  8. V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Giulio Einaudi editore, Torino 1999.  

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Compagno Berija https://www.carmillaonline.com/2023/05/27/compagno-berija/ Sat, 27 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77415 di Giorgio Bona

O dannazione! – Rimani – Tu:

la tua coppia d’ali puntata verso l’etere, –

perché il mondo è la tua culla

la tomba è il mondo

Sono i passi di una canzone che Alla Pugačëva, osannata popstar caduta in disgrazia per una presa di posizione contro la guerra in Ucraina, intonava sui versi di Marina Cvetaeva (Nemico Pubblico, trad. Claudia Sugliano, De Piante, Milano 2022).

Passi di una poesia dal titolo “Ti riconquisterò da tutte le terre, da tutti i cieli” che accompagnò allora la poetessa verso un triste epilogo [...]]]> di Giorgio Bona

O dannazione! – Rimani – Tu:

la tua coppia d’ali puntata verso l’etere, –

perché il mondo è la tua culla

la tomba è il mondo

Sono i passi di una canzone che Alla Pugačëva, osannata popstar caduta in disgrazia per una presa di posizione contro la guerra in Ucraina, intonava sui versi di Marina Cvetaeva (Nemico Pubblico, trad. Claudia Sugliano, De Piante, Milano 2022).

Passi di una poesia dal titolo “Ti riconquisterò da tutte le terre, da tutti i cieli” che accompagnò allora la poetessa verso un triste epilogo (1941), quel suicidio che si sarebbe forse evitato se non fosse tornata volontariamente in patria dall’esilio per aiutare il marito, marito Sergej Ėfron, malato e arrestato dalla polizia segreta di Berija con l’accusa di essere un traditore. Un marito che forse non amava più ma che non si sentiva di abbandonare al suo triste destino.

Ecco che il settimanale Literaturnaja Gazeta recupera negli archivi del KGB le lettere inedite tra cui quella indirizzata a Berija, che fanno pensare al rischio spaventoso di una caduta della stessa Cvetaeva nelle mani del boia. Questa lettera resta una delle grandissime testimonianze di un capitolo terribile della storia del paese, il rapporto del regime sovietico con i suoi scrittori.

Lavrentij Pavlovič Berija (1899–1953) fu il capo della polizia segreta dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin e primo vicepresidente del Consiglio dei Ministri per un breve periodo nel 1953, anno della sua morte. La storia ce lo restituisce come l’anima nera delle repressioni staliniane con le purghe e le deportazioni di massa.

È con estrema nobiltà che Marina Cvetaeva si rivolge al capo della polizia segreta di Stalin. Vuole avere notizie in merito all’arresto del marito, rinchiuso per attività antisovietica e condannato a morte, e della figlia Ariadna, arrestata nel 1939 appena due mesi prima del rientro di Cvetaeva in Unione Sovietica con il figlio Mur.

Era all’estero dal 1922: sono trascorsi diciassette anni ma per lei non c’è possibilità di un reinserimento nella società dove le verrà negato anche un posto come lavapiatti. Il pensiero che una lettera, una forma scritta, legittimi il grande valore della parola forse può trovare riconoscimento soltanto in chi sa ascoltare. Non sono più i tempi in cui Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, possono cercarsi turbinosamente attraverso i propri scritti (cfr. Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, Roma 1980). La poesia era la loro voce, un punto di incontro, la presenza per veder realizzato il grande sogno della letteratura. Marina condivise con Boris e Rainer l’idea di affidarsi al destino, l’idea che dentro una parola si dovesse riconoscere e amare il poeta, non l’uomo. Sarebbe stata l’unica testimonianza davanti al mondo.

A Marina interessava l’anima, non i colori della natura al mutare delle stagioni, gli effluvi dell’amore: l’anima, scalfita dalla parola intesa come creatura viva.

Serena Vitale in un suo scritto su Marina riconosceva due cariche esplosive che abbattevano tutte le pareti e scardinavano le porte: il sogno (riesco a vivere soltanto in sogno… è la mia vera vita… dove tutto si avvera) e il suo succedaneo diurno, la lettera (una forma del rapporto ultraterreno meno perfetta del sogno).

Rilke lo aveva intuito: con le sue lettere creava spazio (zaočnost’), la contrada che si stende al di là dello sguardo, la sconfinata distesa dell’assenza che riunisce e avvera, mentre qui, nella vita dei giorni, la presenza separa e distrugge.

La lettera al capo della polizia segreta contiene tutti questi ingredienti. Emerge grande dignità in quelle righe che si potrebbero intendere come una supplica.

No. Niente supplica. Vi si legge l’amore di una moglie e di una madre, un amore fiero portato nell’anima; e si vede l’anima immaginando Marina, china su uno scrittorio, che arma la penna con l’inchiostro dentro una notte azzurra con denti di cristallo, scandendo i suoi versi.

Compagno Berija…

Una lettera che testimonia un’epoca, l’epoca in cui la Russia ha dissipato i suoi poeti.

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Sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia https://www.carmillaonline.com/2023/05/25/sullinesorabile-avvicinarsi-della-vecchiaia/ Thu, 25 May 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77251 di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Destino zoppo, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Daniela Liberti, pp. 359, € 19,50, Carbonio, Milano 2023.

Quando, nei primissimi anni Ottanta, si dedicarono alla scrittura di Destino Zoppo, ad Arkadij e Boris Strugackij si pose il problema di quale testo inserire come contenuto della cartella azzurra, la cartella nella quale il protagonista Feliks Sorokin nasconde il proprio romanzo. Dopo aver vagliato una serie di opzioni, la scelta ricadde su Brutti cigni, un racconto scritto tra il ’66 e il ’67 [...]]]> di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Destino zoppo, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Daniela Liberti, pp. 359, € 19,50, Carbonio, Milano 2023.

Quando, nei primissimi anni Ottanta, si dedicarono alla scrittura di Destino Zoppo, ad Arkadij e Boris Strugackij si pose il problema di quale testo inserire come contenuto della cartella azzurra, la cartella nella quale il protagonista Feliks Sorokin nasconde il proprio romanzo. Dopo aver vagliato una serie di opzioni, la scelta ricadde su Brutti cigni, un racconto scritto tra il ’66 e il ’67 e mai pubblicato ufficialmente, ma circolato in migliaia di copie come samizdat. Il racconto, che era stato respinto dalla censura perché “decadente” (l’alcol e l’ubriachezza sono caratterizzanti dell’intero testo, e in più i contenuti hanno forti richiami al diluvio universale biblico) e inserito nella lista nera, venne pubblicato integralmente su rivista solo nel 1987, cavalcando i venti di cambiamento che di lì a poco avrebbero ribaltato le sorti dell’Unione Sovietica. Oggi Destino zoppo, rimasto finora inedito nel nostro paese, viene proposto da Carbonio, che negli ultimi anni prosegue nell’opera di recupero dei lavori dei due grandi autori nella bella traduzione di Daniela Liberti.

La pubblicazione dell’ultimo romanzo scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij aggiunge un tassello alle discussioni che animano gli ultimi mesi sull’uso dell’intelligenza artificiale come nuovo strumento nella produzione artistica e sul livellamento delle opere letterarie, sicché Destino zoppo non è solo espressione e specchio della Russia sovietica degli anni Ottanta, ma risuona con affascinanti riverberi anche sui nostri giorni. Feliks Sorokin viene richiamato in via Bannaja, sede dell’Istituto delle ricerche linguistiche dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, per inserire il suo manoscritto all’interno della macchina MisTaLet, sigla che sta per Misuratore del Talento Letterario. All’inizio, il progetto viene presentato come uno studio linguistico per rilevare l’entropia del linguaggio degli scrittori. Il clima di censura rende però sospettoso Sorokin, che così si lascia trascinare dal proprio destino che infila una serie di impedimenti e ostacoli nel percorso verso l’istituto di ricerca. In verità, non sorprende l’attualità di un testo di fantascienza, più ancora se gli autori sono Arkadij e Boris Strugackij, sempre attenti alla realtà contemporanea e con uno sguardo pronto a intercettare i mostri del presente e del futuro: l’analisi dell’entropia linguistica serve in realtà stabilire il gradimento dell’opera da parte del pubblico, ovvero il suo valore commerciale – l’NTPL calcolato dalla macchina non è altro che il numero più probabile di lettori del testo –, ed è la prefigurazione del sistema in gran parte opaco con cui algoritmi e intelligenza artificiale pervadono i diversi aspetti del quotidiano.

E però, Destino Zoppo è anche molto altro. Boris Strugackij, nella postfazione al romanzo, lo definisce “prima di tutto, un romanzo sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia”, ed è proprio questo il tema annunciato in apertura dall’haiku di Raizan in esergo: sia nel romanzo in cornice, sia in Brutti cigni, i protagonisti sono scrittori che fanno i conti con la propria coscienza e con un’idea di futuro che forse non li comprende. Anzi, la scelta di Brutti cigni come testo contenuto nella cartella azzurra si rivela felice perché tra Banev e Sorokin si genera un continuo contrappunto tale che ognuno dei due romanzi getti una luce sull’altro. Banev deve scegliere se stare dalla parte degli studenti e fidarsi dell’idea di mondo dei mokrecy (i portatori del diluvio dall’aspetto ambiguo e malato) o essere strumento della propaganda che li vuole emarginati e annientati; Sorokin teme che, nonostante i successi passati, la macchina dia una bassa votazione alla sua cartella azzurra. Questa paura, che si somma a quella verso l’irricevibilità del testo in termini di contenuti politici, costituisce il nodo dell’opera e rende conto della complessità del romanzo.

Sia il romanzo cornice che quello incorniciato sono ricchi di citazioni e dichiarano apertamente le proprie ispirazioni, amplificando in modo telescopico il gioco metaletterario. In particolare, spicca il riferimento a Menzura Zoili, racconto di Akutagawa Ryunosuke (purtroppo introvabile in lingua italiana) che prefigura una macchina come il MisTaLet, e l’omaggio al grande Maestro Michail Bulgakov.

Il tributo a Bulgakov permea l’intero romanzo, dagli echi delle vicende che coinvolgono Feliks Sorokin, personaggio ispirato al protagonista di Memorie di un defunto – anche conosciuto come Romanzo teatrale, romanzo incompiuto che ha per protagonista Maksudov, alter ego dello stesso autore – alla scelta di presentare un personaggio che si chiama Michail Aleksandrovic e che non perde occasione di citare il Maestro (lo storione di seconda freschezza, i manoscritti che bruciano o no), fino ancora a imbibire la trama linguistica e lessicale del testo, con invocazioni al diavolo e sporadici cambi della voce narrante, a sottolineare anche in questo modo la molteplicità di livelli di lettura di Destino zoppo. Feliks Sorokin stesso, sebbene abbia moltissimi tratti in comune con Arkadij Strugakij (non ultima la conoscenza della lingua giapponese), è un Maksudov degli anni Ottanta, degli anni della stagnazione. Ma, per usare nuovamente le parole di Boris Strugackij, “a differenza del Maksudov bulgakoviano sa e capisce perfettamente che oggi, qui e adesso, è permesso, e ciò che non è permesso non lo sarà mai…”.

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Darti una voce di risposta https://www.carmillaonline.com/2023/05/01/darti-una-voce-di-risposta/ Mon, 01 May 2023 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76684 di Giorgio Bona

“Probabilmente io e lui non capivamo una cosa fondamentale: tutto quello che avveniva  era  la preistoria della nostra vita: la sua vita molto breve, la mia molto lunga. Il respiro dell’arte non aveva ancora bruciato, trasformato queste due esistenze: e questa doveva essere la via luminosa che precede l’aurora. Ma il futuro che, come era noto, getta la sua ombra ancor prima di attuarsi, batteva alla finestra, si nascondeva dietro i lampioni, intersecava sogni e spaventava, con la terribile Parigi Baudelairiana che si nascondeva in qualche posto lì, [...]]]> di Giorgio Bona

“Probabilmente io e lui non capivamo una cosa fondamentale: tutto quello che avveniva  era  la preistoria della nostra vita: la sua vita molto breve, la mia molto lunga. Il respiro dell’arte non aveva ancora bruciato, trasformato queste due esistenze: e questa doveva essere la via luminosa che precede l’aurora. Ma il futuro che, come era noto, getta la sua ombra ancor prima di attuarsi, batteva alla finestra, si nascondeva dietro i lampioni, intersecava sogni e spaventava, con la terribile Parigi Baudelairiana che si nascondeva in qualche posto lì, accanto. E tutto il divino scintillava in Modigliani soltanto attraverso una tenebra”.

La breve avventura di Modì (Amedeo Modigliani) e Anna (Achmatova) attrae e stordisce per l’intensità e la violenza drammatica. Come se una sapiente regia avesse concentrato in una sola vita due corpi all’unisono con l’inizio di un secolo che si presentava stanco e tormentato, apprestandosi a scaricare sulle spalle dei suoi poeti e dei suoi artisti tutti i disastri e i dolori del mondo.

Non rimane molto di questa storia. Soltanto Anna Achmatova ne parla in uno dei suoi scritti e racconta la breve parentesi di vita, una vita che fu condizione attiva dell’essere, dei sogni, dei desideri e, semplicemente, l’irraggiungibile libertà.

Per Modì unica strada: senza confini, senza sbarre, una carica esplosiva che abbatteva i muri, scardinava le porte.

La vita, poi, diventava un tuffo nel nulla, l’incomprensione con infinite gradazioni e sfaccettature, politiche, personali, sociali ed era l’origine di un male oscuro tra le pieghe dell’anima.

Non c’era spazio, neppure un margine minimo per cercare una via d’uscita, anche quella di fare una scelta, perché sappiamo che il futuro era un fatto scontato e avrebbe portato per entrambe gravi ripercussioni.

Entrambi riversi sulla pagina bianca che avrebbe dato un appiglio alla loro vita, forse l’unica via d’uscita senza se e senza ma, l’unica forma vera quando la vita medesima si riduce a una finzione.

Anna Achmatova in realtà si chiamava Gorenko. Cambiò perché suo padre, ufficiale della marina russa, quando seppe che la figlia scriveva poesie intimò di non mischiare il cognome di famiglia in faccende disonorevoli.

Anna, invece di abbandonare la scrittura, decise di cambiare cognome e prese quello di una sua antenata da parte di madre, una principessa tartara.

Giunse a Parigi dalla Russia nel 1910 in viaggio di nozze e qui l’incontro con Modì, che rivide l’anno dopo per un breve periodo.

Un amore che divorava le distanze e trascinava con sé un turbine di visioni, di piccole storie, di sentimenti vivi e naturalmente la grandezza dell’arte e della poesia.

Non si sa molto di questa intensa storia che durò circa due mesi. Non si incontrarono più. Nel 1913 Anna fu privata del passaporto, riavuto poi nel 1964 grazie alle pressioni di Giancarlo Vigorelli e per consenso diretto di Chruščëv.

Una persecuzione negli anni duri, colpita nei suoi affetti, la fucilazione del marito, il poeta Nikolaj Gumilëv, con l’accusa di attività controrivoluzionarie e l’arresto del figlio Lev nel periodo delle grandi purghe staliniane, lei medesima espulsa dall’Unione Scrittori con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico nel 1946.

Trascorsero ben nove anni prima che fosse riabilitata.

Le prose critiche di Anna Achamatova, raccolte in volume (Amedeo Modigliani e altri scritti, a cura di Eridano Bazzarelli, SE, 2015) sono di carattere memorialistico e dedicate a poeti suoi contemporanei come Blok e Mandel’štam e quindi sono concentrati e attenti sulla poesia e sulla cultura russa.

Il suo grande lavoro, Poema senza eroe, mette in discussione il mito dell’eroe e rielabora un nostalgico ricordo del passato attraverso la nuova visione della storia e una trasfigurazione dello spazio e del tempo in una concezione di puro fine.

Il mito dell’anti eroe sta anche in queste parole che Anna pronunciò a voce alta: non ho mai amato vedere i miei versi stampati, lo trovavo superfluo e sconveniente.

La poesia viaggia dentro la mente, è una risorsa dell’anima.

Così l’arte per Modì, stesso impeto, stessa visione. Non è banale la frase di molti suoi modelli che dissero: farsi ritrarre da Modì è come farsi spogliare l’anima.

Modì disegnò Anna su sedici schizzi, prevalentemente del genere nudo, quindici secondo la grande poetessa bruciati nel palazzo dello zar di Tsarskoye. Solo uno di questi, il suo preferito, lo tenne con sé per tutta la vita.

Sfortunatamente questi schizzi non diventarono dipinti o opere grafiche finite.

Sei in me come un’ossessione, scriveva Modì.

Negli archivi dei paesi occidentali non esistono documenti su Anna Achmatova associati a Amedeo Modigliani. Gli schizzi e i disegni sono gli unici documenti noti. Anche le numerose lettere che Modì scrisse a Anna andarono perdute durante un incendio in casa della poetessa.

Rimase soltanto quella fiammella che non aveva accettato di spegnersi.

Ecco.

Osserva come placida dormo

Non posso e non voglio

Darti una voce di risposta.

 

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Se c’è Poesia c’è Speranza https://www.carmillaonline.com/2023/04/14/se-ce-poesia-ce-speranza/ Fri, 14 Apr 2023 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76878 di Giorgio Bona

Nadežda Mandel’štam, Speranza contro Speranza. Memorie I, pp. 656, € 28, trad. di Giorgio Kraiski, Settecolori, Milano 2022.

Mi accompagna la voce di Cristiano Godano, il cantante della Rock Band cuneese Marlene Kuntz che intona “Osja, amore mio” dall’album del 2013 Nella tua luce, una canzone sulla straziante lettera scritta da Nadežda Mandel’štam dopo il secondo arresto del marito Osip.

Quelle note sono presenti dall’inizio della lettura di questo libro intenso e profondo Speranza contro Speranza della vedova di uno dei più grandi poeti del ‘900, Osip Mandel’štam.

Nadežda in [...]]]> di Giorgio Bona

Nadežda Mandel’štam, Speranza contro Speranza. Memorie I, pp. 656, € 28, trad. di Giorgio Kraiski, Settecolori, Milano 2022.

Mi accompagna la voce di Cristiano Godano, il cantante della Rock Band cuneese Marlene Kuntz che intona “Osja, amore mio” dall’album del 2013 Nella tua luce, una canzone sulla straziante lettera scritta da Nadežda Mandel’štam dopo il secondo arresto del marito Osip.

Quelle note sono presenti dall’inizio della lettura di questo libro intenso e profondo Speranza contro Speranza della vedova di uno dei più grandi poeti del ‘900, Osip Mandel’štam.

Nadežda in russo vuol dire proprio speranza e il titolo è già un buon viatico per capire che Speranza non ha alcuna speranza.

È un imperativo, ma anche un grande insegnamento, un tracciato della memoria ancora vivo nel presente, questo primo volume pubblicato in edizione integrale (il secondo, Speranza abbandonata, è prossimo all’uscita sempre per le edizioni Settecolori).

I due volumi uscirono clandestinamente in Unione Sovietica negli anni ’60, per essere successivamente tradotti e pubblicati in lingua inglese nel 1970 e nel 1974 infrangendo la cortina di silenzio e aprendo lo scrigno di quella memoria tenuta in cassaforte per tanti, troppi anni.

Con questa testimonianza Nadežda scende nell’inferno del poeta salvandone l’opera dall’oblio postumo, presentandoci con pennellate a tinte fosche la scena letteraria del tempo, popolata da intellettuali che in osservanza al regime gli voltarono le spalle, e altri, pochissimi, che all’amico perseguitato e in miseria ebbero il coraggio di offrire aiuto.

La rappresentazione del dolore non è teatralità. È il sentimento puro di un pianto arcaico.

La memoria è l’elemento cardine di questi scritti. Non soltanto perché si fondano sul ricordo, ma diventano lo scrigno di conservazione di quelle opere che vengono materialmente sottratte durante le perquisizioni e la luce di una mente che si accenderà per chi verrà dopo.

Che dire? Non basta un libro fondato sulla memoria per fare uno scrittore, anche se questa è circondata dal buio dove l’unico spiraglio di luce in questo mondo anemico viene offerto da un puntino luminoso dentro un regime infetto.

Nadežda con questo libro di memorie di alto valore letterario ci appare come un’eroina, rappresentante della resistenza al regime. Questa figura minuta, delicata, con un viso angelico, per decenni visse alla macchia facendo i più disparati mestieri.

Gli scritti di Nadežda Mandel’štam mostrano una forte tensione letteraria, sono una rivoluzione dentro la rivoluzione tradita. Persino la paura, terrore più che paura, scompare, perché, come diceva lei stessa, chi vive sotto una dittatura si permea del senso della propria impotenza e trova consolazione nella sua incapacità di reagire.

La delazione è come la peste, contagia il paese, diventa una sorta di sindrome collettiva. Il delatore è convinto di mettersi in mostra davanti agli occhi del regime e non sa che domani le parti si possono invertire, col risultato di farlo trovare inaspettatamente nel ruolo del perseguitato.

Se la letteratura mondiale conosce gran parte l’opera di Osip Mandel’štam lo si deve al grande lavoro di Nadežda; e se si riconosce la grandezza di Mandel’štam non deve passare in secondo piano il valore narrativo di sua moglie. Che con quest’opera rende giustizia a un grande poeta umiliato in vita da persecuzioni crudeli e dopo la morte avvolto da una gelida cortina di silenzio.

La sua prosa non trascura il minimo dettaglio, con dovizia di particolari. La mente è stata ferma e ha immortalato come una fotografia istantanea ogni particolare di quei momenti terribili. Ripercorre la vita con Osip attraverso la memoria e il ricordo come se li vivesse proprio allora, attimo dopo attimo, ricostruendola con minuziosa pazienza, raccontando in presa diretta anche la stesura del suo lavoro.

Tali memorie sembrano davvero un’opera di resurrezione ripercorrendo quella che è stata la stessa vita, nella sua autenticità, senza tralasciare nulla, come se il passato fosse un presente continuato.

Da queste pagine emerge non solo una condizione di disperazione, ma si comprende come un poeta messo in ginocchio davanti alla storia abbia potuto lasciare dei versi bellissimi perché emerge non soltanto la magia potente della parola ma il suo peso e il suo valore. Una parola illuminante e dolorosa, una rivolta contro il potere, un cardine irrinunciabile della vita.

E qui ci racconta il primo arresto del marito, nel maggio 1934, mentre Anna Achmatova era loro ospite, fino alla deportazione che condusse il poeta a morire (27 dicembre 1938) in un campo di transito mentre veniva condotto nel lager di Kolyma.

Speranza contro Speranza è la storia di un amore vissuto oltre la vita, quasi un superamento di questa vita, qualcosa di più potente e determinato.

Non c’è nulla di sentimentale in tutto questo e non si fanno sconti a un regime che ha passato ai raggi x un’intera classe di intellettuali e poeti per spegnere la loro luce.

Ecco allora il vero valore della rivoluzione giusta e bella secondo Nadežda: la poesia supera di gran lunga quel prodigio, quell’intuizione improvvisa e diventa una battaglia ostinata, parola dopo parola, verso dopo verso, ai limiti del possibile sradicando la lingua quotidiana per spiccare il volo.

Se Nadežda non avesse avuto questo coraggio, il gesto prode e temerario di affrontare il sistema con l’arma della sola parola, Mandel’štam sarebbe morto parecchi anni prima e la sua opera sarebbe andata certamente distrutta.

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Il montanaro del Cremlino https://www.carmillaonline.com/2023/02/22/il-montanaro-del-cremlino/ Wed, 22 Feb 2023 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76146 a cura di Giorgio Bona

Viviamo insensibili al paese che ci regge

Le nostre voci non si sentono a pochi passi

Ma basta una mezza conversazione

Per evocare il montanaro del Cremlino.

Le sue grasse dita sono gonfie come bachi,

le sue parole scendono come un peso di cento chili.

Ridono gli enormi baffi da scarafaggio,

luccicano i suoi stivali, catturano lo sguardo.

Intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,

mezzi uomini con cui si diverte notte e giorno.

Uno fischia, l’altro miagola, un  terza ghigna,

solo lui tiene [...]]]> a cura di Giorgio Bona

Viviamo insensibili al paese che ci regge

Le nostre voci non si sentono a pochi passi

Ma basta una mezza conversazione

Per evocare il montanaro del Cremlino.

Le sue grasse dita sono gonfie come bachi,

le sue parole scendono come un peso di cento chili.

Ridono gli enormi baffi da scarafaggio,

luccicano i suoi stivali, catturano lo sguardo.

Intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,

mezzi uomini con cui si diverte notte e giorno.

Uno fischia, l’altro miagola, un  terza ghigna,

solo lui tiene il timone e indica la rotta.

Batte regole su regole, sembra un vero fabbro,

le pianta a chi nell’inguine, a chi negli occhi, a chi dritto in fronte.

Ogni esecuzione è per lui piacere,

si lecca i baffi l’Osseta dal grande stomaco.

 

Sono i passi dell’ultima versione de Il montanaro del Cremlino che il poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) scrisse su Stalin.

Così si rivolse il poeta, quando nel 1938, ormai minato nel corpo e nella mente, perduto in un labirinto di ossessioni, dialoghi immaginari che ripercorrono con passo leggero quella che è stata la sua poesia e la sua prosa, i versi di Dante e il ricordo del viaggio in Armenia, si avvicina alla morte in un campo di transito per la Siberia.

Di questo lungo viaggio verso la deportazione parla Varlam Šalamov ne I racconti della Kolyma, precisamente in un racconto che ha per titolo Pane. Šalamov, arrestato per attività controrivoluzionaria trockista, viene condannato a cinque anni di lavori forzati prolungati fino alla fine della guerra.

Venus Khoury-Ghata, scrittrice di origine libanese che vive in Francia, nel suo libro Gli ultimi giorni di Mandel’štam, racconta il poeta raggomitolato sotto una coperta in un campo di transito vicino a Vladivostock.

La pagnotta del mattino, la zuppa della sera. Il braccio del poeta ormai privo di forze alzato dal vicino per avere una razione di pane in più.

Il poeta non arriverà mai a Kolyma. Il suo cadavere gettato in una fossa comune, un corpo anonimo con altri corpi.

Kolyma prende il nome dal fiume omonimo che sfocia nel Mare Siberiano Orientale. Scriveva Michail Geller: Kolyma era un’industria sovietica che dava al paese oro, carbone, stagno e uranio, nutrendo la terra di cadaveri.

 

Campo di concentramento di Vtoraja Rečka presso Vladivostok

Avanti, oltre la selva oscura che la diritta via era smarrita.

Il dolore, il male, non hanno vie d’uscita.

Soltanto vicoli ciechi.

Facce scavate, che venivano da anni di persecuzioni, di non appartenenza a nessun luogo.

Quando il treno dei deportati si avviava ecco levarsi un brusìo, una protesta molle come la scorreggia di un verme.

Puzza di petrolio, di pagliericcio fradicio e del secchio di rifiuti cosparso di acido fenico.

Ripeteva di continuo che sentiva la mancanza dei suoi libri, che non gli avevano consentito di portarne nemmeno uno e che La Divina Commedia era stata sottratta dalle sue tasche.

Ora sono suoi quei versi di Dante che pungevano il cuore dei pellegrini d’amore.

I naviganti delle incerte rotte, dell’esilio, sospinti verso l’ignoto condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della squilla, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’oblio ai dolci amici in patria.

Il diavolo osservava la scena dal liquame in cui era immerso.

In attesa dell’angelo vendicatore.

Nelle onde dell’etere, nello spazio e nel tempo, ascoltava soltanto la voce che veniva da dentro: risveglia il poeta che si è addormentato dentro di te!

Steso su una tavola di legno sentiva la vita sfuggirgli di mano.

Le sue mani, gonfiate dalla fame, le dita esangui e le unghie sporche, erano incrociate sul suo petto nella posizione del riposo eterno.

Stava morendo, forse era morto da lungo tempo

Eppure, ogni tanto, la vita tornava a fargli visita, gli occhi si aprivano, si sforzava di pensare.

Non credeva nell’immortalità.

Credeva soltanto nell’immortalità dei suoi versi.

In quei momenti in cui ritornava la vita, la poesia fluiva nella sua testa come lo scalpitare di un branco di cavalli al galoppo.

Giaceva immobile come se fosse davanti a un foglio bianco.

Qualcuno gli aveva sottratto la forma di pane che aveva accanto.

La fame era una brutta bestia, tanto lui in quelle condizioni non avrebbe toccato una briciola.

Amico segreto, amico lontano, guardami! Sono la fredda e mesta luce dell’alba… il freddo e mesto di primo mattino, amico segreto, amico lontano, io morirò.

Perché questi versi giungano al destinatario ci vorranno forse le medesime centinaia di anni che ci mette una stella per far giungere la propria luce a un pianeta lontano.

Ora le immagini che si presentavano ai suoi occhi non erano più quelle dell’infanzia, della giovinezza, dei periodi felici con la famiglia.

Nel suo delirio, nel suo estraniarsi da un mondo terribile avrebbe continuato a scrivere con più passione di prima.

Chi avrebbe desiderato leggerlo poteva farlo.

Lui avrebbe riempito la pagina di più eternità possibile.

Doveva solo dar tempo ai suoi fantasmi di andarsene.

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Il senso di Mosca per l’esplosione psichica https://www.carmillaonline.com/2023/02/18/il-senso-di-mosca-per-lesplosione-psichica/ Sat, 18 Feb 2023 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76141 di Franco Pezzini

Giorgio Bona, La lacrima della giovane comunista, pp. 177, € 15, Arkadia, Cagliari 2022.

Cominciamo da un dettaglio apparentemente paradossale. La lacrima della giovane comunista che offre titolo a questo bel romanzo di Giorgio Bona è un cocktail dalla ricetta almeno losca, ma diciamo francamente tossica, per bevitori disperati (basti dire che tra gli ingredienti, oltre la vodka, contiene shampoo antiforfora, lacca per capelli e unghiolina): un mix che la dice lunga su tutta una realtà spuria e intossicante descritta in queste pagine. Ma la tristezza in quel nome sottesa [...]]]> di Franco Pezzini

Giorgio Bona, La lacrima della giovane comunista, pp. 177, € 15, Arkadia, Cagliari 2022.

Cominciamo da un dettaglio apparentemente paradossale. La lacrima della giovane comunista che offre titolo a questo bel romanzo di Giorgio Bona è un cocktail dalla ricetta almeno losca, ma diciamo francamente tossica, per bevitori disperati (basti dire che tra gli ingredienti, oltre la vodka, contiene shampoo antiforfora, lacca per capelli e unghiolina): un mix che la dice lunga su tutta una realtà spuria e intossicante descritta in queste pagine. Ma la tristezza in quel nome sottesa corre per tutto il testo – e questo si può dire senza spoilerare.

In Italia il nome di Venedikt Vasil’evič Erofeev (1938-1990) non è molto noto al grande pubblico. Della sua produzione, seminata in una vita tragicamente inquieta, tre edizioni sono più o meno disponibili solo dell’opera maggiore Moskva-Petuškì (Москва-Петушки, 1973), circolata in Unione Sovietica per la prima volta nel 1970 come samizdat e poi pubblicata, in russo, in Israele nel 1973: cioè Mosca sulla vodka, Feltrinelli, 1977, 2004; Tra Mosca e Petuški, Fanucci, 2003; e in ultimo Mosca-Petuškì: poema ferroviario, traduzione di Paolo Nori, Quodlibet, 2014. In tempi più recenti, ad arricchire il quadro è apparso Memorie di uno psicopatico (Записки психопата, 1956-58, redatto dopo l’espulsione dell’autore dalla facoltà di lettere), Miraggi edizioni, 2017. Ma rispetto alla quantità delle opere materialmente scritte da Erofeev, gran parte delle quali probabilmente perdute per sempre, si tratta di una porzione molto contenuta.

Non è strano dunque il magnetico interesse provato dalla voce narrante del romanzo, un docente universitario dell’Ateneo del Piemonte Orientale, all’offerta di un funzionario consolare russo, tal Viktor Demanenko, che sul punto di tornare in patria evoca promettenti possibilità di porre mano su materiali di quell’autore, non riabilitato – a differenza di tanti altri – dal nuovo corso. Il Nostro parte così per una Russia che nell’epoca immediatamente successiva alla Perestroika dimostra solo molto superficialmente un mutare di tempi. Con parecchia determinazione e altrettanta ingenuità il protagonista dovrà presto rendersi conto che a dispetto della sopravvivenza di truci apparati di polizia e orrendi funzionari che li utilizzano, tutto in Russia si vende: corpi e anime, a voler ricordare la profezia di Bulgakov sull’inatteso Visitatore a spasso per Mosca. Con la differenza che di comunismo in giro ora non se ne vede più neanche un grammo.

Sperduto nel dedalo di un labirinto che lo condurrà molto vicino all’ormai defunto scrittore, con la sensazione di essere continuamente sorvegliato, il professore finisce alla deriva di contatti umani untuosi e incerti, di notti di sesso retribuito in modo più o meno esplicito, di storie squallide o invece tragiche che gli renderanno chiaro il senso di esplosione psichica patito da Erofeev e dal suo piccolo mondo. L’evocazione d’ambiente di tutta una società in decomposizione e in caduta libera sul piano dell’identità, tra ricordi tragici e un presente ostentato di brutalità poliziesca, è condotta bene, con ombre nostalgiche per dimensioni affascinanti di un’altra Mosca del passato ed echi di una grande cultura in ostaggio di burocrati e piccoli profittatori. Quanto alle lacrime, ne troverà fin troppe – anche tragicamente genuine.

Tra le opere dell’autore Giorgio Bona, i romanzi Sangue di tutti noi (Scritturapura, 2012), ricostruzione dell’omicidio del dissidente comunista Mario Acquaviva, Le cicale cantano nel nostro silenzio (A&B Editrice, 2019) e Da qui all’eternit (Scritturapura, 2021), sulla vicenda dell’amianto di Casale Monferrato.

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Viaggiare attraverso una città condannata https://www.carmillaonline.com/2021/06/13/viaggiare-attraverso-una-citta-condannata/ Sat, 12 Jun 2021 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66654 di Giulia Baselica

Arkadij e Boris Strugackij, La città condannata, trad. di D. Liberti, Roma, Carbonio, 2020, pp. 432, € 18,00.

Sullo sfondo di un cielo annuvolato e minaccioso si staglia un’austera fortezza e un enorme serpente avvolge con le sue spire le mura della città: fu proprio questa immagine, che il pittore Nikolaj Rerich dipinse nel 1914, attribuendole il titolo Grad obrečennyj [La città condannata], a suggerire ad Arkadij e a Boris Strugackij l’idea fondante dell’omonimo romanzo. L’atmosfera onirica e profetica, le scure tonalità cromatiche del cielo e dei monti [...]]]> di Giulia Baselica

Arkadij e Boris Strugackij, La città condannata, trad. di D. Liberti, Roma, Carbonio, 2020, pp. 432, € 18,00.

Sullo sfondo di un cielo annuvolato e minaccioso si staglia un’austera fortezza e un enorme serpente avvolge con le sue spire le mura della città: fu proprio questa immagine, che il pittore Nikolaj Rerich dipinse nel 1914, attribuendole il titolo Grad obrečennyj [La città condannata], a suggerire ad Arkadij e a Boris Strugackij l’idea fondante dell’omonimo romanzo. L’atmosfera onirica e profetica, le scure tonalità cromatiche del cielo e dei monti cui si contrappone il colore rosso fuoco del serpente ancora oggi trasmettono allo spettatore una sensazione di angoscia, suscitata dalla memoria dell’infinita sofferenza, della morte e della devastazione causate dalla imminente guerra mondiale. È la traduzione artistica di un sogno premonitore, il tragico annuncio di una disgrazia e, nel contempo, monito per l’uomo di ogni tempo e di ogni latitudine a mantenere vigile la propria coscienza e a sfuggire le insidie del male universale.

Molto opportunamente l’editore Carbonio riproduce l’immagine del dipinto sulla copertina del volume, così richiamando l’originaria connessione fra l’ispirazione del pittore contemplativo e l’intuizione dei fratelli Strugackij. La città condannata è infatti un romanzo visionario e metaforico, sorta di antiutopia incastonata in un simbolico cammino di maturazione, scandito dalle cinque parti di cui si compone – Il netturbino, L’inquirente, Il redattore, Il signor consigliere, Discontinuità, Esodo – e che costituiscono le successive fasi evolutive affrontate dal protagonista Andrej Voronin, caratterizzato da un nome e da un cognome russi. Gli altri personaggi, con la loro connotazione onomastica, rimandano, invece, a una pluralità di Paesi, culture e lingue: l’americano Donald Cooper, la svedese Selma Nagel, il giapponese Kenshi, l’ebreo tedesco Iz’ja Katzmann, il cattolico polacco Pani Stupal’skij, il cinese Wang e numerosi altri. L’ambientazione della Città condannata è priva di coordinate spazio-temporali: i mutevoli, ma realistici scenari, in cui hanno luogo le vicende narrate, i dialoghi tra i personaggi e le riflessioni di Andrej si collocano in paesaggi urbani o naturali che generano svariate reminiscenze storiche, geografiche e letterarie.
Ogni accadimento pare determinato da un ignoto potere oligocratico che ha avviato un Esperimento: nessuno sa da quanto tempo è in atto, né quando terminerà e il suo fine apparente – questa l’iniziale convinzione di Andrej – «è l’instaurazione della dittatura del proletariato in alleanza con i lavoratori della terra». Soprattutto l’Esperimento impone una condizione: credere e rinunciare a capire, perché la mancanza di fede è causa di decadenza, distruzione e morte.

L’astronomo Andrej Voronin inizia il proprio percorso esistenziale come netturbino, impegnato con la sua squadra a liberare la Città dai giganteschi babbuini che l’hanno invasa. Successivamente è promosso inquirente, con l’incarico di indagare sul caso di un misterioso edificio rosso che, visibile solo di notte, si sposta da un distretto all’altro e fagocita i malcapitati che vi entrano. Diviene, poi, caporedattore di un giornale di opposizione, alla cui redazione vengono recapitate numerose lettere di cittadini che denunciano gli abusi di potere e i misfatti perpetrati dal governatore della Città e che devono essere distrutte. Il rogo delle «carte scritte dalle persone intelligenti» diviene l’emblema di una società in cui il libero pensiero e la parola che lo esprime sono stigmatizzati, perché segno inequivocabile di una consapevolezza critica non allineata con l’ideologia ufficiale, e nella coscienza di Andrej, a poco a poco, si apre la dolorosa ferita del dubbio. Cambia il governo e Andrej viene nominato consigliere: la sua posizione gerarchica sempre più lo induce a riflettere sul rapporto tra massa e organi di potere. L’ultima sua missione consiste nel guidare una spedizione esplorativa in un territorio sconfinato, situato in un indefinito nord, allo scopo di individuare l’inizio del mondo. È un viaggio iniziatico – che culmina nell’attraversamento di un pantheon abbandonato e assimilabile a una fitta foresta, simbolica esperienza della morte – al termine del quale Andrej raggiunge la vera consapevolezza di sé: ha smarrito ogni certezza e tutte le sue azioni d’improvviso gli appaiono prive di senso. È il Mentore, misterioso interlocutore che inaspettatamente si materializza nei momenti nodali dell’avventurosa esistenza di Andrej Voronin, a consegnargli il definitivo viatico: «Le è appena stata impiantata la comprensione e questo le dà la nausea e non capisce a cosa diavolo serva, e non la vuole» che pare richiamare il motivo, di segno opposto, della fantasia asportata mediante lobotomia dai cervelli degli Uomini Nuovi, cittadini dello Stato Unico nel romanzo Noi di Evgenij Zamijatin.

Nell’Esodo, parte conclusiva del romanzo – connotata dal richiamo al biblico motivo della miracolosa liberazione dalla schiavitù, in questo caso ideologica – Andrej incontra sé stesso nelle parole che gli rivolge l’amico Iz’ja: «vedo in te un uomo ormai maturo, che ha distrutto tutto ciò che venerava e ora non sa più cosa deve venerare. E tu non puoi vivere senza venerare». Alla simbolica morte della vecchia coscienza di Andrej consegue una rinascita, un nuovo inizio, in uno scenario dall’inattesa dislocazione cronologica.

Come sempre, nei romanzi dei fratelli Strugackij, la lucida visione della società e delle sue complesse trasformazioni; dell’uomo e dei suoi cambiamenti profondi se da un lato è ispirata alla loro contemporaneità, dall’altro assume un valore atemporale, offrendosi al lettore dell’età presente come strumento di indagine per sollecitare la coscienza e interrogarla; per spingere lo sguardo ai confini del vasto mondo, mediaticamente trasformato in una regione circoscritta e prossima; infine, dopo aver liberato l’intelletto dalle catene del condizionamento e dell’omologazione, per tentare di comprendere sé stesso e la realtà che lo circonda, con onestà e coraggio.

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