letteratura inglese – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Weird & straniamento: le flâneries stilistiche di Arthur Machen (Victoriana 55) https://www.carmillaonline.com/2024/10/21/weird-straniamento-le-flaneries-stilistiche-di-arthur-machen-victoriana-55/ Mon, 21 Oct 2024 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84758 di Franco Pezzini

Arthur Machen, Un frammento di vita – Il popolo bianco, trad. dall’inglese di Elena Furlan, pp. 236, € 21,90, Hypnos, Milano 2018.

Tra i connotati che rendono così difficile considerare il weird un genere congruo alle tassonomie commerciali – a differenza di fantascienza, fantasy, horror… –, si è considerata la gestione paradossale della coordinata tempo (cfr. qui); ma merita qui esaminare almeno un altro aspetto. Con riguardo a uno degli autori più comunemente considerati weird, il grandissimo Arthur Machen: un raffinato simbolista, un animo genuinamente mistico e un potente visionario, che non è scorretto – ma solo [...]]]> di Franco Pezzini

Arthur Machen, Un frammento di vita – Il popolo bianco, trad. dall’inglese di Elena Furlan, pp. 236, € 21,90, Hypnos, Milano 2018.

Tra i connotati che rendono così difficile considerare il weird un genere congruo alle tassonomie commerciali – a differenza di fantascienza, fantasy, horror… –, si è considerata la gestione paradossale della coordinata tempo (cfr. qui); ma merita qui esaminare almeno un altro aspetto. Con riguardo a uno degli autori più comunemente considerati weird, il grandissimo Arthur Machen: un raffinato simbolista, un animo genuinamente mistico e un potente visionario, che non è scorretto – ma solo limitante – ascrivere alla grande storia del fantastico. La sua produzione conosce varie stagioni, dunque è difficile pretendere di compattarla in un’unica formula: ma si può esaminarne una parte nota al pubblico italiano appunto con l’etichetta weird. Accantoniamo per ora i notissimi Il gran dio Pan (1894) e I tre impostori (1895), splendide prove ad alto tasso di “nero”, e soffermiamoci sulla stagione immediatamente a cavallo tra i due secoli.

Per farlo, prendiamo in mano un volume uscito anni fa un po’ silenziosamente per i tipi Hypnos con sempre ottima traduzione di Elena Furlan, e in realtà di straordinario interesse per la scelta di materiale proposto. Le due opere principali abbinate, il romanzo breve Un frammento di vita (versione 1906) e il notissimo racconto Il popolo bianco (1904) sono infatti accompagnati da due appendici, il mutato capitolo IV di Un frammento di vita (come nell’originale versione 1904) e il brevissimo Un doppio ritorno (1890) che ai due testi più lunghi prelude idealmente. Attenzione, seguiranno – necessariamente – spoiler.

Dipaniamo i testi in ordine cronologico a partire dunque da quest’ultimo, A Double Return, apparso su “The St. James’s Gazette”, 11 settembre 1890: il pittore Frank Halswell, reduce da un viaggio in Devon e Cornovaglia a fare bozzetti, sta tornando a Londra – e gli pare di vedere nello scompartimento di un treno passato in direzione opposta al suo nientemeno che un Doppio di se stesso. Gli eventi che a casa, a Londra, lo attendono, forniranno una sorta di sghemba conferma. In questo testo non è strano che il fulminante capoverso in cauda (informazioni quasi stenografiche sulla nuova partenza di Frank, vagamente misteriosa, e la morte della moglie) imprima una raggelante sterzata alla storia: per quanto le informazioni in chiusura contenute non trovino un nesso necessario con quanto precede, l’epifania del Doppio si è spesso associata a situazioni liminari rispetto alla vita. Certo ci è oggi difficile comprendere come il racconto, apprezzato da Oscar Wilde, possa aver dato scandalo al punto da far interrompere i rapporti tra Machen e la rivista: le storie di Doppi erano state frequenti in tutta la letteratura ottocentesca, quindi dobbiamo ravvisarne il motivo proprio in quel finale “scioccante”.

I siparietti con la moglie e con la cameriera ma soprattutto un certo tipo di costruzione narrativa introducono comunque idealmente a quelli che costituiscono il grosso di A Fragment of Life: un romanzo che in apparenza potrebbe sembrare al lettore una storia di costume – meravigliosamente tessuta – sulla banalità di una vita inglese all’inizio del secolo e i conati di reazione al grigiore da parte un soggetto fantasioso. Una storia in larga parte, diciamolo subito, ben difficilmente percepibile come weird. La vicenda di Edward Darnell, contabile nella City e della neosposa Mary Reynolds si consuma nel grigiore: i dubbi su come impegnare una cifra donata loro dagli zii e non investita in banca (forse arredando una certa stanza vuota della casa? E come ottimizzare le spese di arredamento?), i rimpianti per le spese inutili di lui da scapolo e le soluzioni per economizzare ora con decoro, l’atteggiamento molto convenzionale della moglie pur tanto innamorata, le bizzarrie dei vicini, i lunghi confronti sull’acquisto di una nuova cucina economica, i problemi con la distratta domestica Alice e la madre arpia del ragazzo di lei.

 

Così, giorno dopo giorno, viveva in quel grigio mondo spettrale affine alla morte, che è riuscito a ottenere di essere chiamato vita dalla maggior parte di noi. A Darnell la vera vita sarebbe sembrata follia, e quando ogni tanto le ombre e le vaghe immagini riflesse del suo splendore cadevano sul suo cammino, si spaventava e si rifugiava in quella che avrebbe chiamato la stessa “realtà” degli incidenti e degli interessi comuni e consueti. La sua assurdità era forse più evidente in quanto la “realtà” per lui era una questione di cucine economiche, di risparmiare qualche scellino; ma in verità la follia sarebbe stata più grande se avesse riguardato cavalli da corsa, panfili a vapore e lo spendere molte migliaia di sterline.

Così andava avanti Darnell giorno dopo giorno, scambiando stranamente la morte per vita, la follia per buonsenso, e spettri vaganti senza scopo per esseri reali. Era sinceramente dell’opinione di essere un impiegato della City, che viveva a Shepherd’s Bush – dimentico dei misteri e delle lontane glorie splendenti del regno che era sua legittima eredità.

 

Solo a un certo punto Darnell riesce a condividere ciò che confusamente trattiene in sé, quella fascinazione per un mondo altro in fondo più che a portata di mano: e racconta alla moglie l’incanto di lontani pellegrinaggi notturni carichi di rêverie, “come se stess[e] andando in esplorazione” nel tessuto urbano di una Londra minore, lasciando Mary sorpresa e affascinata, con “lo sguardo di qualcuno che desiderava e quasi si aspettava di essere iniziato ai misteri, che non sapeva quale grande meraviglia stava per essere rivelata”. Non è strano, i personaggi di Machen sono spesso flâneurs.

“C’era nella voce di Darnell un rapimento tale da rendere la sua storia quasi un canto”, e alla manifestazione entusiasta della moglie lui ribatte “ho sempre temuto che fossero tutte sciocchezze”.

La vita torna a ingoiarli con le sue banalità, e il rischio – per fortuna sfumato – che la quotidianità della coppia venga espropriata dalla temibile convivenza con una zia, che però si rivelerà vaneggiante (la storia è piuttosto divertente). Tuttavia qualcosa si è mosso nel cuore di Edward, che inizia a beneficiare del riverbero di una serenità nuova, e a maturare

 

la certezza che il “buonsenso”, che aveva sempre sentito esaltare come una delle massime facoltà dell’uomo, fosse, con tutta probabilità, l’articolo più infimo e meno considerato nell’equipaggiamento di una formica di intelligenza media. E con questa certezza, come corollario quasi inevitabile, venne la ferma convinzione che l’intero tessuto dell’esistenza in cui si muoveva fosse sprofondato, oltre ogni immaginazione, nella più crassa assurdità: che lui e tutti i suoi amici e conoscenti e colleghi si interessassero a questioni a cui l’uomo non si sarebbe mai dovuto interessare, che stessero perseguendo scopi che non avrebbero mai dovuto perseguire,

 

e che insomma la vita si esaurisse nella ricerca di qualcosa che non sapeva più identificare, i cui segnali indicatori si fossero persi nel tempo. Ma lentamente recupera ricordi lontani, e un giorno di pioggia si inabissa tra le carte di famiglia… Con un misto di meraviglia e preoccupazione della moglie riavvicina così storie delle proprie remote origini gallesi, vagheggia di trasferirsi laggiù nell’antica casa di famiglia in una zona solitaria e pittoresca, racconta del più lontano degli avi, Santo Iolo, e di suo padre e dei suoi amici, che “avevano tutti lo stesso sguardo, come se anelassero a qualcosa di nascosto”, mirando a “misteri che non ho mai capito” e disprezzando il denaro e i suoi problemi, perché “in un certo senso, il mondo intero non è che una grande cerimonia o sacramento”. Nonché iniziando a intuire

 

che se nella Nuova Vita c’erano gioie nuove e mai immaginate, c’erano anche nuovi pericoli mai immaginati […] C’erano accenni a una regione spaventosa in cui l’anima sarebbe potuta entrare, a una trasformazione mortale, a evocazioni che avrebbero potuto chiamare le somme forze del male dai loro luoghi oscuri; in una parola, a quella sfera che è rappresentata alla maggior parte di noi sotto il simbolismo crudo e un po’ infantile della Magia Nera.

 

E recupera il ricordo di un episodio dell’infanzia, quando si era recato con suo zio in una fattoria dove si erano verificati dei problemi. Lì erano stati accolti in una stanza piena di donne spaventate: e il canto di ragazza echeggiato all’improvviso dal piano di sopra – il cenno è fuggevole, ma sarebbe un peccato dir di più e occorre accostare il testo per capire come vi si sia vista un’anticipazione di The Exorcist di Blatty – richiama, con potenza liturgica ma invertita, le forze del male. Le donne sono terrorizzate, emerge che la ragazza “è stata lassù”, pur senza conoscerne la strada: un luogo dove ora non dovrebbe esserci più nulla, ma chi ci va si perde, viene preso… E ora quel ricordo terribile, una storia di cui Darnell non aveva saputo più nulla e aveva rimosso, riemerge dal suo passato.

E a questo punto, ecco la svolta:

 

Sarebbe impossibile continuare oltre la storia di Edward Darnell e sua moglie Mary, dato che da questo punto la loro leggenda è piena di eventi impossibili, e sembra indossare le vesti delle leggende del Graal. È certo invero che cambiarono le loro vite in questo mondo, come re Artù, ma questo è un lavoro che nessun cronista ha voluto descrivere in dettaglio.

 

Le poche informazioni successive mostrano una vita del tutto trasfigurata.

Mi pare che, al di là di quest’ultima suggestione, ciò che appare in prima misura weird, spiazzante, straniante, sia la tecnica di scrittura: un lungo racconto che parla di tutt’altro, assume caratteristiche da storia – e a volte commedia – di costume, e poi conduce un’improvvisa virata in chiusura a trasfigurare nel mistico, nel fantastico, nel poetico.

Interessante a questo punto è avvicinare il mutato capitolo IV di questa storia (come nell’originale versione 1904): non figurava l’incontro con il marito della zia – la conclusione della sua vicenda veniva riassunta – né il mutato approccio di Darnell verso il rischio di una convivenza con lei, né il recupero dell’episodio sinistro dell’infanzia, ma di nuovo veniva impressa una sterzata tale da lasciare il lettore stranito. “[…] da un punto di vista esteriore la fine della storia è ancora più chiara, dal momento che Darnell e sua moglie morirono entro un anno dalla visita della signora Nixon [la zia]”: polmonite doppia per Mary, e il marito la segue in una settimana. “Immagino che […] sarebbe possibile mettere in parallelo la vita di Darnell e sua moglie con altre migliaia di vite in tutto simili da un punto di vista esteriore”: vite, agli occhi del mondo, senza una “storia” o senza una “struttura” – quelle che agli amici al funerale danno la sensazione d’essere sfuggite tra le dita. E alle quali solo un maestro d’interiorità o uno scrittore dotato pensano di riconoscere una “forma”, ancorché non canonica.

Il testo proseguiva con alcune frecciate sulla scuola del tempo, si sottolineava la tragicità del profilo dell’impiegato nel grigiore dell’ufficio e soprattutto in quello proiettato a casa (con alcune riflessioni anche limitatamente condivisibili sulla sorte più felice di un servo della gleba medioevale – ma sono idealizzazioni comuni a tutto un filone d’epoca, e non certo marxista – al di là di singole interessanti provocazioni su un certo tipo di abbrutimento moderno).

 

Eppure fu da questa razza, assordata ammutolita e accecata, che venne un uomo il quale recuperò in larga parte il regno e il sacerdozio che sembrano essere stati non semplicemente perduti (quello ahimè è il destino della maggior parte di noi), ma completamente dimenticati, come se non fossero mai esistiti.

 

Affascinato da questo miracolo, il narrante ha raccolto, annotato e cucito gli scampoli della vita di Darnell in modo lontanissimo da quello della comune biografia. Ipotizzando che in grazia del sangue degli antenati quell’uomo sia riuscito a superare le esperienze tossiche del luogo e dell’epoca: e della storia pregressa della famiglia vengono fornite una serie di informazioni, compreso il matrimonio di un antenato con Mary Vaughan sorella del filosofo (merita ricordare l’infernale Helen Vaughan del gran dio Pan e la farlocca Diana Vaughan, satanista pentita del famoso “affare Taxil”, 1897) nonché la vicenda di un tesoro sepolto, invano cercato dal padre del Nostro. E che parrà rivelarsi essenzialmente spirituale.

Conviene peraltro considerare che soluzioni formali almeno simili si trovano in altre due opere macheniane dello stesso periodo. Il bellissimo, febbricitante La collina dei sogni (The Hill of Dreams, composto 1895-1897, pubblicato 1907), dopo aver trattato le crisi del giovane Lucian Taylor nell’aprirsi la strada attraverso la scrittura – anche qui si citano i Vaughan –, cita fuggevolmente inquietudini rispetto a un certo forte romano e dedica al suo scorcio sabbatico uno spazio ultimo prima del decesso del protagonista. Mentre Il segreto del Graal (The Secret Glory, composto 1899-1908, pubbl. 1922), con moto parallelo, vede il giovane Ambrose Meyrick affrontare le brutture delle scuola pubblica vittoriana, la scoperta del sesso e ricevere la visione che lo pone idealmente nelle schiere dei cavalieri graalici – e anche qui tutto termina con un finale straniante, crocifisso in oriente a ottenere il martirio rosso e portare a termine la Cerca. In queste chiuse crudeli di itinerari esistenziali (il lavoro, la scrittura, la formazione) e nell’evocazione di santità e ombre vertiginose, Machen mostra la capacità di spiazzare il lettore – che a un certo punto si domanda cosa stia leggendo.

Per capire invece meglio il riferimento alla scena sinistra dell’infanzia di Darnell alla fine del romanzo, la raccolta abbina opportunamente il racconto The White People (composto 1899, in odore di Gran dio Pan, e pubblicato 1904): che inizia con alcune straordinarie pagine di dialogo tra due personaggi (Ambrose e Cotgrave) sul tema del rapporto tra santità e stregoneria, sul “diffusissimo errore di confinare il mondo spirituale ai supremamente buoni” e sulla contemporanea sopravvalutazione e sottovalutazione del male: l’essenza del peccato sarebbe “un tentativo di penetrare in una sfera più alta con mezzi proibiti […] È il miracolo infernale come la santità è quello divino”. Sono pagine di affascinante profondità e vi si rimanda senz’altro. Ma a un certo punto Ambrose presta all’interlocutore un libro che c’entra con il tema dibattuto. Si tratta di Il libro verde, e una ragazza spiega che vi annoterà

 

molti dei vecchi segreti e alcuni di nuovi; ma ce ne sono alcuni che non scriverò affatto. Non devo scrivere i veri nomi dei giorni e dei mesi che ho scoperto un anno fa, né il modo di tracciare le lettere Aklo o la lingua Chian, o i grandi bellissimi Cerchi, né i Giochi Mao, né le canzoni principali. Potrei scrivere qualcosa su queste cose ma non il modo per farle, per motivi particolari. E non devo dire chi sono le Ninfe, o i Dôl, o Jeelo, o cosa significa voolas.

 

Eccetera. Presentato qui magnificamente bene, è però un gioco narrativo che conosciamo come classico del weird: da Bierce a Hope Hodgson, a Lovecraft e in una quantità di altri autori troviamo questo tipo di cenni obliqui – in qualche caso gli stessi, per esempio le lettere Aklo – ad alludere a conoscenze proibite, quasi stenografate nell’ammiccamento dei rimandi esoterici.

In ogni caso la ragazza che scrive è edotta in conoscenze francamente arcane, e scopriamo che fin da piccola ha fatto conoscenza con il Popolo Bianco. A quasi quattordici anni si perde in un luogo ignoto tra le colline e rocce dai sembianti spaventosi, con il cuore “pieno di canti malvagi che ci mettevano loro”: s’intravede il ruolo d’iniziazione di una bambinaia che le aveva raccontato storie strane, e in particolare una fiaba su una ragazza povera che da una certa buca profonda torna coperta di pietre preziose. Il principe la sposa, ma un uomo nero pretende sia sua moglie e la porta via… La quattordicenne riesce infine a tornare a casa, dove il padre non ha notato la sua assenza ma i domestici sono preoccupati.

Non seguiamo dettagliatamente in questa sede l’avventura della ragazzina e il dedalo di esperienze pregresse e di storie della bambinaia che richiamano, le une e le altre, il mondo delle fate – quelle, potremmo dire, del folklore più autentico, ambigue, affascinanti e temute. La bambinaia sa anche modellare con l’argilla bagnata sorta di bambole a cui “rendere omaggio”, e qui entriamo in un territorio persino più sinistro. Ma poi la bambinaia racconta alla ragazzina la storia di Lady Avelin, che il popolo danzante chiamava Cassap e “sapeva più di chiunque altro sulle cose segrete”. In apparenza è bella e soave, attrae i serpenti in modo curioso, e sa produrre un bambolotto di cera come quello fatto dalla bambinaia ma capace di animarsi – e fin qui sembra un’eroina feerica da fiaba gentile. Peccato che poi, usando il bambolotto, faccia morire orribilmente uno dopo l’altro i cavalieri suoi pretendenti – e possiamo ancora consolarci pensando che forse erano molto noiosi, ma ci attenderemmo per la birichina una soluzione morbida. E invece la storia assume un sapore diverso, perché Lady Avelin viene denunciata da un testimone:

 

la portarono per la città in camiciola, e la legarono a una grande pira sulla piazza del mercato e la bruciarono viva davanti al vescovo, con la sua bambola di cera appesa al collo. La gente disse che l’uomo di cera gridava mentre le fiamme ardevano.

 

Lentamente, per bocca della bambinaia, la ragazzina riceve una quantità di istruzioni su “giochi” più o meno inquietanti, e ha una serie di esperienze che la lasciano perplessa – una volta si confronta col padre e lui sgrida la bambinaia, dunque decide che non gli racconterà più niente, e quella prende a offrire i propri racconti quando sono lontane da casa. Evidentemente “c’era ogni sorta di cose incantevoli e terribili a cui pensare”: e quella che si consuma è di fatto un’iniziazione alla stregoneria, per quanto morbida nei toni, e alla fede in genti altre come le ninfe e il generale il popolo bianco.

Nell’Epilogo Cotgrave restituisce il libro ad Ambrose, che fornisce alcuni obliqui chiarimenti. La ragazza autrice del memoriale è morta, l’ha trovata lui in uno dei luoghi lì descritti: morta davanti a una statua romana sbiancata dai secoli e “incorporata nella mostruosa mitologia del Sabba” – e che ora lui ha fatto distruggere. Ma a essere strana e orribile, chiarisce, non è tanto questo seguito, ma la storia in sé, “perché ho sempre creduto nella meraviglia dell’anima”: e qui Machen addita la chiave anche formale, stilistica dello straniamento. Il racconto cresce come uno sviluppo del tema trattato nel Gran dio Pan, sull’irruzione devastante di un antico culto nella contemporaneità – con il ruolo fatale delle statue pagane – dunque non è questa la novità; come non lo è il fatto che l’orizzonte feerico, quando non addolcito in chiave di fiaba moraleggiante, presenti tratti allarmanti. A colpire sono piuttosto due aspetti, i vaghi echi neri (gestiti con grande misura) che increspano i toni fiabeschi del racconto adolescenziale, e l’ascrizione dell’avventura della ragazzina nel discorso-cornice sul Male. Ideale ordito dietro il fulminante e raggelante episodio al termine di Un frammento di vita, Il popolo bianco offre così anche in uno scarto strutturale (tra registro fiabesco/feerico e registro etico/demonologico) una forza straniante originalissima.

Indubbiamente il mistico Machen crede profondamente in quel che scrive in tema di santità e di male, e sarebbe difficile ritrovare tanta fede nella maggior parte degli odierni narratori di weird (Lovecraft stesso ne riprenderà gli stilemi in chiave nostalgica/sentimentale, di suggestione dei simboli e di ammirazione per un’antimodernità che gli pare simile alla sua – pur restando parecchio lontana). Ma la distanza è anche nel coraggio e nella libertà formale. A dispetto del suo tradizionalismo, sul piano formale Machen osa battere vie nuove: lo straniamento di questi finali che sovvertono tutta la narrazione precedente con uno spiazzamento del lettore (la morte della moglie in Un doppio ritorno, quella dei coniugi nella prima versione di Un frammento di vita, le scioccanti riemersioni di memoria nella seconda, ma soprattutto un tipo radicale di svolta a cui le rêverie di Darnell non avevano preparato) offrono al suo weird un senso autentico, vorrei lire letterale, di spiazzamento. In un’epoca che cita il weird a proposito e a sproposito, che tende a ricalcare compulsivamente  l’usato sicuro – proponendo insipidi lovecraftismi, tolkienismi eccetera – senza riflettere sulla carica di novità che i modelli avevano al loro tempo, meditare sulle strutture della narrazione inventate dai maestri del genere strano pare quanto mai prezioso.

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Vernon, incubi e miracoli (Victoriana 49/II) https://www.carmillaonline.com/2024/10/12/vernon-incubi-e-miracoli-victoriana-49-ii/ Sat, 12 Oct 2024 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84890 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Dark ladies, empatie sospette e fantasmi amanti

Vernon Lee, Ossessioni, trad. di Stefania Renzetti, introd. di Max Baroni, pp. 360, € 17, Agenzia Alcatraz, Milano 2023.

Come si è visto, la raccolta Santi e Diavoli (cfr. la precedente puntata) offre una delle diverse sfaccettature dell’eclettica produzione narrativa di Vernon Lee. Per apprezzare le altre – o almeno alcune altre, a fronte di un’opera persino più diversificata (idealmente da “Sant’Eudemone e il suo albero di arancio” si diramerebbe per esempio un filone di storie sul ritorno degli antichi dei in chiave minacciosa e rovinosa, di [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Dark ladies, empatie sospette e fantasmi amanti

Vernon Lee, Ossessioni, trad. di Stefania Renzetti, introd. di Max Baroni, pp. 360, € 17, Agenzia Alcatraz, Milano 2023.

Come si è visto, la raccolta Santi e Diavoli (cfr. la precedente puntata) offre una delle diverse sfaccettature dell’eclettica produzione narrativa di Vernon Lee. Per apprezzare le altre – o almeno alcune altre, a fronte di un’opera persino più diversificata (idealmente da “Sant’Eudemone e il suo albero di arancio” si diramerebbe per esempio un filone di storie sul ritorno degli antichi dei in chiave minacciosa e rovinosa, di cui qualche esempio era stato offerto da Sellerio, nella raccolta Dionea e altre storie fantastiche, 2001) – merita rifarci alla presente raccolta molto bella e ampia, che attinge a una pluralità di antologie originali: Hauntings. Fantastic Stories (1890), Vanitas. Polite Stories (1892), Pope Jacynth and Other Fantastic Tales (1904) e For Maurice. Five Unlikely Stories (1927). Ossessioni contiene senz’altro alcuni gioielli assoluti della produzione di Lee e quello che rappresenta forse il suo racconto capitale, “Amour Dure” (appunto da Hauntings. Fantastic Stories); e insieme mostra in modo emblematico l’eleganza assoluta del suo passo narrativo.

Come osserva Baroni nella bella introduzione:

 

Per Vernon Lee, l’ambientazione in cui si svolgono le vicende narrate non è mai solo un mero sfondo, ma è protagonista attiva. Un’altra delle caratteristiche principali intorno a cui ruota la sua narrativa fantastica è infatti senza dubbio il concetto di genius loci (a cui dedicherà anche un libro, nel 1899), ovvero ‘lo spirito del luogo’, una sorta di entità soprannaturale composta, per usare le sue parole, «della sostanza di cui sono fatti il cuore e la mente, una realtà spirituale» che letteralmente permea i luoghi. E spesso, all’interno dei racconti, l’attenzione verso gli ambienti è così predominante che le descrizioni assomigliano a veri e propri flussi di coscienza quasi mesmerizzanti, che catapultano il lettore in un altro spazio e, ancor di più, in un altro tempo.

Perché se possiamo ritrovare un altro tema ricorrente nella narrativa di Vernon Lee, questo è senza dubbio il rapporto quasi morboso con il passato.

[…] c’è da dire che i fantasmi di Vernon Lee non sono di quelli che infestano le case; il tipo di possessione che operano è molto più sottile, intima, e per questo è forse meglio parlare di «ossessione». Per lei siamo tutti ossessionati a vari livelli, in primis dal passato, dai nostri ricordi, ma anche dai nostri timori, dai nostri desideri e dalle nostre speranze. E queste ossessioni non mancano di manifestarsi, a volte pure di materializzarsi, in qualcosa che agisce concretamente in primo luogo su di noi. Le sue storie non fanno paura nel senso canonico del termine: aprono invece uno sguardo inquietante sul sé, sul nostro modo di reagire agli stimoli, su quanto ci portiamo dentro e a volte, in qualche maniera, riesce a uscire fuori.

Il suo soprannaturale, come ha scritto nel saggio Faustus and Helena del 1880, «è l’effetto della nostra immaginazione su certe impressioni esterne, è un focalizzarsi di quelle impressioni, un personificarle, ma personificarle in maniera vaga, in un modo oscillante e in perenne mutamento; la personificazione è costantemente alterata, rinforzata, sfocata, allargata, ristretta da nuove serie di impressioni provenienti da fuori di noi».

[…] Vernon Lee fu peraltro la prima scrittrice inglese a utilizzare, nel 1904, la parola empathy, appunto ‘empatia’, traducendola lei stessa dal termine tedesco Einfühlung coniato dallo psicologo sperimentale tedesco Theodor Lipps – un merito, questo, che non le è mai stato adeguatamente riconosciuto.

 

In effetti, le prime ossessioni di questa raccolta riguardano lo spazio – set italiani e non solo – e il tempo, con le sue vertigini, ma in particolare quello spaziotempo abissale di passioni, rovelli e fissazioni che abbiamo dentro.

La raccolta parte con un racconto fiabesco, “Il principe Alberico e la Donna Serpente” che ha qualcosa in comune con il trittico di Santi e Diavoli: in scena è un’Italia favolosa di un Sei/Settecento leggendario, grondante bellezza ma anche sottili inquietudini, con un fondo di amarezza assente nel citato trittico. Ovviamente qui l’autrice gioca a richiamare l’amarissima vicenda del Lamia di Keats autonomizzandosi però sul piano della struttura narrativa: è inevitabile pensare a pagine di grandi raccolte di fiabe nostrane come Lo cunto de li cunti del Basile (1634-36) o a storie più tarde sul tipo della fiaba teatrale La donna serpente di Carlo Gozzi (1762, che però conosce già gli addolcimenti dell’età rococò). Per non parlare delle maledizioni metamorfiche e, ancor più, dei raffinatissimi dipinti, arredi e altri oggetti preziosi presenti nei contes de fées di Marie-Catherine d’Aulnoy (1697-98), alcuni non privi di risvolti inquietanti, che sembrano anticipare l’uso ricorrente e studiato di opere d’arte nelle dinamiche narrative da parte di Vernon Lee. Il fittizio ducato di Luna dove la storia si svolge fa ovviamente pensare all’antica Luni, provincia della Spezia e confinante con quella di Massa-Carrara: di nuovo, insomma, la geografia di un’Italia fiabesca. Questa però trova interessanti paralleli nelle geografie letterarie vittoriane (basti pensare al fittizio Wessex dei romanzi di Thomas Hardy), con ammiccamenti raffinati all’arte – reale o possibile – di un’intera fase storica, tra sontuosi gobelin, busti dei Dodici Cesari occhiuti e ghignanti, bestie di marmo, ruderi appenninici quasi radcliffiani. Oriana, la Donna Serpente, è del resto affine a Lamia come reinventata dall’Anatomia della malinconia burtoniana – in effetti questo racconto trasuda di malinconia, mixata al sentore ironico – e a tutto un serpeggiare di Morgana e (appunto) Melusina, come dipana Harf-Lancner nel suo famoso saggio sottotitolato La nascita delle fate nel Medioevo. Si cita persino “il celebre dottor Borri”, avventuriero e alchimista milanese, figura sorniona alla Segno del comando

Il secondo racconto, “Un baule nuziale”, pur nella trasfigurazione di un’Italia del passato (qui l’Umbria del XV secolo) e nell’insistenza sulla sua lussureggiante attenzione alla Bellezza e alla ricchezza artistica (che occhieggia a infinite storie antiche), guarda invece a un altro filone, quello del trucissimo gore associato nella letteratura britannica al Belpaese, e a monte dello stesso seminale Castello d’Otranto. L’Italia come terra di delitti alla Borgia, dove non occorre il fantastico per liberare il visionario: di nuovo, quindi, una storia nel segno del dolore, anche se la forza dell’affabulazione non permette al lettore di farsi prendere dalla malinconia.

In entrambi questi primi racconti il motivo dell’ossessione si sposa a quello dell’amore: amore che torna in scena nella terza storia emblematica del filone più noto di racconti dell’autrice, “Amour Dure”, raggelante ghost story nel segno del Perturbante. Il genius loci di un’Italia rinascimentale vi riemerge con le sue glorie, a partire dall’ambientazione nella seconda metà del 1885 a Urbania (per quanto si possano ravvisare richiami a Urbino, alcuni luoghi descritti nel racconto sembrano ricondurre in modo più stringente e suggestivo alla vera Urbania, ubicata in quella stessa provincia delle Marche, e chi scrive sta conducendo ricerche sulla questione). Al dato geografico fa riscontro lo sguardo rivolto a un’immaginaria serie di vicende locali presuntamente storiche attorno alla figura della dark lady Medea di Carpi (nata fittiziamente nel 1556, morta strangolata appena ventisettenne nel dicembre del 1582). Tutti gli uomini da lei avvicinati in vita ne sono rimasti vittime: e dopo la morte?

A narrare la vicenda come dal proprio diario è lo sventurato Spiridione Trepka, studioso polacco in trasferta – ah, i polacchi, grandi romantici! –, “cresciuto con le sembianze di un pedante tedesco, dottore in filosofia, persino professore”, che finirà col fare i conti con la propria inabilità di gestire il Passato. Strepitosa è la descrizione dei luoghi, dei contatti con gli indigeni, del lento emergere di Medea alle attenzioni di Spiridione attraverso quadri, documenti, in ultimo messaggi e apparizioni… Avvicinata attraverso tale serie di step e riflessioni, da un razionalizzante

 

In primo luogo, dobbiamo mettere da parte tutte le pedanti idee moderne su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Giusto e sbagliato, in un secolo di violenza e tradimento, non esistono, men che meno per creature come Medea. Andate a predicare il bene e il male a una tigre, mio caro signore!

[…] Sì, posso capire Medea. Provate a immaginare una donna di bellezza superlativa, di grandissimo coraggio e pacatezza, una donna dalle molte risorse, geniale, allevata da un insignificante sovranucolo di padre che le faceva leggere Tacito e Sallustio e le storie dei grandi Malatesta, di Cesare Borgia e simili! Una donna le cui uniche passioni sono la conquista e l’impero

 

al decadente

 

Nessun uomo che pensi di avere dei diritti su di lei deve sopravvivere a lungo; è una specie di sacrilegio. E solo la morte, la volontà di pagare con la morte il prezzo di tale felicità, può rendere un uomo degno di essere il suo amante; egli deve essere disposto ad amare, soffrire e morire. Questo è il significato del suo motto: «Amour Dure – Dure Amour». L’amore di Medea da Carpi non può svanire, ma l’amante può morire; è una costante, e un amore crudele

 

si procede verso un finale non inatteso ma narrato in un modo così eccezionale da risultare una rara delizia per l’amante del fantastico. Con le ossessioni proiettate da Vernon Lee succede questo: possiamo – spesso, non sempre – immaginare lo sviluppo della vicenda, ma la festa narrativa riguarda il modo in cui viene presentata, la sottigliezza psicologica e i percorsi torbidi che adombra, le implicazioni e i dettagli pittorici regalati.

 

Una bellezza curiosa, dapprima piuttosto convenzionale, dall’aspetto artificioso, voluttuosa eppure fredda, che più la si contempla e più turba e ossessiona la mente. Attorno al collo porta una catena d’oro intervallata da piccole losanghe anch’esse d’oro, su cui è inciso un motto o gioco di parole (a quei tempi andavano di moda i motti in francese): «Amour Dure – Dure Amour». Lo stesso motto è inciso nell’incavo del busto e, grazie a esso, ho potuto identificare quest’ultimo come il ritratto di Medea.

 

Il racconto a un certo punto riporta, a proposito di un ritratto di lei, “Il Bronzino non ne ha mai dipinto uno più grandioso”: e in effetti, per chi voglia farsi un’idea del dipinto che deve avere ispirato la scrittrice, basta contemplare quello di Lucrezia Panciatichi proprio di Agnolo Bronzino, circa 1541, conservato alla Galleria degli Uffizi a Firenze. A guardar bene, la nobildonna indossa due collane, una delle quali recante la scritta Amour dure sans fin, in una rincorsa di parole che permette di leggerla circolarmente anche come Dure sans fin amour e Sans fin amour dure.

Ovvio che a insistere sulla categoria ghost story è inevitabile interrogarci sulla consistenza dei fantasmi di questa raccolta. Tra narratori inaffidabili perché in preda a personali deliri – come il povero Spiridione – e rigurgiti d’anime insane, il razionalista potrebbe ridurre il tutto a una cifra psicopatologica. Eppure.

Di nuovo ossessioni sono quelle presenti in “Una voce malefica” (un’ossessione musicale per voce del satanico, effeminato e sfrontato cantante settecentesco Zaffirino, superbamente ordita dalla Lee cultrice di musica tra una Venezia afosa di senescenti chiacchieroni e una villa sul Brenta, insonne, malarica e memore di antiche tragedie), “La leggenda di Madame Krasinska” (dove un tragico scherzo trascina una solare aristocratica in una deriva quasi mortale), “La Vergine dei Sette Pugnali. Una storia moresca di fantasmi del diciassettesimo secolo” (storia fantastica in costume, di nuovo miracolistica ma ambientata a Granada nel Seicento, che tra sortilegi negromantici e visioni allucinate sfarfalla fino ai piedi di Calderón de la Barca), il disturbante “La bambola” (dove un’appassionata di bric-à-brac si confronta con il feticcio di un amore un po’ sghembo, perturbante memoria di una morta). Certo, si tratta di ossessioni di tipo diverso, veicolate da sentimenti malefici o da dolori incomposti, da superficialità verso tragedie altrui, da sensualità irrisolte: è difficile ricondurre a unità questo campionario tanto ampio, accomunato da una scrittura di qualità altissima.

La raccolta si chiude con un testo, “Oke di Okehurst, o l’amante fantasma”, che assieme al citato “Amour Dure” rappresenta un po’ il vertice della produzione spettrale di Vernon Lee: con l’avvertenza che anche qui un fantasma in senso oggettivo (ma si può distinguere tra oggettivo e soggettivo, in casi simili?) potrebbe non esserci. L’incredibile Alice Oke, come descritta nell’incipit, rappresenta una delle figure più straordinarie, seducenti e ossessive della ghost story di lingua inglese:

 

Quel bozzetto lassù, con il berretto da ragazzo? Sì, è la stessa donna. Mi chiedo se riusciate a indovinare di chi si tratta. Un personaggio singolare, non è vero? La creatura più straordinaria che io abbia mai conosciuto: un’eleganza meravigliosa, esotica, inverosimile, intensa; una sorta di grazia perversa e artificiale, una ricerca in ogni linea, movimento e atteggiamento della testa e del collo, delle mani e delle dita. Qui ci sono molti schizzi a matita, che ho fatto mentre mi preparavo a dipingere il suo ritratto. Sì, in tutto l’album c’è solo lei. Dei tratti semplici, ma possono dare un’idea della sua meravigliosa, fantastica grazia. Qui è affacciata sulle scale, e qui è seduta sull’altalena. Ed eccola uscire in fretta da una stanza. Quella è la sua testa. Come vedete, non è propriamente bella: ha la fronte troppo grande e il naso troppo corto. Questo non rende bene. Era tutta una questione di movimento. Guardate quelle guance strane, scavate e piuttosto piatte; beh, quando sorrideva aveva delle fossette meravigliose qui. Avevano qualcosa di delizioso e inquietante.

 

Di qui il dipanarsi di una storia tragica e sottilmente beffarda gestita magnificamente come dinamica a tre – narrante, Alice e il marito – o a quattro considerando il fantasma, nel solito vivido gioco d’ambienti. Come viene ricordato in nota, l’ispirazione per l’io narrante si potrebbe rintracciare in John Singer Sargent, eccellente ritrattista amico di Vernon Lee e maestro di eleganza mondana (a tal proposito, si è conclusa solo qualche mese fa, il 7 luglio, la mostra Sargent and Fashion alla Tate Britain di Londra). Eppure, oltre la patina di tessuti sfarzosi, se si osservano con attenzione certi volti da lui dipinti, con gli occhi fissi, caricati di scuro, quasi un liquefarsi delle pupille nei casi più estremizzati, non si fa fatica a riconoscere quella commistione tra “delizioso e inquietante” attribuita ai mutamenti d’espressione della signora Oke. Si lascia una suggestione (posteriore al 1886, data del racconto, eppure significativa) a partire da un ritratto di Miss Elsie Palmer (1889-90, Colorado Springs Fine Arts Center), a cui Sargent ha dedicato diversi studi, proprio come fa il narrante con Alice Oke: lo sguardo penetrante, la posa di una compostezza immobile e il particolare abito da tè in satin bianco – su cui tanto si sono spesi i critici – a enfatizzare il pallore dell’incarnato sembrano trasformare la giovane in un’apparizione spettrale.

Interessante anche l’ambientazione: i pannelli lignei alle sue spalle fanno parte degli arredi di Ightham Mote, maniero medievale nel Kent appartenuto, tra gli altri, alla famiglia Palmer. È curioso che il signore e la signora Oke siano “una coppia di piccoli possidenti del Kent” e che il narrante decida di dipingere Alice “con l’abito bianco alla Van Dyck copiato dal ritratto della sua antenata”… Espressivo e caratterizzante è anche il ritratto che Sargent realizza di Vernon Lee nel 1881 (Londra, Tate Britain): dai tratti più sbozzati, la bocca semiaperta e uno sguardo sospeso, vagamente sfuggente, come se la sua attenzione fosse catturata da un’idea che comincia a prendere forma.

Forse è “tutta una questione di movimento”, anche quella dello stile. E la descrizione già ricordata di Alice Oke a inizio racconto sembra sovrapporsi a colei che l’ha creata, al modo in cui ne ha narrato le vicende: ecco “[…] un’eleganza meravigliosa, esotica, inverosimile, intensa; una sorta di grazia perversa e artificiale”. Difficile dire se tale definizione sia davvero corretta, trattandosi di questa scrittura straordinaria, di questa donna incredibile. Certamente, chiudendo l’antologia, scopriamo che Vernon Lee ci ha regalato empaticamente un modo diverso, una voce, degli appigli per riflettere sulle nostre ossessioni. E questo non è poco.

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L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/III) https://www.carmillaonline.com/2024/02/17/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-iii/ Sat, 17 Feb 2024 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81213 di Franco Pezzini

(qui e qui le puntate precedenti)

Donne-serpente sull’orlo di una crisi di nervi

Mostro-femmina e cacciatore, in particolare, saranno interessati dalle originali soluzioni del poemetto narrativo Lamia di John Keats, scritto nel 1819 e pubblicato nel luglio del ’20, pochi mesi prima della morte del poeta: un’opera di febbrile potenza onirica che sappiamo debitrice di attente letture del dizionario di Lemprière e soprattutto – attesta Keats – del testo a lui caro di Burton. In quest’opera circonfusa di malinconia romantica, l’innominata lamia/strega diviene, semplicemente, Lamia, peraltro molto diversa dall’originale orchessa greca; e “Menippo Licio”, cioè di [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le puntate precedenti)

Donne-serpente sull’orlo di una crisi di nervi

Mostro-femmina e cacciatore, in particolare, saranno interessati dalle originali soluzioni del poemetto narrativo Lamia di John Keats, scritto nel 1819 e pubblicato nel luglio del ’20, pochi mesi prima della morte del poeta: un’opera di febbrile potenza onirica che sappiamo debitrice di attente letture del dizionario di Lemprière e soprattutto – attesta Keats – del testo a lui caro di Burton. In quest’opera circonfusa di malinconia romantica, l’innominata lamia/strega diviene, semplicemente, Lamia, peraltro molto diversa dall’originale orchessa greca; e “Menippo Licio”, cioè di Licia (almeno in Filostrato), appare presente come Licio di Corinto. Se la complessità dei problemi dell’opera e la sua altissima dignità letteraria non permettono in questa sede che cenni fuggevoli, già un riassunto offre indicazioni interessanti per lo sviluppo che andiamo delineando. La vicenda inizia dunque con l’arrivo a Creta del dio Hermes, bramoso di sedurre una bellissima ninfa locale già desiderata invano da torme di spasimanti semidivini, e che egli stesso non riesce a rintracciare: trova invece un serpente, che lamenta la propria condizione con parole inattese quanto struggenti.

 

«Potrò mai destarmi da questa tomba coperta di fiori,

muovermi in un morbido corpo adatto alla vita,

all’amore, al piacere, alla calda lotta di cuori

e di bocche! Infelice son io!».

 

La minuziosa descrizione del serpente rappresenta in qualche modo l’esito estremo del lungo processo di concretizzazione della seduttrice, da demone/spettro a melusina/strega a rettile vero e proprio (per quanto, vedremo, inabitato da un’entità pneumatica); ma insieme ne delinea l’estremo limite di ambiguità ontologica e caratteriale, al di là d’ogni tipizzazione da dizionario mitologico. Di un’ambiguità ontologica, anzitutto, che la qualifica compiutamente per mostro, entità mutante equivoca e sfuggente: se la creatura anguiforme è affamata d’amore e dotata di voce dolcissima, bocca e (plausibilmente) occhi di donna, arriverà addirittura a confidare precedenti esistenze in forma umana.

 

«Sono già stata donna, e per una volta ancora

vorrei la bella forma femminile d’allora.

Amo un giovane di Corinto – ah, che dolcezza!

Concedimi forma di donna [Give me my woman’s form], la bellezza,

e poi lasciami lì dove lui si trova […]»

 

Si tratta di versi, nota Silvano Sabbadini,

 

molto interessanti sia perché suggeriscono una durata temporale di Lamia precedente e, come vedremo, posteriore alla sua storia con Licio, sia perché mettono in crisi la lettura di Lamia semplicemente come serpe mascherata.

 

“Se Keats potesse avere la certezza di Burton che lei è soltanto un serpente che ha assunto forma di donna, ci basterebbe trapassare con lo sguardo illusioni e finzioni come fenomeni che non fanno altro che nascondere una bruttezza primaria. Ma dal momento che l’esistenza di Lamia come donna precede la sua esistenza come serpe, siamo costretti a chiederci se, dopotutto, lei non è proprio quella forma di bellezza che sembra essere. E tuttavia, poiché dice soltanto d’essere stata donna “once” e non originariamente, la possibilità d’una esistenza precedente come serpe dietro alla sua prima incarnazione umana non è mai del tutto esclusa” [T. Rajan, Dark Interpreter: The Discourse of Romanticism, Ithaca 1980, cit. da Sabbadini].

 

Sul filo dei versi che più avanti evocheranno le esperienze da lei vissute in spirito “quando, imprigionata dentro il serpente, / ogni cosa desiderava, ricca o sorprendente” si può supporre di ravvisarvi un’entità disincarnata, condannata a risiedere in un corpo di rettile ma periodicamente in grado – per concessione divina, e non per propria forza – di sostituirlo con uno femminile; al punto che forse il nome Lamia, par suggerire il testo, connota la sola identità di donna (semplice pseudonimo, magari già usato in precedenza, o “vero” nome dello spirito?), e non anche la preesistente vita animale. Comunque la creatura conclude con Hermes un accordo giurato, aiutandolo a vincere il sortilegio d’invisibilità della ninfa e ottenendo in cambio la propriamy, dice Lamia – “forma di donna” (intende semplicemente la stessa forma che aveva assunto in passato, o intrinsecamente la sua?): e dopo una drammatica metamorfosi che ne distrugge la bellezza di rettile, la vediamo riapparire col fascinoso sembiante umano nei dintorni di Corinto. Ma, si è detto, ci troviamo anche agli estremi limiti dell’ambiguità caratteriale: e non a caso la critica appare radicalmente divisa tra quanti enfatizzano l’immagine della cruel lady – come Lamia verrà definita nell’ambito della schermaglia per sedurre Licio – e altri che ne sottolineano la sostanziale innocenza (si vedano le diverse interpretazioni di Bate – “innocentista” –  e di Evert e Stillinger – “colpevolisti” – citate da Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.). Keats presenta la sua eroina come “vergine, con labbra pure, ma nelle cose d’amore / sapiente”, ciò che ben evoca il gioco sottile tra innocenza e disinvoltura che sostanzia la seduzione al di là d’ogni facile stereotipo sulla vamp; e comunque, lungo il filo di tutto il poemetto, non offre certezze sugli esiti ultimi dell’eros di Lamia, eventualmente vampirici o divoranti. Eppure il sentimento trascinante per quel Licio incontrato in spirito, durante le peregrinazioni eteriche dell’avatar-serpente, non permette di assimilare Lamia alla meretrice nera delle antiche favole – e anzi pare difficile che la donna umiliata della Parte II del poemetto, ormai succube dell’amante, intenda davvero mangiarselo. Certo Keats attinge alla mitologia delle lamie divoratrici e la presuppone, ma per poi contrapporre provocatoriamente alla cruel lady della fase seduttoria il maschio “perverso” (perverse) che prova “un piacere voluttuoso al dolore di lei” e impone il matrimonio quale equivoca celebrazione del trofeo erotico. La stessa divisione in dittico dell’opera sembra sottolineare tale dialettica e ribaltamento tra i conduttori del gioco, nel segno di un’innocenza o almeno simpatia e spezzata sofferenza del mostro-femmina, e della sua sottomissione al compiacimento del maschio. Anche se, in realtà, la questione resta aperta: e non potrebbe neppure escludersi l’ipotesi d’un teatro delle crudeltà (come poi certi sviluppi gotici, Carmilla in particolare) nel quale la soavità dolente dell’innamoratissima Lamia si concilî con la prospettiva alimentare ai danni dell’amante, per soccombere in ultimo al fanatismo altrettanto vampirico del vecchio Apollonio. Qualunque interpretazione si scelga, la leggiadria maltrattata della Lamia di Keats finisce con l’enfatizzare per contrasto la brutalità del “cacciante”/cacciatore, molto diverso dal santo filostrateo.

La storia in effetti prosegue con l’avvicinamento del giovane sulla strada fuori città, la sua calcolata seduzione e il ritorno notturno in Corinto: ed è allora che la coppia incrocia un uomo con “barba grigia, ricciuta, occhi pungenti, / il cranio calvo, liscio, passi lenti, / una tunica da filosofo”, da cui Licio non vuol farsi riconoscere e che ispira a Lamia un tremito inquieto.

 

«Dimmi», disse lui [=Licio], «amore, perché miseramente

tremi, e la tua tenera palma s’imperla di rugiada?»

«Sono stanca», disse la bella Lamia, «e poi quello

chi è, dimmi, quel vecchio?

Nella mente non trovo le sue fattezze.

Oh, Licio, perché ti nascondi al suo mobile sguardo?»

E lui: «È il saggio Apollonio,

la mia guida fidata, un maestro di riguardo,

ma che stanotte a quello spettro rassomiglia

della follia che ai miei dolci sogni s’appiglia».

 

Certo Lamia finge di abitare a Corinto, e l’affermazione di non ritrovare “Nella mente […] le […] fattezze” di Apollonio può semplicemente significare che non l’ha mai visto; ma un senso ulteriore potrebbe ravvisarsi nell’impenetrabilità della sfera del filosofo alle visioni astrali della seduttrice-serpente, e in ultima analisi a un orizzonte mentale antitetico e irriducibile. Una presenza, comunque, o meglio uno sguardo al quale Lamia trasale (un’angoscia autoconservativa, se non di premonizione) e Licio prova imbarazzo nella nudità delle proprie emozioni e fantasie: ciò che può riecheggiare in nero una diversissima pagina su donne e serpenti, il nascondersi a Dio di Adamo ed Eva consci d’essere nudi (Gn 3,8). Ma a differenza del Dio del Genesi, Apollonio risulta qui il padre (di elezione) equivoco, e ci si può domandare se Keats non avvertisse il paradosso d’una lettera corinzia sull’amore tanto amaramente antitetica a quella paolina del celeberrimo inno di 1 Cor 13, 1-13 – a maggior ragione in un contesto tanto fitto di richiami alla visione, magari negata o confusa quasi in a glass darkly (traduceva re Giacomo e avrebbe ripreso Le Fanu nel titolo della sua raccolta ultima, appunto In a Glass Darkly: nella moderna tradizione interconfessionale in lingua corrente, LDC/ABU 1985, il richiamo è reso: “Ora la nostra visione è confusa, come in un antico specchio”, 1 Cor 13, 12).

In ogni caso il “mobile sguardo” di Apollonio sviluppa un motivo già filostrateo con forza particolare: e sarà l’occhio e lo sguardo, prima ancora della parola che lo suggellerà, il vero motore dell’esorcismo. Al drammatico epilogo conduce in realtà lo stesso Licio, non soddisfatto dell’estasi appartata nel palazzo incantato di Lamia, e voglioso d’imporre lo spettacolo della propria fortuna agli occhi dei conoscenti: e dopo una vana resistenza, la bella amante è piegata alle nozze. Il pericoloso momento di passaggio esistenziale che nelle versioni di Filostrato e Burton appariva desiderato e anzi accelerato della protovampira, ansiosa di porre il sigillo sulla vittima per meglio divorarla, in Keats diviene un evento che Lamia non riesce a evitare: l’occasione minacciosa d’un confronto col mondo esterno che può porre in crisi – e lo farà – lo spazio chiuso dell’incanto, il suo carattere di fragile assoluto. Lamia strappa all’amante solo la promessa di non invitare Apollonio, di tenerla nascosta da lui (“from him keep me hid”), e invano Licio cerca di capirne il motivo; quando però allo sfarzo incantato del palazzo affluiranno a frotte gli invitati, anche il filosofo indesiderato farà la sua comparsa.

 

Entravano in fretta, stupiti, curiosi, attenti,

tutti tranne uno,

che guardandosi attorno con occhio severo

procedeva a passi lenti, placido e austero.

Era Apollonio: a volte tra sé e sé ridacchiava,

come se qualche problema intricato

che aveva sfidato il suo pensiero paziente

cominciasse ora a sciogliersi, rendendosi patente.

Sì, era proprio come aveva pensato.

 

Il “problema intricato” (knotty problem) richiama naturalmente la “forma gordiana” (gordian shape) con la quale il serpente innamorato si presentava a Hermes all’inizio del poemetto: un rimando al nodo del re Gordio e alla figura di Alessandro Magno “che, non diversamente da Apollonio, sta a indicare la forza violenta della semplificazione razionalistica contro la ricchezza e la indistinzione del mondo preanalitico” (Silvano Sabbadini). E torna l’occhio, severo ma capace di brillare di compiacimento al risolversi del “problema”, alla conferma del quadro ipotizzato alla luce della fredda ragione – certo sulla natura dello spettacolo nel palazzo e soprattutto di Lamia.

Apollonio affetta di scusarsi con il discepolo per l’autoinvito e Licio incassa spiazzato, ha inizio la festa sontuosa: ma – Keats ci avverte – la ghirlanda adatta ad Apollonio sarebbe piuttosto di gramigna e cardo, considerando come gli incanti dileguino “al semplice tocco della fredda filosofia”, capace di dissacrare i misteri della natura e della fantasia. Dove il richiamo alle armi impoetiche della misurazione, “riga e squadra”, evoca un paradosso che forse l’autore non avrebbe sospettato: mentre cioè l’antico esoterista Apollonio assurge in Lamia a campione di razionalità fanatica, proprio gli strumenti qui emblematici d’un approccio di concretezza al mondo, quelli geometrici e di misura, finiranno in seguito col suggerire all’immaginario del grande pubblico (tramite la volgarizzazione di romanzi e pellicole popolari) un sapore di esoterismo mistico-irrazionalistico dalle radici comunque presettecentesche – si pensi al compasso dell’Anziano di giorni raffigurato da Blake e a tutta un’iconografia massonica e rosicruciana. E proprio guardando a tale spazio simbolico, esteso lungo un vasto arco di esperienze culturali (spesso in opposizione reciproca, come nelle diverse posizioni delle logge massoniche, regolari o di frangia, verso l’occultismo), matureranno varie figure di epigoni di Apollonio, medici psichici come il dottor Taverner o John Silence, pronti a cacciare le nuove lamie con strumenti più magici che razionali.

Il poemetto precipita ormai verso la drammatica conclusione: e ancora una volta è lo sventato Licio a innescare la crisi, quando con un’occhiata al momento del brindisi implora “uno sguardo dal viso rugoso / del suo vecchio maestro”.

 

Il filosofo calvo, con occhi di doglio

Fissava la bellezza inquieta della sposa,

e senza un batter di ciglia, senza un movimento,

ne intimidiva le belle forme turbandone il dolce orgoglio.

 

Sembra ora difficile dire chi, tra Lamia e Apollonio, assomigli più a un serpente, in una riproposizione emblematica dell’opposizione tra diversi vampirismi e mostruosità – anzi accentuati nella gelosia del vecchio maschio verso la rapitrice (giovane e donna) dell’allievo. Licio si accorge dello smarrimento di Lamia, la sente gelida, chiede invano se conosca “quell’uomo”, la vede annichilire – e con lei la festa, e persino il mirto emblema dell’amore. Davanti alla compagna ormai priva di coscienza e come inaridita, Licio urla ad Apollonio di chiudere “quegli occhi incantatori”, minacciandolo col castigo della cecità dagli dei:

 

«[…] per la loro potenza a lungo offesa,

per la tua logica empia e altezzosa,

per le tue magie illecite, le tue bugie lusinghiere.

Guardate, Corinzi, questo fattucchiere dalla barba grigia,

Vedete come, possedute, le sue palpebre senza ciglia

si distendono attorno ai suoi occhi diabolici! guardate!

La mia dolce sposa avvizzisce sotto la loro potenza».

«Pazzo!» disse il sofista, a voce bassa, rauco nello sdegno.

Gli risponde con un gemito di morte, Licio,

mentre colpito al cuore e perduto

cade supino accanto allo spettro dolorante.

«Pazzo! Pazzo!», ripeté il vecchio cavilloso,

ma lo sguardo restava implacabile, cocciuto.

«Da ogni male della vita t’ho sino a oggi preservato,

e dovrei vederti preda d’un serpente? »

Esalò Lamia l’alito della morte.

L’occhio del sofista come una lancia acuta

La trafisse, affilato, crudele, pungente.

Lei, per quanto la debole mano un intento

Potesse accennare, gli fece cenno di tacere;

inutilmente, che lui la guardava fisso,

la fissava continuamente. – No!

«Un serpente!» ripeté, e la parola non era finita

che con un grido orrendo Lamia era svanita.

 

E a Licio stroncato dal dolore sarà infine sudario il manto nuziale. La scena, di straordinaria potenza drammatica, incalza con paradossi furiosi: il fanatico razionalista Apollonio si trasmuta, nelle accuse sconvolte di Licio, in uno stregone (si potrebbe persino pensare, in via virtuale, che Keats giochi a costruire così l’icona dell’Apollonio mago); il giovane “salvato” muore proprio a causa del salvataggio; l’immagine classica della teratomachia, con la lancia di san Giorgio che trafigge il drago-serpente, si ripropone in esplicita, paradossale metafora tra l’occhio del vecchio e una creatura probabilmente innocua. Certo la rivelazione che Lamia sia solo un serpente appare banalizzante, cioè non coglie né lo specifico d’una situazione originaria, né la dinamica del rapporto tra Lamia-donna e il suo uomo; ma insieme è derealizzante, cioè nega Lamia nella sua individualità (legata al nome proprio usato da Keats e da Licio) per rigettarla alla deriva d’un generico nome di specie, in un sostanziale ed effettivo annichilimento. La parola, peraltro, fa collassare nel drammatico esito un esorcismo anzitutto visivo: e ritroveremo quell’occhio implacabilmente indagatore (anche se raramente in forme tanto estreme) tra i successori di Apollonio, tesi a smascherare e fare autopsia dei mostri via via incontrati. La costellazione ottica del mito gorgonico si ripropone così quale sguardo entro lo specchio oscuro delle proprie categorie asfittiche, che vanifica pericoli e ricchezze dell’incontro fascinatorio in una visione brutale e parziale – come quella che appiattisce il mistero dell’amante incantata a mero nome zoologico di specie, e disattiva l’oggettivo rischio (ma anche le possibilità e la bellezza) del rapporto tra Licio e Lamia nel segno dell’aridità esistenziale e ideologica. Ed è proprio l’intervento brutale di Apollonio a strappare al lettore la possibilità di sapere se Lamia sia davvero pericolosa, ma anche – in radice – a rendere impossibile uno sviluppo del rapporto tra i protagonisti, in senso distruttivo o invece vitale.

Non è del resto un caso che il contrapporsi tra “immaginazione” e “realtà” – o, in termini moderni, tra istanze dell’individuo e società – intessuto nel testo keatsiano abbia spesso conosciuto letture critiche fuorvianti:

 

schiacciare il poemetto Lamia sul personaggio Lamia, e identificare l’illusione di Licio con quella di Keats, costruendole come illusioni soggettive di contro a un reale “pubblico” e oggettivo, non farebbe che raddoppiare l’errore di Apollonio nel corso del poemetto stesso, ossia schiacciare Lamia su una qualsiasi lamia, e cioè non rendersi conto che anche un’illusione privata è sempre e comunque prodotta da e all’interno di una realtà sociale, e deve quindi essere letta all’interno di un sistema a forze concentriche e non opposte. La spiegazione del poemetto non potrà allora consistere nel riproporre le sue antitesi, come troppo spesso è avvenuto nella sua ricezione critica, semplicemente schierandosi per una di esse, per la poesia o l’immaginazione contro la realtà, o, al contrario, riducendolo a una «denuncia pessimista dei pericoli del sogno, dei sovrainvestimenti nell’illusorio, e della impossibilità di una fuga dalle realtà della condizione umana», ma nel cercare di capire il meccanismo che le ha costituite in una opposizione che entrambe le tiene: Hermes, Licio, Apollonio, e, paradossalmente, Lamia stessa, non rappresentano scelte e posizioni alternative, ma un unico meccanismo sociale astrattivo che, progressivamente realizzandosi, nel doppio senso di un processo verso la realtà ma anche verso la sua feticizzazione, trasformano una potenzialità mitica e innominabile in una singolarità povera ed empiricamente tangibile con il nome comune di “serpente”, seguendo quella stessa logica che ha trasformato ogni Valore in “borsa valori”: che la massima comprensibilità e circolarità del nome, “comune” appunto, coincida con la sparizione delle soggettività individuali messe in campo, la dice lunga sui processi di maturazione e di educazione alla realtà evocati da tanta critica apologetica del “reale”.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit. Per la citazione riportata («denuncia pessimista dei pericoli del sogno […]»), cfr. J. Stillinger, The Hoodwinking of Madeline and Other Essays on Keats’s Poems, Urbana 1971.]

 

In effetti la corrispondenza di Keats nel periodo di composizione dell’opera testimonia un’acuta attenzione al tema della trasformazione dell’arte in produzione artistica, e alla connessa dinamica tra scrittore e mercato – in relazione a una più ampia riflessione sull’autonomia dell’arte nel mondo uscito dalla rivoluzione industriale.

 

Dietro la superficiale affermazione che i grandi romance keatsiani del 1819 mettano in scena l’opposizione tra illusione e realtà, sta di fatto l’illusione critica, ben più inconsapevole delle “illusioni” keatsiane, che l’equazione tutta storica e borghese tra letteratura e falsità come regno del soggettivo-illusorio, contrapposte a una realtà-fattualità come mondo dell’oggettività, sia un dato naturale, un principio, appunto, di realtà cui sarebbe maturo sacrificare ogni principio del piacere. Ma in Keats, molto più problematico dei suoi critici, la trasformazione borghese dell’immaginazione in fantastico, del creativo in fittizio, è problema politico per eccellenza, in quanto metafora della trasformazione di tutti i rapporti umani in rapporti mercantili.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.]

 

E proprio la logica commerciale dell’economia dei desideri – i reciproci favori di Hermes e Lamia, i “desideri triangolari” di Hermes per la ninfa (bramata da Satiri e Tritoni) e di Licio per Lamia (da ostentare come trofeo) – conduce allo svuotamento finale. Dall’iniziale, insoddisfatta indifferenziazione di serpente/donna, la Mutante diviene donna concreta, poi oggetto feticistico e quindi (violentata dalla banalizzazione astrattiva di Apollonio) nudo nome comune, “serpente”, senza che la progressiva definizione comporti arricchimenti nel segno della fecondità esistenziale o della comprensione della realtà – e al contrario, il culmine della sequenza vede Lamia svanire, letteralmente cancellata.

 

Una volta trasformato in oggetto, feticizzato e usato come mezzo di scambio, ogni personaggio, secondo una necessità narrativa fortissima, passa questa maledizione astrattiva a un altro, secondo una socializzazione che non fa nessuna differenza tra dei, ninfe, umani e filosofi, sino alla massima astrazione finale, quella di Apollonio, che per riavere Licio lo riduce a una spoglia nel medesimo istante in cui trasforma Lamia e Lamia a “una lamia”, e cioè poemetto e personaggio a un semplice inganno semantico.

[Silvano Sabbadini, Introduzione, cit.]

 

Come nel mondo economico il richiamo alla concretezza trascina (al tempo di Keats o a maggior ragione oggi) alle astrazioni del denaro e della finanza, così la mozione al buon senso e alla realtà concreta segna la banalizzazione e anzi il dileguamento delle diverse soggettività nella deriva astratta di generici nomi e categorie. La Corinto della concretezza, gli abitanti e lo stesso Apollonio si svelano del resto fin dall’inizio almeno altrettanto onirici e persino più spettrali della Mutante e del palazzo incantato, in una prefigurazione di rara lucidità della nostra civiltà di fantasmi finanziari ed ectoplasmi mediatici. Il gioco di sentimenti e sogni inscenato in Lamia appare in sostanza un encausto amaro sullo spazio concesso all’immaginario all’interno delle società industriali: dove la crisi delle illusioni (con la paradossale, ironica scelta del genere romance, tipicamente associato al mondo dell’immaginario, per sceneggiare la crisi del medesimo) non conduce alla “realtà”, al trionfo dell’umano sul sogno, ma a una sconfitta generale e a un panorama di vuoti e nude spoglie. “Lamia, insomma, è il sogno erotico di una città commerciale; non la sua antitesi, ma piuttosto il suo compimento” (ivi): dove il poeta svela non solo i procedimenti di costruzione dell’oggetto erotico/estetico, ma il fatto che tale modalità sia la medesima che per qualunque altra merce, “cosicché il fantastico non s’opporrà più al mercato, ma ne diverrà uno dei prodotti principali” (ivi). Ciò che pare almeno interessante per la comprensione di molte contrapposizioni e teratomachie celebrate sul palcoscenico dell’immaginario contemporaneo.

La bella seduttrice, dunque, svanisce – e dal testo di Keats non è chiaro se possa sopravvivere in qualche altra forma, pneumatica o animale. Difficilmente col suo nome proprio, in apparenza legato all’aspetto umano e con esso imploso: eppure nell’eco di tale notissimo precedente letterario e insieme dello stereotipo velenoso e rapace della donna-serpente, le lamie torneranno con frequenza nell’arte (si pensi ai vittoriani come John William Waterhouse, col suo Lamia del 1905) e nella letteratura fantastica per serrati confronti coi cacciatori, spesso (non sempre) maschi. Se in effetti nel febbricitante romanzo di Bram Stoker The Lair of the White Worm, 1911, la fatale Lady Arabella March si trasmuta in una creatura anguiforme imparentata ai draghi, la rilettura del personaggio nel film omonimo di Ken Russell, 1988, la apparenterà proprio alle lamie con venature vampiriche: interpretata da Amanda Donohoe, asservita a un grande serpente-idolo e talora adorna di attributi ermafroditi come l’arcaica orchessa greca, verrà addirittura incantata con una musica orientale per serpenti, prima dello scontro presso la tana, della grande esplosione mutuata dal romanzo e del beffardo finale aperto. Dove il collegamento – più tenue in Stoker, marcato in Russell – tra le due triadi san Giorgio/drago/principessa e Apollonio/Lamia/discepolo, vede la distruzione del “verme” non più col classico fuoco purificatore, ma con il moderno esplosivo – capace di dissolvere poco meno d’uno scongiuro. Per altri avatar della seduttrice anguiforme, si rammenti The End of the Story, 1930, di Clark Ashton Smith, il grande autodidatta epigono di tutta una dinastia di visionari attivi in California (fu discepolo di George Sterling, oggi meno noto ma al tempo figura centrale di una vivace Boemia letteraria californiana, come questi lo era stato di Ambrose Bierce) che seppe giocare una raffinata sensibilità simbolista nei fasti della letteratura popolare e fu uno dei cosiddetti tre moschettieri della leggendaria rivista “Weird Tales”: certo memore dell’esorcismo della Clarimonde di Gautier (sulla quale torneremo), il racconto vede la bella lamia Nicea fuggire innanzi all’aspersorio del priore Hilaire, ma illesa e pronta a riaccogliere l’amante-vittima Christophe (“Essa è antica come il paganesimo e già i greci la conoscevano; fu esorcizzata da Apollonio di Tyana e se tu potessi vederla come realmente è, vedresti, al posto del suo magnifico corpo, le spire di un immondo e mostruoso rettile”, avverte invano il priore). Libere eco della seduttrice riemergeranno in The Stress of her Regard, di Tim Powers, 1989, che inscena suggestivamente gli incontri di Byron, Shelley e Keats con la belle dame sans merci, pericolosa musa dei poeti; mentre in Circus of the Damned di Laurell K. Hamilton, 1995, a confrontarsi con l’ambigua donna-serpente Melanie è un epigono femmina di Apollonio, cioè l’ammazzavampiri Anita Blake nel corso di un complicato conflitto tra leader non-morti. Laddove poi The Journal of Professor Abraham Van Helsing di Allen Conrad Kupfer, 2004, giunge a identificare nell’inquietante Malia/Lamia l’antica seduttrice mesopotamica Lilith o Lilitu che, inviata dai Turchi, avrebbe infettato Dracula, siamo ormai arrivati al cuore simbolico della moderna caccia al mostro.

(3-continua)

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L’esorcista e la vamp – The Beginning (Nightmare Abbey 23/II) https://www.carmillaonline.com/2024/02/10/lesorcista-e-la-vamp-the-beginning-nightmare-abbey-23-ii/ Sat, 10 Feb 2024 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81137 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Malinconia canaglia

Tra le varie rievocazioni del confronto tra Apollonio e una seduttrice vampiresca un’importanza speciale presenta quella di Robert Burton, dal suo immenso trattato-biblioteca The Anatomy of Melancholy (sei edizioni con progressivi accrescimenti tra il 1621 e il 1651), e più precisamente da quella terza parte sulla malinconia d’amore che ne costituisce la porzione più originale e virtualmente autonoma.

Se The Anatomy è tutta incentrata su uno stato peculiare, appunto la melancolia, che coinvolge istanze del macro come del microcosmo – associandosi a umore freddo-secco, età matura e autunno, vento aquilone ed elemento terra, pianeta Saturno e segno Scorpione, nell’ambito di un “sistema di corrispondenze e […] visione simbolica del mondo di cui la dottrina umorale è una sorta di semiotica generale” (così Attilio Brilli, Prefazione a Robert Burton, Malinconia d’amore, Rizzoli, Milano 1981) – ciò riguarda un’articolata casistica patologica su mente e corpo dell’umano vivente: per quanto riguardi una patologia del mostro, in particolare il non-morto, non si può che rinviare ai dotti studi di Vito Teti in tema di rapporto tra vampiri & malinconia (a partire idealmente da La melanconia del vampiro, manifestolibri, Roma, 1994). Rilevando al contempo l’importanza di tale oggetto in tempi come i nostri, in cui la depressione – sorella minore e meno nobile della malinconia – va fin troppo spesso a braccetto con una non-vita dall’alta marea farmacologica, frutto di infezione vampiresca sociale, economica e malaffettiva. Come sulla carcassa marina di Coleridge, Morte e Vita-in-Morte continuano la loro infausta partita scatenate spesso (ecco l’impatto sociale) dagli arconti di una politica inaffidabile e un’economia succhiasangue, leviatani e begemotti scippatori di speranza, da meccanismi di malafamiglia e relazioni malate, da tutte le teste dell’apocalittica bestia della paura di fronte alle crisi della storia.

Ma il rapporto con la melancolia va ben oltre l’onda lunga delle depressioni epocali: il termine aggrega un’intera costellazione di sofferenze interiori, da quella che oggi etichettiamo come depressione clinica a ossessioni, deliri, patimenti interiori. Del resto malinconiche sono le ombre che specie da un certo punto della vita in avanti ci insidiano, proiettate da passati conclusi, da perdite e lutti non esauriti nei decessi fisici ma scanditi in tutti gli strappi dell’esistenza, da nostalgie a tratti laceranti: davvero Burton – pastore protestante dotto e ironico, ma personalmente provato per tutta la vita da un’afflizione malinconica – è uno di noi, e semplicemente certe dimensioni le racconta meglio.

A detta sua, la malinconia è “una malattia così frequente […] nei nostri tempi miserabili, che pochi sono quelli che non ne sentono la pena” (sembra davvero che parli dei nostri tempi): la sua stessa grande opera è volta a offrire prescrizioni contro “una malattia, un morbo epidemico, che così spesso, così tanto crocifigge il corpo e la mente”. Salvo poi ammettere che i rimedi servono a poco…

Nato nel 1577 sotto la grande Elisabetta, vissuto sotto il re erudito e demonologo Giacomo I e morto nel 1640 alla fine del cosiddetto Periodo del governo personale di Carlo I prima della rivoluzione, Burton conosce un’Inghilterra di processi alle streghe e convulsioni politiche: la stessa voce circolata a Oxford che muoia suicida può essere una fantasia – va da sé – malinconica.

Miniato tra altre mille dottissime citazioni, l’episodio che ora ci interessa è citato in relazione agli amori attribuiti a spiriti e demoni: e pur registrando, con puntiglio barocco, le posizioni critiche (per esempio di Johann Wier), Burton vi contrappone prudentemente i sostegni dottrinali, di una pletora di autorità, da Agostino fino a Erasto, Sprenger, Bodin ma anche Paracelso e Cardano. E Filostrato, appunto, del quale offre una perifrasi sul racconto di “Menippo Licio” e della bella seduttrice. Una perifrasi fedele almeno nella prima parte, ma che poi continua:

 

Fra gli altri, alle sue nozze venne anche Apollonio il quale, seguendo un suo sospetto,  scoprì che lei era un serpe, una strega [lett. una lamia: «who by some probable conjectures found her out to be a serpent, a lamia»] e che tutto ciò che le apparteneva era come l’oro di Tantalo descritto da Omero, una semplice illusione. Vistasi smascherata, lei pianse e implorò Apollonio di mantenere il segreto. Ma poiché questi non si lasciò commuovere, la donna, il desco, la casa e tutto quello che conteneva, svanirono d’incanto…

[Robert Burton, Malinconia d’amore, cit. (The Anatomy of Melancholy Libro III) II, I, I]

 

Non è chiaro quanto Burton si renda conto di mutare gli assetti del racconto filostrateo, e in effetti le variazioni parrebbero lievi. Tuttavia un’analisi puntuale riserva sorprese, e permette di cogliere qualcosa di rilevante per la genesi del cacciatore di mostri del fantastico moderno.

Un primo aspetto riguarda la nemica di Apollonio, che dall’originario statuto fantasmatico-demoniaco acquisisce sempre più fisicità, prefigurando idealmente le vampire del gotico. In effetti l’avvertimento del teurgo a Menippo, nel testo filostrateo, «accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te» pare da intendersi in senso ampio, più metaforico, nel senso dell’insidia letale, che non tipologico, in riferimento a qualche categoria di demoni-serpenti o alla magica trasmutazione d’un serpente in senso proprio. L’Apollonio filostrateo sembra dire in sostanza che Menippo, abituato dalla propria avvenenza a una certa disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso (“«Tu […] sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano…»”) in questo caso sta correndo un brutto rischio (“«…ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”). Benché l’interpretazione tipologica non si possa escludere – per l’arcaico legame dell’aspide alla dea della morte e la confusione delle fonti antiche tra empuse e lamie associate al serpente – il riferimento sembra in Filostrato troppo generico, non supportato da puntuali disquisizioni demonologiche (che potremmo attenderci dal testo) e neppure sviluppato sul piano narrativo. D’altra parte, il riferimento esplicito di Filostrato alle empuse non permette di assumere quale dato scontato un richiamo tipologico al rettile: in via prioritaria sono altre, come abbiamo visto, le bestie assimilate a tale tipo di spettri dalla mitologia classica – anche se l’età tarda del testo filostrateo, la sua ottica peculiare e la possibilità di un uso generico del richiamo demonologico potrebbero giustificare un’ampia libertà di rilettura. La stessa Lamia/lamia (quale figura-matrice o singolo esemplare della relativa “specie”) che i rilettori di Filostrato almeno a partire da Burton sovrapporranno all’Empusa, conosce solo progressivamente l’assimilazione ai serpenti poi trattenuta nell’immaginario moderno, e parte piuttosto da arcaiche connotazioni canine.

L’orchessa Lamia, in relazione con l’inquietante Lamme sumerica, l’àccade Lamashtu e il Lamo capostipite dei cannibali Lestrigoni, regina di Libia figlia di Belo ed ex-amante di Zeus, potrebbe costituire un aspetto sanguinario di Atena ma è certo imparentata con Ecate; talune caratterizzazioni falliche l’avvicinano ulteriormente alla Gorgone (anch’essa legata/contrapposta all’Atena minacciosa tramite il gorgoneion), della cui figura è probabile che condivida la storia remota (per una sintesi sul profilo e i relativi sviluppi, cfr. qui). Sulle maschere da incubo di Lamia e Gorgone, e sulla costellazione occhi/sonno/veglia nei due miti paralleli parecchie considerazioni sarebbero da fare; almeno in una versione, poi, anche Lamia viene abbattuta con un colpo alla testa, da Euribato per salvare il giovane Alcioneo di Delfi a lei portato in sacrificio per ordine di Apollo. Dalla sua testa spaccata (non decapitata) si dice sgorgasse la sorgente di Sibari, preludio al sorgere dell’omonima città nel segno della connessione mitica tra Lamia, una morte e istanze di fondazione (Antonino Liberale, Transformationes, 8): ciò che, applicato analogicamente alle concatenazioni fantastiche che andiamo esaminando (l’immagine moderna del cacciatore di mostri e la fiction sulle vampire, paradigmaticamente inaugurate attraverso la maschera di Lamia) pare più che appropriato.

Rapitrice, assassina e divoratrice di bambini – i suoi li aveva uccisi la gelosa Era, direttamente o suscitando in Lamia una follia omicida – la Terribile libica veniva considerata un’icona eminente di lascivia, e delle lamie (come delle empuse) si sottolineava la capacità di trasformarsi in donne avvenenti e procaci. Se, in riferimento ai giochi etimologici alla base di tali narrazioni – quelli che per esempio Pausania (Viaggio in Grecia, I, 1, 3) attesta in riferimento alla città chiamata Lamia –

 

uniamo il «divorare» del punico laham con la «ingordigia» (lamyros) e la «gola» (laimos), avremo già la composizione di una figura di vampiro, che, al femminile, non può che connotare anche lascivia. Ed ecco allora la vicenda di Lamia che si unisce con Empusa, figlia di Ecate, e assieme si giacciono con giovani viandanti di cui succhiano il sangue mentre dormono.

[Silvano Sabbadini, Introduzione a John Keats, Lamia, Marsilio, Venezia 1996]

 

Ma appunto già Pausania aveva rubricato sotto il termine “lamia”, oltre a spettri e figure metaforiche, vari animali tra i quali un pesce: e nel tempo la natura attribuita alle lamie conoscerà progressivi slittamenti verso un più puro orizzonte teratologico/pseudozoologico, come nel volume inglese The Histories of Four-Footed Beasts del 1607 che ne presenta la bizzarra immagine – capo e seni di donna ma ermafrodita, corpo quadrupede da fiera con zampe anteriori artigliate e zoccoli alle posteriori, e coperta di squame di pesce o serpente. Certo Burton ripete ancora, con Filostrato, che la seduttrice pesca in un mondo di ectoplasmi e illusioni, virati ormai ai chiaroscuri di una demonologia antistreghesca: ma il richiamo un po’ sbrigativo (“scoprì che lei era un serpe, una strega/lamia”) per un pubblico che già ritiene di conoscere la specie in questione, finisce con l’evocare dagli scaffali dei dotti tutta una zoologia infarcita di meraviglioso, dal bestiario dei classici – si pensi ai serpenti parca, iaculo e anfesibena affrontati in Africa dai soldati di Catone nella Farsaglia –, fino alle Melusine e ad altre fate serpente, lamie appunto comprese, dei racconti folklorici medioevali (di riferimento è qui ovviamente l’articolatissima analisi di Laurence Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Einaudi, Torino 1989). Un panorama peraltro in cui l’animale (a maggior ragione il serpe, oggetto della condanna di Gn 3, 14-15) è icona concreta, in carne e sangue, di diverse dimensioni e valori: dove dunque l’arcaicissima associazione tra donna & serpente appare ulteriormente rafforzata dallo stereotipo pseudocristiano della seduttrice, sorta di compenetrazione tra Eva e il tentatore edenico (più che voluto richiamo alla Lilith rabbinica), e immaginata come anche più potente nel peccaminoso mondo tardopagano dell’episodio corinzio. Con un passo successivo su tale linea di “concretizzazione” della lamia, la Bibliotheca classica di John Lemprière, 1788, ne descriverà la figura con volto e petto da donna, e il resto del corpo da serpente:

 

certi mostri d’Africa, che […] Allettavano gli stranieri perché venissero a loro, così da poterli divorare; anche se non erano dotate della facoltà di parola, i loro sibili erano gradevoli e intriganti. Alcuni le ritenevano streghe, o piuttosto spiriti maligni, che sotto le spoglie di belle femmine, attiravano i giovani e li divoravano.

 

Dove, tralasciando le suggestioni esotiche (i mostri-femmina africani che allettano gli stranieri, icona d’innumeri seduzioni mortali da romanzo popolare), la glossa sovrannaturalistica di “Alcuni le ritenevano…” non eclissa un più banale statuto teratologico: sorta di strani serpenti, insomma, che con suoni “gradevoli e intriganti” attirano i malcapitati per aggredirli. Proprio il passaggio dall’associazione letteraria filostratea tra serpente metaforico e demone/spettro (l’empusa) alla soluzione burtoniana di un serpente concreto con statuto demoniaco/streghesco (la lamia), prelude al capolavoro di Keats e alla dialettica tra fantasmatico e corporeo delle vampire del gotico, i mostri-femmina che tanti turbamenti recheranno agli epigoni di Apollonio: è suggestivo osservare come lo stesso Burton ricordi di sfuggita, poco dopo l’episodio filostrateo (e immediatamente di seguito al cupo racconto d’un tal Florilegus, Ad annum 1058, plausibile fonte per il celebre capolavoro del gotico, La Venere di Ille), quella vicenda di Filinnio e Macate dal De rebus mirabilibus di Flegone menzionata insieme all’avventura di Menippo/Licio (nel senso che il Menippo di Filostrato divenuto in Burton “Menippo Licio” si trasfigurerà in ultimo nel Licio di Keats) in tutte le summae sul vampiro letterario. Richiami che, incastonati in un’opera sulla malanconia, già preannunziano idealmente un tratto distintivo del più fascinoso mostro dell’immaginario occidentale, insieme sua condanna esistenziale e minaccia del medesimo al singolo e alla società.

D’altro canto, proprio la “concretizzazione” via via accentuata della lamia in mostro-femmina fa transitare la figura di Apollonio dall’antico ruolo di esorcista a quello di cacciatore di mostri. Ciò che interessa anzitutto i rapporti polari tra personaggi: è interessante notare come il trio di attrazioni e opposizioni incrociate (anche sessuali) del filosofo, di Menippo/Licio e della lamia finisca col rileggere in termini calibrati alle nuove inquietudini la classica triade di san Giorgio, principessa e drago. Ciò trova conferma nello stesso svolgersi delle eventi, in particolare attraverso la rimozione nel testo di Burton di ogni riferimento agli scongiuri del teurgo. L’illusione spettrale appare dissipata dalla sua stessa denuncia: la parola che distrugge il sortilegio non è una formula esorcistica (come in Filostrato) ma una rivelazione di verità, che Apollonio non tace nonostante ogni supplica e lacrima del mostro-femmina. Il motivo fantastico di atti e parole fatali (rivelazioni o domande legate a gravi conseguenze magiche) punteggia in realtà l’immaginario occidentale dalle trascrizioni folkloriche alla letteratura cavalleresca, e non stupisce che la melusina corinzia possa conoscerne il mistico impatto. Se poi in Burton ella si dimostra assai più fragile e disarmata che nell’originale filostrateo, limitandosi a pianti e suppliche desolate (al punto che le intenzioni distruttive di lei rimangono implicite in una notoria pericolosità della categoria classica “lamia”), ciò finisce con l’enfatizzare il dato dell’inflessibilità di Apollonio: un atteggiamento di durezza che, requisito di trionfo maschile sulle arti delle seduttrici e ben documentato in tutta una letteratura religiosa sulla lotta alla tentazione, conoscerà sviluppi persino allarmanti nella fiction popolare (si pensi all’immaginario nazista sul maschio insidiato: cfr. Klaus Theweleit, Fantasie virili. Donne Flussi Corpi Storia. La paura dell’eros nell’immaginario fascista, il Saggiatore, Milano 1997).

D’altro canto, lo scabro riferimento di Burton (“seguendo un suo sospetto, scoprì”), di per sé aperto a varie soluzioni interpretative/narrative, finisce col sottolineare il sapore razionale dell’intervento di Apollonio, e anzi l’inesorabilità della ragione che fa dileguare gli spettri, compresi quelli della sensualità. Mentre poi Filostrato taceva la sorte dell’empusa, Burton sottolinea come la lamia scompaia col resto del suo equivoco ologramma, col paradosso almeno apparente di un’acquistata concretezza fisica (il serpente) che però esplicitamente dilegua nella deriva dell’inconsistenza. Apollonio in sostanza perde il carattere originario di esorcista per apparire anzitutto l’indagatore acuto, il dissolutore di illusioni e – alla fine – il distruttore di mostri, serpi o streghe che siano: e con tali caratteri si accrediteranno i suoi figli letterari e cinematografici.

(2-continua)

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Vernon, incubi e miracoli (Victoriana 49/I) https://www.carmillaonline.com/2024/01/06/vernon-incubi-e-miracoli-victoriana-49-i/ Sat, 06 Jan 2024 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80604 di Franco Pezzini

Una Legenda Aurea del cuore

Vernon Lee, Santi e Diavoli. Tre racconti italiani, trad. di Elena Tregnaghi, pp. 124, € 13,90, CSA, Castellana Grotte 2023.

Da qualche tempo l’editoria italiana mostra, pur con misura, un maggiore interesse per l’opera di Vernon Lee. All’inizio trovavamo qualche racconto sperso tra antologie del fantastico e piccole raccolte in cataloghi eleganti (Sellerio, Passigli, Guanda…), singole memorie e studi saggistici: poi lentamente ecco l’approdo a collane popolari, con l’arrivo nel 2023 di ben tre belle edizioni (CSA, Vallardi, Agenzia Alcatraz) votate – pur non esclusivamente – al grande pubblico. Almeno un paio di [...]]]> di Franco Pezzini

Una Legenda Aurea del cuore

Vernon Lee, Santi e Diavoli. Tre racconti italiani, trad. di Elena Tregnaghi, pp. 124, € 13,90, CSA, Castellana Grotte 2023.

Da qualche tempo l’editoria italiana mostra, pur con misura, un maggiore interesse per l’opera di Vernon Lee. All’inizio trovavamo qualche racconto sperso tra antologie del fantastico e piccole raccolte in cataloghi eleganti (Sellerio, Passigli, Guanda…), singole memorie e studi saggistici: poi lentamente ecco l’approdo a collane popolari, con l’arrivo nel 2023 di ben tre belle edizioni (CSA, Vallardi, Agenzia Alcatraz) votate – pur non esclusivamente – al grande pubblico. Almeno un paio di queste meritano discorsi mirati.

All’anagrafe Violet Paget (1856-1935), l’autrice – inglese nata in Francia e vissuta a lungo in Italia – già mostra un’appartenenza plurale che rende difficile porre etichette. E ancor meno quanto al target: per le sue storie sovrannaturali la categoria “ghost story” funziona fino a un certo punto, e in compenso l’arte – un amore per l’arte che è nello sguardo con cui descrive il mondo, dal più umile degli orti agli oggetti liturgici più raffinati, ai quadri carichi d’infestazione, agli spazi urbani non importa quanto trasfigurati o decaduti – è ovunque. Discepola di Walter Pater, lo è anche nelle fantasie narrative, alla scuola dei suoi febbricitanti Ritratti immaginari, ma con un passo diverso e spesso più dolce. Se poi aggiungiamo i suoi scritti saggistici di arte e cultura, musica e viaggio, e le posizioni schierate che la fanno amare (femminista, pacifista e antimilitarista anche negli anni scomodi della Prima guerra mondiale) ma al tempo le procurarono avversioni e ostilità, ci rendiamo conto della straordinarietà di questa piccola donna sensibilissima, titana assoluta dello stile e di raffinata sottigliezza interiore. L’eleganza dei suoi racconti resta non solo pienamente apprezzabile oggi per la finezza dell’analisi psicologica (una camera con vista sui dedali interiori di rara efficacia), ma capace di portare nell’orrore sovrannaturale in letteratura – a usare la definizione di Lovecraft – una genuina e rara dimensione di Bellezza.

Risultati singolari sono in effetti per esempio quelli del prezioso trittico in esame, programmato nella collana “Le crisalidi” a cura dell’attivissimo Giorgio Leonardi: testi classici che riemergono dal buio, come questi tre racconti traghettati in italiano per la prima volta. Oltretutto con una traduzione bellissima – va senz’altro sottolineata per freschezza e intelligenza – a cura di Elena Tregnaghi (già illustratasi anni fa per aver volto in italiano l’ultimo romanzo di Mary Shelley, Il segreto di Falkner, e nota per altro verso come fotografa artistica).

I testi raccolti (editi in inglese tra il 1904 e il 1906) sono appunto tre, di un filone particolare della produzione di Lee. Innamorata delle narrazioni, tra agiografico e fiabesco, presenti nella tradizione devota italiana, l’autrice ne reinventa alcune in chiave di apocrifi, valorizzando il Perturbante di tali storie miracolistiche – quello che in fondo aveva fatto sognare già il vecchio Walpole. Laddove il passo un po’ surreale e tenerissimo di Vernon in questi racconti, ironico e a tratti venato di lieve sarcasmo, appare connotato qui e là da stigmi d’inquietudine: quel sentore sinistro che riverbera nel nonsenso onirico, e offre del Male una chiave peculiare, disturbante e solo illusoriamente prevedibile. Accanto al santo – quello popolare che l’istituzione ecclesiastica fatica a comprendere nelle sue gabbie di canoni e teologia, e che sa far fruttare una propria peculiare beatitudine poco disciplinata – c’è ovviamente il diavolo, nella pluralità cialtrona dei suoi mascheramenti. Compresi quelli delle più sottili riserve mentali, dei dedali interiori che solo con la bussola del cuore possiamo superare. Ovviamente, al netto dell’ironia dell’autrice, che gioca con la storia della cultura, vediamo emergere sullo sfondo un certo devozionismo di sentimenti che appartiene al linguaggio dell’Ottocento: ma sullo scarto tra regole chiesastiche e genuina umanità l’autrice provoca in un modo ancora interessante per l’oggi. Quando per esempio rigorosissimi cardinali teologi (quelli in genere che piacciono tanto a il Giornale) criticano l’emergere di utilizzi non troppo tradizionali di alcuni sacramentali, senza provare la vergogna di averli spesi per secoli a benedire tradizionalmente eserciti, cannoni e stragi.

Attenzione, segue qualche spoiler. Il primo racconto, il delizioso “Suor Benvenuta e il Bambin Gesù” (1905, apparso in precedenza non in italiano ma in veneziano nel 1910 all’interno del periodico Nuova antologia di lettere, scienze ed arti), muove attorno a uno strano spettacolo di marionette all’interno di un convento a Cividale del Friuli. La protagonista Benvenuta Loredan – virtualmente morta nel 1740 – è una povera in spirito nel senso delle Beatitudini matteane: una giovane suora spentasi in odore di beatitudine per cui forse l’autrice pensa alla “piccola via” di Teresa di Gesù Bambino, la santa di Lisieux autrice dell’autobiografica Storia di un’anima (edita postuma nel 1898 – pochi anni prima – con un certo clamore: anche qui c’è un diario della religiosa). Tra bamboleggiamenti e toni naïf persino più marcati di quelli d’un certo tipo di devozione popolare, Benvenuta dedica a una statuetta di Gesù Bambino attenzioni tali da farla considerare corta di cervello – “Sono una gran babbea”, proclama lei stessa. E invece, sintetizza Leonardi, “al supposto deficit mentale fa riscontro senz’altro un’amplificazione del cuore”: a ciò si collega anche lo scarso timore di Benvenuta nei confronti del diavolo, una cui lugubre marionetta conduce un gioco allegro al convento. Il finale suggerirà che qualcosa di sottilmente allarmante potesse effettivamente associarsi all’icona-marionetta, e sia stato sconfitto dalla piccola beata.

“Papa Giacinto”, costituente “una sezione del Codex Eburneus della soppressa Abbazia di Nonantola”,  si colloca nell’ampio leggendario dei papi inesistenti, tra equivoci storici – da Giovanni XX, in realtà assente per errore di numerazione, al papa-refuso Dono II, dal «Dom(i)nus» del successivo, alla fantomatica papessa Giovanna – e libere fantasie letterarie. In una Roma forse altomedioevale di basiliche, marmi e mosaici Giacinto, al secolo Odo, è di nuovo un puro che Satana, pubblico ministero alla corte divina come nel veterotestamentario Giobbe, mette alla prova nel segno del paradosso. Il diavolo, che conosce corpi e anime ma non i cuori, riceverà una lezione.

La vicenda di “Sant’Eudemone e il suo albero di arancio”, che non si trova – riporta il testo sornione – nelle raccolte agiografiche riconosciute, risale a milleduecento anni prima che la narrante la apprenda sul luogo del miracolo. Eudemone è, quasi etimologicamente, un buon diavolo con un approccio pre-francescano alle cose, e viene giudicato con sufficienza da altri due santi – il teologo Carpoforo e lo stilita Ursicino, tanto simili a certi arcigni cardinali dell’oggi (torniamo virtualmente al Giobbe, e agli amici devoti e supponenti del protagonista): tanto più quando compare una statua di Venere estremamente restia a restituire un vecchio anello di Eudemone. Difficile non vedere una sorta di citazione del crudele, elegantissimo e inquietante “La Venere d’Ille” di Prosper Mérimée (1837), anche se il tema di lì è stato ripreso spesso (basti pensare a “L’ultimo dei Valerii” di un grande interlocutore di Vernon Lee, Henry James – 1873-74, rivisto 1875 e in ultimo 1885): ma il finale qui è ben diverso e più sereno. Senza raccontarlo per non sciuparne la sorpresa, merita notare il diverso comportamento verso “Sorella Venere” di Eudemone e dei due santi colleghi, esponenti di un cristianesimo del corruccio, scarsamente evangelico, purtroppo non estinto – a rifarsi al calendario di Vernon Lee – milletrecento anni orsono.

(1-continua)

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Che gli angeli chiamano Leonora https://www.carmillaonline.com/2023/07/29/che-gli-angeli-chiamano-leonora/ Sat, 29 Jul 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78326 di Franco Pezzini

Gli angeli – ma anche i pappagalli, le cavalle, le iene…

Giulia Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, Mimesis, Sesto San Giovanni MI (2014,) 2022.

Leonora Carrington, Giù in fondo, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1979.

Leonora Carrington, Il cornetto acustico, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1984.

 

Caro Henry,

grazie per la sua lettera – Sono d’accordo che si pubblichi En Bas, MA mi creda che non c’è stato nessun “malinteso” fra noi – Forse non ha capito la [...]]]> di Franco Pezzini

Gli angeli – ma anche i pappagalli, le cavalle, le iene…

Giulia Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, Mimesis, Sesto San Giovanni MI (2014,) 2022.

Leonora Carrington, Giù in fondo, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1979.

Leonora Carrington, Il cornetto acustico, trad. di Ginevra Bompiani, Adelphi, Milano 1984.

 

Caro Henry,

grazie per la sua lettera – Sono d’accordo che si pubblichi En Bas, MA mi creda che non c’è stato nessun “malinteso” fra noi – Forse non ha capito la mia irritazione, Non sono più la ragazza Incantevole che è passata da Parigi, innamorata –

Sono una vecchia signora che ha vissuto molto e sono cambiata – se la mia vita vale qualcosa io sono il risultato del tempo – Dunque non riprodurrò più l’immagine di prima – Non sarò mai pietrificata in una “giovinezza” che non esiste più – Accetto l’Onorevole Decrepita attuale – quello che ho da dire ora è senza veli quanto è possibile – Vedere attraverso Il mostro – Lei lo capisce questo? No? Pazienza. In ogni modo faccia quel che vuole con questo fantasma –

a condizione

che pubblicherà

questa lettera come prefazione –

Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca – cerco di conoscere La Morte per avere meno paura, cerco di vuotar via le immagini che mi hanno resa cieca –

Le mando ancora molto affetto e la bacio attraverso la mia dentiera (che tengo accanto a me, la notte, in una scatoletta di plastica celeste)

NON HO PIÙ NEANCHE UN DENTE

Leonora

P.S. Se i giovani mi dicono ora che ho lo Spirito giovane mi offendo –

Ho lo SPIRITO VECCHIO

Cerchi di capirlo –

 

Eppure la signora che nel 1973 scrive a Henri Parisot della casa editrice parigina Le Terrain vague queste righe insieme provocatorie, ironiche e dolorose è impossibile non amarla, non trovarla incantevole. Lo è senz’altro, e si gioca facile, a passare in rassegna le sue foto giovanili: splendida, intensa, occhi pieni di curiosità. Magari con Max Ernst, che in sua compagnia pare abbandonarsi – come (ma non solo) nella famosa foto, sensuale e tenerissima, in cui sta semicoricato su di lei, assorta, coprendone con le mani a coppa i seni nudi. Come ricorderà il figlio di Ernst:

 

Una delle donne più belle che io avessi mai visto mi disse, in un francese con accento inglese, che era in attesa del suo ritorno e che non avrebbe tardato più di un’ora. Mi preparò un tè e durante la conversa­zione mi comunicò che amava Max e che stavano vivendo insieme. Il suo nome era Leonora Carrington e la sua bellezza radiante mi colpì fino al punto che non riuscii a sostenere con lei una conversazione coerente.

 

Ma è incantevole, per opposti motivi, nelle foto di lei da anziana, il viso tatuato dai geroglifici di una storia interiore difficile, dalla dialettica tra horror e humour con cui ha decrittato la realtà, da una vita tessuta tanto riccamente di eventi e opere da rendere gli stessi aggettivi surreale e surrealista penosamente riduttivi.

E soprattutto incantevole perché è impossibile non amare la voce di En Bas (Giù in fondo, Adelphi 1979, trad. Ginevra Bompiani), un’impressionante catabasi di tanti anni prima da cui vorremmo a tutti i costi strappare la protagonista. Alla deriva di incubi e miracoli di una follia descritti con puntualità abbacinante e altra, qualcosa da far sognare e gridare d’ammirazione i surrealisti – che a quel tipo di ipnosi della voce avevano tentato di dar corpo come in laboratorio. Sintetizza Ingarao:

 

Il delirio che Carrington visse fu come sperimentare concreta­mente una delle dimensioni “altre” auspicate e descritte dai surrea­listi: trovarsi in un certo stato dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, non vengono più percepiti come contrari.

[…] I surrealisti erano affascinati dalla pazzia, erano soliti ricorrere a droghe e ad esperimenti ipnotici per simulare l’alterazione mentale e individuavano nella donna un soggetto particolarmente adatto a passare “dall’altra parte dello specchio”. In Giù in fondo l’esperien­za della pazzia è diretta e documentata: Leonora Carrington rag­giunge naturalmente quella dimensione psichica, fonte d’ispirazio­ne e libertà creativa, che, nel Secondo Manifesto, Breton individua come meta ultima della ricerca e della sperimentazione surrealista. È la storia di uno di quei viaggi da cui si hanno poche probabilità di tornare, raccontato con precisione sconvolgente. Eppure, Leono­ra seppe ritornare e, nonostante la sua fragile condizione psichica, riuscì a scappare dai suoi carcerieri e a ricostruirsi una nuova vita, lontana da quello che alla fine degli anni Settanta definirà semplice­mente “un fantasma della mia giovinezza”.

 

Una serie recente di mostre dedicate a surrealismo & dintorni hanno permesso a un più vasto pubblico di avvicinarsi all’opera visionaria e magica di pittrice di Leonora Carrington (Lancaster, 6 aprile 1917 – Città del Messico, 25 maggio 2011) che del secolo breve ha percorso tutto il cammino, e le cui opere narrative hanno avuto nel frattempo ampia circolazione. Ora la riproposta di una magnifica, pionieristica – almeno per l’Italia – biografia per Mimesis è un’ottima occasione per ricapitolare un itinerario: e una nota a questa seconda edizione ricorda che

 

In questi anni la sua produzione è stata oggetto di studio e di un interesse internazionale crescente. Soprattutto si è sviluppato un filone di ricerca strettamente legato alla relazione tra arte e magia, tema dominante nelle figure e nei paesaggi sincretici dipinti da Car­rington, in risposta al sempre più incalzante bisogno di spiritualità della società contemporanea.

 

Giulia Ingarao articola la sua biografia di Carrington in tre parti:

 

Il testo, diviso in tre parti, scandisce temporalmente le fasi dell’e­sistenza dell’Artista e segue un doppio registro, narrativo e saggisti­co, mettendo a fuoco, attraverso interviste, documenti e testi lette­rari, momenti cruciali nella storia dell’arte del Novecento.

 

La prima parte (Genealogia di un immaginario pittorico) è dedicata alla formazione. Nata in Inghilterra da un magnate del tessile e dalla figlia di un medico irlandese, cresciuta in una villa gotica da Giro di vite, in una nursery che tornerà in varie sue opere quale luogo separato dallo spazio esterno adulto, introdotta fin dagli anni verdi alla lettura di opere fantastiche e surreali, ricche di giochi di parole e immagini fantastiche, di animali e creature del folklore gaelico, Leonora prende presto a costruire storie proprie. Patisce gli stigmi di diversità – è “in grado di scrivere con entrambe le mani e anche al contrario sugli specchi (caratteristica che viene subito etichettata come chiara manifestazione di possessione demoniaca!)”, soffre di allucinazioni che riproduce nei disegni –, non sta mai nelle regole ed è intelligente a un livello che preoccupa i corti orizzonti degli adulti incaricati di formarla. Considerata ineducabile, patisce le regole delle suore – va detto che il padre è ateo – e in compenso può capitalizzare il cattolicesimo popolare & magico della bambinaia, guardato con disprezzo dal mondo agiato inglese, e prima soglia invece verso una gioiosa apertura al magico vero e proprio. Fondamentale l’incontro con il mondo animale poi tanto presente nelle sue opere narrative e pittoriche: a partire dalla prima visita allo zoo, che getta le basi del tema di tanti racconti col dialogo tra una giovane donna e una bestia, spesso avversato da algide figure di religiosi. Pensiamo solo al racconto La debuttante, “La bestia che ho conosciuto meglio era una giovane iena”: qualcosa che torna in un celebre dipinto dell’autrice dell’epoca del soggiorno in Provenza (ca. 1937-38, ora al Metropolitan Museum of Art, New York). Lo descrive bene Ingarao:

L’idillio di Saint-Martin-d’Ardèche stimola la creatività della gio­vane pittrice che in quell’anno dipinge Self-Portrait. The Inn of the Dawn Horse, un quadro dove sembrano riannodarsi le fila della sua esistenza. Leonora appare scarmigliata al centro di una stanza semi vuota, è seduta, immobile, su una sedia dalle forme antropomorfe; di fronte a lei c’è una iena e fuori dalla finestra galoppa una giumenta bianca. La sua chioma ricorda una criniera, indossa pantaloni bian­chi da equitazione e il suo cavallo a dondolo non è stato bruciato ma riposa quieto appeso alla parete. La iena, il suo doppio beffardo, come la descrive nel racconto La debuttante, ci osserva con sguardo di sfida, mentre fuori, nella luce crepuscolare del tramonto, corre libero un cavallo bianco simbolo del suo desiderio di libertà.

 

Ma un altro quadro, Crookhey Hall, dedicato alla villa gotica edoardiana della prima infanzia, pare di rilievo capitale per l’evocazione del passato:

la fuga dalla dimora paterna sarà al centro del dipinto intitolato Crookhey Hall (1947), sullo sfondo del quale si erge la grande casa in stile gotico della sua infanzia, immersa nella nebbia e circondata da ombre, ninfe, fantasmi, mostri metà uomini e metà animali, mentre in primo piano una figurina bianca scappa via. Leonora, come la bianca giumenta protagonista di molti suoi quadri, corre lasciandosi alle spalle l’atmosfera brumosa e sinistra del passato. L’ambiente tetro è reso dai colori autunnali del dipinto, dove spicca luminosa la piccola donna in bianco dalla folta chio­ma color ghiaccio. Ci osserva, spaventata e compiaciuta allo stesso tempo, mentre la sua mano alzata ci invita a seguirla oltre, il più lontano possibile, in un tempo dove: “il mondo diverrà sogno e il sogno diverrà mondo”.

 

Dopo studi d’arte a Firenze, dove s’innamora degli autori del Rinascimento, si batte per proseguire lo studio a Londra confrontandosi con la dura – e per lei inaccettabile – disciplina del maestro Amédée Ozenfant sodale di Le Corbusier nel Manifesto Purista. Il padre commenterà acido: “Non eri una vera artista – in quel caso saresti stata povera o omosessuale, che come crimini si equivalgono”. Questo per darci un’idea dell’ambiente.

Ma nel frattempo, attraverso quel giro di artisti, è arrivata la svolta (seconda parte del libro: Al di là dello specchio). La giovane entra così a contatto coi surrealisti nel 1936, alla loro prima esposizione a Londra, poco dopo conosce il carismatico quarantaseienne Max Ernst: lei ha diciannove anni, è rimasta travolta dalle opere di lui e in un clima di entusiasmo febbricitante si innamora anche dell’autore, quel profeta dell’arte “[c]acciatore di femme-enfant”. Merita ricordare che

 

Sin dai primi esordi del movimento gli artisti surrealisti so­vrappongono alle donne reali la propria visione del femminile. Un esempio paradigmatico è la figura di Nadja descritta da Breton:

 

“tu che […] non devi essere un’entità ma una donna, tu che prima di tutto sei una donna, nonostante tutto ciò che in te mi ha piegato e mi piega alla suggestione che tu sia la Chimera […] Tu idealmente bella. Tu che ogni cosa riconduce allo spuntare del giorno e che proprio per questo non vedrò forse più”.

 

Poeti e artisti che animano il movimento surrealista attingono da antiche tradizioni letterarie e mitologiche l’immagine della don­na-sfinge o strega, creatura in contatto diretto col mistero e con l’e­nergia indomita della natura. Come sostiene Simone de Beauvoir, nonostante gli apparenti tentativi di conciliazione e valorizzazione dell’altro sesso, il Surrealismo insegue il mito della donna-bam­bina/fata-strega e l’idea del femminile come oggetto del desiderio finisce per essere dominante.

Nell’introduzione al racconto La debuttante, André Breton de­scrive con stupore incantato il seducente incontro tra magico e sel­vaggio che, agli occhi dei surrealisti, Leonora personificava: una straordinaria sintesi tra lo spirito libero, proprio di un femminile moderno, e il potere extra razionale del femminile arcaico. Car­rington, dunque, secondo l’autorevole teorico surrealista, incarnava nello stesso tempo due potenti archetipi: la femme-enfant e la fem­me-sorcière.

 

E Max diventa di Leonora amante e mentore: “Vivere con Max Ernst ha radicalmente cambiato la mia vita, lui vedeva le cose in un modo che non immaginavo. Mi ha aperto le porte di ogni mondo possibile”. Amatissimo, certo, e insieme autoritario fino all’ingombro: partono per Parigi (ovvia rottura con monsù Carrington padre), e si trasferiscono poi in Provenza a Saint-Martin-d’Ardèche, in una casa presto fitta di sculture e dipinti d’animali mitologici, sorti dai bestiari inquietanti e intimi della relazione tra i due artisti. La donna-cavalla Sposa del Vento, Leonora, scrive i primi racconti e pubblica il primo, La maison de la peur, con introduzione e sette collage del partner Loplop, l’Uccello superiore Max. Che vede nel testo di lei, a torto o a ragione, più un risultato medianico che un’opera autorale consapevole e controllata. In questo clima Leonora produce parecchi racconti e riprende a dipingere. Interessante il ritratto del partner che Leonora dipinge nel 1939 (coll. priv.), mostrandolo coperto di una pelliccia con la coda come una sirena, corrucciato nel gelo.

Il contraccolpo psicologico di una relazione tanto appassionata e straniante erutta però quando l’amante viene internato come straniero “nemico” (1939): Leonora – che in questo periodo ha un lungo scambio di lettere con Leonor Fini, “a metà tra il racconto intimo e il flusso di coscienza” – manifesta i primi segni di cedimento psichico. Lui rientra a casa per breve tempo, e le dedica il meraviglioso Leonora nella luce del mattino (1940, coll. priv.), dove lei figura come una sorta di dea della terra nel lussureggiare della natura. Ma in seguito al nuovo arresto che vede tradurre Max in campo di concentramento, Leonora conosce un grave collasso psicotico. Anzitutto cerca di vomitar fuori a conati (letteralmente) le brutture introiettate della società, si sottopone a una drastica dieta di purificazione e a strapazzi fisici nei campi, ma non è preoccupata per la situazione generale – crollo del Belgio, invasione tedesca della Francia –, tanto sa di non dover morire allora. Viene raggiunta a Saint-Martin dall’amica Catherine Yarrow – che, sulla scorta di categorie psicanalitiche un po’ troppo sommarie le diagnostica un desiderio inconscio di liberarsi del “padre” Max, richiamandola alla dimensione del desiderio: col risultato che Leonora, in quel momento facile e suggestionabile, tenta disperatamente e senza risultati di sedurre due giovani (“Rimasi quindi tristemente casta”). Ma i tedeschi si avvicinano, e Catherine – convinta che l’arrivo delle truppe naziste significhi stupro sicuro – la supplica di partire di lì, di andarsene assieme.

Mentre l’Europa esplode, Leonora con gli amici si trasferisce in Spagna. Il viaggio, epico, è costellato di esperienze interiori bizzarre: se la macchina ha i freni bloccati, è perché lei è bloccata interiormente (“Ero atterrita del mio potere”); si convince che gli amici siano sotto la sua responsabilità; giunta ad Andorra vive l’esperienza di una sorta di coma volontario con perdita del controllo dei movimenti (che poi interpreterà quale tentativo della mente di congiungersi al corpo in un nuovo equilibrio con la montagna e gli animali, attraverso il tatto e fuori dalle “formule della vecchia Ragione limitata”); di notte i suoi nervi urlano “come pappagalli esasperati”. “È chiaro che, agli occhi dei bravi borghesi, tutto questo assumeva un aspetto singolare e demente”: e giunta in Spagna (la cui lingua ignota “mi permetteva di attribuire un senso ermetico alle frasi più banali” – cogliamo una vaga ironia), prima a Barcellona e poi a Madrid, su quest’ultima si convince trattarsi dello

 

stomaco del mondo e che io ero incaricata di guarire quell’apparato digerente. Credevo che tutta l’angoscia si fosse accumulata dentro di me per finalmente risolversi e così mi spiegavo la forza delle mie emozioni. Mi sentivo capace di portare quel peso atroce e di trarne una soluzione per il mondo. La dissenteria che mi venne poco dopo non era altro che la malattia di Madrid attuata nel mio intestino.

 

D’accordo, possiamo dubitare dell’interpretazione un tantino megalomane. Eppure, in primo luogo, come si può non amare questa donna che accetta con straniata serenità la fatica di un ordine psichico diverso da quello ordinario e razionale, con un abbandono alla missione e un coraggio propri in fondo della grande mistica? E come si può non vedere un nesso tra queste visioni intimissime del mondo e una straordinaria capacità di metterle in parole o – in altre fasi della sua opera – in immagini? Il memoriale in cui lei restituisce tali flussi immaginali resta, come tante delle sue tavole, uno degli esiti più alti di quella narrazione dell’alterità (di volta in volta onirica, lisergica… qui psichica) tale da restituire una parte importante e abissale della vita. Di ogni vita, a ben sgattare: anche se la sua, ovviamente, presenta caratteri esemplari, paradigmatici, vertiginosi. Come la definisce Ingarao, parliamo dell’

 

ultima surrealista a poter raccontare degli incontri mondani a Parigi in compagnia di Pablo Picasso, dell’amour fou con Max Ernst e dell’amicizia con Leonor Fini, Remedios Varo, Kati Horna, Maria Félix, Edward James, Luis Buñuel, Alejandro Jodorowsky; o di come André Breton, con l’aiuto di Jeanne Megnen, poté persuaderla a ripercorrere, attraverso la scrittura, il suo viaggio Giù in fondo, dando vita ad uno dei più interessanti esempi di racconto lucido di un’esperienza di follia.

“Sembra che la vita di Carrington – scrive Susan L. Aberth – ab­bia assunto tratti favolosi sin dal suo inizio, e i suoi sagaci ricordi personali contribuiscano a diffondere una sorta di mitologia biogra­fica”. Anche Lourdes Andrade, altra studiosa che si è lungamente occupata della sua opera artistica e letteraria, fa una riflessione si­mile:

 

“la biografia di Leonora Carrington è divisa in due tempi: il tempo reale, storico, oggettivo, che si basa su fatti concreti e documentati, e il tem­po mitico, onirico, soggettivo, quello dei sogni e degli incubi, quello in cui ha potuto immaginare e dare forma alle sue ossessioni, alle sue fantasie, alle sue paure e ai suoi desideri”.

 

Ma torniamo in Spagna. Leonora cerca di spogliarsi di tutto, beni e documenti, è oggetto di tentato stupro da parte di un ufficiale e identifica nell’ebreo olandese nonché agente nazista Van Ghent “colui che ipnotizzava Madrid, i suoi uomini e il suo traffico, […] che trasformava la gente in zombi e distribuiva l’angoscia come caramelle per farli tutti schiavi”: non solo, ma Van Ghent “era mio padre, il mio nemico e il nemico degli uomini; io sola potevo capirlo; e per vincerlo, mi era necessario capirlo”. Quanto di queste suggestioni deriva da una narrativa minore d’epoca, da certo cinema su armate di sonnambuli e mad doctors, e quanto dall’incubazione di letture e fantasie mitiche anche più remote? Difficile dire. Leonora cerca comunque di convincere il console inglese

 

che la guerra mondiale era fatta a base d’ipnotismo da un gruppo di persone, Hitler e compagnia, rappresentati in Spagna da Van Ghent, che bastava prendere coscienza di questo potere ipnotico per vincerlo, far cessare la guerra e liberare il mondo, bloccato come me e la Fiat di Catherine, che invece di perdersi in labirinti politici e economici, bisognava credere in questa forza metafisica, distribuirla a tutti gli esseri umani e così liberarli.

 

“[…] distribuirla a tutti gli esseri umani e così liberarli”: col risultato che viene dichiarata pazza e dopo vari internamenti più morbido (nell’albergo, in una clinica di suore) e la somministrazione di farmaci diversi viene narcotizzata e – su richiesta della famiglia, allertata da Catherine Yarrow – chiusa in manicomio a Santander come “pazza incurabile”. L’esperienza viene appunto narrata in Down Below, cioè En Bas, scritto per la prima volta in inglese a New York, nel 1942, ma poi perduto, quindi dettato in pochi giorni in francese e volto in inglese per la pubblicazione, tra 1943 e 1944. Dove anche lo scarto linguistico – il francese di Leonora non sembra fosse perfetto – può aver giocato un ruolo nel tono clinico con cui espone senza filtri esperienze ancora tanto vicine e scioccanti, in forma del tutto priva di autocommiserazione.

Perché qui inizia qui la parte più impressionante del memoriale. Col racconto dei significati (presuntamente) nascosti dietro ogni nome, titolo o caratteristica di cose e persone, dell’adorazione che Leonora riserva alla raggiunta completezza che vede in sé, dei sogni che fa e delle impressioni che vive, illusioni comprese. Ma soprattutto dei dolorosi risvegli legata al letto in manicomio, dei dialoghi assurdi con chi la detiene, delle pratiche odiose cui viene assoggettata: per esempio l’ascesso artificiale procuratole nella coscia; i “Molti giorni e molte notti, sdraiata nelle mie stesse lordure, urina e sudore” – oltretutto nuda, legata al letto e tormentata dalle zanzare; le terribili convulsioni indotte dal Cardiazol…. “Pensavo che mi facessero subire torture purificatrici per permettermi di pervenire alla Conoscenza Assoluta e che solo allora avrei potuto vivere ‘Giù in fondo’ [ipotetico padiglione di felicità nella struttura e insieme fantomatico Paradiso e Gerusalemme]”, ritenendo gli organizzatori “Dio e suo figlio. Li credevo ebrei e pensavo che io, ariana, celta e sassone, subivo quelle sofferenze per vendicare gli ebrei delle persecuzioni subite” in vista di divenire lei stessa la “terza persona della Trinità”. Lei che era

 

androgina, la luna, lo Spirito Santo, una gitana, un’acrobata, Leonora Carrington e una donna. In seguito sarei stata anche Elisabetta d’Inghilterra. Ero la persona che rivelava le religioni e portava sulle spalle la libertà e i peccati della terra trasformati in conoscenza, l’unione dell’uomo e della donna con Dio e il Cosmo, tutti uguali fra loro.

 

Un’immagine folgorante – diremmo – da fumetto di Alan Moore… Quel che emerge è un bombardamento di nessi causali surreali e a loro modo rigorosi – cospirazioni favolose da monomania, torpori comunitari e sensi di responsabilità deliranti, rituali e scongiuri improbabili e urgenti –, il tutto lucido di un mai sopito languore erotico, di una deriva gnostica di attrazioni e repulsioni, di una realtà scombinata in oggetti che assumono valenze cosmiche, in persone e luoghi trasfigurati in entità e dimensioni metafisiche. Ma alla fine, lentamente, tra minacce di nuove iniezioni del terrificante Cardiazol, visite inattese, equivoci continui, qualche sfogo sessuale, dopo sei mesi terribili, per intervento della famiglia la prigioniera potrà tornare libera dal carcere streghesco di cui una surreale mappa finale offre le coordinate.

Leonora stessa dipinge comunque un quadro, Down Below (variamente datato, ma concepito in apparenza durante l’internamento), dove varie figure femminili sono riunite in un giardino notturno dal clima tenebroso, assieme a un cavallo che potrebbe essere una statua. Vediamo una figura femminile nuda, bianca sulla sinistra, il viso d’uccello con lunghi capelli; poi un’altra pure nuda, ma verde e dal volto umano, che emerge da dietro; un essere dal viso vagamente femmineo ma con barba e baffi pare accucciato subito dopo, e un’altra donna vestita in modo procace indossa una maschera con corna di ariete. Sulla destra un’altra figura potrebbe essere un angelo, garante forse della successiva liberazione. Un insieme comunque dove sessualità e inquietudine, delirio e incapacità di riconoscersi realmente (i visi nascosti dietro maschere o sembianti altri), senso torpido di attesa e notte interiore dell’hortus conclusus sembrano estremamente rivelativi di un travaglio.

Non seguiamo qui passo passo le stazioni della sua vita – la destinazione a una clinica psichiatrica in Sudafrica (più lontana e presuntamente più sicura), il matrimonio di convenienza con il disponibile diplomatico messicano Renato Leduc per sottrarsi alle ingerenze familiari, il nuovo incontro con Max e lo stiracchiato ritrovarsi tra rimproveri reciproci e tormenti di lui, le nuove pubblicazioni e le esposizioni di dipinti. Se non per rilevare (Ingarao):

 

Il viaggio dall’Europa all’America coincide con la trasformazio­ne epocale che, a principio degli anni Quaranta, si sta compiendo nella storia dell’arte, con lo spostamento del centro creativo da Pa­rigi a New York, dove gli esuli europei si riuniscono e dove Peg­gy Guggenheim fornisce un contributo fondamentale per costruire l’arte del futuro. Leonora Carrington partecipa a questo momento di nuova creatività newyorkese unendosi al gruppo di emigrati sur­realisti ma, presto, decide di lasciare gli Stati Uniti.

 

La terza fase (Il Messico) inizia con la partenza per Città del Messico (1942), il divorzio da Leduc e il nuovo matrimonio con il fotografo ungherese Emerico Imri Weisz, da cui Leonora avrà due figli… Scrive L. C. Emerich:

 

Lontana, da quello che lei definisce “il paradigma del buonsenso”, che stabilisce il codice della normalità, Carrington ha “metaforizzato” la sua permanenza nella ragione, come prigione temporale dello spirito, fino a scegliere quella prigione senza porte che è il Messico. Allo stesso modo dell’Alice di Lewis Carroll vive il Messico come un desiderabile precipitare tra l’assurdo, l’insolito, il fantastico e il terribile.

 

 

Ma l’immersione nella realtà del Messico postrivoluzionario, asilo per molti emigrati europei (compresi parecchi surrealisti, di cui nasce una vera e propria colonia), condurrà la sua produzione a incalzanti e sempre nuovi esiti pittorici, teatrali e narrativi, e i suoi interessi all’azione per i diritti della donna. Vi era giunta senza troppe energie, come chi sia incerto o mezzo assopito, ma come può esserlo la crisalide in fase di passaggio (emblematico il quadro Green Tea, 1942, con la figura principale imbozzolata e dormiente a evocare una transizione come in farfalla). E infatti si tuffa, lavora, prende a studiare gli archetipi di Jung, La dea bianca di Graves e recupera le tradizioni celtiche delle sue origini irlandesi; “approfondisce gli studi di alchimia ed esoterismo, si accosta al buddismo tibetano, all’ermetismo e alla cabala ebraica” (si pensi solo a quadri come The Giantess o The Guardian of the Egg, 1946, figura mitologica di dea con l’uovo cosmico, Ab Eo Quod, 1956, nuovamente con l’uovo di tutta una simbolica esoterica, o Rabbi Loew’s Bath, 1969, che richiama la saga del Golem), ma anche proprio alle tradizioni messicane e specificamente Maya: e tutti questi influssi emergono nei suoi dipinti, negli arazzi che prende a produrre, ovviamente nei suoi scritti. Intrattiene scambi con personaggi della statura di Luis Buñuel (partecipa anche da comparsa a un suo film), Salvador Elizondo (contribuisce alla rivista “S.nob”), Alejandro Jodorowsky (con cui collabora in campo teatrale). A tratti abbandona il Messico per gli Stati Uniti, a denuncia di violenze e abusi di una società patriarcale. A partire dalla sua esperienza personale, Leonora vede la figura del padre come “portatore del potere dell’inibizione, […] nemico del gioco e dell’immaginazione”. Una società a sua misura non può che essere coattiva, castrante, e da cui si può sfuggire (come nel quadro enigmatico Adelita Escapes, 1987: una morte? un viaggio astrale?).

Possiamo stupirci che negli anni Cinquanta, forte di un lunghissimo lavoro su se stessa, Leonora Carrington parta idealmente proprio da quella sua antica notte oscura dell’anima confinata giù in fondo per scrivere in chiave di trasfigurazione grottesca e ironica – ma idealmente con gli stessi materiali, gli stessi ingredienti visionari – l’incredibile Cornetto acustico (edito nel 1974 in francese, nel 1976 in inglese)? La storia di una vecchietta quasi centenaria completamente sorda, al punto da dover usare il cornetto eponimo, sdentata – come Leonora nella lettera a Parisot – e ormai barbuta come le streghe del Macbeth, non è soltanto, come nei trafiletti pubblicitari all’uscita dell’edizione Adelphi, l’avventura “di una Alice novantanovenne sopravvissuta al surrealismo”, ma un vero e proprio controcanto provocatorio a En Bas, una trasfigurazione paradossale e ironica in cui precipitano un po’ tutti gli influssi culturali accolti nella sua vita.

Ricca di una vitalità e un senso del surreale che scintillano, Marian Leatherby, mollata dai parenti in uno strambo istituto per anziani, conosce presto una Wonderland inattesa. Sostenuta a distanza dall’impagabile e avventurosissima amica Carmella ispirata all’amica pittrice Remedios Varo (altra mattatrice del filone surreal-magico), Marion scopre infatti che l’istituto è sede della Confraternita del Pozzo di Luce dell’equivoco dottor Gambit – inevitabile pensare ai responsabili del manicomio di Santander –, ente religioso dai connotati piuttosto loschi, che impone alle ricoverate prassi di lavoro e di purificazione demenziali per valorizzare la Memoria di Sé, chiave per la comprensione di un fantomatico Cristianesimo profondo: e si trova coinvolta in sghembe tensioni tra vecchiette e con la direzione. Ma il dipinto col ritratto ammiccante – e un po’ inquietante – di una religiosa del passato schiude a colpi di antichi documenti la vicenda folle e divertita di una badessa libertina settecentesca da Storia universale dell’infamia – Doña Rosalinda Alvarez Cruz de la Cueva del Convento de Santa Barbara del Tartaro, latrice di macchinazioni alla Codice da Vinci – ingenuamente portata agli altari… e a quel punto la storia si trasforma.

Le vecchiette – o almeno quelle alleate della protagonista, in spirito di sorellanza – si ribellano in un contesto fiabesco, e la loro eversione scatena un effetto-valanga contro le istituzioni patriarcali. Innescando una serie di sommovimenti cosmici legati al ritorno della Dea (troviamo davvero di tutto), che vedono recuperare, dalla protagonista e dalle colleghe reinventate streghe, nientemeno che il Graal – del resto il bisnipote di Marion si chiama Galahad – inteso però come simbolo femminile scippato dal clero patriarcale… Il tutto a trasformare tra invocazioni a Ecate e licantropi, voli di api della Dea e calderoni iniziatici, funghi e scosse telluriche, i simbolismi sghembi dettati dal delirio nel vecchio memoriale in una scatenato, divertentissimo contrappunto fiabesco/ironico, una fantasmagoria sabbatica dai connotati a volte sottilmente inquietanti ma più spesso oniricamente paradossali: un risultato comunque della serissima riflessione di genere portata avanti dall’autrice tra letture mitiche e consapevolezze sociali.

Notiamo tra l’altro i padiglioni nel parco dell’istituto, con i più diversi sembianti: “Case di gnomi a forma di fungo velenoso, di chalet svizzero, di vagone ferroviario, semplici bungalows, uno a forma di stivale, un altro simile a qualcosa che presi per una smisurata mummia egizia”, quasi a richiamare la fiabesca cartina al fondo di En Bas. C’è anche una torre, separata dal corpo centrale… come nei quadri di Leonora, in fondo, con le loro strutture indecidibili tra folly, gloriette e cappelle improbabili, di cui questo romanzo rappresenta una sintesi ideale – e che nel volume di Ingarao, forte di particolare attenzione alla produzione artistica, trovano un esame ricco e vivido. L’autrice vivrà ancora a lungo (muore il 25 maggio 2011, novantaquattrenne) e pubblicherà molto altro, ma la provocatoria reazione chimica tra queste due opere recettrici di tanto immaginario, sentimenti, idealità, sofferenze, sembra particolarmente rivelativa.

 

Puoi anche non credere alla magia ma qualcosa di molto strano sta succedendo proprio ora. La tua testa si è dissolta nell’aria sottile e vedo i rododendri attraverso il tuo stomaco. Non è che tu sia morto o niente di così drammatico, è solo che stai svanendo e non riesco nemmeno a ricordarmi il tuo nome. […] Mi sembrò di aver sentito ridere la Regina delle Nevi, ride raramente.

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Whisky scozzese, humour inglese e precariato all’italiana https://www.carmillaonline.com/2023/06/09/whisky-scozzese-humour-inglese-e-precariato-allitaliana/ Fri, 09 Jun 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77486 di Simona Castanotto

Vite ai margini del Paxton Arms

Agnes Owens, Gentiluomini dell’Ovest, ed. orig. 1984,  riadattata nel 2008; trad. di Anna Mioni, post scriptum di Alasdair Gray, pp. 160, € 16, Safarà, Pordenone 2022.

Scivola giù come un sorso d’acqua fresca Gentiluomini dell’ovest, opera del 1984 di Agnes Owens, riadattata nel 2008 e uscita di recente per Safarà Editore. Un sorso d’acqua che ai protagonisti andrebbe di traverso, perché proprio la costante presenza dell’alcool è uno dei fili rossi che conduce dentro e fuori dal labirinto di una piccola comunità di personaggi [...]]]> di Simona Castanotto

Vite ai margini del Paxton Arms

Agnes Owens, Gentiluomini dell’Ovest, ed. orig. 1984,  riadattata nel 2008; trad. di Anna Mioni, post scriptum di Alasdair Gray, pp. 160, € 16, Safarà, Pordenone 2022.

Scivola giù come un sorso d’acqua fresca Gentiluomini dell’ovest, opera del 1984 di Agnes Owens, riadattata nel 2008 e uscita di recente per Safarà Editore. Un sorso d’acqua che ai protagonisti andrebbe di traverso, perché proprio la costante presenza dell’alcool è uno dei fili rossi che conduce dentro e fuori dal labirinto di una piccola comunità di personaggi dai connotati analoghi, eppure sempre distinguibili grazie a poche ma vivide pennellate ben piazzate dall’autrice.

Una storia in cui i coprotagonisti quasi si disegnano da soli, attraverso l’interazione col gruppo dei loro simili. Persino il cane, “così alto e magro e con quel muso affilato e malvagio”, in questo microcosmo assurge a interprete, senza nemmeno disturbarsi a suscitare la pietà che la sua vita sfortunata, i calci presi e l’aspetto rognoso richiederebbero, e anzi diventando un grandioso espediente per raccontare l’indole dei suoi tanti padroni, che si alterneranno, senza troppi complimenti, insieme alle vicende della comunità.

L’opera racconta le vicissitudini di Mac, un muratore di ventidue anni che annaspa per campare in quella che è la Glasgow degli anni Settanta/Ottanta, lasso temporale che si può dedurre, per sommi capi, dal dibattito sulla tv a colori e dalla citazione di Wacky Races – in italiano La corsa più pazza del mondo – oltre che dalla presenza dell’incombente flagello della mancanza di lavoro che si intuisce a fine racconto. È la Glasgow di quando la vecchia industria va scomparendo, la disoccupazione aumenta e la nazione scivola in recessione profonda. Una città in cui, per questa porzione di società, un pub scalcinato, il Paxton Arms, si eleva al ruolo di Agorà.

Owens (1926-2014) dipinge della classe lavoratrice scozzese un ritratto esilarante, per poi sferrare colpi alla tela come Lucio Fontana, usando un bisturi affilato, e dimostrandosi esperta nell’arte di sezionare e poi ricucire assieme dramma e commedia. Inevitabile pensare a Ken Loach.

Non è un caso che a scoprirla sia stato il grande scrittore, artista e drammaturgo scozzese Alasdair Gray, autore di Lanark (1981: Lanark – Una vita in quattro libri, Volumi 1-4, Safarà 2015-2017), ritenuto una delle figure più influenti della letteratura e dell’arte scozzese contemporanea e noto per i suoi romanzi, racconti e opere teatrali che esplorano temi caldi come la politica, la società, l’identità nazionale e la condizione umana. Gray è stato anche un talentuoso artista visivo. Le sue creazioni sono state esposte in gallerie d’arte e musei di tutto il Regno Unito e ha spesso realizzato le copertine dei suoi libri, accortezza riservata pure a questo lavoro di Owens. Anche la postfazione è sua, ed è un mini saggio su ciò che Robert Burns definiva “l’onestà povera”, quella che lascia al lavoratore un gruzzoletto risicato per svagarsi dopo aver offerto l’intera settimana a un lavoro che ha poco da invidiare a uno stato di schiavitù. La verità, spiega Gray, è che la povertà “è così vergognosa che persino i poveri detestano che venga loro ricordata”, ed ecco perché è tanto difficile che un’opera di questo genere riscuota il giusto successo. Il romanzo, merita ricordare, è del 1984, nel profondo dell’era-Thatcher.

In un’intervista del 2008, l’autrice spiega in una esternazione che riporta subito il pensiero a Verga:

“Preferisco scrivere di persone che sono condannate, forse, fin dall’inizio. Sai, forse a causa del loro ambiente, dei loro genitori o perché non hanno avuto una possibilità e finiscono per essere disprezzate. Preferisco dare voce a persone del genere”.

Mac è senza dubbio una di queste. Nel mondo maschile in cui si muove, l’unica donna è la madre, con cui convive. E difatti questa assume ora le vesti di una fidanzata, senza tratti morbosi, s’intende, ora quelle di una figlia spesso capricciosa e solo di rado quelle morbide e accoglienti della maternità. Assolve, insomma, a tutti i ruoli possibili, persino quello del compagno di merende, in un contesto dove anche solo immaginare di avere una ragazza vera, il prospetto di mettere su famiglia, è pura utopia.

Paradossale che in questo universo fatto da uomini, il grande assente sia proprio il padre del protagonista, che suo malgrado e senza mai ammetterlo a sé stesso, lo cerca in Paddy McDonald, un poveraccio che abita un tugurio in compagnia di un gatto e di conigli tenuti vivi nel forno spento, un ubriacone con un cuore che tutti schifano ma da cui, prima o poi, ritornano, sempre nei confini dell’affettività limitata che il contesto grondante “l’ognuno per sé” concede.

La scrittura di Owens è cruda ma brillante, in grado di ironizzare perfino quando batte su tasti sensibili come la nazionalità, l’estrazione sociale e la religione, senza risultare mai offensiva.

Personaggio riuscito in modo magistrale è il povero Tolworth “Toly” McGee, ex compagno di Mac che torna in città per un breve periodo, sulle cui disgrazie non si può fare a meno di farsi una sonora risata, e che riporta alla mente le vicende de La cena dei cretini (Le dîner de cons), esilarante film del 1998 scritto e diretto da Francis Veber.

Eccellente la traduzione di Anna Mioni che rende godibile l’opera attraverso l’escamotage ben riuscito di usare anacoluti e imprecazioni che rispecchiano l’originale, non ritenendo adeguato l’ utilizzo di un dialetto italiano. “E quale, poi? si domanda.

Il lettore, a parer mio, potrebbe cimentarsi nel tentativo giocoso di trasporre i dialoghi in sardo, col pensiero rivolto a William MacDougal, comunemente detto Willie, giardiniere nella serie di cartoni animati The Simpsons.Infatti è scozzese, Willie, ma in alcune sequenze del doppiaggio in lingua italiana dichiara di essere sardo e, inoltre, la serie di quel genio di Matt Groening condivide col libro in oggetto un umorismo irriverente che affronta una vasta gamma di temi, tra cui politica, società, cultura popolare, famiglia e molte altre sfaccettature della vita moderna.

Tornando a noi, non ci resta che constatare che, se al principio è l’umorismo, ad accoglierci, chi ci accompagna senza troppi complimenti all’uscita è il sarcasmo.

Mac, ricavandosi qualche momento di solitudine che lo porta fuori da una routine che stordisce e aliena, comprende di avere un piede nel baratro e fa una scelta. Lui è diverso dagli altri, si sente diverso: “You could say that Mick and Baldy were the true gentlemen of the west […].Yet the difference between them and me was that I liked working”, e tiene alla propria unicità, tanto da amare le cicatrici che porta in faccia.

Mac si dirige verso un futuro ignoto, d’altronde ce lo aveva detto ricordando i tempi in cui, da bambino, giocava ai cercatori di fantasmi: “Qualsiasi cosa, qualsiasi, purché mi desse l’idea di qualcosa di soprannaturale”.

Agnes Owens, socialista, donna della classe operaia e pioniera della nuova ondata delle scrittrici scozzesi del tardo ventesimo secolo, è la più ingiustamente trascurata di tutte le scrittrici scozzesi viventi. “The most unfairly neglected of all living Scottish authors”, diceva Alasdair Gray, col quale non potrei trovarmi più d’accordo.

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Un vittoriano in Magna Grecia (Victoriana 39) https://www.carmillaonline.com/2022/12/23/un-vittoriano-in-magna-grecia-victoriana-39/ Fri, 23 Dec 2022 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75069 di Franco Pezzini

George Gissing, Verso il Mar Ionio. Un vittoriano al Sud, con un testo inedito di Virginia Woolf, trad. e cura di Mauro F. Minervino, Exòrma, Roma 2022.

“Questo è il terzo giorno di scirocco: enormi nuvoloni coprono un cielo senza sole. Tutto il colore di Napoli è sparito. Le strade sono diventare polverose e opprimenti. Ho desiderio di lontananza, delle montagne, del mare”.

Il genere travelogue, o – a dirla con termine complicato – narrazione odeporica è a tutt’oggi portatore di gioie: se ogni racconto costituisce in qualche modo un itinerario, quello di viaggio è un itinerario al [...]]]> di Franco Pezzini

George Gissing, Verso il Mar Ionio. Un vittoriano al Sud, con un testo inedito di Virginia Woolf, trad. e cura di Mauro F. Minervino, Exòrma, Roma 2022.

“Questo è il terzo giorno di scirocco: enormi nuvoloni coprono un cielo senza sole. Tutto il colore di Napoli è sparito. Le strade sono diventare polverose e opprimenti. Ho desiderio di lontananza, delle montagne, del mare”.

Il genere travelogue, o – a dirla con termine complicato – narrazione odeporica è a tutt’oggi portatore di gioie: se ogni racconto costituisce in qualche modo un itinerario, quello di viaggio è un itinerario al quadrato, e permette di compenetrare materiali di tipo anche molto diverso con effetti felicemente vividi. Riflessioni personali, incontri, ritratti, affreschi sociali e antropologici, suggestioni artistiche e ovviamente paesaggistiche, eccetera… Evitando il più facile effetto-cartolina, cioè lo scontato e il banalizzante, i luoghi possono sorgere evocati quasi in forma cifrata come nelle antiche mappe con disegnini di città, costruzioni e simboli (si pensi a quelli che punteggiano la famosa Tabula Peutingeriana): ma è un fatto che qualunque narrazione geografica si sviluppi nel segno dell’immaginario, e che in buona parte la geografia che abbiamo in testa rimanga – a tutt’oggi – geografia fantastica.

Ma i racconti di viaggio (fermandoci qui a quelli a base reale, e non nel segno della più scatenata fantasia) capitalizzano anche da altri filoni, come le storie di esplorazione o la diaristica dei grandi viaggiatori o i loro corpora epistolari; e nell’Ottocento avanzato si fanno forti di nuovi ritrovati. Cominciando dagli anni Trenta, l’editore tedesco Karl Baedeker inventa guide di viaggio di lettura ancor oggi godibilissime, e saccheggiate dai narratori quanto al presente lo è internet; altri gioielli, di età vittoriana, sono le Bradshaw’s Guide di turismo ferroviario, varate a partire dal 1839, e che assieme a informazioni sugli orari dei treni inanellano cenni storici e utili consigli di luoghi da visitare. Alcune sono state recentemente ripubblicate con fedeltà all’impaginazione d’epoca e rappresentano una fonte d’intatta delizia.

A parte racconti di viaggio di autori famosi – i partner Shelley, per esempio, o Sade, o Goethe, o Melville… – resoconti di itinerari in paesi più o meno esotici riempiono le librerie sotto il regno della grande Vittoria. Quelli in paesi più distanti, o su confini più sfuggenti e pericolosi, appaiono spesso a firma di non meglio inquadrabili capitani plausibili informatori dei servizi britannici. Possibile che lo sia per esempio Basil Hall, che tra le molte missioni e avventure intervista Napoleone a Sant’Elena, organizza un viaggio per strappare Walter Scott dalla depressione e scrive quel Schloss Hainfeld; or, A Winter in Lower Styria (1836) utilizzato da Le Fanu come base per costruire l’apocrifa, vampiricissima Stiria di Carmilla. Affetto da qualche problema psichiatrico, Hall muore solo cinquantacinquenne al Royal Hospital Haslar di Portsmouth, ma restano i suoi godibilissimi resoconti.

L’Ottocento odeporico vittoriano viene chiuso dall’opera scintillante di George Gissing (1857-1903) ora presentata in lingua italiana, al cui incipit si devono le prime, straordinarie righe di questo pezzo, scritte come col pennello. Tutto parte dallo sconcerto dei suoi padroni di casa in via Chiatamone a Napoli, memori di pregresse fortune e desolati dello stato del paese, per la “stravaganza incomprensibile” di questo inglese di bell’aspetto, fronte alta e baffoni, di voler scendere “in un posto più a sud di Napoli” – visto che per loro Calabria e Marocco è in pratica “la stessa cosa”. In particolare lui si è fissato sul voler andare a Paola, “punto di attracco sulla costa più vicino a Cosenza”, in una regione “desolata e pestilenziale” tra febbri, nevi già autunnali, clima impossibile: e i padroni sospettano che ci sia “qualche altro motivo, più inconfessabile e ben più tangibile e reale di queste stramberie antiquarie da amante delle vestigia classiche”. Per qualche spesa deve girare attraverso una Napoli afflitta dallo scirocco, mentre prosegue uno sventramento dei vecchi quartieri che l’inglese osserva con perplessità. Si perde la “originaria e pittoresca confusione di un tempo” per lasciare il posto alla “volgarità cosmopolita”, riempiendo il porto vecchio di macerie e snaturando tutto; rimpiange persino lo schiamazzo dei vetturini d’un tempo. Per fortuna sopravvive la vecchia trattoria con la zuppa di vongole e il vino casalingo.

Attratto dai nomi antichissimi di Grecia e Italia, di un mondo classico visto come “possesso di bellezza tutto per me”, Gissing ha intrapreso il suo viaggio nell’Italia meridionale nel 1897 sulle tracce dei luoghi di fioritura della civiltà della Magna Grecia. L’itinerario dovrebbe essere quello evocato dall’archeologo francese François Lenormant (1837-1883) nell’opera La Grande Grèce (1881-1884), ma Gissing stesso sarà a sua volta di ispirazione per Norman Douglas (1868-1952, per Old Calabria, 1915); e del resto merita ricordare che proprio nel 1897 del viaggio di Gissing, Samuel Butler (1835-1902) ipotizzava in The Authoress of the Odyssey un Omero donna nata nel Meridione d’Italia, una giovane siciliana ispiratasi alla zona di Trapani e isole prossime quale set del poema. Il Mezzogiorno d’Italia si svela così in quegli anni una terra “classica” per eccellenza.

Certamente c’è un’idea pittoresca del meridione che fa i conti con una realtà in trasformazione: partito per mare alla volta della Calabria,

 

Per tutto il pomeriggio caldo, col cielo sereno e senza nuvole, sono rimasto seduto sul ponte a guardare le montagne, cercando di non vedere quel gruppo di ciminiere che mandavano volute di fumo nero sulle case multicolori. Mi facevano ricordare un’uguale abominazione osservata su una riva persino più sacra: quando dal porto del Pireo intravidi Atene quasi del tutto offuscata dietro una tenda, una sorta di spessa frangia opaca di fumo di carbone.

 

Il pedaggio al mondo moderno è pesante, ma Gissing appare sempre molto equilibrato e vagamente ironico nel suo approccio alle delusioni del viaggiatore. E comunque offre di continuo pagine bellissime, rendendo questo travelogue un’opera letteraria ricca ed estremamente godibile, un libro che merita di essere letto:

 

Al passaggio della nave il porto di Capri non mostrava che il chiarore di un debole barlume. Sopra di esso si ergevano possenti dirupi. Poi la nave si inoltrò in mare aperto in un nero terribile. Il mare divenne qualcosa di impenetrabile, una distesa infinita che somigliava allo spazio vuoto tra le costellazioni. Dal posto in cui mi ero sistemato, vicino alla poppa della nave, non potevo più scorgere alcunché di umano. Era come se viaggiassi da solo nel silenzio liquido e stregato di questo mare illune. Un silenzio così spesso e totalizzante che il respiro ritmato del motore della nave non riusciva più a raggiungere il mio orecchio, ma si fondeva con la lenta sonorità degli spruzzi che lo scafo generava nell’acqua mescolandoli insieme in un mormorio indolente e cullante. L’immobilità di un mondo estinto e trapassato sembrava aver gettato il suo incantesimo su tutto cioè che viveva. Il giorno, la notte, il tempo sembravano un’irrealtà, una vana e insignificante circostanza. La realtà era quel passato di segni immemori sepolto nei recessi del tempo, a cui adesso stavo andando incontro su quel mare smisurato e oscuro. E tutto ciò che percepivo dava un significato di mistero a ogni cosa che mi circondava in quel buio i cui echi rintoccavano nella notte con un infinito pathos. Meglio ancora, ogni fibra del mio essere si allentava e si perdeva alla coscienza. La mente conosceva solo le forme fantasmatiche che quelle sensazioni modellavano prendendo forma da sé, e tutto ritornava a essere finalmente in pace dentro quella visione di tenebra.

 

Approdato a Paola, evocata con tocchi decisamente gustosi, il Nostro punta verso Cosenza, richiamato dalla leggenda della tomba di Alarico conquistatore di Roma, e spiazza l’ufficiale del dazio convinto che il suo baule pieno di oggetti e soprattutto libri rappresenti prova di un’attività non denunciata da piazzista. Poi certo, gli alberghi locali rappresentano un’avventura, e recuperare le chiavi della stanza una vera caccia al tesoro, al netto di aspetti apprezzati come estrema pulizia del letto, la buona cucina e il “contegno calmo e dignitoso” degli abitanti.

Dopo un giro a Taranto, dove trova un bel museo di antichità ma anche, perplesso, l’insegna “Alla Magna Graecia. Stabilimento idroelettropatico” (e una tappa a Sibari, in realtà al tempo nudo toponimo ferroviario in assenza di scavi intervenuti solo successivamente, peraltro secondo gli auspici di Lenormant) ecco Gissing recarsi a Metaponto brandendo la sua guida Baedeker, e poi a Cotrone/Crotone. L’amore per il passato emerge in focus eruditi e appassionati, stemperati sempre da una vivida capacità descrittiva: come qui evidente nella descrizione della gente e della città, dove però lui sfortunatamente contrae la malaria. Assiste anche a una manifestazione contro la “tassa oppressiva e odiosa, chiamata ‘fuocatico’” che, colpendo i focolari domestici, pesa particolarmente sulle classi povere.

 

La stessa tassa odiosa che aveva creato problemi nella vecchia Inghilterra medievale di Robin Hood, e di cui nel mio paese ci si è felicemente sbarazzati già molto tempo fa. Alla plebe affamata di Cotrone mancava la determinazione e il vigore necessario per assestare una protesta più incisiva ed efficace contro quell’indecente gabella. Vidi che il popolo si limitava a sbraitare disordinatamente per strada, Tutta la protesta popolare si esauriva per ora nel gridare a gran voce, fino a sgolarsi: “Abbass’ ’o sindaco!”. Dopo un po’ di tempo quella stessa plebe disunita e affamata si disperse di nuovo per strada per ritornare mestamente al proprio focolare domestico. Il desco da carestia per il quale pagavano la tassa. Una tassa sulla miseria, riscossa a forza per servizi inesistenti e immaginari. Mi chiedevo se in quel momento di tumulto l’eccellente Sindaco di Cotrone e il suo corpulento socio se ne stessero indisturbati a sedere come al solito sul loro comodo scranno tra le stanze del municipio. E se mentre il grido esasperato di quella folla di pezzenti che si era radunata per strada giungeva alle loro nobili orecchie, avessero continuato a fumare come al solito masticando i loro sigari, chiacchierando come niente fosse, del tutto indifferenti a quello che accadeva fuori. Molto probabile. Le classi privilegiate in Italia sono lente a muoversi e i ricchi possono credere all’infinita pazienza delle classi popolari. Contano sulla secolare sudditanza, sulla rassegnata sopportazione e sull’attitudine al sopruso di coloro che sottostanno da sempre al loro immutabile potere. Ma senza dubbio, senza alcun dubbio, verrà il giorno in cui i tiranni riceveranno dal loro popolo una sgradevole e fragorosa sorpresa. Quando la Lombardia comincerà sul serio a gridare “Abbasso!”, sarà un brutto momento anche per i grassi sindaci latifondisti della Calabria.

 

Gissing non è insomma l’erudito snob deluso da un oggi che minaccia i sogni di un amatissimo passato classico, ma un uomo capace di porsi domande, di cogliere con bonomia gustosissimi sketch, di comprendere gli aspetti opachi della modernizzazione e il mutare dei tempi (specificamente in un mezzogiorno postunitario decadente e vessato dallo Stato, con classi dirigenti predatrici e arroganti). Di mostrare solidarietà e simpatia per quelle classi subalterne dell’Italia meridionale spesso invece maltrattate dai viaggiatori del Grand Tour.

Il suo profilo umano, del resto, sembra mostrarlo una figura ben degna di sym-patheia, anche se alcune ambiguità – specialmente nei rapporti con le partner all’insegna di un controllo un po’ paternalista e nell’enfasi forse eccessiva sul presentarsi povero, al di là dell’oggettiva miseria di alcuni periodi – non sono sfuggite ai biografi. Davanti a una carriera universitaria aperta, lo studente migliore del College s’innamora della bella e sfortunata Marianne Helen “Nell” Harrison, sulla china di prostituzione e alcolismo, che cerca di strappare dal tugurio dove si espone trovandole un lavoro onesto; anzi nell’orrido grembo della Londra vittoriana, dove tutto assume risvolti di rovinosa difficoltà, arriva a sottrarre denaro per lei, per cui finisce espulso, passando persino un periodo ai lavori forzati. Vive qualche tempo negli Stati Uniti, campando fortunosamente di scrittura e lezioni private; poi sposa Nell, in condizioni di salute sempre peggiori e meno gestibili anche a causa dell’alcolismo: finiranno col divorziare, ma Gissing la manterrà economicamente per anni, fino alla morte di lei – solo trentenne – per sifilide. Dalla seconda seconda moglie Edith Underwood, una giovane della working class che non capisce il lavoro di lui e sembra incline a incontrollabili collere, ha due figli: si separeranno (e lei verrà chiusa in manicomio) ma nel frattempo lui verrà notato come uno dei migliori scrittori inglesi: la sua produzione di romanzi e racconti è molto ampia, per non parlare di un suo bel saggio su Dickens e ovviamente del travelogue in esame. Amico del socialista tedesco Eduard Bertz, di Henry James e Herbert George Wells, Gissing si dedica in questa fase a lunghi viaggi ma inizia ad accusare problemi polmonari. Dopo aver sposato in terze nozze (ma in Francia, perché da Edith non ha il divorzio) Gabrielle Marie Edith Fleury, traduttrice francese di una delle sue opere, muore di enfisema nei Pirenei Atlantici. A parte una breve stagione giovanile di vicinanza al socialismo, seguita da una perdita di fiducia nei movimenti operai, le posizioni di Gilling restano troppo aristocratiche perché lui possa maturare più di una simpatia emotiva per le vessate classi subalterne, del Mezzogiorno e non solo.

Ma torniamo al travelogue. Riemerso dalla malaria (impagabili i siparietti rissosi tra la proprietaria dell’albergo e una sua “trogloditica” dipendente, dal “dialetto oscuro e fangoso” nonché per lui impenetrabile), Gissing si riprende fisicamente a Catanzaro, “uno dei luoghi più salubri dell’Italia meridionale”, descritta con entusiasmo. (Per inciso, il citato albergatore Coriolano Paparazzo lascerebbe il cognome, tramite Fellini & Flaiano, a un personaggio de La dolce vita divenuto paradigmatico di un ruolo). Passa poi per Squillace, nel ricordo del grande Cassiodoro e della pista tracciata da Lenormant, e che tuttavia trova un luogo miserevole, con un oste di disonestà estorsiva e per converso due guide improvvisate di straordinaria dignità e onestà.

L’itinerario si chiude a Reggio, col suo magnifico paesaggio, le “Faccine smunte e scrutatrici” di piccoli questuanti contro il vetro della trattoria, le retoriche targhe memoriali dei caduti per l’unità della patria:

 

Nei giorni a venire della storia, come accaduto in tutti i tempi passati, l’uomo dominerà il suo simile e la terra sarà sempre macchiata del sangue di giovani e vecchi. Il nome dolce e sonoro di patria è un’illusione, un inganno e una maledizione. Asservito alle pretese della modernità, strumento della civiltà aggressiva dei nostri tempi, il nazionalismo diventa un pretesto per tutti i barbari dei nostri giorni, affamati di potere e di assoggettamento, una sciagura per l’umanità intera che si nasconde sotto le menti spoglie della “civiltà”.

Del resto, come si può desiderare il rafforzamento e la prosperità dell’Italia, sapendo che il carattere della nazione tende sempre più alla violenza, al terrore e a fomentare l’odio internazionale? Coloro che perirono perché l’Italia potesse rinascere in una nuova nazione unita, di certo sognavano per il loro popolo un avvenire diverso da questa antica ferocia che oggi maneggia rumorosamente nuovi e più distruttivi armamenti.

 

E ancora la Cattedrale, il mercato, il macello, il museo di cui il Nostro è l’unico visitatore e dove il registri dei visitatori reca traccia del passaggio del precursore Lenormant, 1882.

In allegato al travelogue figurano nella bella edizione presentata alcuni preziosi materiali preparatori (lettere ai familiari, note dal diario), una serie di affascinanti spigolature che molto dicono di Gissing, un ritratto di lui del curatore Minervino e una nota inedita sui romanzi gissingiani a firma (nientemeno) di Virginia Woolf.

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James & James – Fantasmi (Victoriana 38/II) https://www.carmillaonline.com/2022/10/28/james-james-fantasmi-victoriana-38-ii/ Fri, 28 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74509 di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

2.1. Un erudito in triciclo

Il profilo di Montague Rhodes James (1862-1936, “Montie” o “Monty” per gli amici, mentre la firma era sempre “M.R.J.”) è sicuramente molto diverso da quello di Henry. Anzitutto è inglese, un medievista di rango accademico, prevosto del King’s College di Cambridge (1905-1918), poi dell’Eton College (1918-1936), e vicecancelliere dell’Università di Cambridge (1913-1915). Del suo lavoro di medievista e studioso diremo qualcosa, ma oggi è ricordato principalmente per il suo fondamentale contributo alla ghost story, che ha rimodulato in termini di [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

2.1. Un erudito in triciclo

Il profilo di Montague Rhodes James (1862-1936, “Montie” o “Monty” per gli amici, mentre la firma era sempre “M.R.J.”) è sicuramente molto diverso da quello di Henry. Anzitutto è inglese, un medievista di rango accademico, prevosto del King’s College di Cambridge (1905-1918), poi dell’Eton College (1918-1936), e vicecancelliere dell’Università di Cambridge (1913-1915). Del suo lavoro di medievista e studioso diremo qualcosa, ma oggi è ricordato principalmente per il suo fondamentale contributo alla ghost story, che ha rimodulato in termini di realismo sornione – le storie si svolgono nella contemporaneità, spesso il protagonista potrebbe essere lui – ma sempre con l’occhio ai suoi interessi eruditi, per cui viene considerato il padre della “storia di fantasmi antiquaria”. Non che in precedenza mancassero spunti di questo tipo – per esempio in certe citazioni colte di Le Fanu, un autore che M.R.J. ama moltissimo, contribuendo in modo importante alla fama di lui presso i posteri – ma nel successore questo elemento acquista un rilievo-chiave, e il racconto si regge proprio su quello.

Figlio di Herbert James, un pastore evangelico anglicano, e di Mary Emily (nata Horton), figlia di un ufficiale di marina, M.R.J. nasce presso Dover in una clergy house – una casa del clero, qualcosa come un vicariato – e cresce in un ambiente fortemente religioso: uno dei fratelli, Sydney, diverrà arcidiacono di Dudley, e per molti anni, fino al 1909, vive presso la canonica di Great Livermere, nel Suffolk (una regione dove poi ambienterà varie delle sue storie di fantasmi), già casa d’infanzia di un altro erudito antiquario locale, Thomas Martin di Palgrave (1696-1771). Qui (riferisce lo specialista di gotico Malcolm Skey, curatore dell’edizione Montague Rhodes James, Racconti di fantasmi, Theoria, Roma-Napoli 1984, cui ci appoggeremo per le citazioni) “James trascorse gran parte del suo tempo libero a visitare le magnifiche chiese gotiche della zona, disegnandone delle piante accuratissime”.

Dopo studi nell’ottima Temple Grove School di East Sheen, nella zona ovest di Londra, grazie a una borsa di studi frequenta l’Eton College dove brilla, incassando premi per la religione, il latino, il greco, il francese. Certo è poco sportivo, caratteristica non troppo apprezzata in Inghilterra, ma passa il tempo nella biblioteca, piena di manoscritti medioevali, e impara da solo l’italiano, il tedesco, l’ebraico, il siriaco, il copto e persino l’etiopico, che gli permette di tradurre in inglese l’apocrifo veterotestamentario noto come Resto delle parole di Baruch. A queste lingue aggiungerà in seguito svedese e danese (traducendo ottimamente Andersen). Un’altra borsa di studi lo porta a Cambridge, dove si occupa di letteratura greca e latina e archeologia classica, di nuovo vince premi a raffica, incassa incarichi e titoli (assistente del direttore e più avanti direttore a sua volta del Fitzwilliam Museum, Fellow e poi Dean e Provost del King’s College, docente di teologia, ma non ama insegnare, infine Vice-Chancellor o rettore dell’intera università), partecipa agli scavi del tempio cipriota di Afrodite a Pafo. Se Cambridge offre ambientazione a parecchi suoi racconti, altri beneficeranno dei suoi viaggi ogni anno in Europa con amici, fino allo scoppio della Grande guerra, in particolare in Francia (la prima volta con un veicolo un po’ curioso, un triciclo doppio, ma non ripeterà l’esperimento) e i Paesi scandinavi. Per inciso, ama recitare, come in una celebre versione di Gli uccelli di Aristofane – ma come ben sanno i suoi amici a cui legge con abilità attoriale le sue storie di fantasmi di Natale.

 

2.2. “L’album del canonico Alberico” (1894, raccolta in Ghost Stories of an Antiquary, 1904)

Parlare di fantasmi, nel caso di M.R.J., può sembrare una forzatura, un’imprecisione, visto che non sempre si tratta di fantasmi nel senso tradizionale, ma è piuttosto il ricorso estensivo a una categoria letteraria nota per storie sovrannaturali. Così è nel caso di “Canon Alberic’s Scrap-book”, che inizia con l’alter ego dello scrittore a zonzo per l’Occitania.

 

St Bertrand de Comminges è una cittadina decaduta sui contrafforti dei Pirenei, non molto distante da Tolosa, e ancora più vicina a Bagnères-de-Luchon. Era stata la sede del vescovado fino alla Rivoluzione, e ha una cattedrale che è visitata da numerosi turisti. Nella primavera del 1883 un inglese giunse in questo luogo d’altri tempi (non posso neanche dargli il titolo di città, perché non conta nemmeno un migliaio di abitanti). Era uno di Cambridge, venuto da Tolosa appositamente per vedere la chiesa di St Bertrand, e aveva lasciato due amici, meno appassionati di lui all’archeologia, al loro albergo di Tolosa, con la promessa che lo avrebbero raggiunto il mattino seguente. Una mezz’ora nella chiesa sarebbe stata più che sufficiente per loro, e poi tutti e tre avrebbero proseguito il loro viaggio in direzione di Auch.

 

Fermiamoci anzitutto sul luogo, che esiste, nel sito della romana Lugdunum Convenarum dove erano stati esiliati – e vi sarebbero morti – Erode Antipa, Erodiade e Salomé. La cattedrale – cathédrale Notre-Dame de Saint-Bertrand-de-Comminges, o cathédrale Sainte-Marie – esiste ed è ricchissima di tesori accumulati nei secoli. Il tipo di Cambridge è naturalmente costruito sul profilo dello stesso scrittore, in viaggio in Francia.

Arrivato di buon’ora, il Nostro si ripropone di prendere un sacco di appunti e di lastre fotografiche, ma per realizzare al meglio il tutto è necessario avere la collaborazione del sacrestano: che si rivela “un oggetto di studio inaspettatamente interessante”. Non tanto per l’aspetto fisico secco e rugoso, quanto per “l’aria curiosamente furtiva, o piuttosto da perseguitato e oppresso che aveva”. Si guarda indietro di continuo, e schiena e spalle appaiono come contratte per il timore di un nemico incombente.

 

L’inglese non sapeva se giudicarlo un uomo ossessionato da un’idea fissa, od oppresso da una cattiva coscienza, o un marito dominato da una moglie insopportabile. Le probabilità, tutto considerato, suggerivano senz’altro quest’ultima tesi; tuttavia l’impressione che dava era quella di un persecutore più implacabile della più bisbetica delle mogli.

 

Durante la visita che segue l’inglese, che chiameremo Dennistoun, è molto occupato, ma ogni volta che guarda verso il sacrestano lo trova “schiacciato con le spalle contro il muro, o rannicchiato su uno dei magnifici scanni”: e comincia a domandarsi se l’altro sospetti qualche intenzione losca da parte sua nei confronti dei tesori della chiesa, o che desideri solo andare a mangiare – così gli propone di lasciarlo lì, può chiuderlo dentro, ne avrà ancora per un paio d’ore. Ma l’ometto esclude una proposta simile, e rassicura di potersi fermare senza problemi.

L’edificio sacro è pieno di oggetti preziosi e anche di curiosità, compreso “il polveroso coccodrillo impagliato appeso sopra il fonte battesimale” che san Bertrando avrebbe domato con il suo bastone nella valle di Labat-d’Enbès e con cui a volte viene rappresentato (in realtà sembra che l’abbia portato un cavaliere del luogo, tale Enguerrand de Carminge, come trofeo dalle crociate, assieme alla storia eroica e dubbia del suo attacco da parte del mostro). Bertrando (L’Isle, 1050 circa – Comminges, 16 ottobre 1123), della famiglia dei conti di Tolosa è vescovo della città per mezzo secolo; alla sua canonizzazione nel 1222 l’antica Lugdunum Convenarum/Comminges – rifiorita sotto il suo episcopato la città e divenuta una tappa sulla via di Santiago – gli viene intitolata (ricorrenza liturgica della depositio, 16 ottobre). In effetti Bertrando ha da subito fama di santità e gli vengono attribuiti miracoli, oltre a efficaci esorcismi.

L’operazione di censire le bellezze artistiche della cattedrale procede, e il sacrestano sta incollato a Dennistoun, solo sobbalzando e occhieggiando indietro a ognuno “di quegli strani rumori che popolano un grande edificio vuoto. Rumori curiosi, a volte”. Come racconterà Dennistoun al narrante, a un certo punto gli pare di udire “una sottile voce metallica ridere in alto sul campanile”, e il sacrestano commenta terrorizzato “È lui… cioè… non è nessuno; la porta è chiusa” prima di scambiare con l’inglese una lunga occhiata. Un cachinno grottesco e sinistro legato a un campanile fa naturalmente pensare a “Il diavolo nel campanile” di Poe, ma vedremo che qui la storia si sviluppa in una direzione completamente diversa.

Quando Dennistoun esamina “un grande quadro scuro appeso dietro l’altare, appartenente a una serie sui miracoli di St Bertrand”, tanto scuro da essere quasi indecifrabile, occhieggia la legenda “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare [Come St Bertrand liberò un uomo che il diavolo aveva a lungo cercato di strangolare]” e si volta divertito, nota che il vecchio è in ginocchio a mani giunte con gli occhi lacrimosi – tanto da fargli pensare a una monomania dell’uomo. Questa scena è comunque particolarmente emblematica, rivelativa fin d’ora degli ingredienti (diciamo così) della narrazioni di James: un quadro oscuro, una scritta pittoresca in latino che accenna a storie soltanto alluse e percorsi equivoci – strangolatori sono per esempio gli incubi o i vampiri folklorici –, le reazioni contrastanti di uno straniero e di un altro che sa qualcosa… un mix formidabile di erudizione, affabulazione e fantasia dove il lettore, specie dopo averne letti alcuni, capisce alla grossa dove si voglia andare a parare ma si gode troppo la qualità narrativa e il tipo di voce.

Sono ormai quasi le cinque, la giornata è corta, la chiesa si riempie di ombre e di rumori: il sacrestano inizia col mostrare segni d’impazienza e sospira di sollievo quando Dennistoun ripone macchina fotografica e taccuino. Lo invita dunque a seguirlo verso l’entrata ovest, per suonare frettolosamente l’Angelus alla fune della torre campanaria, poi lasciano la chiesa e il sacrestano osserva che il visitatore sembrava interessato ai vecchi libri del coro nella sacrestia: lui conferma, chiede se ci sia una biblioteca in città, ma purtroppo quella del Capitolo appartiene ormai al passato. Ci sarebbe però – il sacrestano ci pensa su un attimo, come a decidersi se parlare o meno – un vecchio libro a casa sua, lì vicino. Per un attimo, Dennistoun pregusta la possibilità di chissà quale scoperta per poi escludere, sarà un comune messale cinquecentesco… comunque tanto vale farci un salto. Si chiede persino se il vecchio, “ritenendolo uno dei soliti ricchi viaggiatori inglesi”, non voglia attirarlo in qualche trappola, per cui butta lì che il giorno dopo lo raggiungeranno due amici – ma la notizia sembra anzi tranquillizzare il sacrestano.

La casa descritta può far pensare a qualcuna autentica della cittadina, per chi oggi voglia visitarla:

 

Ben presto giunsero davanti alla casa, che era un po’ più grande di quelle vicine, costruita in pietra, con uno stemma scolpito sopra la porta, lo stemma di Alberico de Mauleon, un discendente collaterale, mi dice Dennistoun, del vescovo Jean de Mauleon. Questo Alberico era stato canonico di Comminges dal 1680 al 1701. Le finestre dei piani superiori erano chiuse con delle assi, e tutta la casa aveva, come il resto di Comminges, un’aria di decadenza. Giunto sulla soglia, il sacrestano si fermò un momento.

 

E chiede, quasi sperando il contrario, se l’inglese abbia tempo, ma lui ribatte che non ci sono problemi, fino all’indomani non ha più niente da fare. Potranno vedere con calma cosa lui abbia in casa.

La porta viene aperta dalla giovane figlia del sacrestano, carina, con l’aria preoccupata – una preoccupazione non per sé ma per qualcun altro. Breve scambio di frasi tra il padre e lei, Dennistoun coglie solo un riferimento a qualcuno che rideva in chiesa. Poco dopo si trovano nel soggiorno, che pare una cappella, dominato com’è da un enorme crocifisso: e da una cassapanca il sacrestano, emozionato e nervoso, estrae il vecchio libro, “avvolto in un panno bianco su cui era stata rozzamente ricamata una croce di filo rosso”. Troppo grande per un messale e privo della forma di un antifonario: per cui forse, ragiona Dennistoun, un qualche interesse c’è. E quel che trova lo lascia stupefatto.

 

Davanti a lui c’era un ampio in-folio che risaliva, forse, alla fine del diciassettesimo secolo, con il blasone del canonico Alberico de Mauléon impresso in oro sui margini. Ci saranno stati forse centocinquanta fogli, e su ognuno di essi era incollata una pagina di un manoscritto miniato. Neanche nei suoi momenti più deliranti Dennistoun aveva mai sognato una simile collezione. C’erano dieci fogli di una copia della Genesi, illustrata con disegni, che non potevano essere posteriori al settimo secolo dopo Cristo. Più oltre, una serie completa di immagini di un libro dei Salmi, di fattura inglese, del tipo più bello che avesse potuto produrre il tredicesimo secolo; e, forse più preziosi di tutti, c’erano venti fogli di scrittura onciale in latino, che, come poche parole scorte qua e là gli rivelarono immediatamente, dovevano appartenere a un trattato di patristica molto antico e sconosciuto. Possibile che fosse un frammento della copia della Esposizione dei detti del Signore di Papias, che si sapeva essere esistita a Nîmes fino al dodicesimo secolo?

 

Una nota dell’autore conferma sorniona “Noi ora sappiamo che questi fogli contenevano un considerevole frammento di quell’opera, se non di quello stesso esemplare”. Per inciso, Papias è san Papia di Ierapoli, e dell’opera citata Esposizione dei detti del Signore (110 o 130) restano solo tredici frammenti, di ambiente – a quanto pare – giudeocristiano. Eusebio di Cesarea stronca Papia come sostenitore del pensiero millenarista, e il profilo del santo è in effetti curioso, oltre che piuttosto misterioso.

Dunque Dennistoun si prepara a estinguere il proprio conto in banca per acquisire il volume, che il sacrestano invita a sfogliare fino alla fine: e a ogni nuovo foglio appare un tesoro. Alla fine dell’album spiccano un paio di fogli più recenti:

 

Dovevano essere contemporanei, stabilì [Dennistoun], del disonesto canonico Alberico, che aveva senza dubbio saccheggiato la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore. Sul primo foglio c’era una pianta, accuratamente disegnata e immediatamente riconoscibile da chiunque conoscesse il luogo, della navata sud e del chiostro di St Bertrand. C’erano degli strani segni che sembravano simboli di pianeti, e alcune parole ebraiche agli angoli; e sull’angolo nord-occidentale del chiostro era stata dipinta una croce d’oro. Sotto la pianta c’erano alcune righe scritte in latino, che dicevano così:

 

Responsa 12mi Dec. 1694. Interrogatum est: Inveniamne? Responsum est: Invenies. Fiamne dives? Fies. Vivamne invidendus? Vives. Moriarne in lecto meo? Ita [Risposte del 12 dicembre 1694. Fu chiesto: Lo troverò? Risposta: Lo troverai. Diventerò ricco? Lo diventerai. Vivrò invidiato? Vivrai così. Morirò nel mio letto? Sì].

 

– Un bel colpo per un cacciatore di tesori. Me ne ricorda uno del canonico minore Quatremain ne La vecchia cattedrale di S. Paolo – fu il commento di Dennistoun; e voltò pagina.

 

La battuta finale è un richiamo a un altro personaggio letterario, il reverendo Quatremain, canonico minore della cattedrale di San Paolo a Londra, nel romanzo Old Saint Paul’s (1841) di William Harrison Ainsworth (1805-82), che ritiene di aver localizzato un tesoro sepolto nell’edificio sacro. In compenso gli “strani segni che sembravano simboli di pianeti” fanno pensare a quelli autenticamente presenti su un capitello nella cattedrale autentica di St Bertrand de Comminges.

Cerchiamo però di capire cosa sia scritto in quei fogli, che James presenta sornione senza commentare. Anzitutto, come in Ainsworth, c’entra la localizzazione di un tesoro, legata ad alcuni dati esoterici. Ma Alberico non è “disonesto” solo perché ha sforbiciato “la biblioteca del Capitolo per mettere insieme quell’album di inestimabile valore”: in quello stralcio emerge qualcosa di ben più incompatibile con il suo stato di canonico. Le domande e risposte – in latino, da parte dell’erudito autore – richiamano volutamente quelle delle coeve sedute spiritiche, anche se Alberico vive assai prima di quel revival di antiche credenze. E dunque non è all’entità infrattata in un tavolino a tre gambe che si sta rivolgendo.

Infatti quando Dennistoun volta pagina trova qualcosa che lo colpisce ben di più: “più di quanto egli avrebbe mai creduto possibile che un disegno o un quadro potesse colpirlo. E anche se il disegno che vide non esiste più, c’è una sua fotografia (che io posseggo) la quale avvalora pienamente questa affermazione”. Un disegno a nero di seppia di fine XVII secolo, che raffigura Salomone, assiso sulla destra, che impartisce comandi: “Ma la metà sinistra del disegno era la più inquietante”. Un gruppo di quattro soldati circonda il corpo di un quinto, “morto, con il collo spezzato e gli occhi fuori dalle orbite” (ricordiamo il cartiglio sotto l’affresco del dipinto in chiesa, “Qualiter S. Bertrandus liberavit hominem quem diabolus diu volebat strangulare”?). E accovacciato in mezzo a loro – preoccupati, non fuggono solo per fiducia nel re – sta una creatura la cui immagine, sporta in foto a uno studioso di morfologia, un uomo equilibrato al punto da essere quasi privo di immaginazione, lo indurrà a restare in compagnia per tutta la sera e, le seguenti, a non spegnere troppo presto la luce.

 

Comunque, posso almeno indicare i tratti principali della figura. A tutta prima si vedeva solo una massa ispida e ingarbugliata di peli neri; poi ci si accorgeva che questa ricopriva un corpo di spaventosa magrezza, quasi uno scheletro, ma con i muscoli tesi come fili metallici. Le mani erano di un tetro pallore e ricoperte, come il corpo, di peli lunghi e ispidi, e munite di orribili artigli. Gli occhi, colorati di giallo fiammante, avevano pupille intensamente nere, ed erano puntati con un’espressione di odio bestiale sul re che sedeva sul trono. Immaginate uno di quegli orribili ragni uccellatori del Sudamerica tradotto in forma umana, e dotato di un’intelligenza poco meno che umana, e avrete una pallida idea del terrore che ispirava questa spaventosa immagine. Un’osservazione è stata fatta da tutti coloro ai quali ho mostrato il disegno: «È stato preso dal vero».

 

A noi un’immagine del genere può sembrare più assurda e grottesca che spaventosa, ma due elementi vanno considerati. Da un lato la nostra sempre maggiore tolleranza all’orrore: impensabili oggi certe reazioni terrorizzate documentate davanti ai primi horror, dove ciò che scatenava il panico non era tanto ciò che si vedeva quanto l’attesa di un tremendum in un linguaggio legato a certi non-detti, ombre e allusioni. Ma c’è un secondo elemento, che riconduce proprio alle mitologie tra otto e novecento. Questa specie di demone ragnesco richiama a tutta una mitologia su ragni più o meno antropomorfi documentata al tempo, con effetti a dir poco perturbanti.

Alla domanda se i suoi racconti derivino da libri, James nell’introduzione ammette che “A quest’ultima domanda è […] difficile rispondere in modo conciso. Altri autori si sono occupati di ragni orripilanti – per esempio Erckmann-Chatrian, in un pregevole racconto intitolato ‘L’Araignée Crabe’”. Ma del dinamico duo francese così siglato (una firma unitaria per Émile Erckmann, 1822-1899 e Alexandre Chatrian, 1826-1890) merita ricordare anche un altro testo, “L’Œil invisible ou L’auberge des trois pendus” che si dice – ma è controverso – abbia ispirato il racconto lungo di Ewers Die Spinne: appunto Il ragno, 1908, testo recettore di tutta una mitologia su ragni & strangolamenti attraverso una degradata erede della Grande Dea-ragno del filo e del cappio, Arianna/Aracne (cfr. la tavola Arachne di Otto Henry Bacher, 1884, coi fili della ragnatela da cui promanano capelli e – scarse – coperture all’avvenente corpo nudo). D’altronde, James può ben ricordare la suggestione di un ragno demoniaco offerta da un testo classicissimo, Il ragno nero (Die schwarze Spinne) di Jeremias Gotthelf, 1842, apologo dal gusto folklorico sulla presenza del Male nella realtà.

D’altra parte, se il racconto non fosse precedente al Dracula, sarebbe difficile che, nell’abbinamento ragno/chiesa/torre campanaria, James non ricordasse l’episodio evocato per voce di Van Helsing (nel cui bestiario potrebbero ben stare gli “orribili ragni uccellatori del Sudamerica”) su “quello altro grande ragno […] vissuto per secoli nella torre di grande chiesa spagnola ed è cresciuto e cresciuto finché, venendo giù, ha bevuto tutto olio di lampade in chiesa”. Dove Stoker (come forse anche James) ha in mente casi come quello repertoriato in un numero del 1821 dell’Edinburgh Magazine and Literary Miscellany, sezione “Literary and Scientific Intelligence”:

 

Ragni. — Il sacrestano della chiesa di St Eustace, a Parigi, meravigliato di riscontrare la frequenza con cui una certa lampada si spegneva un po’ troppo presto, e il fatto che si consumasse solo l’olio, si è appostato varie notti per capirne la causa. Alla fine ha scoperto che un ragno di dimensioni sorprendenti scendeva lungo il cordone per bersi l’olio. Un esempio ancora più straordinario dello stesso genere si verificò nell’anno 1751, nel Duomo di Milano. Vi fu osservato un grosso ragno, che si cibava dell’olio delle lampade. M. Morland, dell’Accademia delle Scienze, ha descritto questo ragno e ne ha fornito un disegno. Pesava quattro libbre inglesi [pounds], e fu mandato all’Imperatore d’Austria, ed è ora al Museo Imperiale di Vienna.

 

Ancora, si può ricordare la disturbante immagine dell’ipnotizzatore Svengali del quasi coevo romanzo Trilby di George du Maurier, 1894/95, raffigurato come un ragno predatore al centro della sua rete (l’autore ne offre anche una celebre illustrazione, 1895) e l’anno prima Conan Doyle paragonava l’Arcicattivo professor Moriarty – vera e propria espressione di Satana in chiave laica – al ragno al centro di una tela (1893): a suggerire l’impatto disturbante dell’immagine del ragno nelle fantasie vittoriane. D’altra parte, la perturbante somiglianza tra il ragno e la mano artigliante (già implicitamente evocata qui, sarà un topos dell’immaginario espressionista tedesco) rimane sullo sfondo di tutto un immaginario del primo Novecento. Skey commenta che “Di ragni si parla soprattutto nei racconti “Il frassino” e “Il trattato Middoth”: essi costituivano comunque una sorta di fissazione per James, il quale non di rado vi fa ricorso come paragone morfologico”, e cita appunto “L’album del canonico Alberico”: ma il paragone morfologico, la metafora, è spesso – lo sappiamo – la suggestione attraverso cui un narratore evoca un proprio incubo e da cui parte per una storia. Tanto più attraverso l’impressione che l’immagine del demone sia stata effettuata “dal vero”. Per inciso, sugli stalli del coro della chiesa in questione è possibile vedere una immagine lignea della tentazione di Cristo con un Satana irsuto come il demone qui descritto.

Comunque Dennistoun, “placata la prima violenta impressione di irresistibile terrore” (il suo, anche se in parallelo il sacrestano si copre gli occhi con le mani e la figlia recita il rosario) domanda se il volume sia in vendita: il vecchietto chiede il prezzo ridicolo di duecentocinquanta franchi e l’inglese spiega che il libro varrebbe molto di più, ma l’interlocutore non vuole una cifra maggiore. Concluso l’affare, sembra diventare anzi un altro uomo – perché l’album, intuiamo, non è più suo – , guadagna in forze e buonumore e si offre di accompagnare l’acquirente all’albergo. Dennistoun ringrazia e declina gentilmente l’offerta, non sono neanche cento metri, ricevendo allora calorose raccomandazioni di evitare i bordi strada accidentati. Sta anzi per uscire, quando la figlia del sacrestano gli si avvicina: lui per un attimo si domanda se lei non stia cercando di guadagnare qualcosa in proprio dall’affare economicamente discutibile del padre, ma la ragazza intende solo offrirgli una catena con una croce d’argento: in cambio, spiega, non vuole nulla. Un po’ a disagio, Dennistoun – che più avanti scopriremo essere presbiteriano – ringrazia e si lascia mettere la catena al collo (qui, di nuovo, è inevitabile ripensare a una simile scena all’inizio del Dracula, dove si esplicitava anche la ritrosia britannica verso simili res sacrae, ma il testo in questo caso è precedente): “Sembrava che avesse reso a padre e figlia un favore che essi non sapevano come ripagare”.

I due restano anzi a guardarlo fin quando non li saluta dai gradini dell’albergo Chapeau Rouge dove alloggia (per inciso, il Red Cap nella tradizione dell’area tra Inghilterra e Scozia è uno spirito cattivo uso a uccidere i viaggiatori): e dopo cena si ritira rapidamente in camera. Cogliendo solo un frammento di discorso tra il sacrestano e la proprietaria, che accenna che “Pierre e Bertrand rimarranno a dormire in casa”. Capiremo più avanti chi siano costoro.

Ma intanto ha iniziato a sentirsi nervoso, con la spiacevole impressione di avere qualcuno alle spalle. Certo, tutto questo era accettabile a fronte della meraviglia acquistata, di cui ogni attimo scopre qualche ulteriore ricchezza.

 

«Benedetto il canonico Alberico!», esclamò Dennistoun, che aveva l’inveterata abitudine di parlare da solo. «Mi chiedo dove sia adesso… Povero me! Vorrei che la padrona imparasse a ridere in un modo un po’ più allegro; ti fa sentire come se ci fosse un morto in casa. Ancora mezza pipa, hai detto? Forse hai ragione. Mi domando cosa sia quel crocifisso che la ragazza ha insistito per darmi. Del secolo scorso, suppongo… Sì, probabilmente. È un oggetto abbastanza fastidioso da tenere appeso al collo – veramente troppo pesante. È probabile che suo padre lo abbia portato per anni. Forse dovrei dargli una pulita prima di metterlo via».

 

E così si sfila il crocifisso e lo posa sul tavolo – notando però “un oggetto posato sul panno rosso proprio accanto al suo gomito sinistro. Due o tre idee di quello che poteva essere gli passarono per la mente a incalcolabile velocità”. Fino a pensare a un grosso ragno… e riconoscere invece una mano simile a quella del disegno. Dove torna il tema del ragno e la sua assimilazione a una mano minacciosa, quella artigliante che potrebbe strangolare:

 

Una pelle pallida, terrea, che non copriva che ossa e tendini dalla forza spaventosa; ispidi peli neri, più lunghi di quelli di qualsiasi mano umana; unghie che spuntavano in cima alle dita e si incurvavano adunche e acuminate, grigie, cornee e rugose.

 

E la creatura la cui mano era emersa sta sollevandosi in piedi – doveva essere ripiegata sotto il tavolo, lui schizza dalla sedia: e la vede,

 

avvolta in un manto nero e cencioso; coperta, come nel disegno, di peli ispidi. La mascella inferiore era sottile – come posso definirla? –, bassa, come quella di un animale; dietro le labbra nere si vedevano i denti; non aveva naso; gli occhi di un giallo acceso, dove le pupille apparivano nere e intense, e l’odio esultante e la sete di distruzione che vi brillavano erano il particolare più terrificante di tutta la visione. C’era in essi una forma di intelligenza, un’intelligenza superiore a quella di una bestia, inferiore a quella di un uomo.

 

Stravolto da paura e disgusto, sconcertato su ciò che debba fare in un simile frangente, brandisce il crocifisso, percepisce un moto del mostro nella sua direzione e poi urla. I due robusti servitori Pierre e Bertrand irrompono, si sentono spostare di lato da qualcosa che passa velocissimo in mezzo a loro, e trovano l’inglese svenuto: restano con lui tutta la notte, e quando l’indomani gli amici arrivano lo trovano un po’ ripreso. E non hanno troppe difficoltà a credere al suo racconto, una volta visto il disegno e parlato con il sacrestano che era arrivato all’alba all’albergo: niente affatto sorpreso, spiega che lui l’aveva visto due volte, e sentito un migliaio… ma rifiuta di fornire dettagli, come pure di dire da dove venga il libro. “Fra breve dormirò, e il mio riposo sarà dolce. Perché volete tormentarmi?”: e in effetti, ci informa una nota dell’autore, “Morì quell’estate stessa. Sua figlia si sposò e si stabili a St Papoul: non riuscì mai a comprendere le ragioni dell’«ossessione» del padre”. Ma sul rovescio del fatale disegno si legge:

 

Contradictio Salomonis cum demonio nocturno.

Albericus de Mauleone delineavit.

v. Deus in adiutorium. Ps. Qui habitat.

 

Sancte Bertrande, demoniorum effugator, intercede pro me miserrimo.

 

Primum vidi nocte 12mi Dec. 1694; videbo mox ultimum.

Peccavi et passus sum, plura adhuc passurus.

Dec. 29, 1701

 

Disputa di Salomone con un dèmone della notte.

Disegno di Alberico de Mauléon.

Versetto: Oh Signore, affrettati ad aiutarmi. Salmo: Chi abita [XCI].

 

St Bertrand, che metti i dèmoni in fuga, intercedi per me, misero.

 

Lo vidi per la prima volta il 12 dicembre 1694; presto lo vedrò per l’ultima volta. Ho peccato e sofferto, e dovrò soffrire ancora.

29 dicembre 1701

 

Una nota aggiunge l’informazione recata da Gallia Christiana: il canonico Alberico morì il 31 dicembre 1701 (dunque due giorni dopo l’iscrizione citata), “nel suo letto, di un colpo apoplettico”. Per inciso il “Salmo: Chi abita [XCI]” è quello che invita a non temere i pericoli della notte o del giorno. Le traduzioni bibliche recenti tendono a interpretare in senso naturalistico le minacce evocate nel Salmo, ma vari dei richiami si riferiscono in origine a entità demoniache, notturne o meridiane.

Comunque il narrante spiega sornione di non aver mai capito l’opinione di Dennistoun sul tema:

 

Una volta mi citò un passo dell’Ecclesiaste: «Vi sono alcuni spiriti creati per la vendetta, e nella loro furia vibrano colpi dolorosi». In un’altra occasione disse: «Isaia era un uomo molto saggio; non dice qualcosa di mostri notturni che vivono fra le rovine di Babilonia? Queste cose sono piuttosto al di sopra di noi, al giorno d’oggi».

 

Sembra insomma accettare l’idea che si trattasse effettivamente di un demone, che avrebbe infelicitato la vita di Alberico come poi del sacrestano; e la decadenza della cittadina lo fa pensare alle città desolate della Bibbia. Il canonico aveva interpellato il demonio per costringerlo a rivelare il luogo del tesoro, magari servendosi dalla Clavis Salomonis o della successiva Clavicula Salomonis (nota come Lemegeton)? In effetti simili informazioni non sono assenti nei grimori, e il demone potrebbe essere qualcuno di quelli lì descritti, come Purson, Barbatos, Astaroth, Seir, Kimaris, Raum, Andromalius, Foras, Amy, Valac, patroni della scoperta di tesori sepolti…

Ma a colpire il narrante è un’altra confidenza: dopo quei fatti, e recatosi l’anno precedente con Dennistoun a Comminges, a visitare la tomba del canonico Alberico, il bibliofilo parla un po’ con il vicario di St Bertrand. Venendo via, accenna come fosse una semplice supposizione al fatto che verrà celebrata un messa funebre cantata per il riposo di Alberico de Mauléon: salvo poi aggiungere “Non avevo idea che costassero così care”. Dunque l’ha richiesta lui…

Il racconto termina con la registrazione che il “libro si trova ora nella collezione Wentworth a Cambridge. Il disegno fu fotografato e poi bruciato da Dennistoun il giorno in cui lasciò Comminges in occasione della sua prima visita”. A suggerire che una copia possa essere meno minacciosa dell’originale: una questione almeno dubbia, che si rimanda ai nostri ascoltatori e lettori. Nell’epoca dell’indefinita riproducibilità seriale, in L’ultimo cranio del marchese di Sade Jacques Chessex specula acutamente sulle caratteristiche minacciose che dall’originale traghetterebbero alle copie. Vedete un po’ voi.

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Hammer Show (II) https://www.carmillaonline.com/2022/08/05/hammer-show-ii/ Fri, 05 Aug 2022 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73330 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Fantasmi a West Wycombe

La nostra indagine non può dirsi conclusa davanti al muro di cinta di Medmenham: e per trovare qualche altra traccia dello sfuggente Sir Francis puntiamo verso West Wycombe, sede del suo palazzo di famiglia e di una certa parte delle sue gesta. Mentre maciniamo le circa sei miglia del tragitto abbiamo agio di pensare all’entità dell’impatto dell’epopea libertina sul paese dove poi sboccerà l’età vittoriana – due poli simbolici più profondamente connessi, in realtà, di quanto superficialmente si possa immaginare. Certo [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Fantasmi a West Wycombe

La nostra indagine non può dirsi conclusa davanti al muro di cinta di Medmenham: e per trovare qualche altra traccia dello sfuggente Sir Francis puntiamo verso West Wycombe, sede del suo palazzo di famiglia e di una certa parte delle sue gesta. Mentre maciniamo le circa sei miglia del tragitto abbiamo agio di pensare all’entità dell’impatto dell’epopea libertina sul paese dove poi sboccerà l’età vittoriana – due poli simbolici più profondamente connessi, in realtà, di quanto superficialmente si possa immaginare. Certo in questa galleria di personaggi c’è di tutto: ma per capire Dashwood è opportuno proprio considerare la contraddittoria commistione di scandali e pretese di status, istanze genuine di libertà e sprofondamenti nichilistici nell’autodistruzione fisica e morale di cui è punteggiata una stagione culturale protratta in Inghilterra dal Sei all’Ottocento.

Si pensi per esempio a John Wilmot, secondo conte di Rochester (1647-1680), autore di opere satiriche ed erotiche, amico di Carlo II ma periodicamente in disgrazia a corte – e abbastanza spudorato, durante uno di questi esilî (ma sarebbe meglio dire latitanze) da dispensare cure sotto falsa identità come “dottor Bendo” specialista in problemi ginecologici. Muore ancor giovane devastato da malattie veneree e abuso di alcolici, ma raccoglie stima tra i letterati dell’epoca e si guadagnerà il ruolo di protagonista nel film The Libertine con Johnny Depp, presentato al Toronto Film Festival nel 2004. E d’altra parte, restando ai letterati, pensiamo ad Aphra Behn (1640-1689), una delle prime donne inglesi a fare della scrittura una vera professione, capace di cantare liberamente e analizzare con sottigliezza il desiderio da un’ottica femminile, ma senza rigide barriere di genere – tanto più che è serenamente bisessuale. Autrice prolifica – poesia, prosa e soprattutto opere teatrali – riesce a svolgere anche attività di spia per conto della corona.

Per il secolo successivo, ricordiamo il convitato delle ultime feste George Augustus Selwyn (1719-1791), educato a Eton e Oxford (da cui è cacciato per una parodia dell’eucarestia dove forse ha usato il suo sangue), in seguito sfaccendato parlamentare con qualche redditizia sinecura. Molto popolare in società per il suo gusto artistico, e frequentatore egli pure – pare – dell’orizzonte Hellfire Club, è però un personaggio molto più sinistro di Dashwood. Come testimonierà Walpole che l’ha conosciuto già a Eton, Selwyn non apprezza nulla quanto un criminale, a parte l’esecuzione di costui: il Nostro ama infatti i dettagli più macabri dei fatti di sangue, e nutre una vera passione per le scene sui patiboli. Basti dire che nonostante la guerra dei Sette Anni, nel 1757 si fionda a Parigi per godersi la (spaventosa) esecuzione di Robert-François Damiens, attentatore alla vita di Luigi XV: nessuno stupore che i francesi, considerando la professionalità del turista, arrivino a chiedergli se il boia è lui. Risposta del Nostro (se non è una leggenda): “No, Monsieur, non ho un tale onore: sono solo un amatore”. Selwyn non si sposerà mai, ma è documentata la sua tenerezza (un po’ ossessiva ma pare candida) verso figli e figlie di amici, in particolare Maria “Mie Mie” Fagniani figlia della marchesa Fagniani e del Duca di Queensberry, della quale otterrà la custodia tutelare lasciandola alla fine ricchissima. Selwyn impazzerà in società persino quando ormai sembra un manichino di cera, tanto è conciato, e morirà di gotta come tanti aristocratici d’epoca rimpinzati di carne, ma avrà sopravvivenza nel ricordo e nell’immaginario: dal già citato Chrysal, Or the Adventures of a Guinea al Melmoth the Wanderer di Maturin, e ancora molto più tardi. Per esempio, il raggelante personaggio di Le Convive des dernières fêtes di Auguste Villiers de L’Isle-Adam, 1883, è ispirato probabilmente a lui, e in modo anche più diretto La Faustin di Edmond de Goncourt, 1914, mostra un gentiluomo inglese con pulsioni sadiche, tale George Selwyn, in cui l’omonimo settecentesco è mixato col virtuoso della frusta Algernon Swinburne. Di fronte a simili personaggi hanno buon gioco i connazionali di Sade a etichettare un po’ acidamente il sadomasochismo (più propriamente il gioco con le fruste) come vice anglais. Ma ci si può domandare se il Selwyn Mangiamorte di Harry Potter non sia ancora un ricordo del vecchio necrofilo.

E ancora – ma l’elenco dei simil-libertini eccellenti in terra britannica potrebbe continuare assai più a lungo – pensiamo a William Beckford (1760-1844), il voltairiano e (proto)romantico Califfo di Fonthill autore del fantasmagorico Vathek, nonché edificatore di un’altra Abbey ancora più folle nella campagna del Wiltshire: non solo il suo romanzo più noto rappresenta una sorta di malizioso mandala del Caos, una rilettura cinica e gotica delle Mille e una Notte, ma la sua relazione con il giovanissimo amico William “Kitty” Courtenay sarà causa di scandalo e scomunica sociale… Volti insomma diversissimi, accomunati tra gli eccentrici padri di ogni futura sovversione britannica.

 

 

Arriviamo finalmente a West Wycombe. Con la grandiosa villa della famiglia Dashwood costruita tra 1740 e 1800, West Wycombe Park, a ricapitolare la storia delle mansion aristocratiche del Settecento britannico tra palladiano e neoclassico e riccamente ispirata a spunti italiani: una lunga serie di produzioni cinematografiche e televisive vi troveranno set, dall’Arancia meccanica di Kubrick (1971) alle serie The Crown (2019), Belgravia (2020) e  A Very British Scandal (2021). Ovviamente passeggiando nello splendido parco non è possibile accorgersi che la forma rappresenti un corpo femminile: ma nella ricca serie di tempietti, padiglioni e follies disseminati qua e là secondo l’uso dell’architettura di giardini settecentesca, il Temple of Venus abbina il tempietto vero e proprio con una copia della Venere di Milo, a un piccolo tumulo sottostante con un parlatorio, una grotta artificiale grande quanto una stanza. Vi si accede attraverso un’apertura ovale fiancheggiata da pareti curve, a evocare un sesso femminile come punto focale del parco, almeno se visto dalla casa (cfr. qui). Puntiamo però, a questo punto, alle famigerate Caves.

Il negozio di dolci.

 

Il pittoresco paesotto, un migliaio di abitanti, è amorevolmente curato dal National Trust fin dal ’29: stretti attorno alla solita High Street sono infatti piccoli gioielli dell’architettura di villaggio databili dal Cinque al Settecento, come il Church Loft già luogo di accoglienza dei pellegrini, e alcune deliziose botteghe – compresa quella con la grande scritta Sweets, dolci a volontà, che attira le concupiscenti attenzioni dei nostri figli. Un’attenzione particolare merita però The George and Dragon Hotel, per la storia (riporta il depliant del posto) di “Sukie, la deliziosa arrampicatrice sociale il cui fantasma, si dice, infesta l’edificio”. La storia richiede un preambolo.

Da moltissimo tempo – se non dalla preistoria – le Chiltern Hills sono state sforacchiate per trarne selci, abbondanti nel bianco gessoso del calcare dove formano macchie e striature scure; e nelle maps della zona (compresa quella di Google) sono indicate varie Hell Fire Caves, in qualche modo connesse agli allegroni di cui sopra. Proprio di fianco a West Wycombe si apre in effetti la più nota, fatta scavare da Dashwood dichiarando fini simili alle odierne occupazioni di pubblica utilità. Tre successive crisi nei raccolti hanno messo a terra gli abitanti, per cui Milord offre loro lavoro per uno scellino al giorno: dovranno scavare un lungo tunnel all’interno della collina – il calcare è abbastanza morbido da non offrire eccessiva resistenza – ricavando selce per pavimentazioni stradali e costruzioni, come in parecchi edifici a West Wycombe. È possibile che i lavori facciano sparire tracce di una cava preesistente; visto però, fa notare qualcuno, che la selce copre i fianchi della gessose Chiltern Hills, la motivazione di uno scavo tanto profondo a fini estrattivi pare almeno discutibile. Comunque sia, tra il 1748 e il 1754 la Caverna è estesa alle attuali ragguardevolissime dimensioni, offrendo al Nostro una simpatica tavernetta, la gratitudine degli ex-contadini e – sostengono i malevoli – la loro disponibilità a chiudere un occhio su quanto avverrà all’interno. Pare in effetti che le riunioni dei Monaci dopo il ’62 avvengano qui dentro, o almeno un certo numero di riunioni: ma sulla loro natura c’è dibattito. Certo, ricordando i bunga-bunga di Medmenham, è abbastanza facile immaginare che i grandi spazi ricavati nelle cosiddette Hell Fire Caves siano finalizzati alle stesse attività; e non manca chi faccia confusione tra i due luoghi. In realtà non sussistono prove certe per sostenere un uso orgiastico, anche se i motivi per negarlo a priori (la datazione relativamente tarda dell’utilizzo, quando l’esperienza dei Monaci sarebbe stata ormai al tramonto, e l’oggettiva scomodità di talune pratiche nell’umido di una grotta) restano altrettanto deboli.

Nel cortile d’ingresso alle Caves.

Comunque sia, dai giorni di Dashwood le Caves rappresentano un importante punto di riferimento per l’immaginario della comunità di West Wycombe: e ad esse si collega anche la storia di Sukie. Secondo la tradizione, la ragazza fa parte della servitù del The George and Dragon. E se la tira un tantino: carinetta, ha rifiutato le proposte di tre giovanotti del villaggio sulla base del deterministico progetto di diventare moglie di un aristocratico. Ovvio che quando un bel giorno un tipo dall’aria altolocata si ferma alla locanda, Sukie ce la metta tutta per farsi notare. E ci riesce così bene che il gentiluomo comincia a farsi veder lì ogni giorno. Se davvero si tratta di un aristocratico non è così facile che alla fine ci scappi un matrimonio, ma in campagna non si può mai dire: e possiamo immaginare questa signorina tutto pepe che, tra cambi di asciugamani e piatti da rigovernare, brilla di luce propria ogni volta che appare il suo bello. Il problema è che i tre spasimanti rifiutati non l’hanno presa affatto bene, e decidono a questo punto di darle una lezione. Preparano così una lettera firmata – simulano – dal gentiluomo: travolto dalla passione, chiede a Sukie di fuggire con lui. La ragazza dovrà solo indossare un vestito bianco e andare a incontrarlo quella notte stessa alle Caves… Sukie non se lo fa dire due volte, col buio raggiunge il posto, accende una torcia e penetra nella grotta. Ovviamente non immagina che i tre birbanti se ne stiano in agguato nascosti dietro una roccia: e appena lei passa, fanno in modo che la torcia le cada e si spenga. Terrorizzata, Sukie si mette a scappare nelle tenebre, con i tre urlanti alle calcagna: ed è allora che capita l’incidente. Un piede in fallo, la craniata contro la parete della grotta… Invano i tre, con i soccorsi subito chiamati, la raccolgono riportandola alla sua stanza nella locanda: Sukie è ormai in coma, e il dottore chiamato non può impedire che si spenga. Sono le prime ore del mattino: e da allora la sventurata apparirebbe come fantasma proprio in quel tempo fatale. Sono passati infatti solo pochi giorni e una coppia di ragazze che si dividono quella stanza finiscono con lo scappare a gambe levate per la fifa, rifiutando poi di tornare alla locanda – e in seguito si moltiplicheranno le attestazioni sull’ombra bianca femminile lì a zonzo nelle prime ore del mattino. Insieme, va detto, ad altri fantasmi, secondo la migliore tradizione britannica.

Le Grotte del Fuoco dell’Inferno.

Se a Medmenham tutto cospira per rendere difficile la nostra ricerca, qui la situazione è opposta: le Grotte del Fuoco dell’Inferno sono un luogo da weekend per famiglie, con sala da tè e vendita di libri e pupazzetti gotici. Ad accoglierci troviamo un ingresso amabilmente in tema, comprensivo di rovina pittoresca sovrastante la grotta (originale) e fiamme finte (moderne); e la definizione web usata da un visitatore per le Caves, “fantastically kitsch”, pare congrua. Pagato il biglietto entriamo infatti in una dimensione sotterranea popolata di manichini in costume, che riesce tuttavia a risultare suggestiva – a patto almeno di non soffrire di claustrofobia.

Le pareti del tunnel – quelle, si presume, su cui la povera Sukie si ruppe la testa – offrono cartelli con dettagliate spiegazioni sulla storia del luogo e le avventure di Dashwood & soci, ma anche altre iscrizioni di epoca varia: dal graffito che commemora un ottocentesco Lord Luxford, forse di passaggio, a un più moderno pentacolo a gessetto. Può restare invece il dubbio se alcune facciotte che sembrano spuntare dalle pareti rappresentino grottesche – o meglio, ombre appena sbozzate di grottesche, come spiritelli che prendano lentamente forma – o non piuttosto formazioni casuali. In qualche caso però sono chiaramente volute, e si apre piuttosto la questione se siano originali o invece risalgano ai lavori di sistemazione che a metà del ventesimo secolo permettono la riapertura delle Caves. L’undicesimo baronetto discendente e omonimo del vecchio Sir Francis, impressionato dalla quantità di visitatori nelle americane Carlsbad Caverns, ha fiutato l’affare per quelle di famiglia: dunque già nel ’51 il percorso sotterraneo è aperto ai turisti, ma i lavori continuano e la Grande Sala viene sistemata solo nel ’74.

Le facciotte sulle pareti delle Caves.

 

Diavoli, burloni e cinefili

Tra gli amici del vecchio peccatore figura, curiosamente, anche Benjamin Franklin: e la quinta tappa nel condotto (dopo l’ingresso, il Toole Store, la Whitehead’s Cave e il Lord Sandwich Circle – quest’ultimo così chiamato perché il tunnel vi assume una forma ad anello) è appunto la cosiddetta Franklin’s Cave. Benché qualcuno annoveri senz’altro Franklin tra i Monaci, sembra che egli prenda parte agli incontri della Fratellanza solo occasionalmente, come non-membro, durante il suo soggiorno in Inghilterra. Non è strano, perché i Monaci comprendono parecchi nomi politici di rilievo, e Franklin – che potrebbe aver svolto sull’isola attività in qualche modo spionistica – avrebbe avuto motivi obliqui e molto concreti per interloquire con loro. In quel contesto, o forse più tardi, l’americano visita anche le Caves. Sembra comunque che la strana coppia Dashwood-Franklin funzioni, e i due si trovino simpatici. Passeranno insieme tre soggiorni estivi a Wycombe; e il vecchio blasfemo che negli ultimi anni si era volto a una visione deistica, intraprendendo anche una revisione in tal senso del Prayer Book, chiederà l’aiuto dell’americano per le sue riscritture. A pensarci, non è strano: entrambi sono massoni, e la prospettiva di un’iniezione di deismo massonico in credo e liturgie della Chiesa d’Inghilterra non può che vederli fare comunella.

La Franklin’s Cave ha una strana forma, e culmina nella cosiddetta Children’s Cave. Ma di fianco il condotto riprende e conduce alla spettacolare, gigantesca Banqueting Hall, con l’alta volta e statue pagane piazzate nelle nicchie (sospetto, in realtà, dai gestori moderni): un posto sicuramente pittoresco per cenette con gli amici. Possiamo immaginare alla luce di infinite candele i gentiluomini imparruccati che si affaccendano con dita unticce su pollame e selvaggina, mentre il fuoco strappa riverberi dai bicchieri: e si può sospettare che non manchi loro la buona compagnia. La sala è rotonda, ma il tunnel continua di lato a semicerchio – forse anche per permettere alla servitù un più libero movimento. Proseguendo, si arriva dunque a un’altra curiosa struttura, chiamata Triangle perché il tunnel corre con un percorso triangolare attorno a un pilone di roccia; e, superata anche la cosiddetta Miner’s Cave, si arriva a un piccolo corso d’acqua sotterraneo pretenziosamente chiamato Stige. L’Inner Temple – ultima tappa, da cui si è poi costretti a tornare indietro – è popolato di manichini, più numerosi di quelli incontrati qui e là durante il percorso: anche Dashwood vi è effigiato, nel costume sultanesco di un altro suo celebre ritratto (del resto fa parte anche dell’esclusivo Divan Club, dei gentiluomini che abbiano avuto contatti con la Turchia), e in un angolo compare un babbuino.

Qualcuno dei manichini nelle Caves.

Nel citato Chrysal; Or the Adventures of a Guinea, infatti, emergeva la storia divertente e forse inventata di uno scherzo di Wilkes (i nomi mancano, ma l’identificazione è chiara) ai danni dei confratelli. Il burlone nasconde la scimmia, camuffata da diavolo con corna e mantellina, in una cassa sotto il proprio sedile; e al momento giusto la fa aprire, liberando l’animale. Improbabile che un babbuino se ne stia silenzioso in uno spazio tanto ristretto – a meno ovviamente che Wilkes preveda un tale fragore della tavolata da non temere una scoperta prematura. Comunque il babbuino zompa sulle spalle di Lord Sandwich che (continua la storia), avendo un po’ la coda di paglia e credendo di aver richiamato il Maligno con le pratiche della Fratellanza, si metterebbe a strillare: “Risparmiami, grazioso Diavolo! Risparmia un disgraziato che non è mai stato sinceramente un tuo servitore… Ho peccato solo della vanità di seguire la moda – tu lo sai che non sono mai stato perverso neppure la metà di quanto pretendevo. Che non sono mai stato capace di praticare la millesima parte dei vizi di cui mi vantavo…”. E proprio questa figuraccia indurrebbe Lord Sandwich, secondo il gossip, alla sorda ostilità verso Wilkes in cui la Fratellanza sprofonderà. Pare però che a Medmenham un babbuino ci sia davvero, e che Dashwood gli offra regolarmente l’ostia – non sappiamo se consacrata – in una parodia della comunione.

Una delle statue delle Caves.

Se la povera Sukie e qualche collega allignano nella locanda del paese, i beninformati comunicano che queste grotte sono intollerabilmente infestate: non possiamo dire di averne avuto esperienza, ma tutto è possibile. In ogni caso un fantasma c’è, in queste grotte, ed è quello del sesso: e già si è accennato alla diatriba sull’utilizzo o meno degli spazi per baccanali. Ma un altro fronte riguarda la struttura stessa delle Caves, se e quanto cioè la forma bizzarra sia legata a elementi contingenti – la preesistenza per esempio di una cava da allargare, o la presenza di filoni minerali che imponessero talune deviazioni del tunnel – o non sia piuttosto debitrice del sistema simbolico della Fratellanza. Non è chiaro per esempio cosa avvenisse nell’Inner Temple: un’alcova? Suggestiva a questo punto la teoria offerta dallo studioso Daniel P. Mannix (non citata nelle pubblicazioni del National Trust, e rifiutata dai discendenti di Dashwood): si tratterebbe cioè di simbologia sessuale, con l’utero nella Banqueting Hall, la rinascita attraverso il Triangle femminile, una sorta di battesimo nello Stige e i piaceri finalmente raggiunti nell’Inner Temple. Se non è vera, la soluzione è almeno intrigante.

Se comunque a Medmenham si vedeva troppo poco, qui nelle Caves si finisce col vedere troppo – dai manichini ai pupazzetti, tra frotte di famigliole in gita. Col rischio di perdere di vista la complessità storica degli eventi, al di là delle loro connotazioni grottesche. E una terza tappa s’impone.

St Lawrence, sulla collina di Wycombe, con la grande sfera dorata sul campanile.

Sempre qui, in realtà, dobbiamo solo risalire la collina. E posteggiando ritroviamo il silenzio: in questo momento non piove, solo un paio di persone passeggiano sotto il cielo grigio. Un tempo qui sorgeva un hill fort dell’Età del ferro, poi fu eretta una torre normanna: e sulle sue rovine il vecchio peccatore costruì la chiesa che ora ci appare dietro una macchia d’alberi, a sovrastare un cimiterino pieno di fiori. St Lawrence – tale il nome – fu costruita con la solita selce della collina secondo modelli veneziani, in uno di quegli slanci di passione per l’Italia comuni ai gentiluomini del Grand Tour; e sorge in corrispondenza dell’Inner Temple sotterraneo, novantun metri più in basso, a provocare domande sull’eccentrico committente. L’interno vanterebbe affreschi inspirati, pare, a quelli di Palmira in Oriente (richiamata anche nella villa, plausibilmente in memoria delle letture di Robert Wood, The ruins of Palmyra; otherwise Tedmor in the desart, London 1753): ma purtroppo non possiamo vederli, visto che l’edificio è aperto solo in certi orari, e nessun prete o sacrestano è disponibile. Visibilissima è invece l’enorme sfera dorata erta sul campanile. La si avvista a miglia di distanza, e non è un caso: la Golden ball ha un portello e permette l’accesso a un paio di persone. A quanto pare, serviva a Dashwood per spedire eliogrammi agli amici.

Subito oltre il cimiterino, però, c’è dell’altro: e qualunque cultore Hammer è pronto a riconoscerlo. L’enorme Mausoleo di Dashwood, 1765, è ispirato al Colosseo, ma con una strana pianta esagonale. Lo raggiungiamo e giriamo attorno sbirciando all’interno dalle cancellate, chiuse a impedire accessi non rispettosi: una struttura quasi teatrale di enorme fascino, costruita a ridosso del declivio e punteggiata sui muri interni di lapidi e sacelli della famiglia Dashwood. E in centro, serrata da un cancello come all’interno di un piccolo tempio, campeggia la tomba del Nostro. Le sbarre non c’erano, però, quando proprio qui venne girata la scena finale di uno degli ultimi film Hammer, To the Devil a Daughter (Una figlia per il diavolo) di Peter Sykes, 1976, liberamente tratto del romanzo di Dennis Wheatley.

Un personaggio, quest’ultimo, relativamente poco conosciuto in Italia, ma che sul piano narrativo meriterebbe una scoperta. Figura all’incrocio tra fiction, occultismo e servizi segreti, e ben informato sul giardino conchiuso di ciascuno di questi mondi, il prolifico Wheatley (1897-1977) va collocato nel suo mondo di monarchico tradizionalista e reazionarissimo con buoni e cattivi schierati senza equivoci: eppure i suoi romanzi, non esenti (ci pare oggi) da qualche lentezza d’epoca, ma tali da farlo griffare come “il Principe degli scrittori thriller” tra gli anni Trenta e i Sessanta, presentano spunti di notevole fascino. Consideriamo solo che l’immaginario sulla setta quale mostro-plurale, che ai nostri giorni miete tanto successo, trova proprio in Wheatley il proprio codificatore: per li rami, registi e sceneggiatori spesso ripropongono senza saperlo, attraverso una serie di debiti ispirativi, i topoi che proprio lui ha definito. Wheatley bazzica vari filoni, dall’avventura al fantastico/fantascientifico, dalla storia fino appunto all’occultismo di cui è considerato uno specialista (anche in grazia di conoscenze dirette dei mattatori di quel sottomondo, da Crowley a Montague Summers); e le sue opere forniscono abbondante materia al cinema popolare, in particolare alla Hammer.

Speciale rilievo ha, a questo proposito, la serie di undici romanzi incentrata sul personaggio del duca di Richleau, un aristocratico francese esiliatosi in Inghilterra in polemica col regime “socialista e borghese” della sua patria, e costretto a fronteggiare svariati pericoli sovrannaturali legati a sette sataniche. Particolarmente famoso è The Devil Rides Out, 1934, dove il duca combatte una specie di Crowley, lo stregone Mocata: e di lì la Hammer trae nel 1968 una splendida trasposizione sceneggiata da Richard Matheson e diretta da Terence Fisher. De Richleau è interpretato da un carismatico Christopher Lee, che approfondisce la parte con ricerche personali in campo esoterico; negli ultimi anni dell’attore correva anzi la voce di un suo possibile ritorno al ruolo. Rispetto al romanzo The Devil Rides Out, con l’incalzante susseguirsi di colpi di scena e la pirotecnia occultistica sfruttata fino alle estreme possibilità, il successivo To the Devil – A Daughter, 1953, è meno avvincente; e parallelamente il paragone tra i film presenta uno scarto tra il capolavoro di Fisher e l’onesta prova di Sykes – criticatissima dai cinefili seri, ma pur sempre godibile anche per l’ottimo apporto degli interpreti. Dove può non rilevare tanto la qualità del taglio horror – in fondo misurata a posteriori con criteri opinabili, e spesso con giudizi a piedi uniti che in questa sede interessano poco – ma l’enorme fascino antropologico e d’ambiente (un’Inghilterra di metà anni Settanta tra folk horror e nuove inquietudini) che, a dispetto di stroncature “facili”, un film del genere può a tutt’oggi vantare. Le concessioni al sesso inserite nel film (non esclusi i nudi frontali dell’allora quattordicenne Nastassja Kinski) a sviluppo di quelle allusive del romanzo indurranno Wheatley sdegnato a rompere i rapporti con la Hammer.

Se nel romanzo-base il maturo campione che sventa l’intrigo demoniaco è un militare, il colonnello Verney, nella pellicola trattane molto liberamente John Verney diventa uno scrittore esperto di occulto (come Wheatley, insomma) interpretato da Richard Widmark, e Christopher Lee veste i panni del vilain, cioè lo spretato diabolista Michael Rayner. Cambia anche il senso dell’avventura: qui si tratta di salvare la giovane novizia Catherine Beddows (appunto Nastassja Kinski) da un rito che la renderà incarnazione del Demonio. Dopo aver assistito alle orrende morti di due compagni, Verney deve accorrere proprio tra le mura del Mausoleo di Dashwood per strappare la ragazza dalle mani dello stregone – che ovviamente cerca di corromperlo offrendogli il potere supremo accanto a Catherine. Ma (per un complicato intreccio di trama che in questa sede non è importante riassumere) il cattivo Rayner ha mancato nei confronti dello stesso demone che serve, Astaroth, e Verney lo ammonisce: “Tutti i diavoli la odiano, Rayner, e la stanno aspettando”.

 

Rayner: “Il cerchio di sangue mi protegge; se ha consultato il Libro dovrebbe saperlo. Tra poco Astaroth rivivrà in questa fanciulla e io sarò di nuovo l’Eletto”.

Verney: “No, io la porto con me”.

Rayner: “E allora cosa aspetta a entrare nel cerchio e a prenderla?”

Verney: “Se lei pensa davvero che quel cerchio possa proteggerla, è un ingenuo”.

Rayner: “Questo cerchio è situato su una collina di silice [N.d.R.: guarda caso, proprio la selce scavata dagli ex-agricoltori del posto per ordine di Dashwood] e la silice è la pietra sacra di Astaroth”.

Verney: “Ma questa pietra [N.d.R.: quella con cui ha ucciso un adepto di guardia] è stata macchiata dal sangue di un suo discepolo. E adesso i demoni proteggeranno me”.

 

Quindi varca il cerchio, accoppa lo stregone e salva la ragazza. Allo spettatore resta un po’ criptico – ed è stato molto criticato – il fatto che all’improvviso il corpo di Rayner non ci sia più, forse portato via dai demoni. Eppure il bellissimo confronto di questo finale, in un luogo di enorme suggestione come il Mausoleo di Dashwood, resta indimenticabile – e basta a giustificare il viaggio fin qui.

Pur avendo visto il film – nei fatti, il canto del cigno della Hammer – solo molti anni più tardi, ricordo le locandine all’epoca dell’uscita in Italia. Era stata l’estate del mio primo innamoramento, e associo quell’immagine (i volti dei due maturi avversari su fondo scuro, e la ragazza in mezzo, sdraiata a gambe larghe per il parto blasfemo) al confuso rimescolio di emozioni. Un’ulteriore conferma, in fondo, del legame della Hammer con tutta una vita interiore.

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