letteratura gotica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 21:07:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Giochi di mano (Victoriana 48) https://www.carmillaonline.com/2024/01/02/giochi-di-mano-victoriana-48/ Tue, 02 Jan 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80480 di Franco Pezzini

Uno dei più curiosi antenati del Van Helsing di Stoker è sicuramente il personaggio che emerge nel racconto The Mysterious Stranger, apparso anonimo su “Odds and Ends” nel 1860 come traduzione inglese di un fantomatico testo tedesco. Per anni si è pensato a una finzione, perché della novella (di cui si occupò anche il celebre studioso di teatro, demonologo e vampirologo Montague Summers, e da noi più di recente Fabio Giovannini curatore del pregevolissimo Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento, Stampa alternativa, 1999, a cui mi rifarò per le citazioni) non si trovava un originale e [...]]]> di Franco Pezzini

Uno dei più curiosi antenati del Van Helsing di Stoker è sicuramente il personaggio che emerge nel racconto The Mysterious Stranger, apparso anonimo su “Odds and Ends” nel 1860 come traduzione inglese di un fantomatico testo tedesco. Per anni si è pensato a una finzione, perché della novella (di cui si occupò anche il celebre studioso di teatro, demonologo e vampirologo Montague Summers, e da noi più di recente Fabio Giovannini curatore del pregevolissimo Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento, Stampa alternativa, 1999, a cui mi rifarò per le citazioni) non si trovava un originale e lo stile non sembrava tradire natura di traduzione: quindi il classico testo “alla tedesca” per dire gotico. A quanto invece di recente è emerso, il racconto, già circolante in inglese (cfr. “Chambers Repository of Instructive and Amusing Tracts”, vol. 8, n. 62, 1854), è davvero una traduzione, come spesso accadeva non autorizzata: più precisamente dall’originale Der Fremde (Lo straniero, Lo sconosciuto), apparso nella raccolta Erzählungen und Novellen (1844), del prussiano slesiano Karl von Wachsmann (1787-1862), un autore legato ai circoli romantici, per anni militare – il che spiega il profilo del suo eroe – e collaboratore di giornali. Wachsmann può attingere in particolare a Geschichte der Moldau und Walachey dello storico austriaco Johann Christian von Engel (Halle, 1804) fitte di oscurità goticissime. Sul gotico tedesco, in particolare quello minore, occorrerà davvero lavorare ancora.

Ambientata agli inizi del XVII secolo, la vicenda vede l’arrivo di un gentiluomo austriaco, il cavaliere di Fahnenberg, in un’estesa proprietà appena ereditata tra i Carpazi; lo accompagnano, con alcuni servitori, la figlia Franziska, la nipote Bertha e il giovane barone Franz von Kronstein – invaghito di Franziska ma da lei sbeffeggiato per l’indole gentile che poco attrae l’inquieta ragazza. Durante il lungo viaggio tra i boschi funestato dalla bufera, al calar della luce il gruppo è attaccato dai lupi: questi però vengono messi in fuga da un misterioso personaggio, apparso nei pressi di certe rovine, e i viaggiatori possono raggiungere incolumi la propria destinazione. Come apprenderanno tempo dopo, le rovine rappresentano ciò che resta dell’antico castello Klatka, abbandonato da più di un secolo ma di cattiva fama per le gesta dell’ultimo proprietario: l’uomo infatti, accusato di traffici con le orde serbo-turche e della sparizione di giovani donne, era stato ucciso dai vicini e il suo spettro rimarrebbe a infestare quei luoghi. Affascinata da tali storie, Franziska propone di andare a visitare le rovine; e la gita sta ormai volgendo al termine quando il gruppo incontra, al sorgere della luna, proprio l’enigmatico personaggio che li aveva salvati dai lupi. Benché sgradevole per aspetto e modi, l’uomo – che si presenta come Azzo von Klatka, e spiega di condurre vita soltanto notturna – viene invitato dal cavaliere riconoscente a recarsi a trovarli una sera. Anzi, nonostante gli ammonimenti di Azzo sulla serietà dell’invito a “una persona che raramente vuole imporsi, ma che è difficile scrollarsi di dosso”, Franziska mostra d’insistere, attratta dal magnetismo di lui – una fascinazione romantica e un po’ malsana che Bertha e l’ingelosito Franz non possono condividere, e che invece si rafforza nella giovane quando Azzo giungerà davvero a visitarli. Ma il mattino dopo quella prima visita (e l’acceso confronto seguito tra Franziska e Franz) la ragazza si sveglia stranamente spossata, mostra un curioso segno sul collo e racconta un incubo in cui lo stesso von Klatka la insidiava sorgendo dalla nebbia.

È solo l’inizio di un progressivo declino della salute di Franziska, che costringe il gruppo a protrarre la permanenza tra i Carpazi e permette ad Azzo di continuare a visitarli (sempre all’alzarsi della luna e senza toccar cibo, benché l’aspetto di lui paia curiosamente più florido) – e si ripetono gli incubi della giovane dama. L’arroganza dell’invitato sembra sostanziarsi in un freddo odio per tutta l’umanità, con la sola eccezione di Franziska: e una sera, presente un altro ospite – il Cavaliere di Woislaw, castellano di Glogau e futuro sposo di Bertha, reduce dal fronte ungherese – la ingiurie di Azzo provocano a duello l’esasperato Franz.

A salvarlo, in realtà, è solo il pronto intervento di Woislaw, il cui formidabile braccio metallico (sostitutivo dell’arto mozzatogli in guerra) strappa letteralmente l’amico dalle mani di von Klatka: ma la reazione di quest’ultimo è strana, perché all’improvviso appella Woislaw come “fratello” e si allontana. A quel punto Woislaw, che già si era fatto narrare dettagliatamente il caso di Franziska e sembrava sospettare qualcosa, prende in pugno la situazione: e si fa promettere dall’ammalata una completa collaborazione, ammonendo a fidarsi di lui senza porre domande. Sarà dunque Franziska, sulla base delle istruzioni del più maturo alleato, a inchiodare letteralmente Azzo (cioè il vecchio Ezzelin von Klatka, malefico e non-morto ultimo signore del maniero in rovina) nella bara in cui giace, con tre lunghi chiodi di ferro, mentre Woislaw proclama il Credo; e l’infezione della ragazza sarà sconfitta col ricorso al sangue colato dalla bara. La scena di qualcosa che si dibatte nel chiuso del legno cercando di uscire, mentre Franziska pianta progressivamente i chiodi nel coperchio e il tempo passa inesorabile (deve aver terminato prima che la preghiera venga conclusa) rappresenta il momento più conturbante del racconto: e quando, rinvenendo dall’inevitabile svenimento, la ragazza si trova sporca di sangue, non è chiaro se il frizionamento rituale sia stato gestito proprio da lei o dall’amico giunto in soccorso. (Nota per il lettore: Ma in questo caso funzionerebbe? Probabilmente sì, una volta che la ragazza abbia espletato in prima persona l’operazione coi chiodi. Tre come quelli della crocifissione, di cui riecheggia in termini magici la potenza liberatoria – anche se evidentemente il simbolismo è più antico e addirittura preistorico, col morto inchiodato per impedirgli di nuocere ai vivi.)

Il lieto fine – l’annuncio di nozze di Bertha con Woislaw e di Franziska, risanata e addolcita, con Franz – è preceduto dal racconto di come Woislaw avesse già incontrato un vampiro, durante una campagna in Ungheria: e come già quel mostro avesse equivocato (come poi farà anche Azzo) scambiando il cavaliere per un fratello di specie proprio a causa della forza straordinaria della mano – caratteristica “tipica” del vampiro.

Come rilevato dalla critica, parecchi elementi suggeriscono che The Mysterious Stranger possa aver influenzato direttamente il più celebre testo stokeriano. Come Dracula, Azzo è un nobile che alberga in un antico castello (sia pure in rovina) tra i Carpazi; è alto e pallido ma il suo viso acquista colorito e freschezza via via che si nutre; si muove di notte e ammette di alimentarsi di soli liquidi, ma rifiuta il vino offertogli; si rapporta col tema folklorico dell’invito necessario al vampiro per invadere lo spazio dei vivi; appare dalla nebbia e attacca (nel privato della stanza da letto) le vittime al collo – e non al costato o in altre parti del corpo, come suggeriscono tradizioni di minore fortuna letteraria. Ci sono anche, all’orizzonte, i rapporti coi Turchi (per Azzo di iniqua familiarità, per Woislaw di guerra) in seguito richiamati nell’epos di Dracula; e naturalmente il viaggio tra i boschi, con la carrozza e l’attacco dei lupi poi domati dal vampiro, prelude a quello stokeriano di Jonathan Harker. Anche le due ragazze – la seducente Franziska, inquieta e sventata, e Bertha, assennata e dolce – già propongono in qualche modo la polarità stokeriana di Lucy e Mina; la malattia di Franziska prefigura l’agonia di Lucy, e la spedizione alle rovine di Woislaw e dell’ammalata, preceduta dalla ricognizione di lui, non può che richiamare quella di Van Helsing e Mina verso il castello transilvano, con l’ingresso del professore a scoperchiare sepolcri. Troppe somiglianze per poter pensare al casuale assemblaggio di motivi analoghi.

 

Il cavaliere Woislaw era davvero un soldato modello, indurito e reso più forte dalla guerra con gli uomini e con gli elementi. Il suo viso non si sarebbe detto brutto, se una sciabola turca non gli avesse lasciato un segno rosso che correva dall’occhio destro alla guancia sinistra, e che si evidenziava sulla pelle bruciata dal sole. La corporatura del castellano di Glogau poteva quasi definirsi colossale. Pochi avrebbero potuto portare la sua armatura, e ancor meno avrebbero potuto muoversi sotto quel peso con la sua stessa facilità e agilità. Lui stesso non sottovalutava la sua armatura, perché era un regalo del conte palatino d’Ungheria quando aveva lasciato l’accampamento. L’azzurro acciaio intarsiato era coperto di fregi in oro. E lui l’aveva indossata in onore della sua promessa sposa, insieme alla meravigliosa mano d’oro, dono del duca.

 

E in precedenza si era detto:

 

[Il cavaliere Woislaw] Riteneva di essere tenuto in sì alta considerazione dal suo duca in virtù dei suoi validi servigi, che in futuro le sue incombenze sarebbero state ancor più importanti ed estese. Ma prima di occuparsene sarebbe venuto per reclamare la promessa di Bertha di diventare sua moglie. Si era arricchito grazie al suo padrone, così come al bottino preso ai Turchi. Avendo perso in passato la mano destra al servizio del duca, aveva cercato di combattere con la sinistra. Ma non ci riusciva abbastanza bene, e così se ne fece fare una di ferro da un bravissimo artista. Questa mano espletava molte delle funzioni di una mano naturale, ma lasciava ancora a desiderare. Ora, però, il suo padrone gliene aveva regalata una d’oro, una straordinaria opera d’arte, creata da un celebre meccanico italiano. Il cavaliere la descriveva come qualcosa di meraviglioso, specialmente per la forza sovrumana con la quale gli consentiva di usare la spada e la lancia.

 

Ci troviamo insomma davanti a un personaggio che riunisce vari aspetti degli eroi arcaici – la forza di un Eracle, le armi meravigliose, alcuni segni (cicatrice e mutilazione) di carattere iniziatico e la “compensazione” derivata (una protesi preziosa e fiabesca), l’eredità meccanica degli automi settecenteschi, il contatto esperienziale coi mostri e una prudenza odissaica che valorizza anche l’equivoco – in una maturità che già prelude a quella del professore stokeriano. Un quadro peraltro dove il richiamo all’arcaico trova singolari consonanze con l’immaginario postmoderno, particolarmente nel cinema: basti pensare alla peculiarità simbolico-anatomica (il mirabolante braccio d’oro) che prefigura le mutilazioni mitiche di Star Wars e gli X-men (o X-monsters) multiaccessoriati di pellicole meglio ascrivibili al cinema d’azione che all’horror.

Come i predecessori – a partire dall’Apollonio di Filostrato e Keats col suo sguardo penetrante – il simil-cyborg Woislaw è capace di notare le condizioni di Franziska e anzi la sottopone a un minuzioso interrogatorio sui sintomi che prelude alle indagini medico-psichiche dei dottori successivi, in particolare Van Helsing. Se quest’ultimo, d’altro canto, si presenterà ai giovani compagni come un padre di elezione, il Buon Vecchio contrapposto al Vecchio Cattivo Dracula, per gli amici Woislaw è senz’altro il fratello maggiore: e come Van Helsing, studioso dei misteri della mente e del cuore, vive un dramma nell’unica carne, la moglie affetta da demenza (con tutti gli echi in tema di follia e spossessamento psichico nel contesto del Dracula) oltre che quello della perdita d’un figlio, Woislaw reca nel corpo le stigmate dell’iniziazione all’età adulta. Come Van Helsing, ancora – quello del romanzo, non del cinema – Woislaw si tiene in secondo piano lasciando che a distruggere Azzo sia la “giovane” Franziska: anche se in questo caso, a differenza che in Stoker, l’operatrice è stata anche vittima diretta del vampiro.

Il tema merita una digressione: la distruzione del mostro ad opera della stessa vittima grazie a un comportamento attivo – come in questo caso – o invece più o meno passivo (come nella distruzione del Nosferatu di Murnau) configura evidentemente una variante rispetto ai classici modelli di teratomachia gestita da un eroe giovane, virile, o invece da un anziano demonologo. Una variante che per quanto minore (non cioè frequentemente portata in scena) acquista certo un peso significativo a partire dal romanticismo e delle sue eroine (ancora tanto lontane da Buffy l’ammazzavampiri), ma può vantare un retroterra ben più antico: e proprio il motivo folklorico della liberazione della vittima grazie a un atto (magico-terapeutico) personale è valorizzato in termini simbolici nella dinamica di questo racconto. Franziska riprende il controllo della propria vita, supera la “prova” di maturità: ma può farlo soltanto grazie all’Eroe Mutilato, l’iniziatore che permette ai fratelli minori il passaggio oltre la soglia custodita dal vampiro – figura liminare per eccellenza – e conduce all’armonizzazione finale delle caratteristiche di ciascuno (protezione per Bertha, equilibrio emotivo per Franziska, valorizzazione virile di Franz).

Dove il rilevo ai “giovani” (come in Dracula, appunto) non impedisce che nell’economia del testo la figura di Woislaw presenti un rilievo non inferiore – e anzi strutturalmente analogo e contrapposto – a quella del mostro motore. Basti pensare al continuo strapparsi la scena tra i due antagonisti, prima sullo sfondo e a livello di voci (grevi di ambiguità su Azzo, limpide di ammirazione per Woislaw) e poi in confronto diretto: il vampiro appare irriconosciuto (quando caccia i lupi), poi è annunciato dai balbettii sul “demonio di Klatka” e solo in seguito si presenta (peraltro con identità alterata, per essere smascherato soltanto alla fine); mentre la figura di Woislaw, prima delineata indirettamente (a cenni nel dialogo iniziale tra le ragazze in carrozza, quindi con più dettagli in occasione della lettera a Bertha – subito dopo l’invito al vampiro e subito prima della visita di lui) apparirà in scena solo quando la situazione sta precipitando. L’autore sembra anzi sottolineare la contrapposizione continua tra vampiro e sua nemesi, quasi si trattasse di figure speculari: nel fisico (Azzo è magro e alto, Woislaw “colossale”) e nei poteri (il primo attinge a forze oscure, il secondo non disdegna i prodigi della meccanica), ma anche in carattere e categorie. Si pensi al concetto di esperienza, per Woislaw valore di maturità utile alla vita, che Azzo invece confina alla sfera del piacere (come si evince dal dialogo con Franziska durante la prima visita); all’uso del silenzio, finalizzato per Azzo a tutelare il suo equivoco segreto, per Woislaw a condurre gradualmente Franziska a libertà e verità; al rapporto con l’interiorità degli interlocutori (il vampiro viola la mente, il suo avversario intuisce per esperienza del cuore); all’orizzonte del mondo “nemico” (i Turchi coi quali Azzo/Ezzelin intratteneva in vita sordidi traffici, sono combattuti da Woislaw a viso aperto). Un simile rapporto di doppio tra i due personaggi “forti” – attorno ai quali muove più lenta la danza degli altri – tornerà con frequenza nelle cacce al mostro letterarie e verrà enfatizzato dal cinema.

Ma proprio l’epopea dei doppi dovrebbe far rammentare che The Mysterious Stranger, oltre che Stoker (di cui comunque resta una fonte minore, tra le mille da lui repertoriate), può aver influenzato Verne per Il castello dei Carpazi (1892) e forse lo stesso Le Fanu per Carmilla, come suggerito da echi in apparenza non casuali e quasi altrettanto numerosi. A partire dalla condizione straniera della narratrice anglofona Laura in un’esotica Stiria che richiama il rapporto tra i viaggiatori austriaci e i remoti Carpazi; ci sono poi suggestioni onomastiche (il nome del giovane barone von Kronstein sembra preludere a quello dei cattivi conti Karnstein di Carmilla, dove peraltro la pupilla del generale Spielsdorf si chiama Bertha come la cugina di Franziska); anche in Carmilla compaiono due castelli, uno abitato dalla famiglia della protagonista e l’altro in rovina, dove i personaggi si recano per una specie di gita; anche in Carmilla la famiglia della ragazza è incompleta (c’è un padre ma non una madre, e non ci sono fratelli); anche in Carmilla (e lì con enfasi e significato particolare) vediamo le ragazze manifestare un trasporto a base di abbracci.

A parte poi la citata tematica di doppi e duplicazioni, fitti in Carmilla in modo ossessivo, ci sono i motivi ricorrenti, folklorico-letterari, legati all’attacco vampirico: la spossatezza di Laura che precipita in oscuro male, come già Franziska; il rilievo attribuito alla forza della mano quale segno qualificante di vampirismo; il rapporto con la luna, presente in The Mysterious Stranger ed elegantemente riproposto da Le Fanu. Ma ad avvicinare i racconti sono anche più specifiche componenti del quadro metafisico inscenato. Si pensi al gioco onomastico con cui il vampiro si presenta e insieme si cela (Azzo come equivalente di Ezzelin – probabile eco del tiranno medioevale italiano Ezzelino da Romano, di emblematica ferocia; Carmilla – alias Millarca, ecc. – come anagramma dell’originaria Mircalla Karnstein): un sotterfugio che in Le Fanu sembra assurgere a vincolo metafisico, ma in entrambi i testi permette al vampiro di nascondere l’identità senza affermare una vera menzogna (anagrammato o ridotto, il nome mantiene la sua verità), quasi a dover concedere alle vittime virtuali una chance grazie un’appropriata attenzione onomastica. Ciò che permetterebbe in fondo di riconoscere proprio nel cacciatore di mostri l’indagatore onomastico per eccellenza, colui che ragiona sulle parole e sul loro potenziale di mostruosità, sugli spazi dove il compito di Adamo di dar nome alle cose appare male adempiuto o in crisi: in un quadro insomma dove antichi motivi simbolici, folklorici e demonologici (si pensi al demone che porta scompiglio con un uso distorto di affermazioni in sé vere, donde il silenzio che l’esorcista gli impone) si aprono a modernissime provocazioni. Sta a noi smascherare i mostri cifrati sotto il pelo della comunicazione.

Ma a parte lo spazio del nome e dell’identità, una certa ambiguità (in a glass darkly, sottolineerà Le Fanu nel titolo della raccolta in cui Carmilla è incastonato) lambisce in entrambi i testi anche il rapporto col dato religioso: ben lungi infatti dall’uso meccanico ed esasperato di ostie, croci e simboli sacri di Stoker, The Mysterious Stranger sembra già prefigurare a cenni la lettura problematica e sottilmente provocatoria che Le Fanu articolerà. Come in Carmilla, infatti, l’arma della preghiera devota (di Woislaw, sia pure sullo sfondo di un rito non esattamente ortodosso con chiodi e sangue) si sposa alla constatazione che neppure la struttura religiosa sia in sé sufficiente a fermare il male. Se in Le Fanu la carrozza delle vampire pare rovesciarsi davanti alla croce ma in realtà lo stratagemma dell’incidente è preordinato (per permettere il “ricovero” di Carmilla a casa di Laura), in The Mysterious Stranger suona almeno maliziosa la notizia che il castello maledetto si fosse salvato dalla distruzione perché la zona era “sotto il controllo della chiesa”. Dove insomma ciò che rileva è anzitutto la disposizione d’animo del singolo e un’attenzione al rapporto col vampiro interiore, più che la confidenza in simboli sacri, strutture o loro rappresentanti. Il cacciatore di vampiri, cyborg o meno, pretende ormai dall’esorcista consacrato un passaggio di testimone.

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George Eliot e i veli della narrazione (Victoriana 32/II) https://www.carmillaonline.com/2021/11/09/george-eliot-e-i-veli-della-narrazione-victoriana-32-ii/ Tue, 09 Nov 2021 21:33:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69146 di Franco Pezzini

(qui la prima parte del testo)

La Seconda Parte del “Velo dissolto” (il racconto si presenta come un dittico) inizia con il fidanzamento di Alfred e Bertha. Latimer vi assiste diviso tra l’attrazione per la bella fata acquatica e il ricordo terribile della visione di un futuro tristissimo al fianco di lei.

 

L’auto-commiserazione aveva toccato in me quella vetta di intensità che trasforma le nostre emozioni in un dramma imposto alla contemplazione, e versiamo lacrime non su un dolore autentico, ma su una certa idea del [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte del testo)

La Seconda Parte del “Velo dissolto” (il racconto si presenta come un dittico) inizia con il fidanzamento di Alfred e Bertha. Latimer vi assiste diviso tra l’attrazione per la bella fata acquatica e il ricordo terribile della visione di un futuro tristissimo al fianco di lei.

 

L’auto-commiserazione aveva toccato in me quella vetta di intensità che trasforma le nostre emozioni in un dramma imposto alla contemplazione, e versiamo lacrime non su un dolore autentico, ma su una certa idea del dolore. Provavo una sorta di pietà angosciata per il pathos della mia persona, una persona così bene organizzata per soffrire, ma in cui quasi nessuna fibra sapeva reagire al piacere: l’idea di una disgrazia futura mi privava della gioia presente, e l’idea di un bene futuro non placava l’ansia dell’incertezza presente. Percorrevo in uno stato di intontimento quella fase delle sofferenze di un poeta, durante la quale egli avverte la spasimante necessità di esprimersi e trasforma in immagini le proprie pene.

 

Tutto ciò mentre Alfred, con “accondiscendente cordialità” osserva quale peccato sia che il fratello non si goda “una bella galoppata con i cani di quando in quando! Non c’è cura migliore per un morale depresso!”. A Latimer non rimane che masticare amaro sul “temperamento rozzo e limitato” di Alfred, esponente di quel tipo di persone su cui “si riversano i doni del mondo. Tonteria aggressiva, sano egoismo, giovialità presuntuosa – queste sono le chiavi della felicità”: anche se in un angolo di sé resta il sospetto che il proprio egoismo sia peggiore, solo “lagnoso anziché soddisfatto”. E poco dopo, passeggiando con la futura cognata, gli viene impetuosamente da chiederle come possa amare il fratello. Sentendosi rispondere con una domanda – perché suppone che l’ami? – e un chiarimento che prefigurerebbe certe battute di Oscar Wilde se non gocciasse qualcosa di molto più tossico delle staffilate da commedia presenti nei suoi scambi paradossali.

 

Mio caro, la tua saggezza ti fa credere che io debba amare l’uomo che mi preparo a sposare? Sarebbe estremamente sgradevole. Litigherei con lui, ne sarei gelosa, il nostro ménage verrebbe organizzato all’insegna delle cattive maniere. Un po’ di tranquillo disprezzo contribuisce in misura notevole a rendere elegante la vita.

 

Al che, in un momento trasognato, al Nostro scappa da chiederle se lo amerà – lui, Latimer – quando si saranno appena sposati: sopporterebbe qualunque cosa se lei lo amasse almeno un po’… ma poi si rende conto della propria uscita infelice, borbotta che non sapeva cosa stesse dicendo e lei pare accettare l’episodio come un “altro attacco di follia” del futuro cognato. Salvo scoprire, rientrando a casa, che Alfred è morto per una caduta da cavallo (visto che Latimer è stato l’ultimo a vederlo, qualche critico ha spiegato le sue strane percezioni in modo un tantino più raggelante).

Il padre, che aveva affrontato piuttosto tiepidamente la vedovanza, stavolta è annichilito e Latimer scopre un nuovo affetto per lui; mentre il vecchio inizia proprio malgrado a dedicargli, in quanto unico erede, un’attenzione nuova. “Credo che qualsiasi ragazzo trascurato, cui la morte assegni un posto di primo piano rimasto vacante, capirà quanto voglio dire”. E dopo una fase di iniziale imbarazzo, Bertha gli lascia credere di amarlo – o almeno così lui vuol vedere.

Si sposano diciotto mesi dopo la morte di Alfred, con la benedizione del padre convinto che il matrimonio renderà Latimer abbastanza pratico e mondano da poter “assumere il proprio posto nella società dei suoi simili”: in realtà l’unione sigilla semplicemente un legame di alienazione fisica e mentale. Per qualche tempo i due malassortiti coniugi procedono a colpi di cene ed eventi tali da impressionare il vicinato, anche se il narrante vi fa “ben grama figura sia come erede sia come sposo. La stanchezza nervosa di quella esistenza, le insincerità e le meschinerie che dovevo subire due volte – grazie ai miei sensi e alle mie percezioni” – sono rese tollerabili solo dall’ingannevole ebbrezza che permette di non cogliere l’animo segreto di Bertha. Il cui atteggiamento pure sta mutando, alternando una freddezza altera a segnali di rifiuto meno evidenti. E finalmente, verso la fine della malattia del padre colpito da paralisi, la situazione si fa crudamente chiara, e l’attrazione di Latimer per Bertha viene paralizzata da un altro tipo di sentimento.

Alla vigilia della morte del padre, che lui ha vegliato nelle ultime reazioni coscienti, raggiunge infine Bertha nel suo salottino.

 

Sedeva abbandonata su un divano, le spalle rivolte alla porta: le ricche volute dei pallidi capelli biondi sovrastavano il collo sottile e emergevano dalla spalliera del divano. Rammento che, mentre chiudevo la porta dietro di me, fui colto da un freddo brivido e ebbi la vaga sensazione di essere odiato e solo – una sensazione vaga ma intensa, quasi un presentimento. So come apparisse il mio viso in quel momento perché vidi me stesso nella mente di Bertha mentre fissava su di me i suoi taglienti occhi grigi: un miserabile sognatore, circondato da fantasmi anche nella piena luce del giorno, tremante al minimo alito di una brezza che non muove nemmeno le foglie, senza interesse per i comuni oggetti dell’umano desiderio ma pronto a inseguire i raggi di luna. Eravamo di fronte, l’uno giudice dell’altro. Il terribile momento della totale illuminazione era giunto, e vidi che l’oscurità non mi aveva celato paesaggi di sorta, ma solo una nuda e prosaica parete.

 

E da quel giorno il suo sguardo può penetrare anche in quell’anima, trovandovi soltanto pochezza, egoismo e un’antipatia che trascolora in odio. Tanto più che lei stessa è delusa, avendo creduto che la folle passione del marito l’avrebbe reso suo schiavo: “non riusciva a concepire il fatto che la sensibilità può essere tutto fuorché debolezza”. Così interpreta lui: ma delusione e disillusione non possono rappresentare soltanto una proiezione dei desideri dell’anaffettivo coniuge?

D’altra parte come la conoscenza del futuro – ha osservato qualcuno – lo svuota e snatura lo stesso presente, così la conoscenza è potere ma, più ne abbiamo, più essa uccide il desiderio, recando una paradossale forma d’impotenza. Morti il fratello rivale e il padre da compiacere, muore così anche il desiderio di Latimer per Bertha: l’attrazione si legava a stretto filo all’incapacità di vedere nella vita interiore di lei, ma al sollevarsi del velo il desiderio evapora. Latimer sta tentando di trasferire tutto ciò sui lettori, che non gli vedono dentro e si fidano della sua storia? Chiaramente ciò incentiva i suoi fraintendimenti consci o inconsci. Però Latimer sarebbe in grado di sfuggire agli eventi dolorosi che prevede nel proprio futuro, o si tratta di un destino segnato?

Rafforzato dall’essere divenuto adulto e subentrato al padre, Latimer è così finalmente penetrato nella mente di Bertha: una tragica rivalsa per lui, che tuttavia non riesce a liberarsi della dark lady. Va detto che in misura minore ciò corrisponde alle dinamiche di qualunque innamoramento superato, ciò che appariva mistero e magia assume contorni di assai maggiore prosaicità: e tuttavia in questo caso il discorso dei meccanismo di controllo e di una rivalsa sadica dell’ex-masochista presenta un peso specifico.

Ovviamente tutti simpatizzano con Bertha, giovane donna brillante accanto a un marito insignificante e forse matto, che ispira semisprezzante pietà persino alla servitù. Ma lei ha iniziato a capire che Latimer gode di uno strano potere di penetrazione nei suoi pensieri, e questo la preoccupa. Invano spera che lui si suicidi o che scelga di separarsi: lui non ha più desideri, e tanto meno passioni.

Tutto questo dura anni. E ne sono passati ormai vari dalla morte del padre, quando una sera lei gli appare in biblioteca. Indossa un

 

vestito da ballo bianco con gioielli verdi, scintillanti alla luce della candela che illuminava anche il medaglione di Cleopatra morente sulla cornice del camino. Perché era venuta da me prima di uscire? Da mesi non l’avevo mai vista in biblioteca, che era il mio rifugio favorito. Perché così ritta, con la candela in mano, fissava su di me gli occhi sprezzanti e crudeli, e il serpente, come un demone familiare, brillava sul suo petto?

 

È un caso che questo studio sulla monomania veda l’ingresso della donna fatale in biblioteca dove s’infratta il narratore inaffidabile di un altro grande racconto su ossessioni e compulsioni monomaniacali, Berenice di Poe? Tanto più che anche qui, come vedremo, la barriera tra vivi e morti conoscerà momenti di scioccante eversione.

La donna bianca e verde è – come anticipato dal medaglione di Cleopatra (prima c’era Lucrezia Borgia, restiamo tra vamp) e suggerito dal serpente-famiglio sul suo petto –, una donna-serpente velenoso, come enfatizza il nesso tra il verde e l’arsenico, spesso usato per un pigmento smeraldino: e nella mente di lei Latimer coglie solo disprezzo insultante e l’augurio che lui si uccida (come Cleopatra, anche considerando i tratti un po’ femminei e languidi del marito). Comunque il motivo di quel dialogo è banale: Bertha deve assumere una nuova domestica, l’altra si sposa e chiede loro di affittare a suo marito una certa fattoria. Latimer non muove obiezioni, Bertha si dilegua: e poco dopo, circonfusa per il narrante da un vago alone di fatalità e di minaccia, si presenta la spiacevole signora Archer. Conquista presto le simpatie della padrona che tuttavia ne pare intimidita e dipendente: “e tutto ciò sembrava associato a confuse immagini del salotto privato di Bertha illuminato da candele, e a qualcosa che veniva chiuso a chiave in uno stipo”. Ma Latimer non riesce a vedere di più, anche se le sue peculiarità psichiche stanno conoscendo alcune novità. Percepisce infatti meno e in modo più confuso i pensieri di chi sta attorno, con una graduale necrosi in lui di ciò che è personale – come uno spegnersi progressivo del rapporto con gli altri – e un parallelo sviluppo nella percezione dell’inanimato, di scene esterne come la visione un tempo avuta di Praga.

 

Erano visioni di strane città, di pianure sabbiose, di rovine gigantesche, di cieli notturni con ignote costellazioni lucenti, di passi montani, di radure erbose dove brillavano i raggi del sole filtrati dai rami; io mi trovavo nel bel mezzo di queste scene, e nelle loro vivide forme avvertivo sempre una presenza opprimente, la presenza di qualcosa di ignoto e di spietato. Il perenne soffrire, infatti, aveva spento in me la fede religiosa; per chi è completamente infelice, per chi non ama e per chi non è amato, non vi è religione possibile, né culto che non sia quello dei demoni. Al di là di tali visioni vi era quella della mia morte, sempre ricorrente – le contrazioni, il senso di soffocamento, l’ultima lotta per aggrapparsi invano alla vita.

 

Così almeno la presenta Latimer. Ma in realtà da tempo, dissipato il mistero e con esso il potere vantato da Bertha su di lui, la “maledizione dell’intuizione” ha annientato l’unica fede rimastagli: quella cioè nell’algida divinità femminile del volto-santuario ormai vuoto.

Tale comunque la situazione del narrante alla fine del settimo anno, ormai libero dal peso invasivo dei pensieri altrui (con il passar degli anni l’inanimato ha sempre più spazio nelle sue percezioni, ed è inevitabile pensare alle oblique solidarietà degli Usher con i mondi vegetale e minerale) e ripiegato sul proprio futuro. Sia pure in termini di estraneità, Bertha ora pare cercarlo maggiormente e lui, senza domandarsene il perché, la tollera con languore passivo: avverte però in Bertha qualcosa come un’eccitazione, e si compiace solo del fatto che ora gli sia tornata impenetrabile. Lei lo tratta da ottuso, quasi con sollievo, e lui non vuole ostacolarla negandole quella pietà necessaria a qualunque creatura vivente. Questa almeno la versione offerta al suo pubblico.

Ma a strapparlo in parte dall’inerzia giunge la notizia di una visita in Inghilterra dell’antico amico Charles Meunier. Molto cambiato dagli anni di gioventù: l’ospite che arriva da loro è un brillante uomo di mondo, ascoltato da gentildonne deliziate – compresa Bertha, che sfodera tutta la propria civetteria – e stimato dai gentiluomini. Nel ritrovare Latimer, l’amico rinuncia con molto tatto a indagare sulle sue penose condizioni e si limita a rendere piacevole l’incontro. Attenzione, la parte che segue riporta significativi spoiler.

La visita (inevitabile pensare a quella del narrante amico a Roderick Usher, nel racconto di Poe) fa molto bene a Latimer, che udendo Charles parlare delle implicazioni psicologiche della malattia vagheggia persino di confidargli i propri rovelli. Senza però decidersi a quel passo, per timore di riprendere a invadere le menti altrui: ma il soggiorno di Meunier si avvia al termine quando accade qualcosa. La signora Archer si ammala all’improvviso, e l’algida ed egoista Bertha – che oltretutto ha avuto con la dipendente un duro scontro poco prima dell’arrivo di Charles – sembra rivelare un’impensata devozione verso di lei, prendendo a vegliarla notte e giorno. In assenza del loro medico di famiglia, è Charles a occuparsi del caso: e spiega trattarsi di peritonite, con esito senz’altro fatale. Ma propone all’amico un esperimento, che non recherà sofferenze alla morente perché lo tenterà solo a decesso avvenuto: cioè una trasfusione di sangue quando il cuore abbia “cessato di battere da alcuni minuti”. Ha già effettuato tale esperimento – spiega – varie volte su animali morti di malattia: userà il proprio sangue, ha solo bisogno che l’amico l’assista. Ma vorrebbe tenere Bertha all’oscuro, hai visto mai quali difficoltà possa sollevare, e oltretutto l’effetto potrebbe impressionarla. Il riferimento alla segretezza può essere inteso ovviamente come un’implicita messa in discussione dell’etica dell’esperimento: e del resto la situazione pone in scena un chiaro caso di controllo patriarcale, visto che il soggetto morente – dunque incapace di opporsi – è una donna, oltretutto di classe sociale subordinata. Pare d’altronde che le trasfusioni venissero effettuate più comunemente sulle donne, con donatori uomini, perché meno soggetti a svenimento. L’ironia della situazione evocata è che proprio Latimer aveva avuto uno svenimento al primo incontro con Bertha…

Meunier cerca dunque di convincere la moglie dell’amico a schiodarsi dal capezzale, ma lei non vuol saperne. Il medico domanda però a Latimer se conosca “qualche ragione che possa ispirare a quella donna del malanimo verso la sua padrona, che le è tanto devota”, visto che sembra si sforzi di dire qualcosa fissando Bertha con ostilità. Latimer ricorda lo scontro tra le due, ma anche il pessimo carattere della domestica; comunque ben presto giunge per questa l’ultima crisi, e l’arrivo al capezzale di Latimer con Charles suscita l’irritazione di Bertha. L’uomo di scienza la tacita, ma lei non sembra disposta ad andarsene di lì. E a Latimer viene da chiedersi come avesse potuto ravvisare nella moglie elementi di tenerezza umana, a fronte di quei

 

lineamenti […] di una durezza preternaturale, gli occhi freddi e avidi – sembrava una crudele dea immortale, pronta a gioire dei dolori di una razza mortale. Su quei duri lineamenti, infatti, balenò come un lampo quando l’ultimo respiro fu esalato e capimmo tutti che il nero velo era calato per sempre. Quale segreto aveva unito Bertha e quella donna? Distolsi lo sguardo con l’orribile timore che le mie doti di percezione si riaccendessero e io fossi costretto a vedere quanti si era celato in due aridi cuori femminili. Intuii che Bertha aveva atteso con ansia il momento in cui la morte avrebbe suggellato il suo segreto; pregai il cielo affinché rimanesse suggellato anche per me.

 

Veniamo così introdotti, in modo un po’ obliquo e ambiguo, alla possibilità dell’esistenza di un qualche disturbante segreto.

Constatato il decesso, Charles accompagna fuori Bertha che però manda dentro due domestiche a piantonare la stanza. Latimer le fa attendere fuori finché – spiega – l’amico non abbia effettuato un intervento (ha già aperto l’arteria nel collo della defunta) per esser certo che sia davvero morta; poi collabora con l’amico mantenendo una respirazione artificiale nel corpo trasfuso (non è troppo chiaro come). E lentamente il petto della governante ricomincia a sollevarsi e l’anima pare riaffiorare dietro le palpebre socchiuse. Interrompendo la respirazione artificiale, quella naturale continua…

Ma all’improvviso entra Bertha, e si confronta con gli occhi spalancati e pieni d’odio della morta, che solleva il dito puntandolo contro di lei. “Lei voleva uccidere suo marito… il veleno è nello stipo nero… io gliel’ho procurato e lei rideva di me, e raccontava bugie sul mio conto, per rendermi spregevole… perché era gelosa… si è pentita… adesso?”. Più altre parole impercettibili, prima di tornare alla morte.

Latimer è turbato:

 

sarebbe questa la resurrezione? Risvegliarsi col tormento di un’inesauribile sete, mentre le maledizioni che non abbiamo avuto il tempo di pronunciare ci salgono alle labbra e i nostri muscoli sono pronti a completare peccati commessi a metà?

 

Inevitabile ravvisare in questa reviviscenza mostruosa, che spiazza lo stesso medico lasciandolo paralizzato (a caveat sulla pericolosità di alcune tecniche in apparenza promettenti, e sui lati oscuri della scienza e dei suoi amorali alfieri), alcune suggestioni del mito vampiresco: e si potrebbe azzardare che il racconto, edito nel 1859, abbia potuto suggerire a Stoker le trasfusioni del Dracula, i risvegli “col tormento di un’inesauribile sete” e la presenza di esecrabili vamp. Quel che è certo è che tali pratiche di trasfusione sono quelle pionieristiche e sperimentali di un’epoca in cui non si conoscono ancora i gruppi sanguigni (e si può nutrire ancora la fantasia che il sangue restituisca la vita a un vero e proprio cadavere); mentre emerge sullo sfondo una quantità di altre letture gotiche, come il Frankenstein (Meunier che gioca con la vita e la morte), The Facts in the Case of M. Valdemar e i racconti mesmerici di Poe, le suggestioni del magnetismo capace di far sviluppare una doppia coscienza o anche più nere leggende devote su cadaveri risvegliati per confidare orribili verità.

Va però detto che alla base di ciò che noi oggi leggiamo come fantasie c’è il genuino interesse di George Eliot – come del resto del suo partner, George Henry Lewes – per la scienza del tempo, e le implicazioni morali che ne emergono alla letteratura, spesso in chiave di profonda ambivalenza: in particolare gli esperimenti e gli studi del chimico scozzese William Gregory (1803-1858) in tema di mesmerismo, magnetismo e frenologia (sembra lavorasse su pazienti chiaroveggenti), e quelli del fisiologo e neurologo Charles-Édouard Brown-Séquard (1817-1894), uno dei padri della endocrinologia moderna, che intuì l’esistenza degli ormoni e condusse – pare – esperimenti di trasfusione simili a quello qui descritto. In questo racconto pubblicato nel 1859, lo stesso anno in cui appare L’origine delle specie di Charles Darwin, Eliot riflette non solo sulla percezione extrasensoriale e il rapporto tra scienza e soprannaturale, l’essenza di una vita fisica (basta un po’ di sangue rimesso in circolo a richiamare sia pur brevemente alla vita un corpo ucciso dalla peritonite?) e la possibilità di una vita dopo la morte, ma anche – in termini più filosofici e di rapporto con una fede dell’autrice un tempo forte e più tardi abbandonata – sul potere del fato e il mistero della vita: alcuni suoi riferimenti in altre sedi sottolineano del resto l’interesse di Eliot per i meccanismi di mistero soggiacenti alla realtà scientifica.

Il racconto può essere letto come un testo medico, in riferimento al dibattito della media età vittoriana in tema di masturbazione e follia (cfr. gli studi di William Acton, in particolare The Functions and Disorders of the Reproductive Organs, 1857, di James Copland, Henry Maudsley e Samuel-Auguste Tissot) e alle applicazioni appunto di una serie di tecniche peculiari. Viene inevitabilmente da domandarci in che percentuale un giorno le categorie scientifiche del nostro tempo – e i loro cascami sociali, green pass incluso – appariranno materia per racconti fantastici.

L’episodio della trasfusione mirabolante è talora parso alla critica poco legato al resto del racconto, eppure l’autrice deve tenervi molto, se in occasione della prima edizione non segue il consiglio dell’editore di rimuoverlo. Intende, con una storia implausibile, mettere in crisi l’impalcatura dell’intero testo suggerendo un’altra verità?

Ai tre protagonisti attorno al capezzale non resta che uno stordito silenzio. Meunier, vincolato da una promessa all’amico, tace. L’evento reca comunque almeno la svolta di una separazione tra i coniugi – l’inconoscibile Bertha resta alla villa con metà dei beni, Latimer parte per terre lontane e rientra nel Devonshire per morire. Si è trovato strano il torpore di Latimer nei confronti della verità esplosiva che se non altro potrebbe conciliargli la simpatia di qualche conoscente, stornandola dalla dama di successo pronta al crimine. Dall’emergere di alcuni termini da lui usati – lo “state of expectation or hopeful suspense” di Bertha – si è persino ipotizzato che lei possa essere incinta, ovviamente di un legame adulterino (i sintomi al tempo confondibili tra peritonite della domestica e alcuni problemi legati alla gravidanza hanno fatto pensare a un ideale gioco di specchi, e la trasfusione di sangue – come poi nel Dracula – è allora fortemente sessualizzata), ma è plausibile si tratti di sovrainterpretazione: l’espressione sembra calzare più banalmente all’attesa di una morte di Latimer per veleno. Va detto che questi fornisce il resoconto sull’accusa di veneficio – che gli recherebbe le simpatie dei lettori – quando ormai l’amico testimone non c’è più: e proprio l’episodio implausibile gli aliena quelle simpatie.

D’altra parte nel desolante quadro presentato, a base di cinismo, cene deprimenti a beneficio della provincia, raccomandazioni sulla caccia come terapia interiore e raggelanti messinscena dell’amore coniugale, anche il grande medico Meunier è ridotto a uno spregiudicato epigono di Frankenstein, umanamente incapace di tener testa al risultato dei suoi esperimenti, e tanto imbarazzato da essere ben lieto di tacere (tace tanto bene da morire, lo stesso silenzio dell’ormai tumulata signora Archer): e trova corrispondenza con un altro stereotipo noto alle colonne del Blackwood, l’unsound scientist, lo scienziato (potremmo tradurre) stonato.

Ma proprio sul Blackwood nei primi anni cinquanta figurano un paio di articoli interessanti e cauti, “What is Mesmerism” e “The Night Side of Nature”, quest’ultimo a recensione di due edizioni recenti (Researches on Magnetism, Electricity, Heat, &c., in their relation to Vital Force, 1851, traduzione del citato Gregory all’opera di Carl Reichenbach teorizzatore della presunta forza odica, e The Night Side of Nature, or Ghosts and Ghost Seers di Catherine Crowe, 1848, sulla presunta chiaroveggenza dei sonnambuli, opera poi tanto apprezzata da Baudelaire): articoli che aiutano a capire il senso dell’intero episodio della trasfusione – e della scelta di Eliot di mantenerlo, nonostante le perplessità dell’editore – ma insieme di un corretto approccio all’intero racconto. Leggendo Il velo dissolto in parallelo a questi articoli, l’atteggiamento suggerito in rapporto ai temi trattati sembra infatti quello di deplorare sia l’autoripiegarsi di Latimer con le sue equivoche chiaroveggenze e preveggenze, sia il materialismo becero dei suoi interlocutori: starebbe al lettore intelligente cogliere il tipo di operazione interpretativa necessaria davanti a un dramma dove nessuno “ha ragione” e occorre diffidare di tutti.

Qualcosa che, d’altra parte, riguarda lo stesso profilo di Bertha, l’Eva satanica pronta a somministrare il frutto tossico a un Adamo rinunciatario, con il sovrapprezzo di una complicità da coven tra donne. Un aspetto interessante è che, a ben vedere, Bertha non compie nulla di esplicito: chiuso in uno stipo, il veleno (se davvero c’è) resta il segno di una tentazione, ma in un contesto differito e sospeso quantomai incerto. Se la morta (o morente) avesse delirato, piena di un odio verso la padrona che non aveva potuto spurgare perché si era mortalmente ammalata? Certo, quelle parole rafforzano Latimer nello stigmatizzare Bertha e controllarne l’immagine: al punto che – ha osservato qualcuno – il testo è divenuto l’ennesimo velo. Se Bertha non parlava prima – e conosciamo le sue parole solo attraverso quelle del suo nemico – ora è messa a tacere per sempre.

Nei fatti un sipario è calato con il silenzio sull’episodio del veleno. Conoscendo esseri umani durante il suo esilio lontano, lamenta Latimer, è di continuo costretto a sfuggirli per timore di riaccendere l’antico male della lettura interiore: ciò che puntualmente precipita quando si trova inchiodato dalla malattia cardiaca tra le mani dei domestici. “Mi erano noti tutti i loro pensieri meschini, il loro scarso rispetto per me, la loro distratta pietà”. E ben conosce, come scritta su una lapide, la data del 20 settembre 1850, quella cioè della propria morte… Certamente la sua frustrazione riflette quella dell’autrice, bloccata da mille paletti in un campo in cui gli uomini spadroneggiano e soffocata dalla mancanza di controllo sulla propria vita professionale: una voce che tende a venir soffocata dagli stessi uomini a lei vicini, e che echeggia insieme il senso sordo d’inadeguatezza di Latimer e la condizione della stessa Bertha. Scrive Danielle Jacobson:

 

The events of the narrative, then, tell two stories. The first and more obvious storyline focuses on an author‘s search for credibility and authority. The second, more obscured plot centers on a woman desperately seeking power and control over her life. In this sense, Bertha‘s story chronicles the life of Marian Evans the woman while Latimer‘s narrative is an account of George Eliot the author. (A matter of character: Aristotelian ethos in George Eliot‘s The Lifted Veil, 2011, p. 63)

 

Interessante è del resto anche quell’associazione dello scetticismo vittoriano tra chiaroveggenza e patologia mentale che permette di sanzionare il ruolo emergente delle donne proprio nei giri spiritualisti. La poca credibilità di Latimer riflette in fondo quella che l’autrice sentiva pesarle addosso in quanto donna che scrive.

Quindici anni dopo la prima pubblicazione, l’autrice aggiungerà una breve epigrafe poetica alla storia, una lirica in forma di preghiera. Liberamente potremmo tradurla:

 

Illuminazione non darmi, o grande Cielo, ma solo ciò che volge

a dar forza alla compagnia con gli uomini;

non poteri, a parte il lascito che via via

l’umanità rende più completa.

 

Cioè la richiesta di non ricevere illuminazioni speciali – tali da permettere la visione oltre il velo – che possano allontanare l’energia dei suoi pensieri dalla compagnia degli uomini: che in sostanza all’orante siano concesse solo le doti ordinarie di percezione che per via naturale dirigono a una maggiore empatia e arricchiscono l’umanità. Si è visto in questa epigrafe aggiunta tanto tempo dopo come il richiamo a una sorta di “morale”, a non desiderare chissà quali poteri – quelli forse che Eliot vedeva adombrati nel fiorire crescente di pratiche occulte, o in termini più metaforici nella pretesa di spiare (nei modi più vari) l’interiorità altrui sprezzandone il mistero. Mentre è proprio il mistero a dar senso, speranza e interesse alla vita: anche – in fondo – il mistero di noi stessi che tardiamo a capirci e della letteratura che getta alcune luci. Una letteratura che è finzione, fictio, ma che proprio in quanto tale ci aiuta a sollevare – ora salutarmente – una serie di veli su ciò che è invece verissimo in noi (miserie comprese) e nella realtà.

 

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George Eliot e i veli della narrazione (Victoriana 32/I) https://www.carmillaonline.com/2021/11/07/george-eliot-e-i-veli-della-narrazione-victoriana-32-i/ Sun, 07 Nov 2021 22:08:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69122 di Franco Pezzini

In Italia si conosce George Eliot – pseudonimo di Mary Anne (Marian) Evans, coniugata Cross (1819-1880) –, tra le massime scrittrici vittoriane, in genere soltanto per i suoi romanzi di critica sociale e politica, di taglio realistico e psicologicamente cesellatissimi: soprattutto Middlemarch (1871-72), ma anche Adam Bede (1859), Il mulino sulla Floss (1860), Silas Marner (1861), Daniel Deronda (1876). Se la scelta di uno pseudonimo maschile non rappresenta in sé una connotazione particolarmente eversiva, l’autrice – nata lo stesso anno della regina Vittoria – vi prende le distanze dai romanzi “per signora” e insieme vela un po’ il [...]]]> di Franco Pezzini

In Italia si conosce George Eliot – pseudonimo di Mary Anne (Marian) Evans, coniugata Cross (1819-1880) –, tra le massime scrittrici vittoriane, in genere soltanto per i suoi romanzi di critica sociale e politica, di taglio realistico e psicologicamente cesellatissimi: soprattutto Middlemarch (1871-72), ma anche Adam Bede (1859), Il mulino sulla Floss (1860), Silas Marner (1861), Daniel Deronda (1876). Se la scelta di uno pseudonimo maschile non rappresenta in sé una connotazione particolarmente eversiva, l’autrice – nata lo stesso anno della regina Vittoria – vi prende le distanze dai romanzi “per signora” e insieme vela un po’ il suo stato anagrafico, a fronte di una scandalosa convivenza more uxorio con il filosofo George Henry Lewes, sposato con Agnes Jervis ma in regime di coppia aperta. Certo con la sua vita quotidiana anticonvenzionale e per alcuni versi scandalosa, le sue scelte fuori dal coro (per esempio la vicedirezione, da parte di lei donna, di una rivista letteraria progressista come “The Westminster Review” decisamente non piace), le frequentazioni fin dalla gioventù di interlocutori non allineati, George/Marian si dimostra spiazzante: ma si conquista via via progressiva attenzione, fino a esser letta persino a palazzo reale.

Non si tratta senz’altro di una scrittrice associabile alla letteratura fantastica: eppure almeno un’opera, il racconto The Lifted Veil (apparso anonimo la prima volta sul “Blackwood’s Edinburgh Magazine” luglio 1859, l’anno del primo romanzo Adam Bede, e riproposto solo nel 1878) conduce con potenza in quella direzione, e per quanto si tratti di un unicum, presenta caratteri così scintillanti da renderlo un piccolo caposaldo del genere e una straordinaria macchina per pensare. Il velo dissolto (così lo traduce Elisa Morpurgo per Passigli, Firenze 1992) è una festa di qualità stilistica, eleganza e finezza nelle ricostruzioni psicologiche, intelligenza nello scavo interiore e in quello sociale: un testo bellissimo, in qualche modo sperimentale per l’autrice all’inizio della carriera, e che in quel momento sta testando formule diverse (del 1863 sarà per esempio il romanzo storico Romola) per trovare una propria cifra senza rinunciare a temi a lei cari: le difficoltà della vita di coppia, la “simpatia morale” eccetera.

Definirlo, come qualcuno ha fatto, science fiction, sembra eccessivo: ma indubbiamente vi emerge un discorso su tecniche mediche d’avanguardia, nonché sui nessi di causalità, il tempo e i vari punti di osservazione da cui lo consideriamo, gestito da Eliot con straordinaria abilità. Più corretta pare la definizione di racconto gotico, ed è interessante la pubblicazione nello stesso anno di un romanzo realista come Adam Bede: diciamo però che nel Velo dissolto prosegue una riflessione sulla comunicazione umana e la sim-patia attraverso la figura di un narrante dotato di doti telepatiche. Se la parola simpatia è al centro di ogni opera di George Eliot, viene da lei considerata lo scopo vitale dell’arte, e combina sfumature di pietà e compassione in un’accezione simile al nostro termine empatia, Latimer che in teoria potrebbe capire gli altri con particolare efficacia per una sua specifica sensibilità paranormale – una chiaroveggenza combinata con elementi di preveggenza – fallisce invece rovinosamente, e dal conoscere la verità interiore altrui trae solo isolamento. Qualche critico vi ha visto una sorta di test dell’etica della simpatia portato avanti dall’autrice, con il suo forte e onesto senso della realtà; e la telepatia costituirebbe una forma metaforica adeguata per il tipo di trasferimento dei propri pensieri in altri menti attraverso la prosa. Solo George Eliot – si è detto – avrebbe potuto trattare uno spunto sovrannaturalistico in modo non solo tanto realistico, ma così eticamente rigoroso da evidenziare una serie di spiazzanti implicazioni morali e di limiti nella propria impostazione, e da sottoporre poi il tutto al giudizio dei lettori grazie a un testo-laboratorio. Dove il gioco per assurdo provoca verso un intero ventaglio di direzioni.

Si è detto che Latimer sia uno dei personaggi meno simpatici di Eliot, e probabilmente è vero: certo è un personaggio che soffre acutamente la propria capacità da X-man (double-consciousness o superadded consciousness) come una forma patologica o di disabilità grave. Latimer è oltretutto un artista che non sa creare, ed Eliot forse vi vede una proiezione della propria difficoltà a stabilire simpatia nel rapporto col lettore. L’autrice coglie l’occasione per sperimentare soluzioni narrative nuove: la scelta per lei eccezionale di una narrazione in prima persona maschile a enfatizzare una prospettiva individuale, l’ascolto dei pensieri dei personaggi e il portarne avanti le vicende con ricadute anche formali nelle convenzioni narrative su voce, nessi causa-effetto (quanto influirà Latimer sugli eventi che prevede?) e cronologia. Si è osservato come le visioni del protagonista prefigurino le tecniche del flusso di coscienza – una sorta di confessione finale articolata in flashback che diventano flashforward per la sua preveggenza, nonché ultimo sforzo di chiarire la propria realtà interiore –, qualcosa che prelude al center of consciousness di James. Di fatto il racconto, legato anche a luttuose vicende familiari, verrà considerato più una stramberia che una prova seria, e la stessa autrice lo considera la prova, “not a jeu d’esprit, but a jeu de melancolie”, di una propria non ancora raggiunta maturità artistica. La cupezza generale e la scena finale potente e nerissima lasciano perplesso il primo editore (che consiglia la forma anonima, e preferirebbe stralciare la chiusa) e lettori autorevoli ancora alla seconda edizione: e solo con la seconda metà del Novecento il testo verrà considerato nelle sue oggettive qualità. Certo si tratta di un racconto che torna a interpellare su cosa sia il fantastico, a fronte di uno sviluppo dove molto si gioca sul piano psicologico, e un io narrante almeno poco affidabile delinea tuttavia un quadro sociale e d’ambiente solido e convincente come quelli delle opere realistiche.

Il povero Latimer è (potremmo dire) un uomo senza qualità, psicologicamente fragile, e che si ritiene dotato – a seguito di una seria malattia a Ginevra durante l’adolescenza – di una opprimente abilità extrasensoriale di cogliere pensiero e futuro altrui. La storia inizia in effetti con la percezione della sua prossima morte per problemi di cuore (in data 20 settembre 1850), sa che morirà solo, senza nessuno a soccorrerlo: i due domestici, amanti, hanno litigato e la donna vuol far credere al partner di avere intenzione di annegarsi. Un quadro ironicamente nero, nella tragedia, che idealmente già prefigura le dinamiche di sentimenti grotteschi poi sviluppate nel racconto, visto che ora Latimer si volge indietro a narrare la propria storia. “Non mi sono mai legato in modo totale a un qualsiasi essere umano, e nulla mi incoraggiò a nutrire fiducia nella bontà dei miei simili”: sa bene che pietà o indulgenza si tributano ai morti,

 

Sono i vivi che non riescono a farsi perdonare, è di fronte ai vivi che l’umana carità si blocca, come la pioggia impedita dal duro vento dell’est. Finché un cuore batte, feriscilo, è la tua sola opportunità; finché uno sguardo può rivolgersi a te con umido, timido appello, spegnilo con una gelida occhiata di rifiuto; finché l’orecchio, delicato messaggero dei più riposti segreti dell’anima, può ancora accogliere parole di simpatia, levatelo di torno con dura scortesia, o ironici complimenti, o affettazione di indifferenza; finché il cervello può pulsare scosso dall’ingiustizia, e aspirare a fraterni riconoscimenti, affrettati a schiacciarlo con frettolosi giudizi e paragoni triviali e interpretazioni equivoche. Quel cuore, presto o tardi, si fermerà – ubi saeva indignatio ulterius cor lacerare nequit; l’occhio cesserà di implorare; l’orecchio diventerà sordo; nel cervello ogni desiderio e funzione saranno spenti. Allora potrai dare sfogo ai tuoi generosi discorsi, e rammentare, compiangendoli, tante fatiche e lotte e fallimenti, e concedere i debiti onori all’opera compiuta, giustificando le sue manchevolezze e anzi seppellendole nell’oblio.

 

Come anzi il brano già prefigura, la storia può essere letta anche come quella del dolore inestricabilmente connesso a relazioni sadomasochistiche. Il masochismo di Latimer verrà da lui superato diventando sadismo, il cui ultimo anello sarà forse raccontare la storia dal proprio punto di vista, trionfando – almeno in certa misura, vedremo – su quanti gli hanno fatto del male e restano semplici oggetti di narrazione, impossibilitati a far udire la propria voce. Ma l’attrazione mesmerica a Bertha mostrerà l’epifania, attraverso meccanismi in parte inconsci, di un tal tipo di relazioni malate.

La più vera malattia di Latimer, simbolicamente figurata nella sua patologia cardiaca, è la mancanza di empatia: una condizione cui pure, va detto, è stato portato da tutto un contesto familiare e sociale (ecco insomma una nota cara all’autrice). Bimbo troppo presto privato della madre – nel mondo vittoriano la vita, in particolare delle donne, è spesso breve – il ragazzino sensibile si trova marginalizzato in una famiglia di maschi rampanti: un padre anziano, banchiere e piccolo arrampicatore nella vita di contea, inflessibile e scarsamente affettivo, e il fratello maggiore Alfred bovinamente vitale, con la “cortesia superficiale delle persone di buon carattere e soddisfatte di sé, che non temono rivali e non hanno mai conosciuto contrarietà”. Tra l’altro il fratello è stato indirizzato, come parte del sociale cursus honorum, a studiare letteratura greca e latina: cioè proprio le discipline che Latimer amerebbe, mentre finisce costretto a studi scientifici e tecnici che detesta (“Non ne capivo nulla di macchine, perciò fui costretto a occuparmene intensamente”). A peggiorare il tutto ci si mette il frenologo, che ravvisa deficienze nel cranio del figlio cadetto… La dicotomia tra le passioni letterarie di Latimer e la formazione scientifica impostagli procede al passo di quella tra romanticismo e realismo che dinamizza la vicenda rispecchiando gli interessi dell’autrice; e anche la frenologia entra nel quadro di un romanzo dove – vedremo – la tensione scientifica è ben avvertibile.

Spedito a studiare a Ginevra, del cui territorio adora i panorami, ma come un poeta privo di voce lirica e che consuma tutto in una propria personalissima commozione, il narrante fa amicizia con un altro ragazzino solo, che nel resoconto cifra dietro il nome-schermo di Charles Meunier e molto più tardi avrà un ruolo importante nella vicenda.

Si sono notate affinità tra l’alienato, torpido, debole e negativo Latimer, con la sua immaginazione sregolata e delirante a base di visioni e velleitarie rêverie poetiche, e un certo profilo stereotipico assurto a notorietà letteraria attraverso le recensioni di William Edmonstoune Aytoun sulla diffusissima rivista “Blackwood’s Edinburgh Magazine” che ha ospitato – guarda caso – la prima pubblicazione del racconto: cioè la stessa rivista presa in giro a suo tempo da Poe in “Come si scrive un articolo alla ‘Blackwood’”, giocando sulle sue storie dal sapor d’exploitation. Si tratta dello stereotipo che Aytoun definiva lo spasmodic poet, in riferimento a opere un po’ troppo sopra le righe, non per mancanza di talento ma per scarso controllo intellettuale e morale sui flussi di sensibilità che sarebbero i materiali dell’arte: così per esempio il Festus di Philip James Bailey (1839), A Life Drama di Alexander Smith (1853) e il Balder di Sydney Dobell (1854). Come tali spasmodic poets – considerati una scuola con una propria poetica –, Latimer, ma in fondo anche Bertha, il padre e il fratello e lo stesso Meunier appaiono incapaci di vedere più di quanto immediatamente stimoli i loro interessi. Tutto ciò obbliga i lettori del poeta spasmodico – come appunto il malaticcio e itterico Latimer, che pure qualche domanda se la pone – a un atteggiamento attivo di pietoso sospetto.

Ma è lì in Svizzera che su Latimer si abbatte la grave malattia che chiude quella fase della vita: e approdato finalmente alla convalescenza, il ragazzo apprende dal padre che il ritorno a casa avrà la forma di un lungo viaggio in Tirolo, a Basilea, Vienna e Praga assieme al fratello e ai vicini Filmore. È appunto in quell’occasione che alla parola “Praga” Latimer si trova in balia di una scena prodigiosa sulla città che non ha mai visto: lì per lì pensa e spera si tratti dell’insorgere di un mondo interiore da vero poeta (la capacità che ha permesso a Omero, per dire, di vedere Troia), ma quando tenta di riprodurre l’effetto non riesce, e resta a studiare se stesso. Il padre lo conduce a far giri sempre più lunghi per farlo ristabilire, ma un giorno tarda: e improvvisamente Latimer lo visualizza accanto a due persone, la vicina signora Filmore e una ragazza mai vista, non ancora ventenne,

 

una figura alta, esile, slanciata, con una massa lussureggiante di capelli biondi acconciati in una architettura di trecce che sembrava troppo massiccia per il viso delicato, per la bocca sottile su cui torreggiava. Eppure quel viso non aveva un’espressione giovanile; i lineamenti erano incisivi, i pallidi occhi grigi erano acuti e al tempo stesso inquieti e sarcastici.

Ora mi fissavano con curiosità semi-sorridente ed ebbi la penosa impressione di essere investito da un vento tagliente. Il vestito verde pallido e le verdi foglie di seta che racchiudevano i suoi pallidi capelli biondi mi fecero pensare a una fata dell’acqua – perché la mia mente era colma di liriche tedesche e quella pallida donna dagli occhi fatali con i suoi verdi ornamenti sembrava sorta da qualche fredda e tortuosa corrente, figlia di un vecchio fiume.

 

A quel punto l’intera immagine sparisce e Latimer si trova solo: ma poco dopo, già preoccupato per lo strano ritardo del padre, lo vede comparire proprio con le due donne della visione, e per lo shock perde conoscenza. Quando rinviene, il padre lo tranquillizza, ha spiegato le sue condizioni fisiche ancor deboli alle signore: la ragazza è Bertha Grant, nipote orfana dei Filmore che l’hanno adottata, e il padre sospetta “ci sia del tenero tra lei e Alfred”. Ovviamente Latimer non spiega il motivo del proprio svenimento per non passare per folle davanti al genitore; ma dal giorno dopo si rende conto che a tratti la sua mente recepisce come interferenze importune i pensieri altrui, “le frivole e vagabonde idee o emozioni di una conoscente priva di interesse – come la signora Filmore, per esempio”, con una sgradevole ma esatta capacità di anticipare molte frasi o gesti degli altri. Ciò che però diventa particolarmente penoso alla scoperta dei retroscena dei discorsi di chi gli è caro, con tutto il carico di miserie umane che lui riesce a percepire come al microscopio. O almeno così afferma: rispetto a questo narratore inaffidabile, dotato di una certa intuizione e forse di doti paranormali ma presentate a posteriori a offrire agli eventi una coloritura interpretativa livida, permangono abbondanti dosi di dubbio. Se leggiamo la storia con un minimo di sensato sospetto, non manca la sensazione che il suo senso d’inferiorità giochi un ruolo importante in tutto l’insieme: e le difficoltà vissute in quella fase dall’autrice e la sua credibilità continuamente sotto esame possono ben aver parte nel modellare un simile tipo di narrante. Poi certo, l’inferiorità avvertita da Latimer trova un correttivo nel potere che ritiene d’avere – il conoscere cose che altri non sanno – e comunque, in termini pratici, nell’elevarsi a narratore lasciando tutti gli altri come semplici narrati incapaci di far valere la propria campana. In particolare di Bertha noi avremo solo un ritratto per voce ostile, liquidato in poche informazioni per quanto riguarda il passato remoto, e nella stigmatizzazione di una serie di frasi e atti per il prosieguo.

Qualche lettore va infatti oltre, considerando percezioni fallaci o truccate quelle che accompagnano la vita di Latimer e accusando gli sviluppi ultimi della vicenda come vera e propria diffamazione ai danni di Bertha: e del resto, narrando a distanza dai fatti, Latimer ha la possibilità di riscriverli secondo le proprie ubbie. D’altra parte, se colleghiamo le fatiche di Latimer di accreditare la propria versione con quelle di Eliot di far valore la propria voce, qualcosa diventa più chiaro, almeno in chiave problematica. Parecchi sono in effetti i nessi con la vita dell’autrice, dalle presenze di un madre-angelo morta, un padre forte e un fratello dal successo mondano, tali da porre in situazioni di dipendenza e inferiorità, a uno scarso amore per il proprio corpo che ostacola socialmente, a una serie di ostacoli alla stessa espressione artistica. Come Eliot dai vincoli sociali, così Latimer è ostacolato nelle sue capacità artistiche dai propri limiti: qualcosa che potrebbe richiamare a un conflitto tra genere apparente e genere vissuto, Latimer (vedremo) poco “maschile” e Eliot poco “femminile” nel senso di poco attraente. Il racconto finisce così con l’illuminare conflitti tra il genere di Eliot e la sua capacità artistica.

La simbolica del velo e la dialettica con ciò che sta oltre appare profondamente femminile: in una società patriarcale la donna resta invisibile allo sguardo pubblico, appunto come dietro un velo. Qualcosa che del resto apre a significati ulteriori la metafora del racconto. Per esempio Latimer, con la sua accentuata sensibilità giudicata come “femminile” (almeno secondo gli stereotipi d’epoca) è stato visto come un’eroina gotica, che subisce una condizione di passività, prigionia e sofferenza opprimente (l’angina pectoris in particolare, ma il catalogo dei suoi acciacchi e delle condizioni morbose ravvisabili è assai più vasto e variegato: fragilità, esaurimento, svenimenti e isteria spesso legati all’immaginario medico vittoriano sulle donne, monomania, illusione e follia masturbatoria, sulla base di categorie consolidate nella riflessione medica d’epoca). La sua stessa chiaroveggenza in abbinamento a tali connotazioni “femminili” – cioè le fragilità che Eliot lamentava negli stereotipi letterari sulla donna – sembra marcare la distanza dagli ipervirilizzati padre e fratello e dagli altri esponenti di quel tipo umano. Il “doppio cervello” che offre a Latimer una seconda, futura visione della realtà, evoca al tempo anche la teoria delle due metà del cervello, cioè un lato sinistro deputato a mascolinità, bianchezza e civiltà, e un lato destro a femminilità, follia e tendenze animalesche. La scarsa virilità di Latimer, la sua salute cagionevole e la sua fragilità psicologica fanno pensare a uno sviluppo particolare di questa parte, sia pure  in termini non esclusivi.

Il viaggio per Latimer si rivela faticoso. Sia per l’antipatia verso la presenza ingombrante del fratello “riuscito” e presuntuoso, commiserante il povero malato di casa e invece compiaciuto di una presunta adorazione da parte di Bertha (si è stigmatizzato il narrante come antipatico per la sua invidia e scarsa empatia, ma a dismettere i moralismi si può capirlo benissimo). Sia perché l’immersione nell’arte è per lui di impatto straniante, come a Vienna davanti a un certo quadro di Giorgione, “il ritratto di una donna dagli occhi crudeli che si diceva somigliasse a Lucrezia Borgia” e gli reca una strana sensazione velenosa, con la visione futura di Bertha diventata sua moglie e legata a lui da un nesso d’odio. Sia, ancora, perché a Praga potrà constatare se la città davvero assomiglia a quella della visione. Per inciso, si è suggerito che il ritratto menzionato non sia di Giorgione e si identifichi invece nel Ritratto di gentildonna nelle vesti di Lucrezia di Lorenzo Lotto (1533 circa, conservato alla National Gallery di Londra): ma Lucrezia Borgia è al tempo di Eliot al centro di una lussureggiante leggenda nera come vamp avvelenatrice e donna malvagia, quindi può ben trionfare negli stereotipi di Latimer.

Nei confronti di Bertha, per quanto assurdamente, Alfred e Latimer sono rivali: lei è l’unica persona la cui interiorità sembra sfuggire alla sovrannaturale sensibilità di Latimer. Che ne è attratto proprio per questo mistero e per una sorta di forza di contrasto: “lucida, sarcastica, priva di fantasia, prematuramente cinica, impassibile di fronte a certe scene impressionanti, pronta a sezionare tutte le mie poesie favorite e particolarmente sprezzante nei confronti dei lirici tedeschi che a quel tempo io prediligevo”, Bertha sarebbe quanto di più lontano da Latimer sia possibile immaginare. D’altra parte, considera, vi erano

 

anche altre forze in gioco, come la subdola attrazione fisica che si diverte a ingannare le nostre predisposizioni psicologiche, e induce gli uomini che dipingono silfidi a innamorarsi di qualche bonne et brave femme con caviglie gonfie e lentiggini.

 

Impossibilitato a entrare nella mente di Bertha, Latimer vive ogni giorno in sua presenza come un delizioso tormento, con dinamiche masochiste che implicano una certa forza sessuale. Ovviamente Bertha è gratificata nel suo senso di potere dall’idea che al primo incontro il ragazzo fosse svenuto per l’effetto da lei esercitato; e in presenza del fratello lo vezzeggia spregiudicatamente. Per quanto simile in singoli aspetti all’Hetty di Adam Bede (1859), alla Rosamond di Middlemarch (1871-72) e alla Gwendolen di Daniel Deronda (1876), la figura di  Bertha, almeno a livello superficiale una tra le più sinistre di una letteratura nera ottocentesca dove pure le dark lady non mancano, sembra trarre nome da quello della pazza Bertha Mason di Jane Eyre (1847): e in effetti le dinamiche di un certo gotico femminile medio-ottocentesco (si pensi anche a Cime tempestose, sempre 1847) sono qui chiaramente sullo sfondo.

La visione terribile di Bertha come moglie futura e odiata, con pensieri fin troppo trasparenti, non riesce a scalzare agli occhi di Latimer il fascino di lei ragazza impenetrabile, anche se la doppia coscienza dell’intuizione e della passione lo strazia. Osserviamo per inciso che questo prefigurare Bertha in termini tanto odiosi può ascriversi a una pure creazione mentale da parte di lui, un immaginarla che precede l’opera di scrittura: quanto cioè questa Bertha è ficta, nell’ambito di una narrazione che permette l’autoavverarsi delle peggiori profezie? I fallimenti di Latimer non ci autorizzano a sovrastimarne la capacità intuitiva e lo isolano idealmente da quanto egli stesso sostiene: la malvagia incantatrice sorta dalle sue letture dei lirici tedeschi provoca a mettere in crisi tutto l’insieme del suo storytelling. Tanto più che piccoli indizi, gesti, alcune fughe dal contatto fisico, inducono a considerare Latimer come sostanzialmente incapace di amare.

La Parte Prima del testo termina con il viaggio, e il colpo d’occhio su Praga in effetti corrispondente alla città della visione. Ma a questo punto possiamo iniziare a capire il senso del titolo “The Lifted Veil”, “Il velo dissolto”: cioè il velame – troviamo anche frequenti riferimenti a “shroud” e “curtain” – che divide lo spazio di ciò che è naturale dal sovrannaturale, comprese le dimensioni dello spirito e della morte. Le inusuali capacità di Latimer, il suo poter cogliere il futuro e i pensieri profondi delle persone attorno, sono cioè descritti come doti di veder sollevare il velo che per gli altri esseri umani resta calato: non insomma un dono ma una maledizione, che lo priva di speranze per il futuro e strappa le delizie del presente. Prima di ricevere tale peso, nell’infanzia, nutriva speranze e sogni, era un tempo cioè benedetto dalla natura – associata via via all’amore della madre perduta e poi all’emozione del mistero della vita e di una bellezza del paesaggio avvertita come materna; ma appena è reso in grado di vedere oltre tale dimensione, tutto inaridisce nell’assenza di piacere. La vera gioia della vita umana starebbe insomma nella presenza di un mistero che lascia spazio alla speranza, e a quel dubbio o interesse che motiva lo sforzo di andare avanti: e di questo filo sottile che a Latimer resta è immagine soltanto l’insondabile Bertha.

Ma c’è un secondo motivo per cui Bertha affascina tanto Latimer: la associa, fin dal primo incontro, proprio a immagini di quella natura che per lui è materna e consolatrice. Lei ha un vestito verde chiaro, appare coronata di foglie e gli fa pensare a una Nixie, spirito acquatico delle liriche tedesche che tanto lo suggestionano. Pallida, fredda, con occhi fatali, Bertha sembra sorta da qualcuno di quei ruscelli. Ancora il giorno del matrimonio, in abito bianco con foglie verde pallido, appare richiamargli lo spirito del mattino. Unico mistero rimasto nella vita di Latimer, con un volto-santuario come di qualche potenza benefica, Bertha può caricarsi così di quelle connotazioni numinose prima associate alla natura.

Va però detto che dall’inizio il lettore si trova proiettato al termine della storia, con Latimer fragile vittima e caratteristiche taglienti e pericolose di Bertha, la fata d’acqua che trascina la sua vittima sul fondo e costituisce l’opposto dell’icona – essa pure naturale – della madre di lui: le due figure di colei che ama e protegge e del pericoloso spirito d’acqua unificate nell’Undine del racconto di Friedrich de la Motte Fouqué, 1811, qui sono scisse.

La preveggenza non permette – pare – di cambiare il futuro; ma la memoria permetterebbe di sollevare il velo della temporalità, e si è vista nel racconto una critica alla poetica di un autore pur tanto caro a Eliot, cioè Wordsworth, che esaltava il peso della memoria come recezione e trasformazione dell’esperienza. In generale nell’opera di Eliot echeggia con potenza l’idea di Wordsworth del ricordo come fondamento sia della poesia sia della comunità umana, anche se in questo racconto troviamo anche la crisi della memoria: Latimer aspirerebbe a essere un poeta – diciamo così – wordsworthiano, ma la vicenda mostra il fallimento del ricordo nell’esistenza (che lui ricostruisce a flashback, a partire dall’infanzia) come nell’arte. Il ricordo narrativo – della sia vita come delle sue visioni – resta cioè sterile, e non arricchisce il narrante, ma anzi smorza sentimenti e oscura le percezioni originarie. Un aspetto peraltro non strano nel contesto di crescente sfiducia della memoria come fonte artistica e spirituale propria del periodo vittoriano, tra industrializzazione montante e senso di inarrestabile mutazione che investe lo stesso passato. Come per la simpatia, altro nodo importante della poetica di Eliot in quanto essa pure teoricamente base dell’azione morale, anche la memoria sembra qui insomma sfidata dall’autrice, testata nel laboratorio narrativo e trovata insufficiente.

(continua)

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Parigi 1804: congiure, scalpi & vampirismo del potere (Nightmare Abbey 19) https://www.carmillaonline.com/2021/09/18/parigi-1804-congiure-scalpi-vampirismo-del-potere-nightmare-abbey-19/ Sat, 18 Sep 2021 20:34:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68295 di Franco Pezzini

Nella lunga storia della letteratura vampiresca, un titolo immeritatamente poco noto è La vampira di Paul Féval. Immeritatamente per almeno due motivi. Anzitutto si tratta di un romanzo di enorme suggestione: non un capolavoro della letteratura, ma un testo ottocentesco che mette a frutto il meglio dell’evoluzione coeva del feuilleton nel precipitare il lettore in una storia onirica, tragica e grottesca. E poi il racconto trattiene echi genuinamente provocatori: lo scorcio sull’amministrazione napoleonica coi suoi maneggioni, i funzionari arrampicatori, presuntuosi e vanesî, e il rapporto con altri tipi di vampirismo [...]]]> di Franco Pezzini

Nella lunga storia della letteratura vampiresca, un titolo immeritatamente poco noto è La vampira di Paul Féval. Immeritatamente per almeno due motivi. Anzitutto si tratta di un romanzo di enorme suggestione: non un capolavoro della letteratura, ma un testo ottocentesco che mette a frutto il meglio dell’evoluzione coeva del feuilleton nel precipitare il lettore in una storia onirica, tragica e grottesca. E poi il racconto trattiene echi genuinamente provocatori: lo scorcio sull’amministrazione napoleonica coi suoi maneggioni, i funzionari arrampicatori, presuntuosi e vanesî, e il rapporto con altri tipi di vampirismo (sociale, politico) permettono alcuni sberleffi critici che adattiamo volentieri ai nostri giorni.

Diciamola tutta, l’autore è un personaggio un po’ particolare. Paul Henri Corentin Féval, cioè Féval padre (1816-1887) e suo figlio Paul Féval, cioè Féval figlio (1860-1933) con le loro opere mappano idealmente tutta l’epoca del feuilleton (alla grossa dagli anni trenta dell’Ottocento agli anni trenta del secolo successivo) e un po’ tutti i temi del medesimo, dal cappa-e-spada al poliziesco, dal gotico alla fantascienza, nelle declinazioni peculiari e folli che la produzione popolare francese contrappone a quella più canonicamente strutturata inglese. Ma se Féval figlio, apprezzabile e divertente, sta al padre come Dumas figlio al titanico genitore, è vero che in Italia conosciamo comunque assai meglio i due padri: il lettore comune non ha modo di apprezzare le specificità ad ampio raggio delle rispettive produzioni, e per esempio di Dumas figlio ricorda solo La signora delle camelie (e quasi soltanto per l’ispirazione a La traviata di Giuseppe Verdi). Scusandoci dunque con Féval figlio, lo mettiamo da parte e passiamo a suo padre, autore de La vampira e di un’altra settantina di romanzi.

Certamente non è un progressista: monarchico di famiglia, conservatore per convinzioni, celebratore continuo della Chouannerie, autore di Monsieur de Charette, nota anche come Prends ton fusil Grégoire (1853), destinata a divenire una delle più famose canzoni monarchiche francesi, Féval resta interessante per la sua scrittura, con uno stile obliquo particolarissimo speziato d’ironia, spesso ellittico, a tratti fortemente onirico. Non è male ricordare ai lettori nostrani, spesso plagiati da meccanismi di lottizzazione ideologica di piccolo cabotaggio, che uno scrittore è degno di attenzione anzitutto per le sue qualità letterarie – se ci sono – e che “Questo è nostro” è un atteggiamento imbecille, che squalifica chi lo proclama; che una critica sana cerca di capire cosa l’autore intenda e non si basa su cosa noi vogliamo fargli dire, magari a fini di arruolamento di utili idioti in conventicole altrimenti un po’ disertate per impresentabilità. E si può giustamente biasimare un certo politicamente corretto che banalizza le qualità letterarie di un autore ricordandone ambiguità sgradevolezze cadute personali (anche se è chiaro che la geremiade viene a volte elevata in modo peloso da piccoli fautori di ciò che resta il politicamente infame, o da chi sta giocando di sponda per trovare attenzione in quei giri). Certo, si ha a tratti la sensazione anche qui che gli eroi di Féval mantengano robuste ambiguità, ma La Vampire (serializzato 1855, pubblicato 1865) non è fastidiosamente ideologico e in qualche misura su quegli aspetti gioca con intelligenza.

Nella Parigi 1804 della scalata al potere di Napoleone, che si avvia alla corona, si verificano strane sparizioni di stranieri o gente della provincia, compaiono nella Senna cadaveri (a volte veri, a volte farlocchi) e si vocifera della presenza di una vampira responsabile delle nefandezze: questo strano romanzo è tutto giocato sul filo tra effettive realtà oscure e – potremmo dire – mito metropolitano nel grembo torbido di una città-labirinto, di fascino straniante. Una Parigi che l’autore conosce bene e dove ci muoviamo su pavimentazioni lucide d’acqua, tra sordide bettole e passaggi segreti, chiese per nulla tranquillizzanti e palazzotti dai mille misteri in un tessuto urbano sfuggente che sembra dilatarsi sotto i nostri piedi: uno sfondo dove prolifera socialmente una città più antica sopravvissuta alla rivoluzione e ai successivi cambi di potere. Di grande fascino, anche, l’affilata comparazione tra questa Parigi e una Londra terribile, losca e viziosa cui l’autore ha dedicato sotto lo pseudonimo di Francis Trolopp (a giocare sul nome della famosa scrittrice inglese Frances Milton Trollope, madre di Anthony Trollope) uno dei suoi primi romanzi, Les Mystères de Londres (1843-44): nonostante l’amicizia con Dickens (dal 1863), Féval non si crea certo problemi a parlar male dei vicini di Albione. Tanto più che un suo omologo inglese, George W. M. Reynolds, prolifico autore di quei penny-dreadful che del feuilleton francese costituiscono una sorta di controparte britannica, ha avuto l’ardire di varare a sua volta un’opera The Mysteries of London (1844-48). Féval lamenta un plagio, ed è possibile che Reynolds sappia del suo volume visto che spesso è in Francia ed è cittadino francese naturalizzato: ma in fondo sia Reynolds che Féval si rifanno al modello Les Mystères de Paris di Eugène Sue (1842-43), dunque anche Féval che protesta contro la pirateria inglese farebbe bene a ricordare che lui stesso riprende schemi altrui (e che a proposito di Londra pretenda di parlarne un inglese non è strano).

Che Stoker e soprattutto Le Fanu, amico di Dickens, possano aver letto o almeno conoscere i titoli e le storie vampiresche di Féval non è certo, ma sembra almeno ipotizzabile; e mi pare possibile che in Italia l’abbia letto Franco Mistrali, autore del pionieristico Il Vampiro. Storia Vera, 1869 (che – qui ammetto il mio amichevole disaccordo con il recensore Matteo Mancini in occasione della riproposta del testo per Arcoiris, 2020 – francamente fatico a immaginare letto da Stoker: mentre alcune scelte di Mistrali, legate a topoi di largo uso all’epoca, potrebbero spiegarsi in riferimento a questo romanzo di Féval).

Va detto che in parte il carattere sfuggente della vicenda è legato alle allusioni non sempre trasparenti a una puntata precedente, un altro romanzo di Féval dove già sono presenti alcuni dei personaggi, La Chambre des amours (1849), e insieme i due romanzi verranno presentati nel volume Les Drames de la mort (1866). Ma è chiaro che, con una certa obliquità, il Nostro va a nozze; e proprio l’inafferrabilità della vampira, fatta di voci incontrollabili, oniriche nella sghemba assurdità dei fatti a cui si appigliano, è uno degli aspetti più suggestivi e stranianti del romanzo. Dove troviamo le solite cospirazioni da feuilleton, in parte storiche – l’attentato a Napoleone della cosiddetta “macchina infernale”, esplosa la notte di Natale 1800, il ruolo del congiurato filoborbonico Georges Cadoudal… – e in parte fantastiche; bozzetti pittoreschi ed eccessivi, volutamente sopra le righe, dei membri della società segreta Fratelli della Virtù (l’italiano Andrea Ceracchi gemello del cospiratore Giuseppe, l’haitiano Taïeh detto le nègre devoto al defunto Toussaint Louverture, il gallese antibritannico Kaërnarvon, il mamelucco Osman che mira a vendicare la sconfitta delle Piramidi…), modellata sulla storica Tugendbund attiva in Prussia tra il 1808 e il 1810; nonché saltuarie occhiate di sguincio verso i Balcani e quell’Ungheria da dove giunge una certa contessa Marcian Gregoryi molto misteriosa e pericolosamente bella.

Già, l’Ungheria. Tra le fonti di Féval si possono in effetti ipotizzare la seminale Dissertazione di Dom Calmet che tanto spazio dedica alle remote Ungherie e un’opera che a Dom Calmet pure attinge, La Vampire, ou La Vierge de Hongrie di Etienne-Léon Lamothe-Langon (1825, a sua volta debitrice di Dom Calmet), la cui trama ambientata nel 1815 coinvolge anche Napoleone. Vi compare, undici anni prima della morta innamorata di Gautier, la prima vera vampira della letteratura francese: Alinska, una ragazza ungherese a cui durante le campagne napoleoniche il giovane ufficiale Edouard Delmont aveva promesso il matrimonio e che ora riappare nella vita del fedifrago sposato con un’altra, secondo un plot di solito declinato come storia di fantasmi. D’altra parte a ispirare La vampire di Féval potrebbe essere stata l’uscita di un dramma teatrale in cinque atti Le vampire di Dumas e Auguste Maquet (1851), sull’onda del successo del Ruthven polidoriano assurto a maschera archetipica del vampiro maschio come poi lo sarà Dracula: il succhiasangue Lord Ruthwen (sic, con la w, come in genere nei testi francesi) vi incontra una gula (ghoul-femmina) dai poteri magici che morirà da eroina romantica. Insomma, in Francia il tema del morto vivente sembra strettamente legato a quello di passioni divoranti o – appunto – vampiresche.

Protagonista della vicenda di Féval è l’anziano prevosto d’armi Jean-Pierre Sévérin detto Gâteloup, capo dei muratori del cantiere del Marchè-Neuf, nonché guardia giurata della Morgue, dall’aria del bravo borghese e in realtà abile come un agente segreto. Troviamo poi la coppietta destinata a una tragica divisione, la sua figliastra Angèle e il giovane René de Kervoz, nipote di quel Cadoudal che si fa conoscere come Morinière; c’è un improvvisato cacciavampiri piccoletto, lo studente di medicina Germain Patou devoto all’omeopatia di Samuel Hahnemann (sprofondato nella depressione, Féval stesso era stato curato omeopaticamente dal dottor Pénoyée, di cui aveva poi sposato la figlia); c’è il burocrate Berthellemot, segretario generale alla prefettura… e naturalmente c’è lei, la contessa Gregoryi, una e multipla nelle sue identità (Marcian, Lila, Addhéma…) e nei suoi doppi e tripli giochi, quasi a rifrangere in forma di Legione la pluralità di nomi, titoli e ruoli di altri personaggi, primi tra i quali Gâteloup, Cadoudal e lo stesso Napoleone. Corpi in possesso di molte identità o identità singole in possesso di molti corpi, che tendono a sperdere il lettore e rendono la lettura piuttosto complicata: ma il fantasismo è voluto, e, nel caso della contessa, questa molteplicità identitaria svela qualcosa di fantasiosamente disturbante, moltiplicando le ombre già disseminate da mille punti luce lividi, a denunciare come sfuggente la realtà stessa di un’epoca. In fondo proprio la società segreta, ha notato qualche lettore, è un’altra identità di Parigi, una controsocietà rispetto a quella borghese in corso di assestamento. Per chi sia interessato, oggi su Féval online non mancano testi di critica o persino tesi di laurea: anni fa avvicinare l’autore era molto più complicato, anche se talora restano nell’aria giudizi critici poco generosi. La vampire non è certamente letteratura “alta”, ma costituisce un romanzo gotico godibile, di buon mestiere e dalle atmosfere affascinanti. A pubblicare La vampira in Italia è Lupetti, Milano 2011, trad. dal francese di Clara Lovisetti, nella collana “i rimossi” (faccio riferimento a tale edizione).

L’ambiguità è poi rafforzata dal fatto che i vampiri di Féval – presenti qui e in altri due romanzi, Le Chevalier Tènèbre (1860) e La Ville-Vampire (scritto intorno al 1867, edito 1875, riproposto di recente da Iperwriters, 2021), cui si può aggiungere Une histoire de revenants (1881) – non corrispondono tout court al canone che si sta modellando oltremanica, e che riceverà il suo sigillo con Stoker: sia perché le non poche opere sul tema edite in Francia finivano con l’accostare il vampiro ad altre figure spettrali, sia perché Féval si diverte a immaginare creature dai connotati peculiarmente equivoci (qui si cita anche un Faust vampiro), onirici, orridi e a tratti grotteschi. A un primo livello la vampira è la stessa ligue de la vertu, la società segreta; ma c’è un secondo livello molto più strano e fiabesco il cui esito si apprezzerà solo nel finale. Poi va anche detto che l’autore sviluppa il romanzo poco per volta e potrebbe lui stesso non immaginare dove si andrà a parare alla fine.

Il primo vampiro del romanzo, sembra del resto dire Féval, pur non esplicitando mai la suggestione, è quel Napoleone che ha seminato morti a grandi numeri sulle strade del Vecchio Mondo: e il secondo vampiro è la stessa Parigi, vera e propria Ville-Vampire, con i suoi laidi bassifondi, i cadaveri che appaiono o spariscono come navigati fantasisti, la corruzione e i delitti.

I vampiri di Feval non succhiano sangue: al contrario sono (per vari motivi) molto interessati alla ricchezza, sangue di una società; e per spacciarli non basta il solito paletto. Hanno un motto, che la dice lunga anche se zoppica un po’ nel latino, In vita mors, in mors vita. In più Addhéma – la “vampira di Uszel, che la popolazione rivierasca della Save chiamava ‘la bella da capelli cangianti’, perché a volte appariva bruna, a volte bionda, alla gente ammaliata dal suo fascino”, e la cui “tomba, grande quanto una chiesa, fu trovata piena di crani di fanciulle e giovani donne”, in vita nobile bulgara complice in crimini e dissolutezze con il principe di Szandor, ha un altro e particolarissimo tipo di vincolo, “una legge rigorosa la cui infrazione costa al mostro abominevoli torture”. Infatti è in sua facoltà

 

rinascere bella come l’Amore ogni volta che riusciva a porre sull’odiosa nudità del suo cranio uno scalpo vivo, intendo strappato dalla testa di una persona viva. Ecco perché la sua tomba era piena di crani di giovani donne e bambine. Simile ai selvaggi del Nord America che scorticano i nemici vinti e portano i loro capelli come trofeo, Addhéma sceglieva nei dintorni della sua sepoltura le fronti più belle e più felici per strappare quella preda che le rendeva qualche ora di giovinezza.

Perché la sua bellezza durava solo pochi giorni. Tanti quanti gli anni della vita della sua vittima. Finito quel periodo, bisognava fare un nuovo patto e trovare un’altra vittima.

[…] Ogni volta che Addhéma, la vampira di Uszel, riusciva a scaldare le fredde ossa del suo cranio con l’aiuto di una capigliatura strappata a una persona viva, otteneva qualche giorno, persino settimane, ma a volte solo poche ore, di una nuova vita: una settimana per sette anni, un mese per dieci lustri.  Era come un gioco terribile la cui vincita poteva essere grande o piccola; Addhéma non lo sapeva mai in anticipo; ma che cosa importava, dopo tutto? Le ore conquistate, tante o poche che fossero, erano almeno tre di giovinezza, di bellezza e di piacere perché Addhéma ritornava ogni volta la splendida cortigiana di un tempo, con la sua passione di fuoco e un fascino irresistibile.

 

Ma c’è una seconda condizione fatale,

 

che non poteva infrangere pena la sofferenza di mille morti.  Addhéma non poteva darsi a un amante prima di avergli raccontato la sua storia. Nel bel mezzo di un incontro amoroso doveva raccontare quello che ora vi sto dicendo, parlando delle giovani fanciulle morte, delle capigliature strappate e riportare con esattezza la bizzarra situazione della sua morte che era una vita e della sua vita che era una morte…

 

Premesso che questo tipo di condizioni ricorda la schiavitù dell’anagramma cui è assoggettata la Mircalla di Le Fanu (che diventa Carmilla, Millarca eccetera) e ci si può chiedere se l’irlandese avesse letto il romanzo in oggetto, varie potenti suggestioni fantastiche sono consegnate al lettore. Chiariamo subito che il nesso coi “selvaggi del Nord America” non porta nessun riferimento agli Apaches di Parigi, le bande criminali della Belle Époque: il termine verrà adottato solo nel 1902. Il richiamo pesca piuttosto in una simbolica dei capelli che al tempo sta conducendo a curiosi sviluppi.

Anzitutto attraverso figure mitiche: quei capelli offrono energie, come le chiome sottratte da un’altra vamp leggendaria, la Dalila del libro biblico di Sansone, oltretutto figura archetipica della donna cospiratrice; di più, quei capelli sono vivi, come quelli di un altro mostro-Femmina che nella Parigi rivoluzionaria ha conosciuto un nuovo statuto simbolico, la Gorgone Medusa, attraverso le teste mozzate e tremende (quella sacre del re e della regina, con quanto di tabù violato quel tipo di regicidio evocasse). In generale le seduttive vamp mitiche della letteratura romantica e decadente vantano lunghe chiome nella loro strategia predatrice. D’altra parte, tornando a Napoleone, si è suggerito un richiamo al dipinto di Jacques-Louis David L’incoronazione di Napoleone (Sacre de l’empereur Napoléon Ier et couronnement de l’impératrice Joséphine dans la cathédrale Notre-Dame de Paris, le 2 décembre 1804): la corona sul capo, scalpo ideale dei Borboni decollati, rinnova simbolicamente proprio nel 1804 del romanzo la forza e la gloria della Francia, a prezzo di infinite vite sul campo: e questa dimensione virtualmente vampiresca si rifrange ai tempi dello scrittore, attraverso l’epigono del grande vampiro, il più modesto Napoleone III.

Ma c’è dell’altro, che può emergere da questo tipo di fantasie e dilaga nella società come una sorta d’infezione. Féval ricorda certamente il successo di massa – fin sulle stoviglie e nelle forme dei gioielli – dell’immagine della ghigliottina: ma, vuoi per paradosso, vuoi come forma di reazione a uno shock sociale, l’impatto toccava anche altre dimensioni della quotidianità. La cosiddetta gioventù dorata non teme di indossare abiti che richiamino le esecuzioni, come quello “à la romaine” delle giovani donne che ricorda evidentemente la camicia delle suppliziate; oppure, sotto il consolato, tagli di capelli corti o – se lunghi – con riporto avanti a liberare il collo, “à la victime”, proprio in memoria del taglio di capelli dei condannati. Medusa stessa è un’immagine di decapitata: se gli scalpi che Addhéma preda sono vivi, lo sono fino a un certo punto perché appartengono a vittime fatte morire; e qualcosa del genere vale per il capo di Medusa, ancora in grado di pietrificare ma appartenente a un mostro morto. C’è un portarsi addosso la vita che è insomma anche un indossare la morte, secondo suggestioni di moda in Francia a ridosso della rivoluzione. Se la Francia dell’Ottocento è la patria di una varietà di acconciature – con connotazioni sessuali più o meno accentuate, come in quelle che vedono capelli lunghi – tali da conoscere nel tempo adattamenti e trasformazioni, questa di Addhéma ne costituisce la lettura macabra e necrofila.

Tanto più che i capelli umani sono oggetto di un ampio mercato: ancor oggi, emerge dal web, ma certo con abbondanza in passato. Nel primo Ottocento, in Francia, le parrucche vanno in desuetudine, essendo legate soprattutto – ma non solo – alla classe aristocratica falcidiata dalla rivoluzione, e Addhéma si presenta come aristocratica. Ma i capelli possono essere anche predati: e alla fine dell’Ottocento il feticismo dei capelli fa il suoi ingresso trionfale nei trattati psichiatrici. A volte attraverso grottesche aggressioni da strada per tagliar alle passanti ciuffi di capelli: anche se l’aggressione non è necessaria, come mostra questo caso dalla Psychopathia Sexualis di Richard von Krafft-Ebing.

 

Caso 147. – Una certa signora X. mi raccontò che la prima e la seconda notte di matrimonio suo marito si era accontentato di baciarla, di affondare le mani nella capigliatura di lei, veramente non abbondante, dopo di che si metteva a dormire. La terza notte, il marito portò a casa una parrucca fittissima di capelli lunghi, e pregò la moglie di mettersela in testa. Tosto ch’essa lo fece, il marito compensò largamente la propria mancanza ai doveri coniugali.

La mattina dopo ricominciò ad essere tenero con la moglie, accarezzando, per incominciare, la parrucca. Appena la signora X. si toglieva la parrucca, che le dava fastidio, perdeva immediatamente ogni attrattiva pel marito. La signora, persuasa che si trattasse di un capriccio, si prestò ai desideri del marito, al quale voleva bene, e la cui concupiscenza e potenza sessuale dipendevano dalla parrucca. Ciascuna parrucca rimaneva efficace solo per 15 o 20 giorni. Doveva essere abbondante; il colore non aveva importanza. L’attivo, del bilancio coniugale era dato, dopo cinque anni, da due bambini e da una collezione di settantadue parrucche.

 

Dove sembra di estremo interesse il tema della durata di efficacia della parrucca, che fa pensare alla durata diversa di vitalità di quelle usate da Addhéma.

La serialità di morti servili – in funzione banalmente dello scalpo – e l’uso di un sangue che ringiovanisca ha fatto pensare a qualche commentatore che Féval conoscesse la figura di Erzsébet Báthory: in realtà pare implausibile, perché la prima citazione di una certa notorietà del profilo della contessa sanguinaria è quella, come “Elizabeth …”, in The Book of Were-Wolves del sacerdote e mitografo Sabine Baring-Gould, del 1865, dunque troppo tardiva. Féval avrebbe al massimo potuto conoscerla da qualche fonte derivata dall’opera dell’erudito gesuita László Turóczi Tragica historia, 1729 (ma sembra francamente difficile).

Si è posta comunque in risalto l’estrema, inusuale sensualità del tema qui evocato: Addhéma cerca oro per comprare un bacio – il termine, si è detto, potrebbe in realtà evocare qualcosa di sessualmente molto più vivace – dal suo amante vampiro maschio, Szandor: a presentare l’eros vampirico come sostanzialmente mercenario (ricordiamo che anche la Clarimonde di Gautier viene presentata come una cortigiana). Con tutti gli altri amanti vale però un altro “pagamento”, il tabù di dover narrare la sua storia: e Addhéma lo aggira fingendosi un’altra. Anche se ciò non esclude che a smascherarla possa essere una rivelazione onirica, come qui accade a un certo punto.

Ma, come si è detto, vampiro è qui anzitutto Napoleone. Féval non lo sbeffeggia direttamente e nonostante tutto sembra averne un relativo rispetto; ma ne critica il carrozzone di seguaci, la politica come grande meretricio che porta morti a legioni (oggi non più in campagne militari su territorio europeo) e comunque uccide dentro, il potere suppurante in una città labirintica vampira essa stessa. E se, a una lettura odierna del romanzo, di Napoleoni in giro proprio non ne vediamo, il carrozzone è comunque ben saldo e i cortigiani (solo di altro genere) restano al governo. In vita mors, in mors [sic] vita.

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Un caffè con la contessa (Zona-Carmilla III) https://www.carmillaonline.com/2021/06/26/un-caffe-con-la-contessa-zona-carmilla-iii/ Sat, 26 Jun 2021 20:45:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66912 di Franco Pezzini

(Il contributo che segue è stato presentato a un convegno co-organizzato tempo addietro dall’editore Odoya sul tema del caffè).

In una serie di incontri sul tema del caffè un intervento sulla narrativa gotica dell’Ottocento può sembrare un intruso. In realtà un nesso c’è, in relazione all’immaginario di un’epoca e a ciò che il caffè evoca a lettori vittoriani, ma in fondo sottotesto ancora a noi, che di quel mondo abbiamo recepito nelle nostre categorie profonde una serie di sogni e suggestioni.

Come noto, Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) è il [...]]]> di Franco Pezzini

(Il contributo che segue è stato presentato a un convegno co-organizzato tempo addietro dall’editore Odoya sul tema del caffè).

In una serie di incontri sul tema del caffè un intervento sulla narrativa gotica dell’Ottocento può sembrare un intruso. In realtà un nesso c’è, in relazione all’immaginario di un’epoca e a ciò che il caffè evoca a lettori vittoriani, ma in fondo sottotesto ancora a noi, che di quel mondo abbiamo recepito nelle nostre categorie profonde una serie di sogni e suggestioni.

Come noto, Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) è il primo e – in pratica – l’unico scrittore occidentale dell’Ottocento ad aver dedicato a una bevanda non alcolica, il tè, una storia di fantasmi. Nel racconto lungo “Green Tea” il motore degli eventi è appunto il tè verde – curiosamente proprio un tipo di tè cui in generale si attribuiscono effetti benefici, che sembrano confermati da studi recenti: nella vicenda l’abuso di tale bevanda determinerebbe per uno sventurato ed erudito reverendo l’apertura dell’occhio interiore, permettendogli la percezione degli “spiriti incorporei” e conducendolo al suicidio. Il testo, edito inizialmente nel 1869 sulla rivista di Dickens All the Year Round, è un gioiello di eleganza narrativa e sorniona ambiguità, con un occhio alle stesse abitudini dell’autore (che, come attesta il figlio minore,

 

Risvegliatosi verso le due del mattino si preparava del tè molto forte – ne beveva tantissimo – poi scriveva ancora un’ora o due, in quel periodo strano della notte in cui la vitalità umana viene meno e in cui si dice che le potenze occulte abbiano il sopravvento

[S. M. Ellis, “Joseph Sheridan Le Fanu”, The Bookman, 51, no. 301, ottobre 1916, p. 20, cit. in Malcolm Skey, Introduzione a Joseph Sheridan Le Fanu, Racconti del soprannaturale, a cura di M. Skey, Theoria, Roma-Napoli 1990, p. VII]

 

– qualcosa che può dirla lunga su un certo filone della produzione di Le Fanu); e vara almeno tre novità clamorose nella ghost story. Anzitutto, il fantasma in azione è il primo – almeno a mia conoscenza – a fare la sua comparsa in tram, più precisamente su un omnibus vuoto la sera. In secondo luogo risulta provocatorio il tipo di vittima, rappresentante di una categoria di uomini di Dio ormai incapaci di gestire il rapporto con lo spirito: tenta solo blande terapie salutiste, si consuma nell’orrore e invoca Dio un po’ in ultima istanza, con una debolezza che sconfina nella poca convinzione. E in ultimo, provocatorio è anche il profilo dell’esperto chiamato dalla vittima, il dottor Hesselius capostipite di tutta una schiera di detective dell’impossibile fino a Dylan Dog e al duo di X-Files: in realtà un supponente cialtrone, pronto a deresponsabilizzarsi allegramente davanti al cadavere cullandosi nel ricordo di ben altri suoi successi.

Fin qui il tè. Ma il caffè? Facciamo un passo indietro.

 

 

  1. “Our coffee and chocolate”

Le Fanu è stato giudicato il più grande scrittore vittoriano di ghost stories. Un’etichetta che non deve suonare riduttiva: tanto più dopo gli eventi del bicentenario dalla nascita (1814/2014) si sta acquisendo a livello collettivo il dato della ricchezza di sfaccettature della sua opera, aperta a una pluralità di generi e di squisita qualità letteraria. E anche in Italia si inizia a smarcare questo versatile, eclettico, colto scrittore irlandese dall’etichetta un po’ riduttiva “autore di Carmilla” con cui per anni è stato semplicisticamente etichettato: dove però si guardava non tanto a quel suo romanzo breve tardo e bellissimo, quanto a tutta una serie di film birichini di succhiasangue lesbiche più o meno a esso ispirati. È invece con questo rispetto per la complessità di un profilo autorale che proprio a Carmilla vorrei tornare sul filo della provocazione di questo convegno: e per quanto il romanzo in questione sia noto – la storia di una vampira adolescente, che insidia l’amica Laura prima di essere distrutta da un gruppo di vecchi, tutti di sesso maschile – non pare inutile riassumerne le caratteristiche in chiave introduttiva. Così capiremo cosa c’entri il caffè.

Come ha scritto qualcuno, Le Fanu è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi. Così, nell’ambito di una vicenda tutta giocata sul potere vampirico della malinconia, la vergine funesta Carmilla emerge quale doppio della narratrice, la coetanea Laura: emerge e anzi erompe evocata dalla solitudine di lei e da un inconosciuto, divorante desiderio – un volto oscuro, sovversivo e irresistibilmente seduttivo che le allusioni del romanzo (ben più di certe scollacciate rivisitazioni filmiche) circonfondono di pericolosa minaccia sessuale. Laura è prigioniera in un mondo di vecchi, e forse non a caso la vicenda è ambientata in quella Stiria (regione oggi divisa tra Austria e Slovenia) la cui “little capital” Graz era chiamata scherzosamente “Pensionopoli”, in quanto classico luogo di ritiro di ufficiali e funzionari come suo padre (inglese ma a servizio dell’amministrazione asburgica). Nessuna sorpresa dunque se proprio il Mondo Vecchio da cui la narratrice aveva cercato scampo tramite Carmilla muoverà per stroncare quella pericolosa, irrisolta ribellione: una realtà profonda che Laura, non-morta alla vita, non riesce a razionalizzare e la condanna alla deriva schizofrenica del rimpianto.

A ben vedere la vicenda di Carmilla (pubblicata a puntate sulla rivista The Dark Blue, 1871–72) rappresenta una ghost story di confine, e nell’ambiguità del personaggio è compresa una dimensione spettrale, fantasmatica e inafferrabile sopravvissuta persino al cinema in una certa libertà dagli stereotipi vampireschi del canone (pseudo)stokeriano. Si può dunque serenamente concordare con critici come Malcolm Skey nel riconoscere a Le Fanu piuttosto che a Dickens lo scettro di principe della ghost story vittoriana: ancora in età postfreudiana la collezione di doppi e spettrali persecutori evocati da Le Fanu sul crinale ambiguo tra psiche e oltretomba appare portatore di genuine inquietudini ai lettori. Ma inquietudini, appunto, a un livello molto particolare: in Carmilla non ci sono “buoni”, visto che da un lato la giovane vampira resta un mostro dal profilo sadiano (emblematiche le sue posizioni gelidamente illuministe), e dall’altro nel parallelo accanimento dei suoi avversari emerge tutto il vampirismo di una senescenza che non è solo dato biografico ma culturale e sociale. Una rifrazione di meccanismi molto concreti, come entro uno specchio oscuro: e non a caso In a Glass Darkly è appunto il titolo della raccolta cui Le Fanu raccorderà nel 1872 non solo Carmilla ma anche “Green Tea” e altri testi di persecuzioni spettrali.

È comunque nel micromondo dello Schloss stiriano dove si consuma il dramma che noi troviamo citato per due volte il caffè. La prima è al cap. III, quando si descrive il fin troppo sontuoso soggiorno dove Laura e le governanti sono use prendere il tè perché il padre inglese “con le sue solite inclinazioni patriottiche […] insisteva che la bevanda nazionale dovesse fare regolarmente la sua comparsa insieme ai nostri caffè e cioccolata” [“with his usual patriotic leanings […] insisted that the national beverage should make its appearance regularly with our coffee and chocolate”]: a mettere insomma in scena una sorta di contrapposizione tra il tè filobritannico del padre e gli esotici, ma per Laura nostri – vedremo in che senso – caffè e cioccolata. La seconda volta è all’inizio del cap. VI, dopo uno strano malessere di Carmilla, l’enigmatica ragazza lasciata ospite allo Schloss dopo un incidente in carrozza da una madre troppo indaffarata: tornate in salotto, riferisce la narratrice, “ci sedemmo davanti ai nostri caffè e cioccolata, anche se Carmilla non ne prese affatto” [“had sat down to our coffee and chocolate, although Carmilla did not take any”], mentre il padre di Laura arriva – anche qui – a prendere la solita tazza di tè. In apparenza si tratta di menzioni non particolarmente significative: ma in realtà entrano in tutto un tessuto d’ambiente a suggerire qualcosa d’interessante.

In tempi recenti lo studioso Matthew Gibson è riuscito a individuare il testo primo d’ispirazione per la narrazione di Le Fanu: non una storia del sovrannaturale e tanto meno di vampiri, ma un memoriale di viaggio, Schloss Hainfeld; or a Winter in Lower Styria (London and Edinburgh, 1836), a firma del capitano inglese Basil Hall. Ospite per molti mesi con i propri familiari nello Schloss stiriano di un’anziana amica di suo padre, Hall potrebbe essere una spia o (se preferiamo) un osservatore britannico, come tanti di quei capitani ottocenteschi a zonzo per il mondo i cui coloriti resoconti giungono al pubblico dopo un filtraggio di informazioni più capillari e importanti ai servizi di Sua Maestà – ma il fascino del memoriale Hall non riguarda chissà quali eventi. Da un lato sta piuttosto in una narrazione d’ambiente in un paese e tra mura dove il tempo sembra essersi fermato, e della cui alterità questi educatissimi inglesi annotano con curiosità usi e costumi; dall’altro, come Gibson rileva dall’analisi del testo, è possibile ravvisarvi una fitta serie di elementi ispiratori per il tessuto di Carmilla, a partire proprio dalla contessa potenziale modello (per motivi diversi) dei personaggi speculari di Carmilla e Laura.

Benché titolare, in quanto vedova di un aristocratico stiriano, di quello strano castello e dei benefici connessi, la contessa Purgstall è scozzese di nascita, all’anagrafe Jane Anne Cranstoun, amica di Sir Walter Scott e ispiratrice per la sua traduzione della Lenore di Bürger: dunque a cavallo tra le due culture un po’ come la Laura di Le Fanu, che è figlia di un padre britannico e di una madre stiriana. Sentendosi vicina alla fine, la contessa fa di tutto per render gradito il soggiorno agli Hall e trattenerli al castello: stanca di tanti dolori (ha perso il marito e l’unico figlio giovanissimo), bloccata nel letto da dove dirama lettere al mondo e direttive alla servitù, questa eccentrica, brillante, ingombrante, simpaticissima dama non vuole morire tra servi stranieri, lontana da qualcuno che condivida la sua cultura d’origine; e in effetti, dopo un lungo tira-e-molla di partenze annunciate e rinviate, gli Hall finiranno col lasciare il castello soltanto dopo che la contessa ha chiuso gli occhi. Non è questa la sede per indagare le connessioni tra Carmilla e il memoriale; e limitiamoci a interpellarlo per quanto riguarda il rapporto tra il tè filobritannico e gli stranieri “coffee and chocolate”.

Per quanto riguarda la cioccolata, bevanda che come sappiamo viene dalle Americhe, dal punto di vista del lettore britannico la suggestione prima è di esotismo, anche se l’antico olmeco kakawa è ormai tra Sette e Ottocento molto diffuso in Europa. Le prime botteghe del caffè, nella Venezia settecentesca, offrono anche cioccolata, a unire le sorti delle due bevande; e una grande produttrice come Torino (in quel Piemonte che aveva ricevuto il cacao insieme a Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, moglie nel 1585 del duca Carlo Emanuele I di Savoia) esporta cioccolata non solo nella vicina Francia ma in Svizzera, Germania e persino in Austria. È dunque anche possibile che sia torinese la cioccolata di cui parla il testo: avendo appreso che la figlia maggiore degli Hall apprezza molto tale bevanda a colazione, la contessa fa acquistare per lei il cacao necessario non nel vicino smercio di Feldbach ma nel capoluogo Graz.

 

Così un uomo fu effettivamente spedito a cavallo, alle tre del mattino successivo, fino a Gratz, a una distanza tra le trenta e quaranta miglia, per procurarsi un particolare tipo di cioccolata realizzata secondo una ricetta da principessa dei Salmi. In modo analogo, quando scoprì che alcuni di noi preferivano il tè al caffè, non si accontentò di quello del villaggio, o anche di quello prodotto a Vienna, ma scrisse subito a un commerciante di Trieste di mandarle non una libbra o due, ma un’intera cassa del tè migliore e di più recente importazione!

Le nostre proteste contro questo tipo di stravaganza furono del tutto vane […]

 

Questo passo, l’unico nel memoriale Hall a citare la cioccolata, è interessante anche perché la associa alle altre bevande, ed è probabilmente sull’onda di questa suggestione che Le Fanu abbinerà cioccolata e caffè contrapponendole al tè.

Hall cita solo poco più spesso il caffè: oltre che nel passo riportato (cap. IX), lo menziona a proposito della difficoltà sul continente di trovare una prima colazione decente, col risultato spesso di lasciar perdere e prendersi una “tazza di caffè e un avanzo di pane in silenziosa disperazione” (cap. IV) – dove comprendiamo che non ci è abituato e vi si adatta come a un uso straniero. In altri due passi menziona il termine in forma composta: accennando cioè prima alla coffee-room in Irlanda in cui ha appreso una certa “drinking song”, una canzone da bevitori che ora lo vediamo usare con un certo successo quale ninna-nanna per il figlio più piccolo (sempre cap. IX); e poi nel richiamare un racconto della contessa dove una coffeehouse in un indeterminato “south of Europe” – plausibilmente in Italia – è teatro di una vendetta (cap. X).

Si potrà obiettare che non è molto su cui lavorare, e in effetti Le Fanu gioca il tema delle bevande anzitutto quale elemento di atmosfera. Del resto ai suoi tempi le coffeehouse appaiono modicamente esotiche quanto oggi un pub in Italia: già a fine Seicento ne esistevano parecchie in Gran Bretagna (la prima a Oxford, 1652, e tra la fine del secolo e l’inizio del successivo più di tremila nella sola Inghilterra), per cui due secoli dopo al tempo di Le Fanu fanno ormai parte del panorama consueto di esercizi pubblici. Eppure la menzione del caffè presenta un significato più significativo, legata alla scelta del set stiriano e all’individuazione stessa dei suoi fantasmi.

 

 

  1. Genere ed esotismo

Laura parla di “our coffee and chocolate”, probabilmente nel senso generico dei nostri soliti caffè e cioccolata: e possiamo immaginare lei, le governanti e poi la stessa ospite Carmilla intente a fare merenda nel sontuoso salotto con brocche e dolcini. Ma a ben vedere, grattando un po’ sotto la superficie, la simbolica contrapposizione evocata riguarda idealmente due ambiti o piani diversi. Da un lato una contrapposizione – potremmo dire – di genere, tra l’unico abitante maschio del castello (almeno dall’ottica classista ottocentesca, la servitù non conta) che beve tè, e le donne che bevono caffè (e cioccolata); dall’altro un’opposizione a livello culturale di usi etnici, tra l’inglese con la bevanda patriottica e tutti gli altri, compresa la figlia mezzosangue (la madre di Laura era stiriana).

Dal primo punto di vista si può osservare che a rigore anche i patriarchi amici del padre di Laura bevono probabilmente caffè, e per contro il tè rimanda all’ombra materna della patria britannica; ma fermandosi al micromondo quotidiano dello Schloss la bipartizione di genere sembra netta. Carmilla è tutta una saga di padri troppo presenti e per contro di madri sfuggenti, fantasmatiche (la madre morta di Laura, se vogliamo la stessa patria britannica lontana) o vampiresche: qualcosa di estremamente interessante se ricordiamo che Le Fanu era un padre vedovo e molto preoccupato dei propri figli (la sua giovane moglie malata di nervi era morta in circostanze non chiarite nell’aprile 1858 il giorno dopo un “hysterical attack”, lasciandogli addosso dolore e sensi di colpa). In scena allo Schloss sono dunque le regole chiare, socialmente consolidate del mondo paterno, quello del tè che per i lettori del romanzo è un po’ l’emblema della normalità imperiale britannica. Ma sotto quella superficie, tra sogni e incursioni spettrali, si entra nella realtà delle madri – e anche le bevande sono diverse.

Fin qui sul genere, fronte che in Carmilla vede poi innescare una serie di discorsi (pensiamo solo al tema della sessualità omoerotica che ha reso famoso il romanzo) che però porterebbero lontano dall’argomento caffè; mentre c’è anche l’altro livello della contrapposizione tra le due bevande, cioè un piano etnico e in definitiva geopolitico. Il memoriale Hall accenna un po’ fuggevolmente che la Stiria si trova in un punto strategico dello scacchiere europeo, un punto caldissimo del limes dell’impero asburgico nei secoli precedenti ma ancora al tempo una zona critica sulle soglie dell’irrequieta Ungheria e dei Balcani. E a rendere un po’ tutto questo sul piano iconico è la descrizione nel memoriale dell’impressionante rocca in rovina di Riegersberg (per inciso, proprio di proprietà dei Purgstall) meta di una gita pittoresca della brava famigliola, ma per secoli bastione di difesa contro l’incombente minaccia ottomana. Qualcosa che in chiave allusiva evoca alla fantasia del lettore Le Fanu una serie di suggestioni sul senso di un’ombra perturbante, ormai non-morta ma torpidamente infettiva, sorta di radice di mali pronti a esplodere nel presente: un’associazione sottostante l’apparente idillio Biedermeier tra tazze di tè e caffè del mondo di Laura. Cioè l’associazione tra Turchi e vampiri, rimarcata nel romanzo attraverso elementi diretti e indiretti.

Certo in Carmilla i portatori del morbo vampirico sono gli stiriani ungheresi Karnstein, e si è letto nell’apologo una metafora delle preoccupazioni politiche dell’irlandese protestante Le Fanu di lealtà britannica per l’insorgere del nazionalismo ungherese: la Stiria insomma come proiezione/trasfigurazione fantastica dell’Irlanda e dei rischi di una parallela questione nazionale praticamente nel cuore dell’impero britannico. Ma a monte la vampiresca instabilità dell’area è associata all’ombra dei turchi: qualcosa che nel tardo Ottocento può avvicinare il “Grande Malato” d’Europa – come lo zar Nicola I chiamava sogghignando l’Impero ottomano che tanto terrore aveva sparso, mentre ora perde colpi – all’immagine del vampiro, parassita non-morto, minaccia di un mondo ormai passato e ombra disturbante (putredine amministrativa, dominio autocratico, motivo d’instabilità internazionale) attraverso la polveriera balcanica.

Sarà Stoker con Dracula (che per inciso cita tre volte il caffè, e la prima è il conte stesso a lasciarlo pronto per Harker) a evocare emblematicamente l’ombra ottomana nel contesto di una storia di vampiri, ma attingendo a novelle e romanzi precedenti: e appunto anche a Carmilla, dove però il motivo turco è giocato in modo implicito, allusivo e – potremmo dire – perturbante. I richiami più evidenti sono nella menzione della “Serbia turca” tra i paesi afflitti dalla credenza nel vampirismo, e nell’immagine intravista di sfuggita (nella carrozza che conduce Carmilla al castello, cap. III), e che oggi avvertiamo come politicamente scorrettissima, di un’“orrenda donna nera con una specie di turbante colorato in testa” [“hideous black woman, with a sort of coloured turban on her head”] che annuisce, ghigna e stringe i denti. Da un cenno enigmatico di Carmilla, quella megera moresca con tanto di turbante potrebbe chiamarsi Matska, forse ricollegabile a una costellazione di termini dell’Europa orientale significanti “gatta” (bulgaro machka o matska, lo sloveno mačka): se in effetti le vampire del clan Karnstein sembrano metamorfizzare in gatte, in quel caso si tratterebbe di una “Gatta turca”. Ed è suggestivo notare che per esempio a Celje nella Stiria slovena un albergo si chiami ancora Turška Mačka, “Gatta turca”, a evocare (ovviamente senza alcuna connessione con Le Fanu) un animale dai connotati reali – le specie turche di gatti a pelo lungo – che insieme interpella l’immaginario. Ma a fronte di questo gioco di allusioni non sembra una forzatura riconoscere anche nel caffè, bevanda tipica del levante turco, un tassello del mosaico. Fin dal mondo antico la nerezza è associata all’esotismo. Si pensi agli Etiopi “faccia-bruciata” distinti in due stirpi e collocati ai confini ultimi meridionali e orientali del mondo: passati tanti secoli, in un immaginario solo apparentemente più moderno, aperto a un planisfero geograficamente ma non miticamente più ampio, anche le bevande dei confini del mondo, caffè e cioccolata, sono nere. Qualcosa che sedimenta nello stesso immaginario sugli Ottomani, nella cui amministrazione sono presenti funzionari di etnie diversissime e anche di colore. La tradizione del caffè viennese troverebbe radice, lo sappiamo, nell’accidentale scoperta a Vienna liberata dal secondo assedio turco, 1683, di strani frutti tra le masserizie nemiche: e insomma una bevanda esoticamente mora – in contrapposizione al colore chiaro del tè – e associata proprio al conflitto con gli Ottomani pare ben evocativa di questo referente turco un po’ sottotesto e perturbante, ma attivo nell’immaginario dei lettori di Le Fanu.

Di più. Un gruppo di aristocratiche “orientali” accompagnate da una mora turchesca, magari una nutrice che avrebbe trasmesso loro l’infezione vampirica, nei sottocodici delle fantasie occidentali riconduce al tema dell’harem. Un harem come quello evocato dalla principale raccolta pittorica europea di esotismo “all’ottomana”: le Turqueries collezionate guarda caso in Stiria (prima al castello di Vurberk, oggi in quello di Ptuj), da una famiglia guarda caso britannica-stiriana, i conti di Herberstein e Leslie, di origine scozzese. Non sappiamo se Le Fanu ne fosse a conoscenza – magari anche da qualche fonte dei giornali su cui lavorava, perché Hall non ne parla – ma se così fosse, avrebbe potuto ispirargli l’episodio di Carmilla sul restauro dei ritratti dei Karnstein coevi, guarda caso, alla collezione Herberstein-Leslie. Una parte della quale è stata anche esposta a Trieste, nell’ambito del ciclo di eventi I turchi in Europa (2006): e ne facevano parte ritratti di dignitari e parecchie figure femminili, idealizzazioni di donne dell’harem del sultano a firma di un pittore stiriano, e databili almeno in parte al 1682. C’era anche il ritratto di un kizlar agasi, capo delle guardie dell’harem, nero e col turbante: una figura ovviamente classica dell’amministrazione ottomana, e le cui rifrazioni nell’immaginario occidentale costelleranno arti figurative e letteratura per tutto l’Ottocento – basti pensare alla novella di Théophile Gautier, “La morte amoureuse”, 1836, dove un simile personaggio è al servizio della gentile vampira Clarimonde. Non è necessario immaginare che Le Fanu si sia ispirato a Gautier, trasformando il moro di Clarimonde nella spiacevole “black woman” intravista sulla carrozza di Carmilla, ma il bacino di suggestioni è il medesimo. D’altra parte, a fronte dell’immagine autoritaria offerta da Le Fanu della madre di Carmilla accompagnata da una simile megera moresca, si può pensare anche a un altro caposaldo della letteratura fantastica: cioè quel Vathek di William Beckford (1782, pubblicato 1786) dove, in un contesto più marcatamente orientale e che avvertiamo ancora più affrontante per le nostre categorie ideali, l’altrettanto autoritaria madre del protagonista si accompagna a donne nere orride, mute e guerce. Il muto sogghignare della “black woman” di Le Fanu potrebbe suggerire una derivazione diretta. Ma in ogni caso, come nota Joan DelPlato nel suo studio ormai classico Multiple Wives, Multiple Pleasures. Representing the Harem. 1800-1875 (1953), la bevanda classica che l’immaginario ottocentesco associa all’harem, luogo di torbido assoggettamento e sensualità arcaiche, è proprio il caffè.

Che, gravido di tutta una simile fantasmagoria di suggestioni, non stupisce ora di trovare presentato come opposto al britannicissimo tè. Un riferimento che, persino al di là della volontà dell’autore, ben si armonizza con un intero tessuto di sottocodici: a richiamare l’idea di un passato che non passa – le minacce dal predatorio Oriente, le sue corruzioni, instabilità e fascinose sensualità – e tutti i relativi turbamenti.

 

 

  1. “Una temporanea animazione”

Tanto più che potrebbe sussistere un’altra associazione simbolica.

Si è citato il Vathek di William Beckford, una delle opere seminali dell’immaginario ottocentesco sull’Oriente, e che per esempio influisce potentemente su Byron. Ma proprio Beckford in un’altra opera sembra offrire una chiave interessante. Nella versione definitiva del suo travelogue in fittizia forma epistolare Italy; with Sketches of Spain and Portugal, 1834, con memorie dal Grand Tour 1780-81 (già apparse come Dreams, Waking Thoughts, and Incidents, 1783, e profondamente rivedute), fornisce tra l’altro un resoconto vivissimo del suo soggiorno a Venezia mezzo secolo prima, luglio-agosto 1780: e nota come gli “Asiatics” trovano gli usi della città lagunare

 

molto simili ai loro. Poltrire in un caffè per ore, assaporare a lungo un sorbetto, sono abitudini che si accordano perfettamente con gli usi degli abitanti dell’Impero Ottomano, i quali passeggiano impettiti per Venezia, abbigliati nei costumi tipici, fumando le loro pipe esotiche, senza suscitare alcuna sorpresa o meraviglia, come invece accadrebbe nella maggior parte delle capitali europee.

[Lettera V, in: William Beckford, Lettere veneziane, a cura di Paolo Pepe, La scuola di Pitagora, Napoli 2012, p. 63].

 

La Venezia descritta da Beckford è in effetti una città fortemente orientale, al punto da veder presentata San Marco con una “grande moschea” (Lettera III). Ma a interessarci anche di più è un altro riferimento, a proposito di un incontro del giovane viaggiatore con alcuni gentiluomini veneziani

 

in uno dei loro casini. L’ampio appartamento guardava sulla piazza; era formato da cinque o sei stanze arredate con gusto decisamente frivolo, senza fasto né eleganza; c’erano luci dappertutto. Le signore che incrociai esibivano abiti succinti e acconciature scomposte; nei loro occhi si leggeva la trama di innumerevoli avventure. Gli uomini, invece, se ne stavano abbandonati sui sofà o vagavano per le stanze.

L’intero consesso sembrava sul punto di addormentarsi quando venne servito il caffè. Questa bevanda magica indusse una temporanea animazione, e per un momento la conversazione procedette con tocchi di piacevole stravaganza; ma fu davvero questione di attimi: ogni scintilla si spense e non restarono che carte e stupidità.

[…] Solo verso l’una la compagnia fu al completo; la lasciai alle tre – quasi tutti addormentati sui tavoli da gioco, fra tazzine di caffè.

[Ivi, Lettera III, p. 43]

 

E più avanti, parlando in generale dei veneziani (del bel mondo, s’intende), Beckford incalza:

 

Sfibrati da precoci dissolutezze, i loro nervi non riescono a esprimere una vitalità naturale; al massimo, e solo a momenti, una frenesia febbrile e del tutto artificiale. Gli assalti del sonno, rintuzzati solo grazie a un uso smodato di caffè, li lasciano fiacchi e svogliati; la facilità, inoltre, con cui si può essere trasportati da un luogo all’altro in gondola contribuisce non poco ad accentuare la loro indolenza. Sotto questo aspetto, secondo me, non si discostano molto dalle cadenze dei loro vicini orientali che, fra l’oppio e gli harem, trascorrono la vita in uno stato di perpetuo torpore.

[Ivi, Lettera III, p. 45]

 

Il lettore di Vathek, scritto dopo quel viaggio, può facilmente ricollegare a tale scene il finale del romanzo: da un lato, il salottino dell’inferno con tanto di sofà dove alcuni dannati conoscono una temporanea, angosciatissima dilazione alla pena per il tempo di narrare “innumerevoli avventure”; e dall’altro il vagare frenetico e idiota, febbrile e quasi sonnambulico tra le sale di Satana/Eblis di quanti invece già stanno scontandola. Proprio a quella scena, tra l’altro, Beckford intendeva raccordare i cosiddetti Episodes – alcuni pervenuti, altri autocensurati o incompleti – che avrebbero dovuto diramare labirinticamente la trama in forma di Mille e una notte ad alto tasso erotico e omoerotico. E guarda caso a Venezia Beckford – cui le frequentazioni omosessuali causeranno un lungo esilio dalla patria – aveva intessuto una “fatale intimità” con un giovane nobile (non sappiamo se di casato Vendramin o Corner), una “passione criminale” che ve lo farà tornare nel 1782. Una storia insomma simile a talune degli Episodes e censurata come quelli, perché le diverse versioni del travelogue non ne dicono nulla di esplicito (a parlarne è la corrispondenza epistolare).

Che Le Fanu, autore di un caposaldo della narrativa omoerotica come Carmilla, conoscesse il Vathek e la fama omosessuale di Beckford può dirsi certo; non sappiamo però se ne avesse letti i travelogue o ricordasse questi scorci di lettere veneziane. Sia come sia, la fiacchezza e il torpore dei nobili lagunari descritti ricorda quello della linfatica, astenica, languida contessina Carmilla; e quel “caffè […] bevanda magica [che] indusse una temporanea animazione, e per un momento la conversazione procedette con tocchi di piacevole stravaganza” richiama insieme i caffè allo Schloss e le saltuarie riprese della giovane ospite, temporaneamente rinfrancata da un umore di diverso contenuto chimico, ma come quello capace di rintuzzare il sonno e rianimare.

Menzionate di sfuggita e in apparenza come tocchi di colore, quelle tazze di caffè nello Schloss stiriano di un caposaldo del gotico dell’Ottocento restano dunque al centro di una vertigine di allusioni e suggestioni che però esondano dallo specifico d’epoca. A ricordarci che in fondo il linguaggio del fantastico, recettore di ansie privatissime ma anche storico-sociali nel contesto dell’epoca di scrittura, resta una forma efficace, un linguaggio-laboratorio prezioso per parlare oggi delle nostre inquietudini personali e collettive, dagli scontri sul tema del gender alle diffidenze verso un orizzonte multiculturale.

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Augusta Wampyrorum https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/augusta-wampyrorum/ Sat, 19 Jun 2021 21:23:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66804 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, per i tipi Odoya (pp. 400, € 25,00), Città di Castello 2021 – dove lo scarto tra i due termini anglosassoni folk e pop (entrambi resi in italiano con l’aggettivo popolare) è colto come tensione e contaminazione. Un’altra coppia di fattispecie resta però implicita, quella tra Folk Horror e Urban Wyrd: il volume, attraverso saggi e brevi narrazioni, affronta in chiave liberissima il primo ma con aperture al secondo, oggetto di un successivo volume dei curatori al momento in preparazione. In questo, tra storie di lupi e fantasie su Lovecraft in Italia, etruscologia metapsichica e teatri della morte, anime pezzentelle, bambole sinistre, sopravvivenze sciamaniche, massoni a Trieste e tanti diavoli, è apparso anche un contributo di chi scrive sulla genesi di un fortunato mito pop da giornali della sera emerso nella Torino degli anni Settanta e ormai assurto a brand: The Wicker Town. Torino magica & orrore popolare. Se ne riporta uno stralcio.

 

[…] Nella galleria di Haining & Parker [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, I colibrì Mondadori 1972, a poca distanza dall’originale inglese Witchcraft and Black Magic, 1971, con un meraviglioso corpus d’illustrazioni di Jan Parker – cfr. qui] non manca uno spazio sui vampiri: e la bellissima raffigurazione di un volto inquietante con occhi azzurri, capelli rossi e labbro leporino, la consistenza incorporea venata però da una circolazione malsana, che emerge in un cimitero con aria maligna e assetata, è accompagnata da una spiegazione (un po’ banalizzante, ma tant’è) deliziosamente vintage.

 

Recentemente fantasiosi romanzi e films (specialmente quelli su Dracula, personaggio creato da Bram Stoker) hanno reso molto popolari questi “mostri” che molto probabilmente erano solo persone che soffrivano di disturbi mentali, bandite a causa della loro brama morbosa per il sangue [Peter Haining, Stregoneria e magia nera, cit., p. 93]

 

Tra le concause del revival magico si può senz’altro identificare – si è detto – il decennio di successo capitalizzato dai film gotici Hammer, a partire dai primi a fine anni Cinquanta con i quattro moschettieri Cushing, Lee, Fisher, Sangster (due attori, un regista, uno sceneggiatore) a innesco di una straordinaria operazione di mitopoiesi: e Haining pensa proprio a quelli. Non è questa la sede per un’analisi del fenomeno, dove la riappropriazione di un’eredità gotica inglese già sfruttata e buttata oltre oceano, ristrutturata film dopo film in chiave di sistema mitologico, si accompagna alla vera e propria liturgizzazione di misteri pagani: e tutto ciò attraverso storie che sempre più innervano i classici del fantastico di concessioni a una cultura del magico (riti, culti, sette…) covata nelle Isole Britanniche fin dall’Ottocento, poi rinverdita dai fasti popolari delle tesi negli anni Venti/Trenta di Margaret Murray sul presunto “dio delle streghe” e dal successo popolare dei romanzi di Dennis Wheatley. La provocatoria saldatura tra tutto questo e una Swinging London per una breve stagione tornata centro del mondo offre una nuova marcia all’horror popolare saldando nostalgie e nuove provocazioni. E incentivando lo sviluppo di filoni dall’origine autonoma come la (grande) stagione del gotico italiano su schermo.

Certo il pantheon (o pandemonium) Hammer comprende un’estrema varietà teratologica: ma altrettanto certamente i vampiri vi vantano un ruolo e un fascino particolare. Sia quelli della vecchia generazione – in particolare Dracula/Lee, vero mattatore dell’epoca nonostante le continue frenate dell’interprete che teme di restare confinato nella parte – sia le sempre più disinibite nipotine del ciclo Karnstein, Carmilla & Co. In rapporto da un lato, del resto, con un boom vampiresco nel segno della trasgressione, a cavalcare un’euforia sessuale d’epoca che vede ammorbidirsi drasticamente le maglie della censura: si pensi alle belle succhiatrici di Jean Rollin e Jess Franco, a La novia ensangrentada di Vicente Aranda, 1972, allo stesso recupero filmico di una figura amata dai surrealisti fin dagli anni sessanta, la Contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, da cui la definizione per i primi anni del nuovo decennio come “the Golden Age of the Lesbian Vampires”. E dall’altro con l’entusiastica divulgazione da parte di Raymond T. McNally e Radu Florescu dell’esistenza di un Dracula storico, Vlad III Țepeș, argomento presto amato dalle riviste anche italiane [cfr. qui].

Inevitabile che il successo della creatura liminare per definizione – tra vita e morte, materiale e spettrale, umano e bestiale, ripugnante e seducente – influisca anche sui miti di una città liminare quale Torino. Dove fantasie vampiresche sono attestate in realtà da parecchio tempo, sia pure in forme liberissime: si pensi all’opera lirica Il vampiro di A. De Gasparini rappresentata per la prima volta proprio in città nel 1801; alla commedia satirica in cinque atti Il vampiro del torinese Angelo Brofferio, 1827; allo sfarfallare vampiresco attorno a due veronesi eccellenti insediati a Torino, cioè Emilio Salgari (che ben prima della truce saga uruguayana Il Vampiro della foresta, 1902, aveva messo in scena un Sandokan “che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi” in La Tigre della Malesia, 1883-1884, protoversione a forti tinte del poi rielaborato Le tigri di Mompracem, 1900) e Cesare Lombroso (che definisce il serial killer Vincenzo Verzeni “Sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana” e viene omaggiato da Luigi Capuana della sua novella Il vampiro, 1904). Anche non in presenza di un nesso diretto, la pratica (barocca, ma perpetuata a lungo) di conservare nelle chiese corpi santi sotto cera che riempiva d’orrore me bambino traghetta a quella dimensione di cadaveri inquietantemente conservati che trova qualche eco anche nella mitologia vampiresca.

Un discorso a parte andrebbe poi condotto sulle pratiche di assunzione di sangue per via orale: a volte per mantenere un aspetto giovanile (come nel caso della “vampira di Torino” Agnese Draghetti, originaria di Serralunga d’Alba e morta novantottenne nel 1785 a Villadeati, nell’Alessandrino, ma vissuta a lungo nella Contrada degli Angeli, poi chiamata Contrada della Dogana, attuale via Carlo Alberto, al n. 2, che girava i sobborghi pagando giovani donatrici di piccole quantità ematiche); a volte a fini di cura dell’anemia, anche se in quel caso si ricorreva normalmente al sangue animale dei macelli, e la pratica è attestata diffusamente nell’Italia dell’Ottocento.

È una fiaba scherzosa la storia dell’uomo vampiro catturato nel 1863 in città: riportata sul sito del C.A.U.S. – Centro Arti Umoristiche e Satiriche, racconta di questo tipo enorme tenuto agli arresti domiciliari in uno spazio annesso alla caserma di San Salvario onde svolgere con più efficacia il compito di salassare secondo prescrizioni mediche (al tempo normalmente gestito con sanguisughe). Alla sua morte, così vien detto, la municipalità lo ricorderebbe favorendo l’inserimento sulle case di San Salvario di immagini vampiresche (ovviamente i mascheroni sulle facciate degli edifici torinesi presentano spesso fattezze più o meno richiamabili a tali tipologie). Vera e propria leggenda metropolitana è invece quella del vampiro di San Mauro Torinese che nell’autunno 1947 semina il panico soprattutto in due frazioni confinanti con Torino, Cascina del Molino e Barca, guadagnandosi gli onori della cronaca. Occhi fosforescenti, vestito di nero, cappa e cappello da montanaro, morderebbe il collo a donne sole e soprattutto giovani; ma presto emerge che la voce è stata messa in giro per frenare un po’ le figliole in un momento in cui, terminata la guerra, sembra più difficile trattenerle da fughe serali. E tuttavia un’aggressione vera e in apparenza analoga – almeno secondo la vittima, che però non ha il tempo di perdere sangue – si verificherebbe poco dopo in corso Matteotti, pieno centro di Torino. Impossibile ormai stabilire la consistenza dei fatti.

Ma coi nuovi tempi il richiamo assume un altro peso. È difficile non cogliere un nesso in chiave di sogghigno colto tra le pellicole vampiresche Hammer e un’opera-chiave del fantastico torinese, L’ultima notte di Furio Jesi (1941-1980), eminente studioso del rapporto tra miti e storia: un romanzo di vertiginosa erudizione e scintillante, divertita intelligenza composto tra il 1962 e il 1970 – in due versioni piuttosto diverse – e pubblicato solo postuma da Marietti nel 1987 (riedizione per Nino Aragno, 2015). Jesi, autore anche della voce “Vampiri” nel Grande Dizionario Enciclopedico Utet e della fiaba vampirica La casa incantata (Vallardi, 1982, poi Mondadori 2000), mette in scena nel romanzo il tentativo di rivincita dei vampiri, stirpe altra un tempo dominatrice della Terra: Dio concede loro, stanco dei guasti prodotti dagli uomini, di riprendersi quanto hanno perduto. Conquisteranno quasi tutto il pianeta, ridando spazio alla natura che gli uomini hanno violato in tutti i modi – torniamo insomma al fiato apocalittico di un’epoca – e proprio a Torino, dove i vampiri hanno installato il quartier generale nella Torre littoria sovrastante Piazza Castello, avverrà lo scontro definitivo. Tra scontri in piazza, piccoli eroi e profittatori, affannati conciliaboli coi santi e giochi anche di piccolo cabotaggio tra Cielo e mondo umano, il risultato lascerà intravedere la fine della Terra…

Con lo sguardo pure alle nuove provocazioni e insieme a una Torino-osservatorio è il film fantastico, visionario e ironico di Corrado Farina Hanno cambiato faccia, 1971, dove il dipendente di una grande azienda torinese dell’auto, Alberto Valle, viene invitato – novello Jonathan Harker – nella villa di campagna del presidente, l’ingegner Giovanni Nosferatu interpretato da Adolfo Celi. Nel parco si aggirano come lupi delle Fiat (pardon, Auto Avio Motor) 500, e il povero Valle dovrà constatare la natura vampiresca dell’industriale e del suo potere sui mezzi di produzione e di comunicazione.

Negli anni che seguono, l’icona del vampiro è molto presente nell’immaginario, veicolata a Torino attraverso pubblicazioni popolari, giornali, proiezioni del Movie Club – piccolo ma importante, sul tesserino figurava l’immagine di Dracula/Lee – e programmazioni sulle prime minuscole televisioni private locali: dove con molta fortuna, in assenza di segnalazioni dei palinsesti, ci si poteva imbattere in quei film horror ancora banditi dalla tv di Stato (la mia prima visione di Dracula il vampiro, incontrato al tempo su una di queste reti, parte in effetti da metà film). La ribellione magica dei Settanta trova nel vampiro eversore di ogni punto fisso di natura e cultura un’icona eminente, e nelle fantasie dei miei anni di liceo (conclusi nel 1980) si tratta di uno degli archetipi fantastici più amati; anche se sul tema non compaiono al tempo e per qualche decennio altri romanzi o produzioni di rilievo torinesi. Negli anni Ottanta, con l’inabissarsi dell’icona vampirica al cinema, si sviluppa però in Italia una vera e propria critica in tema di fantastico, iniziano a moltiplicarsi edizioni di autori introvabili (come Le Fanu, per esempio la bella edizione Sellerio di Carmilla, 1980, o la proposta di altri suoi testi per Serra e Riva e soprattutto per Theoria); e con il revival gotico dei Novanta e nuovi mezzi come i VHS anche la cinematografia sul tema inizia a essere più avvicinabile.

 

Vampiri di passaggio

Un discorso a parte può poi valere per alcuni dei citati (presunti) visitatori a Torino abbinati a storie vampiresche. Si parte naturalmente dall’esorcista di protovampire Apollonio, antenato virtuale di Van Helsing & Co.; mentre il vampiro Nostradamus interpretato da Germán Robles in alcune pellicole messicane (1960-62) sarebbe un solo ipotetico figlio del veggente. Quanto all’immortale Saint-Germain capace a sua volta – secondo alcuni racconti – di cacciare parassiti sovrannaturali, lo troviamo assurgere a vampiro buono nei romanzi di Chelsea Quinn Yarbro: a partire da quell’Hôtel Transylvania, 1978, proposto in Italia agli esordi (2005) della breve gloriosa stagione gotica della Gargoyle di Paolo De Crescenzo, a sua volta grande fucina editoriale di storie di vampiri.  

 

Una svolta si ha a Torino con il nuovo millennio, che vede uscire a breve distanza il film Io sono un vampiro di Max Ferro, 2002 – dove il non-morto attraversa i secoli dall’assedio del 1706 alla nuovissima movida – e il romanzo erotico/ironico L’ultima ceretta di Anna Berra per Garzanti, 2003: quest’ultimo avrebbe anzi dovuto intitolarsi Bevimi, a saldare suggestioni da Alice in Wonderland con le suzioni di una setta (umana) praticante il vampirismo in una villa di zona Crocetta. Qualche suggestione vampiresca emerge anche nella sua bella raccolta Piume di sangue. 69 racconti noir, Enrico Casaccia/Co.RE Editrice, 2009 [per un suo lavoro più recente in tema vampiri, cfr. qui]. In Quarto di luna per i tipi SBC, 2008, il musicista Marco Gallesi inscena invece l’arrivo a Torino di un vero vampiro, il soldato tedesco Rutger Haussman, trasformato durante la battaglia di Stalingrado; e vampiri vi porta Carla Oddoero/Blake B (Blink), che nel 2010 inizia a raccontare la saga di Zora von Malice, ventisettenne non-morta svegliatasi all’improvviso in una villa decadente della collina, edita in due volumi per i tipi Golem, La curiosità uccide il gatto e Il silenzio è dorato (l’autrice è purtroppo mancata prematuramente nel dicembre 2017). Più avanti nella città inizia e termina – anche se gran parte è ambientata a Budapest – il romanzo Tutto quel buio di Cristiana Astori per Elliot, 2018, nuova avventura della cacciatrice di film perduti Susanna Marino: la ricerca della prima pellicola su Dracula di attestata produzione, Drakula halála di Károly Lajthay, 1921, conduce a confrontarsi con le dimensioni vampiresche dell’uomo e della Storia. E ancora è chiaramente Torino la città non identificata della storia fantasiosissima e lugubre, e soprattutto vampiresca, narrata da Ade Zeno in L’incanto del pesce luna per Bollati Boringhieri, 2020.

Ma ormai e sempre più i vampiri sono raggiungibili via internet, mentre fioriscono iniziative aperte al tema come il TOHorror Film Fest, fondato nel 1999 e in progressiva crescita, alcuni eventi sgranati negli anni (per esempio la mostra Diversamente vivi al Museo Nazionale del Cinema, tra settembre 2010 e febbraio 2011) e spazi nell’ambito di realtà museali come il MUFANT – MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza. Non stupisce peraltro che proprio a Torino, tra Centro, Borgo Medievale e Valentino vengano girate scene della seconda stagione di A Discovery of Witches (Il manoscritto delle streghe), produzione televisiva britannica – 2018-in produzione  – ispirata alla Trilogia delle anime di Deborah Harkness, fitta di fattucchiere e appunto vampiri.

Certo, le storie di non-morti come normalmente presentate non sono ascrivibili a un contesto di Folk Horror o Urban Wyrd. E tuttavia attraverso il tessuto della Torino magica si può parlare di una sorta di obliquo genius loci. Che non movimenta ovviamente i Dracula Tour; ma in una città dagli scorci barocchi come le capitali mitteleuropee delle grandi epidemie vampiriche, e dove i non pochi richiami letterari e cinematografici al tema mantengono sottotono un’elusività tutta piemontese, un intero itinerario nel segno del vampiro potrebbe essere agevolmente disegnato sulla mappa urbana. Una Torino/Karlstadt, a dirla con la Hammer, tra gli uffici di grandi aziende e le chiese con corpi stranamente conservati, le palazzine di sette vampiresche e quel certo negozio (ormai chiuso) di San Salvario dove si trovavano un po’ sottobanco i film sulle vampire di Franco e Rollin; tra il pop dei Seventies, dalla vertiginosa saldatura di miti, e quello di oggi, coi real vampires che rilasciano interviste e la stessa domanda che mi è capitato di sentirmi porre (con serietà, e senza citare Emilio de’ Rossignoli) se credo nei vampiri. A un livello più sottile, per capire la natura di Augusta Wampyrorum occorre considerare come detto la circolazione negli anni Settanta dei primi testi di cinema horror, le apparizioni dei film di vampiri sfarfallanti e sgranate sulle prime tv locali, le fantasie di adolescenti che nell’icona dell’arconte dell’indecidibile – anni luce prima del mieloso Twilight – ritrovavano qualcosa delle loro inquietudini. Ma poi, e sempre più mentre crescevamo, emergeva la percezione di un vampirismo come sopravvivenza di dimensioni non-morte nella storia e nella società italiana, che hanno soltanto cambiato faccia: qualcosa certo non esaurito in Torino, ma che sul set della città di passaggio (già prima capitale, già capitale industriale, già città olimpica, eccetera eccetera) trova un teatro eccellente, a suo modo emblematico. […]

 

P.s. Seguendo i consigli di un’amica specializzata in Lingua e letteratura romena, adotto in questo pezzo la lezione  Augusta Wampyrorum invece che Augusta Vampyrorum come nel contributo al volume o in altre precedenti occasioni.

 

 

 

 

 

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Il dottore e i diavoli (Zona-Carmilla II) https://www.carmillaonline.com/2021/06/11/il-dottore-e-i-diavoli-zona-carmilla-ii/ Fri, 11 Jun 2021 20:35:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66719 di Franco Pezzini

“Una strana malinconia si stava insinuando in me, una malinconia che non avrei voluto interrompere”: e in Carmilla di Le Fanu tale confessione di Laura, protagonista dal cognome taciuto come in un caso clinico a tutela della privacy, in apparenza ha poco di sovrannaturale, parlando piuttosto la lingua di un’intera storia medico-antropologica su malinconia e malinconici. A svelare peraltro gli stessi sintomi fisici e psichici di astenia e languore linfatico già ravvisati in precedenza nell’amica da lei ospitata – quella Carmilla che, evocata come riflesso di specchio con tanto di [...]]]> di Franco Pezzini

“Una strana malinconia si stava insinuando in me, una malinconia che non avrei voluto interrompere”: e in Carmilla di Le Fanu tale confessione di Laura, protagonista dal cognome taciuto come in un caso clinico a tutela della privacy, in apparenza ha poco di sovrannaturale, parlando piuttosto la lingua di un’intera storia medico-antropologica su malinconia e malinconici. A svelare peraltro gli stessi sintomi fisici e psichici di astenia e languore linfatico già ravvisati in precedenza nell’amica da lei ospitata – quella Carmilla che, evocata come riflesso di specchio con tanto di opposizioni speculari, si fa anche in ciò specchio di lei, nell’ambito di un vampirismo della rifrazione assai più che dell’infezione (come invece poi in Stoker).

Eppure in Carmilla c’è molto altro, un vertiginoso repertorio di quei motivi letterari, artistici, scientifici, filosofici del dibattito ottocentesco sulla donna connotati in molti casi dagli scienziati patriarchi come patologie: la donna quale specchio o imitatrice della realtà, attrice per natura, immagine lunare; la donna sonnambula, ninfomane, isterica, spossata (magari per onanismo, mentre al narcisismo femminile si raccorda al tempo quell’omosessualità femminile alla cui esistenza la regina Vittoria semplicemente non crede), malata, morente e stesa nella bara. E insieme la rilettura di antichi miti allusi o anagrammati (si pensi alla classica divisione demonologica tra incubi, che attenterebbero alla purezza femminile, e succubi, sfiancatrici di maschi: in Carmilla, con uno spiazzamento dei ruoli sessuali, l’aggressione è appunto nel segno dell’omosessualità), con il sapore di un’ossessione in cui la denuncia del disagio non conduce a una vera liberazione.

Nello specchio oscuro del Perturbante l’autore ravvisa tutta una dimensione di peccato, a partire forse da quello per antonomasia, un antico suicidio: poi, come a scorrere l’elenco dei peccati capitali, accidia, ira e superbia (Carmilla infuriata che vanta la ferocia dei suoi antenati), voracità orale e sessuale, e quest’ultima nelle tinte fosche dell’omosessualità tanto deprecata, dell’incesto (tra l’antenata e la discendente; tra la madre defunta di cui Carmilla è proiezione e la figlia-vittima) e del sadismo associato alle lesbiche da antichi pregiudizi. Peccato e sterilità che coinvolgono peraltro in profondo, problematico rapporto il mondo vecchio attorno a Laura: e l’impalamento della vampira salva solo in apparenza la giovane vittima. All’ineluttabilità angosciosa del tempo ciclico, anagrammatico delle incarnazioni in continuo ritorno (Mircalla, Millarca, Carmilla…), subentra così, reintegrata nella sua ineluttabilità altrettanto soffocante, quella del ciclo sociale della donna vittoriana.

Carmilla, con il suo repertorio psicopatologico ascritto alla nebulosa del vampirismo, si svolge in un castello di quella Stiria – al tempo ancora intera, oggi divisa tra Austria e Slovenia – la cui “piccola capitale” era Gra(t)z. E curiosamente proprio a Graz, come gemmato dagli incubi demonologici di Le Fanu, sarebbe sbocciato pochi anni dopo un nuovo repertorio nel segno dell’eros trasgressivo.

Richard Fridolin Joseph Freiherr Krafft von Festenberg auf Frohnberg, titolato von Ebing – più brevemente Richard von Krafft-Ebing – nasce in Germania, a Mannheim nel Baden-Württemberg il 14 agosto 1840 e si specializza in psichiatria all’Università di Heidelberg: nel 1872 apre una clinica psichiatrica a Strasburgo e l’anno dopo gli viene affidata la direzione del nuovo manicomio della Stiria a Feldhof presso Graz, nonché la cattedra di psichiatria presso l’Università locale. Nel 1874 a Graz accoglie la moglie (1874), la tedesca Maria Luise Kißling (1846-1903) e apre la clinica che gestirà fino al 1880. Dal 1885 diventa professore ordinario: e sono gli anni in Stiria a vedere il varo e la circolazione di una serie di sue opere – Die Melancholie: Eine klinische Studie, 1874 (sulla fattispecie da cui siamo partiti, e che richiama solo in parte i concetti moderni di depressione e ipocondria), poi Grundzüge der Kriminalpsychologie für Juristen, 2ª edizione 1882 – preparatorie a quella che lo renderà celeberrimo presso un pubblico non solo scientifico,  Psychopathia Sexualis, 1886. Ritiratosi solo sessantaduenne per motivi di salute, muore sei mesi dopo a Graz il 22 dicembre 1902 nel generale compianto: “Era di natura molto nobile”, ricorda il necrologio della Wiener Klinische Wochenschrift, “era commovente e gentile con i suoi pazienti. Niente poteva turbarlo, possedeva un perfetto autocontrollo, si dimostrava all’altezza di ogni situazione. La sua figura alta, la sua andatura ferma, il suo sguardo calmo, il suo volto dall’espressione profonda avevano spesso un effetto meraviglioso sui pazienti più agitati”.

Psychopathia Sexualis, di cui PGreco ha riproposto in Italia (due voll., Milano, 2011, pp. 1000 complessive, € 48,00) l’edizione 1952 condotta sulla sedicesima e diciassettesima tedesca con la revisione di Albert Moll (1862-1939), non è soltanto il testo base della psicopatologia, prezioso per la relativa storia – previa ovvia ridefinizione di una serie di concetti –, per la sua ricca documentazione clinica, circa cinquecento casi, e per la stessa tensione a mappare in una summa ciò che poteva sembrare non mappabile, cioè i fremiti delle camere da letto. Sull’onda dell’evoluzionismo darwinista, l’erotismo non procreativo rivelava secondo Krafft-Ebing caratteri involutivi e degenerativi – e merita ricordare il successo incontrato tra i due secoli dall’idea di degenerazione, si pensi solo a Entartung (1892, a ideale prodromo delle polemiche più tarde sull’“arte degenerata”), di quel Max Nordau citato anche in Dracula assieme a Lombroso a proposito del vampiro come criminale per natura. Forte della passione tassonomica dello scienziato darwiniano ma anche di certi demonologi dei secoli andati (con passi scabrosi tradotti in latino per circoscriverne l’indicibile a un pubblico di studiosi), la pseudomonarchia daemonum della Psychopathia Sexualis identifica una serie di profili degenerativi, attraverso resoconti simili a quelli di penitenzieri ed esorcisti del passato, costringendo in qualche modo i demoni a rivelare i propri connotati, a quel punto canonizzati nella storia psichiatrica. Ecco dunque presentare nomi e caratteristiche di un’intera costellazione legata al sadismo (uccisione per libidine, necrofilia, atti di violenza su persone adulte, imbrattamento di donne… e anche vampirismo) e al masochismo, e poi feticismo, esibizionismo, quell’omosessualità che Krafft-Ebing considera perversione incurabile ed ereditaria, pedofilia, gerontofilia, zoofilia… Interessante è che l’autore attribuisca i nomi a due parafilie sulla base di referenti letterari, Sade (1740-1814) al sadismo e Leopold von Sacher-Masoch (1836-1895) al masochismo – anche se in questo secondo caso l’interessato non gradisce l’onore. Sacher-Masoch, nato a Lemberg in Ucraina (al tempo provincia dell’impero austriaco), s’era spostato a studiare a Graz dove poi aveva ottenuto un incarico universitario: morirà in Germania, ma il set di Graz resta associato a lui quanto a Krafft-Ebing. Anche se parte della produzione letteraria di Sacher-Masoch è precedente a Carmilla, 1871-72 (Venere in pelliccia esce subito prima, nel 1870), è implausibile che Le Fanu possa aver già notizie delle sue specifiche fantasie. Mentre conosce credibilmente quelle di Sade: Carmilla ostenta tratti palesemente sadiani.

Tra l’altro, malinconia e vampirismo hanno un certo peso nella Psychopathia Sexualis, che cita più volte il termine vampiro con riferimento all’accezione folklorica. Se però è difficile che Krafft-Ebing conosca il romanzo di Le Fanu (che altrimenti citerebbe), lo scrittore irlandese non ha certo potuto trovare ispirazioni nel suo repertorio: nello stesso anno in cui Carmilla conclude l’uscita a puntate, 1872 (Le Fanu muore l’anno dopo), lo psichiatra tedesco diviene professore all’università di Graz, e solo nel 1886 pubblicherà la propria summa. Ovviamente Le Fanu, giornalista, può disporre di informazioni parziali sui temi poi sviluppati da Krafft-Ebing, tramite voci di alienisti o altri specialisti della psiche, interpellati per esempio nel contesto delle cure a sua moglie (per la vicenda, cfr. qui); ma insomma si tratta di un classico caso in cui turbamenti d’epoca colti in forme parallele – e attraverso, va detto, infiniti rivoli d’informazione – hanno condotto a opere potenzialmente ricollegabili. Inevitabile pensare ai casi repertoriati da Hesselius, misteriosi in senso non tanto maggiore quanto diverso.

Che il testo pionieristico di Krafft-Ebing sia utile ancora oggi per una serie di categorie professionali – come afferma nel 1952 l’introduttore Piero Giolla – al di là di alcuni severi limiti che si impongono per il rinnovarsi degli studi e la diversa lettura oggi maturata di fattispecie come l’omosessualità, possiamo in termini elastici ancora sottoscriverlo. Come ricorda il profilo dell’autore in quarta di copertina, “L’intera comunità scientifica del Novecento è stata influenzata dai suoi studi, non solo la moderna psichiatria, ma anche la psicanalisi freudiana”. Ma la caratteristica affascinante è che quest’opera abbia da un lato plasmato l’immaginario a livello persino più ampio, e dall’altro presenti caratteri letterariamente ricchissimi: in buona sostanza, possiamo leggerla anche come un’affascinante epopea letteraria, una Commedia umana dei pozzi interiori di un’intera società, dalle fasce più alte (vi compaiono monarchi e principi, oltre a un inconoscibile brulicare aristocratico del mondo mitteleuropeo, compresi nobiluomini fasulli) alle frange più miserevoli delle classi più basse. E in scena non sono soltanto camere da letto o studi medici, ma salottini, biblioteche (nei frequenti richiami alla letteratura e alla storia), stalle, luoghi pubblici (strade, per esempio, di città diversissime ma rese sfuggenti dalla sobrietà dei cenni) o aperti al pubblico, con una varietà di set che rende la lettura, a prescindere dagli aspetti morbosetti, di straordinario e intatto fascino d’ambiente. Inevitabile pensare all’Uomo della folla di Poe: ora l’uomo sembra non esser più un libro maledetto che non si lascia leggere, e il tentativo è proprio di esplorarlo negli angoli bui del suo labirinto.

Al di là dei drammi umani e delle tragedie criminali – c’è anche Jack the Ripper – troviamo scene da commedia grassa o tali da richiamare il Woody Allen di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere), del resto ispirato all’omonimo testo del sessuologo David Reuben. E poi siparietti surreali alla Ionesco, tracce di equivoci che traghettano alla storia concitata dell’erotologia (“Per fortuna la satiriasi è rara. L’affermazione che essa possa aver luogo in seguito ad avvelenamento con cantaridi, potrebbe dipendere da un equivoco fra satiriasi e priapismo”, ed è inevitabile pensare al famoso caso dei confetti afrodisiaci alla cantaridina che Sade offre nel 1772 a cinque ragazze all’Hôtel del Treize Cantons di Marsiglia, con risultati assai meno drammatici di quanto si favoleggerà) e molto altro. Compresa – ripetiamolo – un’attenzione competente alla letteratura dell’eros, dal mondo antico ai menestrelli e fino ad autori moderni: Swift, Goethe, Kraus, e molti altri, citati ora come testimoni, ora invece come soggetti d’indagine. Certo, fa un po’ effetto trovar citato con serietà di testimone il burlone Léo Taxil più noto per la beffa della presunta massoneria satanica…

All’esame delle singole fattispecie psicopatologiche, seguono riflessioni su problemi teorici ed eziologici, sulla diagnostica, su terapia e prognosi, con Note di aggiornamento psichiatrico e psicologico di Renato Boeri (risalenti ovviamente agli anni Cinquanta dell’uscita italiana), poi un capitolo sulle psicopatie sessuali dal punto di vista forense (tedesco) con Note di adeguamento al Diritto italiano di Piero Giolla (anch’esse ovviamente datate). I retroscena sociali e antropologici avvertibili tra le righe rendono il testo una straordinaria panoramica storica: tanto più che le “code” all’opera di Krafft-Ebing – di cui si parla in genere in terza persona – richiamano a una Mitteleuropa dove sta covando qualcosa di ben peggiore delle parafilie descritte.

Nell’opera infatti, di cui Krafft-Ebing ha gettato il basamento ma che è stata arricchita da studi successivi per tutti i primi decenni del Novecento, troviamo profili umani e sottomondi miserabili e depressi che possono richiamare quelli de Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex (ambientato del resto nel 1903, coevo dunque di vari fatti narrati), ma anche – come detto – ambienti socialmente più elevati, a un po’ tutti i livelli: istitutori che puniscono maliziosamente discepoli, seri professionisti colti a svelare incresciose propensioni esibizionistiche, assoggettamenti sessuali che conducono a fatti di sangue, soavi fanciulle alla scoperta di perversioni fantasiosissime, bravi borghesi che conoscono erezioni mentre giocano a simulare azioni di guerra disegnando ferrovie, strade e città di un territorio – fregole estremamente interessanti nell’Europa che si appresta ai grandi conflitti mondiali. O persino mentre tracciano sulla carta quadratini in progressivo raddoppiamento o reti di triangoli equilateri, in una vertigine erotico-astrattiva piuttosto surreale…

Per qualche vicenda, come accennato, è inevitabile pensare a Carmilla – non tanto perché le figure descritte assomiglino a quelle di Le Fanu, ma per dettagli e suggestioni di un contesto torbido. Certo, il sadismo della misteriosa contessa tedesca St. (titolo acquisito per matrimonio, e prontamente separata dal marito) “nota per la sua grande collezione di strumenti sadistici”, sembra si esaurisca, alla prova dei fatti, nel piacere più modesto del tirare energici sganassoni ai malcapitati: finirà “uccisa da un giovane di buona famiglia estremamente innamorato di lei e che si suicidò immediatamente dopo l’omicidio”. Ma altri casi sembrano condurre in zona più prossima a Le Fanu, e val la pena dilungarsi un minimo:

 

Per quanto riguarda le specie da me osservate di atti sadistici compiuti da donne, non sono a mia conoscenza casi tipici di uccisione per libidine o di necrofilia; sono invece numerosissimi i casi di donne che hanno l’impulso a mordere l’uomo sulle labbra, sulle braccia, sul collo, sul petto, ecc. ; su essi sono manifestamente di una frequenza straordinaria. Alcune donne si accontentano di infliggere un forte dolore, in altre invece sorge il bisogno di veder sgorgare il sangue. Va citata a questo riguardo l’osservazione seguente di Krafft-Ebing:

Caso 94. – Un uomo ammogliato si presenta con numerose cicatrici di taglio alle braccia. Dà in proposito la spiegazione seguente: se vuole avvicinare la moglie, alquanto “nervosa”, deve prima farsi un taglio al braccio; la donna succhia allora la ferita, ed ha quindi eccitazione sessuale di alto grado.

In caso di sadismo femminile da me osservato, esiste, come sì spesso accanto all’istinto pervertito, anestesia per l’atto sessuale normale. Nello stesso tempo compaiono tracce di masochismo.

Caso 95. – La signora X., ventiseienne, proviene da famiglia nella cui anamnesi non si riscontrerebbero, né malattie nervose né disturbi psichici; l’ammalata invece presenta segni di isterismo e di nevrastenia. Sebbene sposata da otto anni e madre di un bambino, non ha mai provato il desiderio dell’amplesso.

Educata severamente dal punto di vista morale, essa rimase, fino al suo matrimonio, in un’ignoranza quasi ingenua delle cose sessuali. Ai genitali non presenta anomalie essenziali. Non solo il coito non le procura alcun piacere, ma le è veramente sgradevole e le ispira un’avversione sempre maggiore.

Essa non sa comprendere come si possa qualificare tale atto come il godimento più intenso dell’amore, che per lei invece sarebbe cosa ben più elevata e non avrebbe nulla in comune con un tale istinto. Si aggiunga che l’ammalata vuoi bene seriamente al marito e lo bacia, anche, con piacere. La signora X. ha, d’altronde, intelligenza notevole e modi femminei. Quando bacia il marito, prova grande piacere a morderlo. Soprattutto le piacerebbe morderlo a sangue, e sarebbe ben lieta se l’amplesso consistesse in un mordersi reciproco. Tuttavia le dispiacerebbe se i suoi morsi facessero molto male al marito.

(Moll [l’episodio è stato cioè aggiunto dal curatore che ha aggiornato l’opera alla scomparsa di Krafft-Ebing] ).

 

Krafft-Ebing ha definito il caso seguente, da me osservato anni or sono, come la perfetta contropartita del masochismo dell’uomo e come l’ideale per un masochista. Vi si mostra marcatissimo l’elemento psichico, il desiderio di tenere l’uomo amato sotto il proprio giogo, e non solo di maltrattarlo.

Caso 96. – La signora X., di 23 anni, sposata, è persona grande e grossa, robusta e di aspetto sanissimo. Essa stessa si definisce molto lunatica. Non è a conoscenza di malattie nella famiglia di origine e particolarmente assicura di non avere sentore che esistano tendenze sadistiche di sorta né nelle sue sorelle né in altri componenti la famiglia; in quest’ultima, per quanto ha potuto osservare, la vita sessuale è normalissima.

Essa è in grado di risalire con chiarezza la storia delle sue tendenze pervertite, fino ai suoi 18 anni. Da allora essa è sempre stata dominata dal pensiero di dover battere un uomo e tormentarlo ancora in altri modi. Crede però di poter confusamente far risalire gli inizi della sua perversione all’età di 14 anni. “Poiché, se ci penso bene, mi stupisco molto della tendenza ch’io avevo sempre, a quell’epoca, a contraddire gli uomini; tale spirito di contraddizione io non avevo mai rispetto a donne. Quando un signore che frequentava casa nostra diceva una cosa, io ero quasi sempre pronta, a fare o a sostenere il contrario”. Finora la signora X. non ha mai potuto tradurre in pratica le sue idee suo marito. A quanto crede, il pudore le vieterebbe di andare più in là. Finora quasi tutte queste idee si svolgono solamente nella fantasia della signora X., la quale deplora sinceramente che le condizioni sociali attuali le vietino di soddisfarsi sessualmente nel modo che essa desidera. L’attrattiva principale per lei è di tormentare, in tutti i modi immaginabili, l’uomo verso il quale si sente attirata. I dolori fisici e psichici le procurano un piacere uguale. “Io morderei quell’uomo fino a farlo sanguinare, cosa che ho fatto spesso anche con mio marito. Non avrei più pietà. Questo dolore inflitto io considererei come un piacere non solo nell’istante della massima eccitazione sessuale, ma anche fuori di esso. Non posso dire neppure di avere una inclinazione particolare per mio marito. Conosco un uomo che mi ecciterebbe ben di più, e spesso io immagino come tratterei quest’uomo, verso il quale sono molto ben disposta.

Gli darei un appuntamento e vi arriverei nella mia vettura dopo averlo fatto attendere lungamente al freddo; poi proverei piacere a fargli sentire il mio potere. Egli dovrebbe piegarsi sotto il mio giogo ed essere completamente nel mio pugno. Dovrebbe considerarsi mio schiavo senza volontà ed io lo torturerei secondo il mio capriccio, con diversi strumenti. Lo batterei con un bastone, lo scudiscerei, gli farei altre cose simili; ma in generale ciò mi darebbe piacere solo se egli si sottomettesse a queste torture con una certa voluttà.

Egli dovrebbe tuttavia contorcersi dal dolore, pur essendo nel medesimo tempo in estasi sessuale e giungendo quindi al soddisfacimento. Per me, io non arriverei, temo, ad essere veramente soddisfatta, o per lo meno non ho idea del come ciò potrebbe avvenire. Invero, il sentimento di piacere cresce in me in certi momenti, grazie a maltrattamenti del tipo suddetto, ma quanto ad arrivare ad un momento in cui, come si dice dell’amplesso, si produce il soddisfacimento dopo il quale passa l’eccitazione, questo, io credo, in me non avverrebbe mai.

Per sapere s’io potrei ricavare da tali rapporti il soddisfacimento, farei ormai volentieri una prova; e se anche penso che l’altro, per avere con me rapporti capaci di soddisfarmi, dovrebbe provare egli stesso una certa voluttà, sento tuttavia, talvolta, che in molti momenti ciò mi riuscirebbe sgradito. Tosto che la sensazione di voluttà prevalesse nell’uomo non lasciando più sentire nettamente il dolore, io non proverei più, in molti momenti, alcun piacere.

Di ciò ho potuto accorgermi anche baciando mio marito. Quando, baciandolo,

io lo mordevo, tosto che egli provava un certo piacere io cessavo di colpo, e credo che lo stesso avverrebbe in rapporti sessuali suscettibili veramente di soddisfarmi, come conformi al mio modo di sentire. Se io avessi relazioni come quelle che sogno con un uomo amato da me, egli dovrebbe sempre considerarmi la “grande signora”. Io gli darei degli ordini, che egli dovrebbe eseguire anche se fossero quanto mai insensati; se non li eseguisse, lo percoterei per punizione. Non si può forse immaginare quanto siano insensate le idee che io mi faccio alle volte. Quando sono seduta nel mio salotto, penso spesso che solo quell’uomo dovrebbe essere vicino a me; unicamente per soddisfare il mio capriccio, egli dovrebbe mettere una sedia sulla tavola e portare una tavola all’angolo opposto della camera, e alla minima ribellione, avrei subito la bacchetta in mano. Lo legherei, lo incatenerei, e quando fosse incatenato gli farei sentire la mia potenza, e quanto più egli domandasse grazia, tanto più forte lo batterei”.

 

Interrogata in proposito, la signora X. dichiara, ancora, che solo il dolore inflitto da lei stessa all’uomo potrebbe darle piacere. Se egli si trovasse, per un’ipotesi, ad essere colpito da una ferita, da una frattura o da altro dolore del genere, essa è persuasa che ne avrebbe una profonda pietà. Fuori dal campo della sensibilità sessuale, la pietà non manca in questa paziente, la quale è anche prodiga di soccorsi a coloro che giudica bisognosi, e per questo è stata anzi molte volte sfruttata.

Richiesta del suo modo di sentire riguardo al sesso femminile, ritiene che non sia da parlare di alcuna attrattiva. Invero essa ha bensì avuto la velleità, di quando in quando, di tormentare una persona di sesso femminile, ma non crede trattarsi di idea veramente seria, aggiungendo che il dolore da lei inflitto a una donna non le darebbe alcun piacere paragonabile a quello di infliggere dolore a un uomo.

La signora X. pensa che, per trovarsi con un uomo, si prenderebbe una cura particolare del proprio abbigliamento. Il suo godimento sarebbe completo solo se, seduta su un sofà, essa fosse vestita di una toeletta o di una vestaglia elegante, e calzata con non minore eleganza. “Mentre di solito io porto tacchi larghi e bassi, dovrei allora portare i tacchi alti”. Cambierebbe inoltre del tutto il suo modo di comportarsi, che normalmente da un’impressione di assoluta dolcezza. “Serietà e severità dominerebbero tutta la scena”.

 

Eccetera. D’altro canto,

 

la signora X. fa […] un’impressione perfettamente normale. Balla volentieri ed ama la musica. È donna intelligente e mi ha fatto queste comunicazioni esclusivamente per interesse scientifico. Dichiara che non vorrebbe mai sottoporsi a trattamento terapeutico per guarire dalle tendenze sadistiche, giacché le sue fantasie le sono diventate troppo care perché essa voglia rinunciarvi.

 

Un altro caso, il n. 97, vede la “Signora X., 27 anni, di origine ungherese, divorziata” con manifestazioni del genere e anche più parossistiche.

 

Si deve menzionare che per un certo tempo la signora X. ha avuto anche tendenze omosessuali, e sente tuttora l’inclinazione a ritornare qualche volta ad un commercio omosessuale. […] Le idee che accompagnano la rappresentazione di tali atti sono di natura diversa; ma essa non sente allora per nulla di essere uomo; sogna piuttosto di essere una turca [corsivo mio] (e cerca anche di mettere l’ambiente d’accordo con questa idea).

La notte, la signora X. sogna moltissimo. Le dichiarazioni da lei fatte a questo riguardo sono del tutto spontanee. Le sue tendenze sadistiche hanno talora una parte nei sogni sessuali notturni; non sogna mai un amplesso normale, ma scene conformi in tutto alle sue sensazioni sessuali diurne, vale a dire percotimenti, ecc.

La signora X. aggiunge di conoscere un certo numero di donne aventi disposizioni simili alle sue, e che queste tendenze sadistiche femminili sono molto più frequenti che non si creda; a suo parere in certi paesi, come ad esempio in Ungheria [corsivo mio], si manifestano spessissimo.

 

Insomma, ecco il referente ungherese e la donna turca dai connotati onirici – due tasselli di rilievo del racconto di Le Fanu – evocati nell’ambito di relazioni omosessuali femminili all’insegna del sadismo. Certo, queste pagine sono state edite parecchio dopo Carmilla, e tuttavia un bacino di suggestioni in forma confusa è probabile circolasse a beneficio di Le Fanu tramite resoconti di viaggiatori, corrispondenze private, pregiudizi d’epoca eccetera. D’altra parte nel sadismo, rimarca il repertorio, “possono aversi il vampirismo [ed eccoci] e l’antropofagia a cagione del tono affettivo voluttuoso (pervertito) di rappresentazioni olfattorie e gustative normalmente ripugnanti”.

Se pare difficile attribuire con certezza una consistenza storica alle voci sul sadismo delle diffamatissime Messalina e Caterina de’ Medici, la Psychopathia Sexualis offre conto comunque di un lussureggiante bacino letterario:

 

Heinrich von Kleist, scrittore geniale ma che non era certo normale psichicamente, dà nella sua Penthesilea un quadro terribile di sadismo femminile, immaginario ma perfetto. Alla scena ventiduesima ci mostra la sua eroina presa da furore voluttuoso e omicida, per cui fa a pezzi, aizzandogli contro la muta, Achille, che aveva attirato nelle sue mani e che fino allora aveva perseguitato col suo ardore amoroso. “Ella gli strappa via l’armatura e, denudato il bianco petto, vi affonda i denti; con lei a gara i cani, Oxo e Sfinge: questi azzannano da destra, ella dall’altro lato: come io li vidi, la bocca sua grondava sangue, e sangue colava giù dalle sue mani”. Più tardi, dopo che Pentesilea si è riavuta dall’ebbrezza: “L’ho ucciso a baci? – No. – Non erano baci! Davvero io ho dilaniato le sue carni! Era un inganno dei sensi: baci e morsi van d’accordo, e quando s’ama il cuore, ciecamente, si possono confondere” [corsivo mio].

La letteratura moderna ha pure descritto molte volte il sadismo femminile, soprattutto Sacher Masoch nei suoi romanzi, ma anche Wildenbruch in Brunhilde, e Rachilde ne La Marquise de Sade. La letteratura erotica è piena di simili descrizioni. Un grande gruppo, specificamente inglese, descrive la donna educatrice che batte e castiga in altri modi gli allievi dei due sessi, dai bambini andando fino ad adolescenti ormai fuori dall’età del primo sviluppo puberale, procurandosi in questo modo emozioni voluttuose.

 

Un’altra signora X., quella del caso 98, ricalca anche più direttamente il profilo di sadica descritto da Sacher Masoch (“A un ballo mascherato essa comparve in costume di Venere in pelliccia con uno scudiscio alla cintura, ma gli altri non afferrarono l’allusione”, anime candide): ma anche il richiamo a Carmilla e alle sue metamorfosi in felino si ascrive senza problemi a tutto un immaginario su donne feline torpide e seducenti. Sul feticismo delle pellicce, così la Psychopathia Sexualis:

 

Un altro corrispondente comunicò a Krafft-Ebing come sia frequente l’esaltazione per la pelliccia, il velluto e le piume segnatamente fra i masochisti. La pelliccia ha pure una parte considerevole nei romanzi di Sacher-Masoch, che se ne servì anche per qualche titolo delle sue opere. Krafft-Ebing aveva già messo in rilievo come non fosse sufficiente la spiegazione data dal romanziere, secondo la quale la pelliccia simboleggerebbe il dominio e sarebbe par questo il feticcio dei suoi protagonisti. Oggidì il collegarsi del feticismo della pelliccia e del masochismo non sembra più tanto frequente quanto 15 o 20 anni fa. Il collegamento medesimo era, a mio parere, conseguenza essenzialmente degli scritti di Sacher-Masoch. In quest’ultimo consistevano il feticismo della pelliccia e quello che, di poi, fu chiamato masochismo. Nel secondo matrimonio del romanziere pare che rimarrebbe prevalente la predilezione per la pelliccia. Io credo, però, che la pelliccia possa avere un tutt’altro significato. Rimando a quanto dissi prima sulla sensazione di vellicamento. Persona vicina a Sacher-Masoch mi comunicò che il romanziere medesimo dava talora una spiegazione differente alla propria predilezione per la pelliccia. Si prova un brivido di piacere — così come fu riferita presso a poco la di lui espressione – al sentire sul proprio corpo la pelliccia della donna. Se oltre a ciò si tenga conto del fatto che il contatto del velluto ha su molte persone un effetto sessualmente eccitante affatto indipendentemente dal portatore e dalla portatrice della stoffa, non possiamo più, per ambedue le materie in questione, negare senz’altro una partecipazione della sensibilità tattile.

Può darsi benissimo che un’impressione psichica primaria, provata da un soggetto, e la fissazione di essa facciano, della pelliccia o del velluto, un feticcio psico-sessuale durevole per il soggetto medesimo.

Ma può darsi altresì che il toccare le materie in parola abbia un effetto stimolante nella sfera genitale, e che da questo risulti solo secondariamente la connessione con l’istinto sessuale. In questo senso parlano diverse osservazioni, dalle quali risulta come gli eccitamenti tattili possano produrre una eccitazione genitale nell’individuo che li riceve, indipendentemente dal portatore dell’oggetto onde parte lo stimolo.

 

“Una manifestazione di masochismo, particolare e relativamente frequente, consiste in ciò che l’uomo si immedesima nella parte di un animale” (ciò sul masochismo maschile – per inciso, la dimensione masochistica in Carmilla è legata più a Laura che alla sua nemesi); mentre sul caso 127, relativo al masochismo femminile, troviamo: “Le piace graffiare [come una gatta, in sostanza]. Ma ancora di più è dominata dalla tendenza a lasciarsi graffiare. Che quello che la graffia sia il marito od un altro uomo, non farebbe differenza”.

Ancora. “Simili a questo [il masochista] sono molti casi di succubi, ossia di uomini che coiscono stando sotto la donna”: ora, a prescindere da un discorso tecnico di posizioni erotiche, Carmilla ha proprio natura di incubus, l’entità che incombe.

E ancora, in tema di asservimento sessuale: “Assai prossimi al masochismo sono quei casi che Krafft-Ebing ha descritti come asservimento sessuale. È un fatto osservato innumerevoli volte quello di persone che si riducono in uno stato di dipendenza completamente fuori del comune nei riguardi di talun’altra persona appartenente all’altro sesso”. Un aspetto del genere lo troviamo miticamente enfatizzato nelle declinazioni letterarie del tema vampirico, e Carmilla stessa non ne è esente. Tanto più, verrebbe da dire, che la Psychopathia Sexualis aggiunge: “L’asservimento compare sempre anche in relazione omosessuale. Io l’ho trovato molto più spesso tra donne che tra uomini”. E poco dopo lo specialista passa a trattare di “Stimoli cutanei e masochismo”, già citata dimensione che evidentemente flirta con la fenomenologia vampirica.

Un ulteriore fronte è quello del feticismo. In Carmilla non appare sviluppato in modo marcato, tuttavia Laura appare affascinata dai capelli di Carmilla e dal loro peso, e lo spazio offerto proprio ai feticisti dei capelli nella Psychopathia Sexualis è decisamente rimarchevole. L’associazione tra predazione di capelli e donne vampire è già attestata in La Vampire di Paul Féval (1860), ambientato nella Parigi del 1804, dove la contessa ungherese Marcian Gregoryi, alias l’ultracentenaria Addhema, muore e torna in vita periodicamente uccidendo giovani donne e appropriandosi delle loro capigliature. Ma anche nella Psychopathia Sexualis troviamo il caso (n. 149) del tagliatore di trecce “arrestato al Trocadero, a Parigi, subito dopo aver tagliato la treccia a una fanciulla in mezzo alla folla”, scoprendo aspetti socialmente curiosi: “Simili casi di feticismo delle trecce, causa di attentati alle trecce femminili, sembrano compaiano di quando in quando in tutti i paesi. Nel novembre 1890 intere città degli Stati Uniti erano messe in agitazione, secondo i giornali americani, da uno di tali tagliatori di trecce”. L’attenzione ai capelli, in Carmilla, sembra comunque potersi spiegare più semplicemente attraverso la provocazione folklorica della crescita dei capelli in certi cadaveri.

Come si poteva prevedere, nel capitolo della Psychopathia Sexualis che tratta l’omosessualità l’attenzione largamente prevalente è per quella maschile, anche se non manca una sezione sulla femminile – tanto meno documentata, per una serie di motivi a cui l’autore cerca di offrire risposta. “Più di una donna omosessuale si accontenta per vero di baci, abbracci ed altre simili tenerezze. Il soddisfacimento è procurato spesso da manipolazioni dell’una sull’altra”: inevitabile pensare agli abbracci di Carmilla che lasciano Laura stupita e perplessa, o ad altri tipi di manipolazioni, se così si possono chiamare le aggressioni perpetrate da Carmilla in forma di felino.

“Circa l’insorgenza dell’omosessualità nella donna, vale naturalmente per questa molto di ciò che vale per l’uomo. Sebbene la sensualità nella donna omosessuale passi spesso in seconda linea, vi sono tuttavia donne in cui essa si manifesta apertamente e addirittura si congiunge ad iperestesia dell’istinto sessuale”: come possiamo valutare quella di Carmilla?

Tra le “cause”, la Psychopathia Sexualis individua la più importante nella “mancanza di commercio eterosessuale [che] dà luogo a commercio omosessuale (prigioniere, giovinette di buona condizione sociale tenute al riparo della seduzione degli uomini oppure spaventate dalla paura di una gravidanza). […] Le seduttrici sono spesso domestiche, occasionalmente amiche omosessuali e persine istitutrici nei collegi femminili”. In effetti quello di Laura è un mondo recluso, segregato, in cui i contatti femminili usuali sono con le asessuatissime governante e istitutrice, di rado con amiche coetanee. D’altra parte un’altra causa individuata come “classica” sarebbe la presenza di “mariti impotenti, i quali riescono solo ad eccitarle senza soddisfarle; risultato: libido insatiata, ricorso alla masturbazione, pollutiones feminae, nevrastenia e infine disgusto per l’amplesso e per i rapporti con uomini in generale” – e Laura vive, guarda caso, in un mondo di vecchi.

“Quanto alle tendenze del gusto, esse sono svariatissime, come fra gli uomini omosessuali, così fra le donne. Una preferisce le giovinette, un’altra le donne mature”: che dire del rapporto di Laura con Carmilla, insieme ragazza, almeno d’aspetto, e ultracentenaria defunta? (Il che traghetta ad altre fattispecie, la gerontofilia, e naturalmente la necrofilia). Se poi alcune si mostrano “piuttosto passive”, altre assumono “la parte di uomo” e “appunto per dare alla tensione psichica un carattere più virile che sia possibile, inclinano a portare abiti maschili”: e troveremo Laura fantasticare, a un certo punto, che Carmilla sia un maschio travestito.

La Psychopathia Sexualis delinea quindi il caso di Complicazioni dell’omosessualità per la presenza di altre fattispecie: e il caso di Carmilla potrebbe ben rientrare nel quadro. “Il fatto che fenomeno concomitante dell’omosessualità sia talvolta un’intensificazione della sessualità, rende facilmente possibili atti voluttuosamente crudeli, anche sadistici” o masochistici, o di asservimento sessuale o di feticismo eccetera.

Quella che Krafft-Ebing – sulla base di una casistica piuttosto circoscritta – denomina pedofilia erotica finisce al far pensare al primo episodio di Carmilla, quando Laura nella nursery è ancora bambina e una misteriosa bella dama ficca le mani sotto il copriletto, si corica accanto alla bimba e (con ogni evidenzia) la azzanna. Mentre la nebulosa zoofiliaca, che può pure richiamare alla zona grigia vampiresca tra umano e ferino e alle continuità corporee con la mutante gattesca di Carmilla, trova implicazioni nel discorso soprattutto di carattere indiretto: i casi repertoriati riguardano per lo più situazioni di derive psichiche in realtà contadine culturalmente depresse o invece siparietti da salotto. In tema di direzione singolare dell’amore, si può ravvisare qualche nesso al nostro tema nel caso di incesto, la cui ombra sfiora le relazioni in Carmilla.

Quanto all’autosessualismo, cioè la costellazione delle suggestioni autoerotiche (sogni erotici, onanismo psichico, masturbazione, narcisismo – anche se su quest’termine il repertorio invita a usare prudenza), basti pensare al tema della “pazzia degli specchi”, come la definisce la zia di un soggetto affetto da autosessualismo in forma severa, caso 340. Questi – ventiseienne, macchinista navale – si esprime così:

 

Senza volerlo, mi vien fatto di pensare che la mia immagine riflessa nello specchio sia un secondo io vivente, ch’io quindi esista in due persone. Questo secondo io, che nella mia fantasia mi appare sempre come corporale, è l’essere che io amo ardentemente, ed è pure quello che io ho visto in sogno nello specchio […],

 

a evocare in fondo una situazione non troppo distante da quella evocata in Carmilla. Ancora (caso 354):

 

Circostanze disgraziate mi spinsero a due tentativi di suicidio; una volta non dormii per quindici giorni di seguito senza causa nota; avevo molte allucinazioni (visive e uditive ad un tempo), frequentavo contemporaneamente persone morte e persone vive, fenomeno questo che in me persiste tuttora. […] Nello stesso tempo divenni così anemico, che ogni paio di mesi dovevo far la cura del ferro per un certo tempo, se no ero come clorotico od isterico, od anche l’uno e l’altro insieme.

 

A riunire assieme il tema del suicidio, un rapporto almeno disturbato con il riposo, il tema delle voci misteriose che la Laura di Carmilla cita in alcuni paragrafi raggelanti, la frequentazione di vivi e di morti in imbarazzante mescolanza, e infine anemia e isteria. E ancora (caso 360 documentato in origine da Havelock-Ellis e riportato nerl repertorio, una signora gallese che sogna di essere un uomo):

 

In questi sogni – essa scrive – io mi sento nella parte di uomo. In uno o due di tali sogni mi sono toccata, ed ero diversa che nella donna. Una volta mi sono guardata nello specchio ed ho riconosciuto il mio volto come un volto dimenticato da molto tempo.

 

Il rapporto tra lo specchio oscuro e quello con il Perturbante (il conosciuto non riconosciuto, l’agnizione di qualcosa dimenticato per tanto tempo) evocati da Le Fanu sembrano qui felicemente richiamati. Interessante d’altra parte l’affermazione di Laura (indebolita dagli attacchi del vampiro) che “La mia sembrava una malattia dell’immaginazione o dei nervi”. Dove la prima alternativa evoca un concetto, l’immaginazione, poi ampiamente utilizzato nella Psychopathia Sexualis; mentre la seconda, la malattia dei nervi, costituisce una definizione ancor oggi usata, ma in questo contesto d’epoca sembra richiamare soprattutto l’isteria. Il soggetto isterico Carmilla proietta anche sull’amica una simile situazione.

Però gli echi letterari non si esauriscono negli autori di storie vampiresche. Sempre il caso 354:

 

Io discendo da una famiglia in cui si sono registrate frequentemente affezioni nervose e psichiche. […] Dotato di accesa fantasia (la mia nemica, in seguito, per tutta la vita), ebbi uno sviluppo rapidissimo di tutte le mie doti psichiche.

 

Difficile non ricordare certi passi di Poe su legati familiari turbati da affezioni nervose e psichiche, o da fantasie virulente. Mentre in certi racconti di uomini effeminati che si risveglierebbero – a loro dire – dotati di organi femminili o che assisterebbero a una inimmaginata mutazione del proprio corpo, o invece di donne mascoline “assalite da stimoli ‘bestialmente maschili’” (così il caso 355) alle quali a un tratto spunta la barba, sembra quasi di vedere un Kafka. Ma va detto che, a prescindere dalle citazioni letterarie che questo repertorio snocciola, è poi un po’ tutto il panorama di letteratura e arte decadente e simbolista a trovare nessi con le situazioni qui narrate: con la differenza che le identità travisate per motivi di privacy dietro le porte chiuse dei casi clinici trascolorano in quelle di infiniti antieroine e antieroi su carta e su tela (per tacere di tutte le altre forme artistiche).

Tornando però a Le Fanu, un aspetto degno di attenzione è che in Carmilla il nesso emotivo e sentimentale col vampiro risulta assai più forte che nel Dracula: in fondo assai più credibilmente, dunque, si potrebbe costruire una controstoria in chiave revisionistica/innocentistica (nel senso che la vampira voglia soltanto una storia d’amore – un po’ come la Clarimonde di Gautier che si contenta di qualche stilla di sangue – e venga criminalizzata dai patriarchi), in parallelo a quanto azzardato per il Dracula innamorato di tutta una giulebbe di vampiri in love, fino a Coppola e oltre. Non è inutile sottolineare come un’interpretazione del genere resterebbe infondata almeno quanto nel caso di Dracula (almeno sul piano della coerenza col testo, visto che i miti sono materiale plastico): la passione di Carmilla per Laura è egoistica, sadiana, in nulla addomesticabile nell’ambito di una storia che resta una tragedia senza happy end. E invece, a differenza appunto di Dracula, arruolato in una pletora di film romantici dove lui, sotto sotto, appare buono, ciò con Carmilla non accade: certo, non mancano pellicole dove viene enfatizzata la dimensione di una sua passione (si pensi solo al vecchio Hammer Mircalla, l’amante immortale del sarcastico Jimmy Sangster, 1971, o a Un abito da sposa macchiato di sangue di Vicente Aranda, 1972, vibrante denuncia di un machismo nazionale): ma costantemente la Nostra resta un tipino di cui non fidarsi. Un tipino peggiore del Dirty Old Man Dracula? Andiamo… La spiegazione è che la passione di Carmilla si sviluppa nel segno dell’omosessualità, che sfugge al romanticismo da vulgata: anche in ciò, l’omosessualità è vista ancora come barriera culturale. D’altra parte Le Fanu, per bocca del patriarca barone Vordenburg, spiega che la veemenza sentimentale del vampiro verso la vittima da cui mostra d’essere tanto affascinato è “simile alla passione d’amore”: un virgolettato che saremmo tentati di tradurre, via etimo, con quel termine parafilia con cui il DSM-III, 1980, sostituirà perversione e che sarà reso popolare da John William Money, 1921-2006.

Tentiamo di tirare le somme. Pur non avendo ispirato quel Carmilla con cui condivide una serie di categorie d’epoca, comunque Psychopathia Sexualis diventa a sua volta motore d’immaginazione – oltre che saggio d’informazione per lettori anche non specialisti – a beneficio di vastissime platee, attratte non solo da brividi voyeuristici oltre lo spioncino, ma dalla speranza di capire di più sugli enigmi delle proprie imbarazzanti pulsioni. Lo confermano testimonianze raccolte nel testo stesso, cfr. per esempio il caso 105:

 

“Ho 24 anni. Dall’infanzia ho avuto una sensibilità sessuale pervertita. Da una parte non vi attribuivo finora l’importanza che meritava, dall’altra non osavo rivelarla ad altri; ma avendo letto la Psychopathia sexualis di Krafft-Ebing, mi sono indotto a parlare di me. […] Senza dubbio sarei potente se volessi eseguire con una ragazza una di quelle scene che si leggono in Krafft-Ebing, di umiliazione con crudeltà subita; ma il pudore non me lo permetterà mai”.

 

O quest’altro, caso 112:

 

“Finalmente, tre anni fa, scoprii il libro di Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis, che divorai letteralmente. Dopo maturo esame di me stesso, riconobbi chiaramente di essere feticista della calzatura, fors’anco su base masochistica”.

 

Ancora, il caso 181:

 

Mesi fa la Psyhopathia sexualis di Krafft-Ebing gli aprì gli occhi sul suo stato, e da allora per otto settimane circa egli non ebbe più accessi, senza poter dire d’altronde so ciò fosse effetto di un caso o meno. Ma poi recidivò ripetendosi gli accessi coi soliti intervalli […].

 

La nota autobiografica del caso 354 è addirittura accompagnata da questa struggente e nobilissima lettera:

 

“Chiedo perdono alla S. V. se vengo a importunarla col mio scritto; avevo perso ogni speranza, mi consideravo un mostro e avevo disgusto di me stesso, quando la lettura della sua opera mi ha fatto riprendere coraggio; per questo

mi sono deciso a considerare a fondo il mio stato e a volgere indietro uno sguardo sulla mia esistenza, qualunque possa essere il risultato. Ho creduto di compiere un dovere di riconoscenza comunicandole il risultato dei miei ricordi e delle mie osservazioni, perché non ho trovato nella sua raccolta alcun caso veramente analogo; infine ho pensato che le avrebbe forse interessato apprendere da un medico quali siano i pensieri e i sentimenti di una persona, di un uomo mancato, sotto la pressione del senso incoercibile di essere una donna. […]

Dopo la lettura della sua opera io credo che, se assolvo ai doveri del mio stato come medico, cittadino, padre e marito, posso contarmi fra le persone che non meritano soltanto disprezzo.

Infine ho voluto sottoporre il risultato dei miei ricordi e delle mie meditazioni

per dimostrare come si possa essere medico [tale è il soggetto in questione, n.d.r.] pur avendo i sentimenti e un modo di pensare femminile; io ritengo grande ingiustizia il voler rendere la medicina inaccessibile al sesso debole; una donna scopre con l’intuito un’affezione là dove l’uomo, malgrado la semiotica, è perso tra le tenebre, per lo meno in fatto di malattie delle donne e dei bambini. Se fosse possibile, ogni medico dovrebbe essere donna per tre mesi; egli avrebbe allora maggior comprensione e rispetto per quella parte dell’umanità dalla quale egli trae origine e saprebbe stimare la grandezza d’animo delle donne e dall’altra parte la durezza della loro sorte”.

 

Ma è chiaro che l’impatto va ben oltre, e il testo entra – in modo diretto o indiretto – nel tessuto immaginale di un’epoca che consacra languori e perversioni a linguaggio artistico di successo.

Non tutti, in realtà, trovano nel repertorio ciò che cercano. Cfr. il caso 244, con il messaggio plausibilmente a Moll:

 

“Se mi rivolgo a Lei con fa descrizione della mia vita sessuale, è perché non ho trovato, né nel Suo pregiato libro né nella Psychopathia sexualis di Krafft-Ebing, alcun caso simile al mio. Fisserò anticipatamente i punti principali […]”.

 

Eppure, gira gira, i demoni del famolo strano, il cattivo infinito di innumerevoli fantasisti, rivelano a chi li interpelli un po’ sempre gli stessi nomi. Cambiano alcune modalità pratiche (chi avrebbe immaginato di raggiungere l’orgasmo disegnando quadratini?) ma i tipi di pulsioni non sono infiniti.

E può non essere un caso che, al termine di un lungo cammino nel ventre del pop, proprio una fanfiction ispirata a una storiella di vampiri adolescenti (sì, proprio Twilight) sdogani per il grande pubblico Cinquanta sfumature di melodramma sadomaso per il grande pubblico. Il vampiro bricconcello che, dietro i paraventi del simbolico, evocava l’irraccontabile sesso continua in fondo a fare il suo lavoro, dispensare brividi sulle identità sessuali: ma in Cinquanta sfumature la dimensione vampiresca appassisce dietro psicologismi da rotocalco, sia pure in un contesto non meno fantastico. Mentre due vecchi testi ottocenteschi in fascinosa sintonia, o piuttosto in rapporto (direbbe qualcuno) di convergenze parallele, appunto la Psycopathia sexualis e il racconto Carmilla, risultano – nei loro stessi limiti d’epoca e proprio in una certa comune scorrettezza politica nei confronti dell’oggi – molto più capaci di suscitare domande e provocazioni: sulla Commedia umana che abbiamo davanti e sui nodi critici – sessuali, sociali, generazionali… – di una società a tutt’oggi largamente patriarcale.

Le testimonianze concordano sulla statura umana dei due brillanti autori, Le Fanu e Krafft-Ebing, persone dabbene di gran cuore, con il fegato di dar parole a vicende altrimenti relegate nel silenzio e la capacità di farlo con un registro davvero letterario: e il fatto che i due restino esponenti di quello stesso patriarcato e portatori delle sue ambiguità e lentezze, rende ancora più interessante la loro lucida onestà nell’offrire spesso storie senza soluzione, senza trionfi militanti del “bene”. A dispetto infatti delle apparenze per lettori distratti, Carmilla si conclude con la sconfitta di tutti, e molti casi della Psycopathia sexualis terminano con la presa d’atto di situazioni infelici (alcune letteralmente strazianti). Storie che provocano l’Occidente che conosciamo, patriarcale e guerrafondaio, in costante estasi per uniformi e caricature d’uomini forti, e incapace spesso di riconoscere per patologico ciò che davvero lo è: una certa violenza strutturale, un modo di garantire generazioni infelici, futuri dolenti a chi è più sensibile e non sta negli schemi, moloch sacrificali inutili e brutalità più o meno nascoste – magari dietro feticci di “famiglie modello” o “veri valori” – a tutela della stabilità dei poteri, grandi o piccoli che siano.

Al netto di eccentricità sessuali che determinano problemi concreti in gran parte per pressioni d’ambiente (sensi di colpa, infelicità conseguente eccetera) mentre a volte si rivelano semplici derivati dallo spurgo dei modelli dominanti (come certo sadismo femminicida, legato a stretto filo a modelli patriarcali), tali opere dell’Ottocento ci aiutano a riflettere su una Psycopathia anche e specificamente socialis: e il linguaggio del fantastico (cui si può ascrivere in senso lato anche quello dei siparietti repertoriati da Krafft-Ebing, con la messa in scena febbricitante, nel teatro delle camere da letto, di infinite fantasmagorie delle pulsioni) mette a nudo gli assi portanti di tante infelicità. In questione è, come in genere nel fantastico, il teatro delle crisi dell’identità, personale o collettiva, psicologica o sociale: una direzione di ricerca che rende la lettura di testi con più di un secolo sul groppone ancora tanto ricca di pungenti provocazioni.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (II) https://www.carmillaonline.com/2019/10/03/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-ii/ Thu, 03 Oct 2019 21:18:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55110 di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un [...]]]> di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un ritratto di Poe di Elisa Lo Presti, Red Right Hand workshop, 2017, coll. priv.]

 

3. Dopo The Pit and the Pendulum, 1842-43 si apre una terza fase, che arriva fino alla morte di Poe: una stagione produttiva che presenta caratteri abbastanza diversi – pur senza cesure assolute – e che potremmo definire dei capolavori del delirio. Il fantastico non viene abbandonato ma incanalato in specifici filoni oppure ricondotto a un tipo visionario di linguaggio più che di contenuto: le storie parlano ora di sperimentazioni mesmeriche, di ossessioni criminali, di pulsioni misteriose della realtà-uomo. Se un po’ sempre i personaggi di Poe hanno flirtato con lo squilibrio e con il delirio, ora questo aspetto è posto in primo piano. Emblematico un testo come The System of Doctor Tarr and Professor Fether, dove folli e sani di mente si sono scambiati i ruoli.

In chiave protothriller, questa è la stagione dei racconti sul genio della perversione (The Tell-Tale Heart, The Black Cat, The Imp of the Perverse) e sul nesso tra delitto & vendetta (The Cask of Amontillado, Hop-Frog). Continua anche la produzione poliziesca già avviata con un secondo sequel alle avventure di Dupin, The Purloined Letter, e un racconto che salda beffardamente gioco macabro e indagine di giustizia, Thou Art the Man; mentre il tema delle cifrature da sciogliere raggiunge la sua più trionfale espressione in chiave narrativa con The Gold-Bug. Per Poe, che conduce una sua guerra personale contro i romanticismi d’accatto, il richiamarsi ai fasti dell’intelletto e all’orgoglio della razionalità ha però anche sempre una dimensione di spettacolo: emblematico è l’istrionismo di Dupin nello snocciolare la ricostruzione della verità e le meraviglie del raziocinio.

Quale che sia il sapore del testo, il cadavere ne è spesso il focus: ora un cadavere in qualche modo “attivo” (Thou Art the Man, Some Words with a Mummy, The Facts in the Case of M. Valdemar), ora passivo ma dotato di un peso fatale (The Oblong Box), ora un cadavere – potremmo dire – solo virtuale (il tema del sepolto vivo, già documentato nel primo periodo con Loss of Breath e Berenice e nel secondo con House of Usher, torna ora in The Premature Burial).

Il fantastico è del resto ricondotto al nesso tra fisicità e mente, come nei racconti mesmerici (A Tale of the Ragged Mountains, Mesmeric Revelation, The Facts in the Case of M. Valdemar), che mostrano l’interesse almeno narrativo di Poe per filoni di speculazione in senso lato esoterici. Mentre il tema della donna che torna è elaborato ancora più alla lontana nel citato The Oblong Box e nel celeberrimo poema narrativo The Raven.

In vari casi, a essere pervertita, spingendo a una percezione falsata della realtà, è la visione oppure la conoscenza. Poe è sempre stato affascinato dal tema dello scarto tra realtà autentica e solo immaginata, scarto motivato da cause diverse (truffa, inganno per beffa, imperfetta percezione, svista…): e ciò emerge ora in una serie di racconti dal sapore comico o almeno ironico. Diddling riguarda appunto il tema della truffa, The Spectacles evoca i rischi di corteggiare una donna senza occhiali se non si vede bene, The Sphinx (che pur ripropone il tema dell’epidemia) spalanca visioni da incubo che si riveleranno alla fine tutt’altro. Sul tema dello scarto beffardo dalla conoscenza di un’epoca sono poi gli unici racconti esoticheggianti di questa fase, The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade e Some Words with a Mummy. In chiave di beffa “scientifica” con toni da commedia troviamo poi Von Kempelen and His Discovery.

Va detto che, per quanto non manchino racconti umoristici piuttosto surreali (The Angel of the Odd, The Literary Life of Thingum Bob, Esq., X-ing a Paragrab e altri dei racconti già citati) l’autore ha in genere abbandonato le tipologie burattinesche dei periodi precedenti.

Per contro, rilevante è lo spazio offerto alla dimensione scientifica: abbandonate anche le saghe esplorative di terra e di mare, ad affascinare è ancora il cielo – sia pure in chiave di sberleffo – con The Balloon-Hoax e Mellonta tauta. E in quel testo particolarissimo che è Eureka: A Prose Poem, Poe sviluppa in chiave cosmologica spunti solo accennati nei periodi precedenti. Non manca un ultimo dialogo filosofico tra spiriti disincarnati, The Power of Words, che discute il tema della creazione dell’universo.

Anche il tema della bellezza è affrontato piuttosto in chiave filosofica o almeno riflessiva (The Domain of Arnheim, Landor’s Cottage, l’articolo Morning on the Wissahiccon).

Se poi Poe ha per tutta la vita riflettuto sulla scrittura, e osservazioni interessanti emergono nei testi più vari (si pensi a How to Write a Blackwood Article, beffardo ma rivelativo di meccanismi “a effetto” usati dallo stesso autore), di particolare rilievo sono in questo periodo The Rationale of Verse, The Poetic Principle e soprattutto quell’opera-chiave che è The Philosophy of Composition.

Resta misteriosissimo The Light-House, lasciato incompleto e di cui è impossibile capire come (e se) l’autore prevedesse di continuarlo. Ma più in generale, è impossibile immaginare dove Poe si sarebbe spinto con la sua fantasia se la salute l’avesse assistito. Personalmente tendo a credere che avrebbe fatto tesoro in chiave fantastica e magari di beffa del boom crescente dello spiritualismo, preludendo forse al tipo di storie poi prodotte da un altro americano dark, Ambrose Bierce (1842-1914?).

 

3. Ossessioni e strutture narrative

Quanto detto costituisce naturalmente solo un abbozzo di panoramica e in nessun modo può intendersi quale griglia analitica: i fili che collegano i singoli testi sono infiniti, e il singolo tema può passare dall’avventura al macabro alla commedia lieve in successive declinazioni. Non è insomma particolarmente utile “classificare” i racconti – le connessioni tra gruppi restano troppo strette, le partizioni troppo ampie – quanto piuttosto rimarcare richiami ricorrenti o grumi di suggestioni. Proprio la lettura in ordine cronologico permette di rilevare più agevolmente tali nessi: e il lettore attento può cogliere affinità tra racconti di tipo diverso.

Qualunque scrittore presenta temi forti, che tornano con frequenza significativa: in questo senso Poe non è certo il solo a rivisitare gli stessi motivi e provocazioni declinandoli in versioni svariate. Una certa maschera della vulgata, quella dell’Americano Maledetto vittima di demoni interiori e di vizi degradanti, conduce a considerare alcuni di questi soggetti continuamente richiamati come vere e proprie ossessioni: si pensi alla donna che torna o al seppellimento da vivo. È naturalmente possibile che dimensioni ossessive possano individuarsi, ma occorre sempre una certa cautela nell’interpretare testi letterari costruiti in realtà con lucida consapevolezza.

Certo, il discorso della donna che muore e che spesso torna (ma potremmo dire che torna sempre, sul piano letterario), e la stessa natura insistitamente passiva di buona parte delle figure femminili potrebbero collegarsi a un quadro di fantasmi interiori segnato dalla troppo precoce perdita della madre: qualcosa che conduce da un lato all’angelizzazione (le figure femminili di Poe non mostrano mai connotazioni erotiche) e dall’altro all’affiorare di tendenze sadiche/punitive verso la donna che lo abbandona. Anche se poi è vero che non si tratta di un mero teatro interiore, da esaurire a colpi di psicanalisi. È un dato di fatto, realistico e storico, che i suoi testi fotografino un mondo durissimo, quello americano ottocentesco, dove soggetti fragili come le dame soavi di racconti e poesie soccombono più facilmente e precocemente, falciate dalla consunzione. E d’altro canto si tratta anche (Poe stesso lo ammetterà) di figure del pathos letterario, di topoi del patetico che gli permettono di veicolare lucidamente una serie di effetti narrativi e di temi cari – identità & individuazione, eccetera.

Si pensi anche, per esempio, al tema del grande fuoco che emerge con maggiore o minor enfasi lungo tutto l’arco della sua produzione (idealmente dal primo racconto Metzengerstein del 1932 a uno degli ultimi, Hop-Frog del 1949). Un’immagine che certo potrebbe legarsi con potenza di simbolo al già citato rogo del teatro di Richmond associato – sia pure indirettamente – alla morte della madre, e dunque evocare qualcosa di più profondo di una mera invenzione narrativa ad effetto. Anche se (di nuovo) va detto che negli Stati Uniti del tempo, dove moltissimo è costruito in legno, quella degli incendi devastatori risulta una dimensione ben più quotidiana di quanto noi possiamo percepire… E così via.

Allo stesso modo, il suo istrionismo – palese nei modi teatrali delle voci narranti, ma in fondo anche nei toni di altri tipi di testi – potrebbe rivelare tratti isterici; e almeno sembra di ravvisarvi un desiderio spasmodico dell’attenzione altrui. Forse di essere amato? Ma se è vero che su Poe abbiamo una ricchissima documentazione, a indagini puntuali sulla sua interiorità osta il mistero riguardante alcune dimensioni fondamentali, in particolare i rapporti concreti con figure basilari della sua vita: si pensi solo alla relazione misteriosa e molto discussa tra Edgar e sua moglie Virginia Eliza Clemm (1822-1847), sua cugina prima, sposata tredicenne quando Edgar ha già ventisette anni. Cosciente su quanto i testi di Poe abbiano rappresentato un intrigante terreno d’indagine sia per riflessioni psicanalitiche serie – a partire in fondo da quelle datate ma affascinanti di Marie Bonaparte – sia per intere palestre di psicologismi da rotocalco, lascio volontariamente questo fronte a lettori con competenze specifiche.

Dove invece ci si può muovere in modo un po’ più agevole è sul piano delle strutture narrative: ed è forse possibile distinguere tre tipologie.

a) Anzitutto, a fronte del panorama generale dell’opera di Poe, non sembra scorretto parlare di vere e proprie strutture mitiche e di mitopoiesi nell’indicare quelle costellazioni forti – pensiamo appunto alla donna che torna, al Doppio, al palazzo in rovina, al Grande Contagio, al seppellimento da vivi, alla reincarnazione, ai misteri mesmerici – che Poe consegna come un lascito perenne all’immaginario. Interessante è vedere per esempio l’uso che ne farà il cinema, con caratteri che richiamano proprio alla plasticità del mito. Lo stesso tema vampirico, in Poe sviluppato in forme liberissime dai tradizionali canoni del gotico, emerge come chiave mitica generale: le giovani morte de The Oval Portrait e The Oblong Box subiscono o esercitano vampirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Ligeia, Morella e una sorta di vampirismo – come detto – è anche quello di The Man of the Crowd.

Tali strutture si agganciano e si innervano una con l’altra. Si pensi alle dinamiche tra personaggi, come nel continuo riproporre tre figure-base: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno, sorella di sangue o di adozione, unita in sponsali castissimi e privi di eros; e due figure maschili, a loro volta in rapporto di doppio/rifrazione – come eminentemente espresso in William Wilson, dove la scissione si consuma a partire da una scuola labirintica a immagine di una tortuosa interiorità affondata nell’infanzia. Ma si pensi anche a The Man of the Crowd con il rapporto tra narrante e inseguito, entrambi alla deriva della propria eccitazione; o a The Tell-Tale Heart, dove all’occhio velato della vittima corrisponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispettivi battiti cardiaci si echeggiano l’un l’altro. Emblematico è poi The Sphinx, sorta di Decameron liofilizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epidemia a New York i due uomini che dividono il rifugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe – e se a narrare è quello più tormentato, la chiave beffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornite dall’altro, il razionalista. Anche in The Gold-Bug, il Legrand sospettato di sragione dall’amico narratore, e in effetti invaso da una qualche febbre interiore, è in realtà il fine analista: e su questa linea troviamo in Dupin il protomodello dell’investigatore seriale bizzarro, avo di infiniti cultori di cocaina e orchidee alle prese con una “spalla”, suo doppio opaco. Se poi le figure-base appaiono solitamente a due a due, in un caso eclatante, The Fall of the House of Usher, le troviamo in scena tutte e tre: e come al ritmo di quei carillon con figurine che la rotazione tende a fondere e confondere – magari in uno dei tanti orologi dei racconti di Poe –, ecco che in fondo riecheggiano sempre lo stesso dramma.

b) Altri temi ritornano invece in forme più frantumate, e possiamo parlare semplicemente di topoi. Pensiamo a tutti i racconti giocati sul tema dell’imperfetta percezione della realtà, ma in realtà per motivi diversi, dalla truffa alla svista all’equivoco alla sostituzione alla superstizione: casi troppo vari per permettere di ricondurli a un’unica struttura mitica, anche se si colgono forti affinità. Ma pensiamo anche, in termini più contenuti, a certe singole provocazioni tematiche. La scimmia può essere proiezione umana in chiave di teatrale orrore: si pensi alla Rue Morgue col suo finto uomo e a Hop-Frog coi suoi finti oranghi, quasi scaturiti da un incubo di Dupin. Il tema dell’idillio appartato svela ora natura d’incanto ora dimensioni asfittiche. Mentre un’intera serie di testi evoca la costellazione tempo/orologi/pendolo conducendo in direzioni piuttosto varie.

Un discorso a parte può valere poi sul tema ricorrente delle confessioni di omicidi, alcuni impuniti (The Cask of Amontillado, Hop-Frog) e altri smascherati e in attesa della morte (The Black Cat, The Imp of the Perverse, Thou Art the Man): un itinerario che sembra rigirare come un guanto le diffusissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul dato molto esteriore della truculenza dei crimini. Mentre è dai bassifondi dell’anima che, interpellando filosofi e frenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poe offre i suoi reportage: e se a volte il movente è la vendetta (circonfusa magari di mitologica potenza ma insieme – ecco il giornalista – raccordata al meschino orizzonte delle infezioni dello spirito), a trascinare sono altrove altre cause. Tra le quali quel citato genio della perversione che induce al precipizio interiore, facendo compiere il male per la coscienza che è tale, e per contro inseguendo i rei a vomitare confessioni non volute. Certo in questi abissi c’è l’America puritana, che irrompe inesorabile attraverso le violazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia prefreudiana di una vertigine di colpa connessa a qualche forma di degradata ribellione alla legge dei Patriarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’unica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tradizionali categorie di peccato e gli stessi timori di un inferno oltremondano. Basta in fondo, sembra dire Poe, quello che abbiamo dentro.

E connessioni e continui ritorni investono i personaggi. Molti dei quali conoscono stati di coscienza alterati, eccitazioni più o meno morbose, derive dei nervi o vere patologie mentali: condizioni frutto di peculiarità ereditarie (il legato familiare di sensibilità e fantasia febbrile che torna in parecchi racconti), contingenze metaboliche (l’eccitazione da convalescenza del narratore di The Man of the Crowd) o speciali situazioni emotive (L’ombra), ma altrove causate o almeno agevolate dal ricorso a oppio o sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (ben prima di Le Fanu: The Oblong Box); e soprattutto di quel vino che porta alla degradazione (The Black Cat), permette la vendetta (The Cask of Amontillado) o la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla nemesi (Thou Art the Man). Con l’esito più eclatante in King Pest, trasfigurazione alcoolica, grottesca e onirica, dell’incalzare di un Contagio assurto a topos e categoria interiore: dove il narratore è fin dall’inizio partecipe della deformazione visiva che l’etile reca ai protagonisti, descritti in termini non meno paradossali dei mascheroni della corte di Re Peste.

Ma il reticolo di connessioni è strettissimo: e rammentando Hop-Frog, è curioso notare che in Thou Art the Man, tra i presunti mittenti della fatale cassa di vino c’è un Frogs, e che il cadavere accusatore “salta” (to hop) fuori inatteso. Tutto un tessuto insomma di connessioni talora evidenti, ma altrove più sotterranee e giocate in chiave di sghemba allusione.

c) Però c’è un’altra tipologia che mi pare interessante, quella che potremmo chiamare delle forme. Alcune strutture visive, vorrei dire geometriche, evocate nei racconti tendono infatti a proporsi in declinazioni diverse di testo in testo. Per esempio la cassa è una struttura chiusa dal contenuto misterioso che può anche essere un corpo: appare in opere diverse, ha una funzione molto materiale e di servizio, difficile parlare di un topos, eppure la sua forma squadrata torna di frequente. Ma c’è un altro caso, anche più eclatante: la costellazione pozzi/fori circolari/gorghi i cui esempi emergono in testi importanti a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo… e così via.

 

4. Tra cortine e sipario

Si è citato il gotico, ed è affascinante notare come Poi lo reinventi radicalmente in un mix originalissimo con il fantastico grottesco alla Hoffmann, con il lascito degli autori neri americani (Brockden Brown, certo Washington Irving) e gli sviluppi neri del romanticismo coevo inglese (Bulwer-Lytton). Finisce così col porsi quale essenziale trait d’union tra l’epoca del primo gotico (quello che corre da The Castle of Otranto di Horace Walpole, 1764, a Melmoth the Wanderer di Charles Maturin, 1820 e alla versione definitiva del Frankenstein di Mary Shelley, 1831: Metzengerstein è del 1832) e la seconda ondata del genere. Cioè l’ondata che parte a metà anni Quaranta, e riceverà spinta da vari fattori, dal successo inglese dei penny dreadful grazie alle nuove rotative a vapore, al botto della nascita dello spiritismo “classico” col caso americanissimo delle sorelle Fox, 1848 (poco più di un anno prima della morte di Poe), a vari altri: e proprio la produzione del Nostro avrà un peso determinante nell’innescarla.

Tuttavia, come detto, soffermarsi troppo sul taglio al nero avalla l’equivoco di esaurirvi un autore ben più ricco. Se è vero che i suoi racconti macabri ne restituiscono la voce più nota e amata dal pubblico, e insieme forse più rispondente a certe crisi interiori, il rischio è di confondere Poe coi suoi personaggi: di dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiato da uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore e produzione letteraria. Emblematico è il saggio The Philosophy of Composition sulla genesi di The Raven: opera che certo denuncia per l’ennesima volta un rimpianto-vampiro dalle emersioni perturbanti e psichicamente devastatrici, ma anche l’uso che egli sa trarne razionalmente, inseguendo i lettori nelle loro emozioni e malinconie.

Significativo del resto il richiamo alla cifra del grottesco e arabesco da Poe stesso richiamata nel noto titolo della prima raccolta: quel lavoro di cesello da artista controllatissimo, profondamente letterario, che non si esaurisce nel travaso di angosce, e insieme un senso di spiazzamento che corteggia insieme macabro e ironia. A rammentare tra l’altro come pochi altri autori “neri” offrano un corpo tanto significativo di racconti ironici, sarcastici o decisamente comici – a volte macabri, a volte no.

Figlio di attori (è questa la fantasia ereditaria indicata in varie opere come matrice di irrequieta e febbrile visionarietà?), Poe offre nei racconti ideali monologhi teatrali: e se l’attenzione che il cinema gli tributerà guarda ovviamente, in prima battuta, al contenuto fantastico e nero, è pur vero che sceneggiature in sé non troppo fedeli possono ricondurre alla fonte attraverso lo stile d’interpretazione – capace di proclamare le ragioni della Notte con l’elegante teatralità dei soliloqui di Poe. Le cupe cortine dei suoi letti a baldacchino tirate a svelare epifanie della morte, le tappezzerie illusionisticamente arabescate mosse da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti svelano tutti, in qualche modo, i caratteri del sipario. E insomma la contestazione da “puristi” sul frequente, presunto tradimento di Poe su grande schermo – si pensi alle libere versioni di Roger Corman con l’immenso Vincent Price – può essere confutata alla luce di questa vocazione degli scritti virtualmente teatrale, spesso istrionica, gigionesca, tale da far riconoscere a certe pellicole popolari una maliziosa fedeltà allo spirito se non alla lettera di Poe.

Certo, la scrittura può essere quella con cui l’invitato di The Fall of the House of Usher tenta vanamente d’intrattenere l’ospite Roderick nella notte della tragedia: un placebo – ci provoca Poe – non molto diverso dagli oppiacei o dall’etile. In The Oval Portrait l’arte svela addirittura una dimensione vampirizzante. La scrittura può essere tante cose, e nelle pagine di Poe troviamo libere fantasie e polemiche puntuali, provocazioni e pose, ansie di gloria letteraria e genuini rovelli interiori – e poco importa che siano portati in scena dall’attore Edgar che cambia continuamente maschera e non ci permette realmente di vederlo dietro. Da qualche parte di queste confessioni avvertiamo una verità profonda, legata a un vissuto pesante e agli abissi di un inconscio con cui certe epopee di nicchie sotterranee e sepolti vivi potrebbero avere a che fare: qualcosa che ci sfida a capire ma cogliamo solo e sempre in modo incompleto, venato di dubbi. Come i suoi successori (si pensi a Lovecraft, cui viene spesso paragonato) e predecessori nel linguaggio fantastico, Poe non può essere confinato nel caso clinico, nel limbo di uno strano e neppure nelle logiche di immediata appetibilità dell’odierno pubblico pop – non sempre intenzionato a lasciarsi sfidare dalla complessità. Se l’uomo è un libro maledetto che non si lascia leggere, la condivisione donata di sofferenze e glorie attraverso il tempo ha piuttosto il nome di letteratura.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (I) https://www.carmillaonline.com/2019/09/28/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-i/ Sat, 28 Sep 2019 21:16:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55016 di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i [...]]]> di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i gotici – o più o meno tali – ad aprirsi la strada persino tra le letture scolastiche della sospettosissima Italia (hai visto mai che gli autori gotici portino i ragazzi sulla brutta strada), Poe è un evergreen editoriale, continuamente ristampato. E, badiamo bene, non è banale che continui senza interruzioni a essere proposto ai lettori italiani – e in sostanza a vendere: possiamo persino prenderlo come un segno di speranza. La scrittura elegante di un autore (non dimentichiamolo) della prima metà dell’Ottocento non è avvertita come pregiudizialmente ostica, e permette per esempio l’adozione in scuole di vario livello tra i testi consigliati; le domande sulla Vita e le conturbanti epifanie della Morte presenti nelle sue pagine costringono a meditare sull’intensa verità interiore della letteratura (cosiddetta) fantastica; le sue intuizioni sull’inconscio e su un genio della perversione che interpella insieme san Paolo e Freud incalzano il lettore nelle più scomode zone d’ombra. Pare sia addirittura, tra gli scrittori moderni, quello più frequentemente illustrato. Insomma una celebrità. Eppure…

Eppure questa conoscenza sfuma nel luogo comune. Le raccolte di suoi testi sono in genere miscellanee non strutturate in ordine cronologico, ma con racconti dispersi in un unico minestrone secondo il gusto del curatore del momento: quasi impossibile per il lettore cogliere il senso di un’evoluzione nella scelta dei soggetti e nello stile, le fasi tematiche (pur senza pretese d’individuarvi rigide cesure), magari i percorsi carsici dello stesso tema tra novelle serissime o invece buffe, e per tutte le tinte intermedie. Le sue donne spettrali e il suo orizzonte dolente vengono spesso semplicisticamente ricondotti a struggimenti per la morte di tisi della moglie bambina, idea che un semplice controllo delle date basterebbe a confutare. La pubblicazione dei suoi racconti su riviste ha comportato una loro – a volte significativa – trasformazione dalle prime edizioni a quella “definitiva” che leggiamo noi, con connotati cangianti che talora ne vedono mutare addirittura il senso di fondo: e questo in genere resta ignoto al lettore.

Sì, è considerato un classico, viene tanto pubblicato ma in genere senza contestualizzare il suo mondo (la società americana cui il giornalista Poe rivolge graffianti osservazioni, la dimensione metropolitana in ridefinizione, l’orizzonte di una nazione che sta spregiudicatamente costruendo il proprio impero): e il lettore medio nostrano, che conosce poco di quell’America pure tanto presente sullo sfondo, non coglie i richiami. I testi vengono poi presentati in troppi casi con note insufficienti o nulle, rendendo incomprensibile la maggior parte di ammiccamenti e sottotesti (spesso riferiti ad autori al tempo di moda ma oggi e tanto più da noi ignorati, oppure all’attualità minuta del suo tempo), e a volte risulta criptico il significato stesso delle storie. Col risultato d’insistere sulla musicalità di Poe: vero, ma quella musica supporta significati precisi, e non si esaurisce nella bellezza dell’arabesco cui pure lui tanto tiene.

E ancora: un certo tipo di caricatura appioppatagli insiste sul Poe alcolista, magari drogato, magari dedito compulsivamente al gioco, le cui opere sarebbero frutto diretto delle sue infinite trasgressioni. Questa è un’altra delle sgangherate fantasie su di lui, in parte già circolante per i livorosi commenti di alcuni contemporanei. A periodi Poe è stato effettivamente vittima dell’alcool – etilismo e consunzione sono del resto i due grandi e diffusissimi mali dell’America dell’Ottocento – ma non è questa una situazione continuativa che l’abbia afflitto negli anni; non risulta aver fatto uso di droghe, salvo le dosi d’oppio contenute in farmaci d’epoca; non era, a dispetto di quanto ogni tanto si senta dire, un cultore dell’assenzio; e le esperienze di gioco d’azzardo, se ci sono state, si sono esaurite tra le ragazzate degli anni universitari. Molto di tutto questo si trova invece nei suoi personaggi, che troppo spesso vengono confusi con lui. Quanto ai suoi testi formalmente levigatissimi, non si tratta di opere compatibili con la perdita di controllo tipica dell’assunzione di alcolici o droghe, e presuppongono un’attività letteraria rigorosamente sobria. Non dimentichiamo mai, piuttosto, la sua teatralità – istrionismo, gigioneria – che lo fa giocare con certe maschere: ma in modo lucido, consapevole. Sfuggente, certo: basta leggere il suo epistolario e ci rendiamo conto della quantità di menzogne o piuttosto fantasie da autofiction che imbandisce agli interlocutori. Un ignoto a se stesso che ha comunque estrema consapevolezza del suo ruolo autorale e del tipo di controllo richiesto dalla buona letteratura.

La stessa nomea di scrittore dannato, maestro del macabro e del mistero lo confina a monumento e padre remoto dei generi “a effetto” ancora vivissimi oggi – in particolare horror, fantascienza e poliziesco: ma l’immagine pur fondamentale del Poe maestro d’orrori deve fare i conti col fatto che una parte molto importante della sua produzione è in realtà di carattere ironico, satirico o decisamente comico.

Si direbbe persino che non possano sorgere novità su di lui, tanto la critica ha lavorato sui suoi testi quando ancora eredi e predecessori “neri”, gotici e affini, restavano fuori dalle accademie. Una presunzione di conoscenza che invece continua a confrontarsi con sorprese: per esempio gli studi qualche anno fa dello scrittore nostrano Gianfranco Manfredi su giornali statunitensi dell’Ottocento evidenziano quanto nell’immaginario locale la consunzione, diffusissima e letale – una costellazione vaga e ampia di malattie polmonari, dalla TBC alle affezioni dei lavoratori dei mulini –, nutrisse una mitologia del vampiro. Qualcosa che permette di interpretare Ligeia & sorelle (compresa la dentata Berenice) come assai più radicate nel filone dei succhia-vita di quanto in genere si sia concesso. Per non parlare di quel vampirismo che in The Man of the Crowd, sorta di Ebreo Errante della modernità urbana, ha ormai valore metaforico di un’osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa.

Insomma, studiare Poe ci provoca a scoprire che si tratta di un bacino di fantasie assai meno scontate di quanto spesso si consideri: e iniziative di rilettura della sua opera permettono veri e propri colpi di scena. Di qui anche l’importanza di un lavoro sul tessuto dei testi come via via prodotti negli anni – a cogliere fili che si dipanano tra un titolo e l’altro – e via via oltretutto trasformati nel tempo, soprattutto quelli della prima produzione: basti dire che il primo racconto di Poe, Metzengerstein, nato con abbondanti dosi d’ironia macabra e di paradosso fiabesco, diventerà, di taglio in taglio, un racconto nero in perfetto stile gotico.

2. Stagioni, variabili e costanti

Si è accennato al problema della difficoltà per i lettori delle raccolte circolanti – in sé anche ottime, la mia non è una polemica – di sfuggire a un pregiudizio fondamentale, che cioè Poe abbia per tutta la vita battuto un po’ sempre gli stessi pochi temi. Chi invece si sforzi di seguire un ordine cronologico dei testi si accorge di un’evoluzione della sua opera, in rapporto sia ai suoi interessi artistici e speculativi sia – non dimentichiamo questo aspetto – alla pragmatiche possibilità di collocazione editoriale. Qualcosa che conduce a riconoscere varie fasi creative, certo non chiuse e prive di rigide cesure (i temi transitano spesso da una fase all’altra, ma magari con equilibri interni sensibilmente mutati); e tuttavia connotate da un diverso sapore generale. In questi termini forzatamente elastici la produzione di Poe può ripartirsi – alla grossa – in tre grandi stagioni.

1. C’è anzitutto una stagione che potremmo chiamare delle sperimentazioni, e che corre dalle prime prove poetiche (1824) e narrative (appunto Metzengerstein, 1832) a Ligeia, il primo dei capolavori riconosciuti (1838). Una fase cioè in cui il giovane autore sta cercando di trovare espressioni congrue al suo lussureggiante mondo interiore, a partire dal suo primo amore, la poesia; e dove però si trova indotto a misurarsi con forme via via diverse di scrittura – dai racconti al suo unico romanzo compiuto Gordon Pym (1837-38), dalla saggistica a tagli diversi di articoli e recensioni –, in parte proprio per star dietro alle proprie fantasie e in parte per motivi pragmatici, economici di collocabilità dei pezzi. Certo continua a produrre poesia, una forma di scrittura che frequenterà tutta la vita, sia con testi nuovi, sia tornando indefinitamente a modificare i vecchi. E certo riconosce una propria vocazione idealmente teatrale: è figlio d’attori, ha il teatro nel sangue e una certa teatralità nel rapportarsi al mondo; così tenta anche un’opera teatrale che però non lo convince e abbandona, il Politian (1835-1836). Ma abbastanza presto deve rendersi conto che entrambe, la cifra poetica e quella teatrale, possono trovare trasfusioni artisticamente adeguate e pragmaticamente vendibili nella prosa breve: quella in fondo che lo renderà più famoso.

Così da un lato, sull’onda delle fantasie visionarie, esoticheggianti e oniriche presenti nella sua produzione lirica (per due esempi emblematici della primissima produzione, si pensi solo a Tamerlane o Al Aaraaf) vediamo apparire in prose brevi una serie di racconti su fantastici scorci esotici, incredibili città di mondi remoti, orienti favolosi e ambigui (A Tale of Jerusalem, Shadow—A Parable, Four Beasts in One—The Homo-Cameleopard, Silence—A Fable). Dall’altro vediamo trasferire in forma di racconti tutto un teatro di febbrili monologhi dove sembra di vedere Poe gigioneggiare su un palcoscenico.

Questo secondo aspetto è particolarmente evidente nei testi sulle donne che tornano, caratteristici di questa prima stagione (Berenice, Morella e appunto Ligeia): un tema che incalza Poe un po’ per tutta la vita, ma in seguito declinerà quale elemento di contesti più complessi mentre qui emerge per così dire puro, in primissimo piano. Si è visto in questi racconti il contributo di Poe al nascere della ghost story e può essere senz’altro corretto: ma la natura di queste ritornanti va rettamente intesa, e in primo piano spicca anzitutto l’interesse per i doppi e le ossessioni e crisi legate all’identità. Ciò che non stupisce, visto che il tema identitario – sia nell’accezione individuale (personale, psicologica) che collettiva (sociale, politica) – è uno dei più forti e connotanti del fantastico moderno, e corre nella tradizione gotica fin dai suoi esordi: e del resto in questa fase Poe pratica con larghezza le forme del gotico.

Ma pensiamo a un altro topos gotico, la casa-palazzo che crolla o comunque va in desolazione, e che lo accompagnerà anche nelle fasi successive. Che possiamo idealmente scomporre in due costituenti, la casa-palazzo (enorme, labirintica erede dei castelli gotici) e il grande incendio, legati a stretto filo alla mitologia personale del bambino e poi uomo Edgar: la prima nella memoria della grande magione Moldavia – si noti il nome evocante fantastiche Europe orientali – del patrigno John Allan archetipo del tiranno; e il secondo dell’apocalittico rogo del 26 dicembre 1811 al teatro di Richmond associato alla memoria della morte (poco prima, 8 dicembre) di sua madre. Il fatto che il primo racconto, appunto Metzengerstein con il crollo del palazzo in fiamme, già metta in scena tale combinazione può dir qualcosa della loro forza immaginale.

Ma Poe inizia a rileggere in questa fase anche altri temi romantici neri – dal suicidio degli amanti (The Assignation) alla contrattazione col diavolo, reinventato in chiave ironica (The Duc de L’Omelette, Loss of Breath, The Bargain Lost/Bon-Bon) – o comunque macabri/grotteschi come l’esordio del motivo dell’uomo che perde pezzi in chiave burattinesca (ancora Loss of Breath): questi motivi emergeranno ancora per qualche tempo nella seconda stagione per poi sparire. Appare già anche, non casualmente date la contingenza della grande epidemia colerica, il tema del contagio (King Pest, Shadow—A Parable).

D’altra parte, come detto, Poe attraversa disinvoltamente ogni barriera dei generi letterari che compilatori successivi hanno cercato di recintare. Così se in questa prima fase troviamo per esempio le prime prove di una satira di costume ancora surrealmente burattinesca (Lionizing, Mystification), eccolo dare voce ad altri due filoni eccellenti. Cioè da un lato le grandi storie di mare – spesso estreme, tra oceani onirici e terre cave, suggestioni simboliche e misticheggianti (MS. Found in a Bottle, appunto il Gordon Pym) – che guardano insieme ai filoni avventuroso, dei drammi di navigazione e dei viaggi d’esplorazione. E dall’altro inizia a profilarsi una protofantascienza dai connotati satirici – come spesso nei prodromi del filone, tra Sette e Ottocento –, ma non priva di genuine provocazioni scientifiche sul tema del volo mirabolante (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall).

Un discorso a parte potrebbe riguardare un testo particolare come l’articolo Maelzel’s Chess Player, dove lo sforzo di decostruire un meccanismo da spettacolo – il famoso Turco giocatore di scacchi portato in giro dall’impresario Johann Nepomuk Mälzel – prefigura già in fondo i meccanismi del poliziesco.

2. Come detto, non è tanto un discorso di cesure tematiche quanto di tipo d’approccio e status autoriale quello che permette di individuare dopo Ligeia una seconda stagione, indicativamente fino a The Pit and the Pendulum, 1842-43: è l’epoca – potremmo così chiamarla – dei grandi affreschi fantastici. Poe si è ormai affermato, sa come muoversi ed è interessante vedere che i testi cambiano assai meno dalla prima all’ultima redazione. E dove cambiano, talora è anche nel continuo dialogo tra poesia e prosa: nei racconti inserisce componimenti lirici tematicamente adeguati (per esempio The Conqueror Worm, 1843, in Ligeia) o invece li scorpora dal testo (Inno, sfilato nel 1840 da Morella).

I singoli temi gotici (la casa-palazzo che va in desolazione, l’identità e il doppio, l’epidemia) vengono ampliati in grandi affreschi, articolando maggiormente le trame e le costruzioni d’ambiente: si pensi a The Fall of the House of Usher, William Wilson, The Masque of the Red Death, ma anche a The Man of the Crowd e The Pit and the Pendulum. Il tema della donna che torna, in particolare, trova ora riproposizioni in storie che ampliano la visuale (appunto The Fall of the House of Usher) o viene radicalmente reinventato (Eleonora, The Oval Portrait), forse anche in rapporto con l’inizio nel 1842 della malattia della moglie.

Certo Poe continua a sperimentare (lo farà, del resto, tutta la vita) ma su una base ormai sicura quanto a tecnica e apprezzamento dei lettori. Proprio dalla fusione tra elementi del gotico e storie di ragionamento/indagine/deduzione (basti citare lo Zadig di Voltaire) costruisce ora per esempio qualcosa di radicalmente nuovo, dando origine al romanzo poliziesco con The Murders in the Rue Morgue; e una novità è anche di attribuire a quel testo un sequel nel senso moderno, The Mystery of Marie Rogêt – nasce insomma il detective seriale. Alla categoria degli enigmi da risolvere si può peraltro accorpare anche l’articolo A Few Words on Secret Writing sul tema della crittografia, che darà frutti narrativi più avanti.

Sempre mixando suggestioni macabre e speculazione filosofica vara poi una piccola serie di dialoghi tra soggetti defunti che ragionano sulle misteriose realtà oltremondane e sulla distruzione del pianeta per il passaggio di una cometa, quasi in termini di fantascienza apocalittica (The Conversation of Eiros and Charmion, The Colloquy of Monos and Una). Per contro va chiudendo in questi anni il tema delle avventure di mare (sia pure con un gioiello come A Descent into the Maelström) e di terra (l’avvio di The Journal of Julius Rodman, nuovo romanzo lasciato però incompleto).

Torna anche il tema del diavolo, sempre in chiave grottesca alla Hoffmann (The Devil in the Belfry e Never Bet the Devil Your Head). Del resto i racconti in chiave di satira di costume mostrano ancora in genere caratteri burattineschi (How to Write a Blackwood Article, The Business Man, A Predicament, The Man That Was Used Up, Why the Little Frenchman Wears His Hand in a Sling); con la curiosa eccezione di Three Sundays in a Week che già preannuncia i testi più tardi di pura commedia e mostra il caso eccezionale di un’eroina femminile non passiva, e che vince grazie a competenze scientifiche. Ma spesso la satira, il grottesco, la comicità, appaiono connotati da elementi macabri: trova massimo sviluppo in questo periodo il citato tema dell’uomo – o della donna – che perde pezzi, cioè la testa o altro (A Predicament, The Man That Was Used Up, Never Bet the Devil Your Head).

Abbandonati in generale gli esotismi della prima stagione, i testi estetizzanti acquisiscono risonanze filosofiche di più ampio respiro (The Island of the Fay, The Landscape Garden) o sviluppano riflessioni sul richiamo al Bello anche nella vita corrente (l’articolo The Philosophy of Furniture).

(1 – continua)

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Hanns Heinz Ewers e la Donna Ragno (Victoriana 27/II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/12/hanns-heinz-ewers-e-la-donna-ragno-victoriana-27-ii/ Mon, 12 Aug 2019 21:40:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54102 di Franco Pezzini

Sussurri e ghigni    [qui la prima puntata]

Dalla sommità di Punta Tragara a Capri, l’uomo che narra sta godendosi da un po’ il panorama. A un certo punto si appresterebbe ad andarsene, ma ecco un tipo sedersi sulla sua panchina e trattenerlo per un braccio: lo chiama per nome, c’è in lui qualcosa di noto. Occorre però un attimo al Nostro per riconoscere (nientemeno) Oscar Wilde: o piuttosto C.3.3., dal numero della cella assegnatagli a Reading dopo la penosa carcerazione per “gross public indecency”, e che lascia del frizzante [...]]]> di Franco Pezzini

Sussurri e ghigni    [qui la prima puntata]

Dalla sommità di Punta Tragara a Capri, l’uomo che narra sta godendosi da un po’ il panorama. A un certo punto si appresterebbe ad andarsene, ma ecco un tipo sedersi sulla sua panchina e trattenerlo per un braccio: lo chiama per nome, c’è in lui qualcosa di noto. Occorre però un attimo al Nostro per riconoscere (nientemeno) Oscar Wilde: o piuttosto C.3.3., dal numero della cella assegnatagli a Reading dopo la penosa carcerazione per “gross public indecency”, e che lascia del frizzante e vigoroso esteta d’un tempo “una povera imitazione, un pallido ricordo”. Iniziano a parlare, fanno due passi insieme: Wilde è affaticato, non riesce a salire un ripido pendio e vi girano intorno.

Siedono davanti all’Arco naturale, e il Nostro ricorda un loro precedente incontro proprio in quel punto cinque anni prima: aveva trovato irritante la superbia sdegnosa di Wilde. Sembra fantastico ritrovarsi lì ora.

 

 – Sì – sottolineò Oscar Wilde. – Fantastico!

Si direbbe il sogno di un Essere ignoto… un sogno di cui siamo i protagonisti.

– Sì… che ha detto? – esclamò Oscar Wilde, ansante, ferito e divorato dall’eccitamento.

Ripresi negligentemente:

– Si direbbe il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui noi siamo i protagonisti.

Le mie labbra si muovevano macchinalmente, mi rendevo appena conto di quanto dicevo e pensavo.

Oscar Wilde ebbe un sussulto; questa volta la sua voce ritrovò l’antica inflessione dell’uomo il cui spirito altero si elevava al di sopra della folla volgare.

– Si guardi bene dal voler svelare l’ignoto: non a tutti è dato!

 

Il Nostro vorrebbe chiedergli, capire di più, ma Wilde si allontana. Tre giorni dopo il narrante riceve il biglietto per un appuntamento alle otto di sera nella grotta Bova Marina.

Interrompiamo per ora la storia di questo dialogo sui sogni di un essere ignoto, e torniamo al racconto Il ragno: che quanto a carica onirica a sua volta non scherza. Ewers si dedica al testo mentre si trova a Villa Suzy (successivamente detta Hôtel du Vieux-Chêne) nel Bois-de-Cise, una frazione di Ault nel dipartimento della Somme, Alta Francia. È reduce dal Sud America, via Lisbona e Parigi, e dal 12 giugno 1908 si ferma all’albergo dove compone varie novelle della raccolta Die Besessenen. Nei mesi successivi la Mosse-Verlag pubblicherà Il ragno sul Volkszeitung, il Berliner Morgen-Zeitung e sul Zeitgeist, supplemento culturale del Berliner Tageblatts: e l’opera, dedicata al fedele amico Franz Zavrel, sarà destinata a un successo strepitoso.

Le fonti sono, come rammentato, probabilmente parecchie, da un intero ventaglio di letture dell’autore. Che però molto presto deve difendersi da una specifica accusa di plagio: a detta di alcuni lettori, la sua sarebbe un’indebita ripresa della novella L’oeil invisible di Erckmann-Chatrian (firma collettiva dei due autori francesi Émile Erckmann, 1822-1899 e Alexandre Chatrian, 1826-1890). Ewers risponde il 7 dicembre 1908 su Zeitgeist dichiarando di non aver mai letto niente dei due, e che anzi non è stato facile rinvenire il testo in questione. Oltretutto – come emergerà da voci a sua difesa – anche se ne Il ragno l’ambientazione parigina può essere contemporanea, la misteriosa serie di suicidi sarebbe effettivamente avvenuta a Parigi intorno al 1866: ciò almeno secondo il beninformato Hofrat Hanel, docente di diritto tedesco all’Università di Praga. Della veridicità delle affermazioni di Ewers si è in realtà dubitato, suggerendo che potrebbe aver utilizzato novelle come quelle di Erckmann-Chatrian – brevi e non troppo complesse – per misurarsi fin da giovanissimo con la lingua francese. In effetti i nessi sembrano troppi per parlare di un caso: anche se, esaminando il presunto testo-fonte, ci rendiamo conto che Ewers lo trasforma comunque in tutt’altro, molto più affascinante e disturbante di quella fiaba romantica.

La novella L’oeil invisibile era comparsa nella raccolta Contes populaires edita tra il 1875 e il 1880, e vi si parla di due edifici gemelli a Norimberga: uno è il vivace albergo del Bue Grasso, l’altro il suo opposto speculare e sinistro, silenzioso e triste abitato in apparenza solo da una vecchia. I denti di lei sono “piccoli, appuntiti e di un bianco meraviglioso, e questo non è naturale alla sua età” fa notare il vecchio rigattiere ebreo Toubac: la gente la chiama Fledermausse, la Pipistrella… Parte così tutta una vicenda di rifrazioni, narrata dal protagonista, il pittore Christian, costretto per povertà a insediarsi nel tetto di un edificio molto più alto prossimo ai due. Quando appunto nell’albergo si consumano uno dopo l’altro tre misteriosi suicidi di clienti – guarda caso per impiccagione all’insegna dell’esercizio, raggiungibile da una certa Camera verde – Christian riesce dall’alto a scoprire che c’entra Fledermausse: una strega che vive sola in compagnia di un ragno ripugnante, e si serve di un manichino abbigliato come la vittima di turno onde indurla per imitazione (magia simpatica, potremmo dire) al suicidio. L’interesse della vecchia è quello tipico delle streghe folkloriche, la “soddisfazione diabolica” (sic) del male per il male, e tutto il racconto è giocato come una fiaba: compreso il finale in cui Christian si fa ospitare nella Camera verde e, truccatosi specularmente da vecchia, mette in gioco per primo il sotterfugio del manichino. La pessima Fledermausse finirà dunque con l’impiccarsi…

Lo scarto dalla storia di Ewers è ovviamente enorme: la natura della nemica è chiara, non si tratta di una fascinosa e sfuggente femme fatale incarnazione delle potenti forze della libido e la dimensione erotica è assente; il set è una Norimberga alla Hoffmann, romantica e fiabesca, invece della metropoli francese moderna; il narrante è lo stesso Christian, non due voci altamente sospette come quelle dell’anonimo che in Ewers riporta i fatti e dello stesso diario di Richard; e se pure troviamo tre suicidi misteriosi prima dell’inizio dell’azione reale, il contesto è del tutto diverso. Tra le vittime c’è uno studente, ma è appunto uno dei primi tre; e l’ottimismo del protagonista non emerge all’inizio, ma alla fine della storia, prima dello scontro “magico” con la Pipistrella. Quanto al ragno, ha un ruolo del tutto secondario: vediamo la vecchia che lo nutre con una mosca (torna cioè il siparietto di voracità tra invertebrati) ma mancano la dimensione cannibalesca tra femmina e maschio della stessa specie e l’ambiguo nesso con la persona della predatrice.

La dimensione scopica è poi presentata in termini differenti. Troviamo anzitutto la visione panoramica della casa maledetta da parte di Christian, spinto a guardare dal richiamo di una farfalla notturna (che lui interpreta come l’anima di una delle vittime, proprio lo studente). Una visione che si rivela però tanto innaturalmente dettagliata da flirtare con lo sguardo di un narratore onniscente; al punto da spingere Christian ad avvicinare metaforicamente la farfalla a un silfo, gli spiriti dell’aria noti come paradigmatici voyeur in tutta una tradizione letteraria francese. D’altra parte c’è la visione delle vittime, che però non richiede un rapporto tanto prolungato tra l’ospite della Camera verde e la vecchia portatrice di malocchio. Emblematica la spiegazione sul meccanismo criminale: che certo Christian affronta in termini generali, senza capire il particulare del potere di Fledermausse (appunto la magia simpatica), ma per esempio dà conto in termini efficaci del brivido misterioso di certe epidemie di suicidi.

 

Mi vennero alla mente quei precipizi che attraggono con un potere irresistibile; quei pozzi o cavità che la polizia è stata costretta a chiudere, perché la gente vi si gettava dentro; quegli alberi che erano stati abbattuti perché ispiravano agli uomini l’idea di impiccarsi; quel contagio di suicidi, di rapine, di omicidi, in certe epoche, con mezzi disperati; quella strana e sottile attrattiva dell’esempio, che ti fa sbadigliare perché un altro sbadiglia, soffrire perché vedi un altro soffrire, uccidere te stesso al vedere gli altri ammazzarsi – e i miei capelli si sono rizzati per l’orrore.

 

Quanto al finale, quella di Christian è la vittoria di un eroe da fiaba, mentre la distruzione della seduttrice Clarimonde – parente di altre femme fatale e mostri femmina simbolisti come l’enigmatica Sfinge strangolatrice – si ascrive a un contesto di fragilità e disperazione ben diverso, dell’uomo decadente che sta fallendo alla prova della realtà e deve far fronte al vampiro con gli ultimi spasmi della propria debolezza.

In questo senso, il cercare la fonte – o le fonti – de Il ragno non può ovviamente ridursi alla cifra asfittica del plagio, in presenza di un quadro ben più ricco, ma torna a suggerire la creatività con cui Ewers gioca i materiali a propria disposizione. Anche sul piano formale: se la dimensione scopica in L’oeil invisibile presenta come detto connotati irrealistici, al contrario Ewers offre un dramma (letteralmente) da camera. Cioè una situazione da un lato agevolmente riconducibile a dinamiche teatrali, e ormai conosciamo le sue competenze in materia; ma dall’altro già leggibile con uno sguardo cinematografico. Non solo insomma quanto a possibile messa in scena, ma in rapporto a un linguaggio, un immaginario (la finestra come schermo, i giochi d’ombre, il dialogo muto come nei primi film), una potenza simbolica e di metafora. E all’Ewers del cinema dovremo tornare.

D’altra parte il libero uso di fonti letterarie da parte del Nostro non comporta che tutto si esaurisca sul piano libresco. Al contrario, molti degli spunti presenti nella raccolta di cui ora continuiamo l’esame, Il Ragno e altri Brividi,  vengono direttamente dalla vita di Ewers, dai suoi viaggi, dagli incontri fatti, dalle storie ascoltate…

Il volume costituisce la benemerita riproposta da parte di Meridiano Zero di un florilegio ewersiano edito da Del Bosco (Roma 1972), uno dei pochi apparsi in Italia: ed è vero che a fronte del capolavoro Il ragno gli altri racconti antologizzati risultano minori. Eppure chi li svilisse sbaglierebbe: a parte la fantasia, l’abilità nei siparietti messi in scena, il divertissement di certe situazioni macabre, il panorama che emerge è di primario interesse nella prefigurazione di quella cultura nera di Weimar, libera e ossessa, visionaria e torbida, che ad autori come Ewers dovrà moltissimo. Dove torniamo al distinguo tra l’abilità tecnica di un autore, il suo impatto e l’originalità mostrata, da un lato, e dall’altro la dimensione anche profondamente equivoca di un certo immaginario.

Si pensi alla frequenza di immagini disturbanti legati al corpo e alla figura femminile, anche se all’interno di racconti che poi sviluppano temi diversi in termini di grande fantasia. Il nesso è in fondo con quel simbolismo fitto di demoni e dei che vede dilagare nella cultura tedesca – e non solo – intere gallerie di donne tremende: dove in realtà i profili della vamp divoratrice e della vittima di violenze disturbanti finiscono con il sovrapporsi, nel segno di un esplosivo mix sessista di sadismo e ginofobia. Anche la distruzione del ragno alla fine del racconto che abbiamo esaminato può ascriversi al quadro di donna fatale punita: veri e propri materiali mitologici, con tutto ciò che comportano in termini di adesione emotiva e ricadute anche allarmanti nei rapporti concreti tra i sessi.

Il fenomeno, come detto, guarda ben oltre la Germania, e per capire alcune odierne derive del web dobbiamo indagare come l’eredità di Sade sia stata ripensata a cavallo tra Otto e Novecento impattando sul modo di concepire il genere, la sessualità e le sue forme. Emblematico in età nazista il ruolo della vamp che minaccia l’eroe, e sul tema si può rinviare al classico studio di Klaus Theweleit, Fantasie virili. Donne Flussi Corpi Storia. La paura dell’eros nell’immaginario fascista (il Saggiatore, Milano 1997). Ma il discorso non si esaurisce evidentemente con la caduta della croce uncinata, e corre per infiniti altri rivoli fino ai nostri giorni.

A conferma di tale direzione immaginale si sgranano le novelle successive della raccolta in esame: e i necessari cenni di riassunto qui forniti in chiave di analisi – almeno sommaria – lasciano intatte le sorprese di un tessuto narrativo.

Troviamo così L’ambra al Tribunale Criminale, dove dall’immagine di insetti preistorici imprigionati appunto nella resina fossile si passa all’evocazione di reperti inclusi sempre maggiori, come nella leggendaria collezione del dottor Katzenkopf che il narrante vorrebbe vedere. Salvo poi scoprire che si tratta di reperti falsificati, nel senso che il sinistro dottore conchiude nel materiale resinoso in fusione gli oggetti naturali più incredibili: e il racconto termina con l’immagine evocata, francamente macabra, della testa nell’ambra di una bella donna. Dove il fatto che sia bella rimarca non solo la sua dimensione di attrattiva erotica ma la sua iniziale pericolosità: pietrificata nell’ambra, finisce così col rimandare al pietrificante gorgoneion, sia pure in una chiave sordida di truffa e follia.

Il racconto seguente, La fine di John Hamilton Llewellyn (scritto a Capri, 1905), narra della triste rovina psichica cui va incontro un pittore morbosamente attratto da un corpo femminile preistorico (questa volta lo è sul serio) incluso nel ghiaccio come i coevi mammut. Per ritrarre quella bellezza al meglio, il pittore penetra abusivamente nel deposito del British Museum dov’è conservata e la libera dalla gelida corazza: ma poi non trova di meglio che gettarsi tra le braccia di lei… le cui carni all’improvviso gli si decompongono addosso facendolo impazzire. Se qui il rimando sembra piuttosto alle vanitas pittoriche, restano gli elementi di una donna fatale, un corpo imprigionato e una dimensione di sessualità disturbante, necrofiliaca.

Ne Il cuore trafitto (Ellen Carter) (scritto a Cannes, 1903) il cadavere soggetto all’impalamento nel Rhode Island non appartiene a una donna – come potremmo a questo punto attenderci –, ma a un uomo di una certa età: la disgustosa pratica è sancita secondo l’antico uso dal tribunale per punire un suicidio. Ma la bellissima figlia Ellen è pronta a concedersi a chi l’aiuti a ottenere una più degna sepoltura al genitore: il narrante riesce nell’impresa vivendone tutto l’orrore, desidera disperatamente la ragazza ma rifiuta un simile rapporto mercenario. Ellen si sente a sua volta rifiutata e lui resta in scacco delle proprie emozioni: non riescono a chiarirsi, lui rimane tormentato dal desiderio – il cuore trafitto del titolo è quello del cadavere ma idealmente anche il suo e in fondo quello di Ellen – e le due vite finiranno con l’incrociarsi continuamente, tormentosamente. Di nuovo insomma una donna fatale, una donna che si fa puro corpo, e l’orrore fisico di un cadavere devastato.

La Mamaloi (scritto a Ragusa, 1907) vede invece in scena Haiti e i rituali vudù: il protagonista amato da Adelaide, una mamaloi/sacerdotessa del culto, verrà da lei salvato a un prezzo terribile e finirà con l’ucciderla. Ancora dunque una donna fatale, che cambia la vita al narrante, e alcuni cadaveri.

Ambientato in Guyana, Due donne per un uomo (scritto sull’Atlantico presso quella costa, 1906) racconta il salvataggio di un tedesco da parte di una religiosa, la soave Suor Vittorina, e di una nativa americana di cui non conoscono il nome: costei nutre il poveretto, colpito da un morbo locale, con l’unico alimento che lo stomaco possa trattenere, cioè il latte dei suoi seni. E per questo finisce poi battuta a morte dal marito.

 

– Ma è roba da pazzi – gridò il tedesco. – Ditemi, dottore: Suor Vittorina sapeva gli usi inconcepibili di queste tribù?

Il dottor Bonhommet alzò nuovamente le spalle.

– L’ignoro – rispose. – Del resto, la cosa non mi riguarda. In tutti i casi è certo che l’indiana che le ha salvato la vita sapeva benissimo che cosa l’aspettava.

 

Il finale, con l’ennesimo femminicidio, lascia insomma sussistere nei confronti della brava suora tanto preoccupata per l’occidentale un’ombra vaga e piuttosto raggelante. In questo caso la fatalità del ruolo femminile presenta ovviamente un duplice volto.

Ne La mummia (scritto a Capri nel 1913), invece, un’altra vicenda di orrori d’alloggio offre il destro per un divertissement macabro dove una ragazza un po’ insopportabile finisce mummificata da un condomino del narrante, e passa per reperto egizio…

In apparenza non compaiono invece donne, fatali o meno, nel racconto con Oscar Wilde sopra citato, Il ghigno: un testo fantastico ispirato però, come detto, all’autentico incontro di Ewers con lo scrittore inglese nel 1898 durante un viaggio a Capri. Abbiamo lasciato che i due si ritrovassero nella grotta Bova Marina, dove Wilde ha dato appuntamento al tedesco: un posto, spiega, che gli ricorda il suo penitenziario. E incalza: “Recentemente, lei ha detto qualche cosa che mi ha colpito… Ha detto: ‘Si direbbe il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui noi siamo i protagonisti’”. Proprio così: tutto è sogno, “il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui io sono il protagonista!”. Soltanto per quello non si è fatto saltare le cervella alla prospettiva del carcere: la rivoltella gliel’avevano pure passata, di straforo durante il processo… ma durante la notte Wilde aveva fatto uno stranissimo sogno.

 

Vicino a me vidi un essere strano, una massa molle come un mollusco, che nella parte superiore terminava in una orribile Smorfia. Questa creatura era sprovvista di braccia e di gambe; la si sarebbe detta una testa ovoidale dalla quale, in qualunque momento e da tutte le parti, potevano spuntare arti gelatinosi. Tutto l’insieme aveva un colore bianco tendente al verde quasi trasparente, dove s’intrecciavano innumerevoli lineamenti.

E io parlavo con questa cosa; non so più di che. Tuttavia il nostro colloquio divenne sempre più vivace, e alla fine la Smorfia mi rise ignominiosamente in faccia, prorompendo:

“Vattene! Non vale veramente la pena di discutere con te!”

“Cosa?” replicai. “È un po’ forte! Guardate la cattiveria che pretende di sviluppare un essere che in realtà non è che un brutto fantasma di me stesso!”

La Smorfia si contorse in un sogghigno, s’inchinò più volte e chiocciò:

“Guardatelo! Non sarei dunque che un suo fantasma! No, povero amico, la situazione è proprio l’opposto: sono io che sogno, e tu non sei che un minuscolo personaggio del mio sogno”.

Ciò dicendo, la Cosa continuava a sogghignare: tutta la sua maschera sembrava un sogghigno. Poi scomparve e io non vidi più, nell’immaginazione, che il Sogghigno.

 

Soffermiamoci su quest’immagine terribile, una specie di mollusco dai connotati disturbanti e sarcastici. E il primo pensiero è relativo a quel sogghigno che resta alla sparizione dell’essere: qualcosa come la riscrittura lisergica, disturbante, del già onirico Gatto del Cheshire di Alice in Wonderland. Un richiamo sembra almeno plausibile.

Inevitabile poi domandarsi quali tipo d’influenze – per quanto oblique e indirette – simili fantasie avrebbero contribuito a scatenare nei lettori. Per esempio in un Lovecraft, che si può sospettare conosca il racconto: dove la fantasia su un mostruoso simil-mollusco dai poteri sul cosmo – nel senso della realtà di Wilde – e legato a una dimensione di sogno pone almeno qualche domanda. “In his house at R’lyeh, dead Cthulhu waits dreaming” eccetera…

Ma torniamo alla provocazione di partenza: siamo davvero certi che il racconto in esame manchi di figure femminili? Soffermiamoci su quest’essere inquietante. Mettiamo pure da parte l’uso in italiano del genere femminile per i vocaboli che lo definiscono: “Smorfia”, “creatura”, “testa ovoidale”, “Cosa”. Mettiamo da parte anche il fatto che l’essere ha generato Oscar nei suoi sogni, cioè ne è in qualche modo madre. Ma un essere che è tutta testa, vagamente tentacolata, finisce col richiamare anche e proprio nel mondo immaginale di Ewers al mostro-femmina per eccellenza, la Gorgone decapitata, dalle labbra spalancate in una sorta di ghigno. Se in effetti la donna, nelle storie di Ewers, è spesso una parte di donna, una mutilazione di donna o un semplice residuo di corpo femminile, quest’essere molle potrebbe interpretarsi come la testa mozza di Medusa: dove il nome, anche in tedesco, trascolora dal mito alla zoologia. Con una suggestione ulteriore, persino più estrema: se pensiamo a come altri artisti hanno giocato a épater le bourgeois in chiave teratologica sul tema queer – per esempio ai giochi che il genio omosessuale James Whale immetterà in Bride of Frankenstein, 1935 – potremmo non stupirci nel riconoscere in quel gorgoneion dall’aspetto di porzione anatomica ridacchiante che dialoga con l’omosessuale Wilde un apparato genitale femminile… In fondo una provocazione onirica e un po’ disturbante che non striderebbe rispetto all’ironia dell’inventiva mitologizzante di Ewers.

Sia come sia: ma il giorno dopo quel sogno, durante l’interrogatorio che vede il pubblico sbellicarsi alle fulminanti risposte dell’aforista Oscar, questi guarda a un tratto il fondo dell’aula. Ed è ben sveglio, nel notare che laggiù ora “tutto lo spazio disponibile era occupato dall’orribile Cosa informe della notte. Il Ghigno sardonico che aveva turbato il mio sogno si estendeva a tutta la Smorfia”… Questa ridacchia chiocciando e contorcendosi alle risposte di uno degli avvocati; e quando Wilde, chiudendo gli occhi e poi riaprendoli, riesce a riconoscere finalmente qualche volto di conoscenza, la Cosa ghignante resta comunque dietro di loro. Impossibile per lui seguire il processo attentamente, con quel Sogghigno alle spalle. E alla fine “Quattro agenti di cambio, cinque negozianti di cotone, cereali e whisky, due maestri di scuola e un onorato padrone di macelleria mandarono Oscar Wilde in prigione. Veramente comico!”: visto che si tratta di persone neppure in grado di capire cosa lui scriva.

Ma quella notte la Smorfia torna a visitare Oscar: i due discutono – ciascuno sostiene che l’altro appartiene al suo sogno – e Wilde, convinto di parlare in inglese, scopre a quel punto di comunicare “in una lingua che mi era completamente sconosciuta, che parlavo e capivo alla perfezione, e che non aveva certamente niente in comune con l’inglese o con qualunque altra lingua del globo”. Un contesto, a ben vedere, di nuovo parecchio lovecraftiano.

Incassata una vittoria almeno temporanea, la Cosa cerca allora di convincere il prigioniero a usare la pistola e uccidersi: per tutta la notte continua così, ghignando accanto a lui, tanto che al mattino l’esausto Wilde consegna l’arma a un custode. La notte seguente la Smorfia gli propone dunque d’impiccarsi con le bretelle, e il prigioniero avrà dunque il suo daffare a lacerarle in minuti frammenti. “È in questa atmosfera che cominciò il mio soggiorno in prigione”…

Ma lasciamo ancora una volta i due personaggi e soffermiamoci sul set. Il racconto viene scritto proprio a Capri, dove, ricorderemo, Ewers passa un lungo periodo con la prima moglie. Assieme a lei e poi più tardi dopo la separazione (aprile 1912) viaggia parecchio, come corrispondente per giornali: Spagna e Francia meridionale (1905), Caraibi e America centrale (1906), Brasile, Argentina e Paraguay (1908), India, Sudest asiatico, Australia (1910) eccetera. Ne sviluppa un’ampia serie di memoriali di viaggio a partire da Mit meinen Augen su Capri e in generale sull’Italia, 1909, e Indien und ich appunto sull’India, 1911; ma i viaggi sono anche preziose fonti d’ispirazione per i racconti, di cui vara una nuova raccolta, Grotesken, 1910. Durante il viaggio del 1906, per esempio, partecipa a una cerimonia vudù ad Haiti da cui la vicenda di La Mamaloi. D’altra parte i viaggi e la stessa attività di traduttore lo spingono a vagheggiare una cultura sovranazionale degli artisti – i suoi contatti con un mondo intellettuale vivacissimo non si esauriscono entro i confini della Germania –, sia pure nell’ambito di una visione razziale in cui gli europei avrebbero un ruolo speciale.

Ancora: ben radicato nel mondo teatrale, almeno dal 1907 Ewers inizia a occuparsi di cinema, è tra i primi critici a riconoscere il valore della nuova arte e probabilmente in Francia nel 1908 gira il suo primo filmato. Non è un caso che i suoi romanzi – avviati nel 1910 da Der Zauberlehrling oder die Teufelsjäger, primo della trilogia sull’antieroe Frank Braun, amorale e privo di scrupoli – presentino uno sguardo a tratti vividamente cinematografico che nei racconti accennati trovava meno spazio. Ciò è particolarmente evidente nel secondo della saga, il notissimo Alraune, 1911, che non solo sarà a monte molto presto di varie trasposizioni per il grande schermo, ma presenta già nel taglio delle fantasie macabre e burattinesche, in certe coreografie, persino (si direbbe) nelle maschere/trucchi dei personaggi un sapore di cinema, nel segno di quell’espressionismo su schermo che Ewers stesso contribuirà a spalancare.

D’altronde Ewers continua nei romanzi la trascrizione delle femme fatalities dei racconti. In Der Zauberlehrling il cinico Braun manipola con l’ipnosi le reazioni entro una piccola comunità evangelica di un villaggio alpino in Italia: la donna sua vittima finirà crocifissa, in una libera rilettura del caso ottocentesco di Margaretta Peter (una vicenda patologica di mix tra misticismo e crimine) alla luce delle dinamiche della psicologia di massa. Ma soprattutto la terribile Alraune torna alla tradizione da un lato delle donne fatali e dall’altro di quelle reificate – per il nesso con la radice di mandragora nelle disturbanti modalità di concepimento, tramite fecondazione di una prostituta con il seme di un assassino giustiziato – fino a un’ovvia, tragica fine. Alraune può considerarsi a buona ragione il capolavoro di Ewers, sia pure con il compiacimento per il turpe che fermenta nelle sue pagine.

Nel terzo romanzo della saga e che arriverà a distanza di parecchio tempo, Vampir, 1921, troveremo Braun alle prese con una fatale deriva che lo spinge a nutrirsi del sangue della sua amante ebrea Lotte van Ness: una sorta di prefigurazione da parte del filosemita Ewers di qualcosa che in pochi anni precipiterà addosso alla Germania.

Per quanto il Nostro resti eclettico (nel 1912 si unisce al Deutsches Theater di Max Reinhardt come attore e poco dopo lavora a un libretto d’opera, a un’antologia di canzoni francesi e altre iniziative nel campo dello spettacolo culturale) e mostri una notevole vitalità anche nel privato (avvia per esempio un rapporto che durerà fino al 1920 con la pittrice Marie Laurencin, cui dedica l’opera teatrale Das Wundermädchen von Berlin, 1912), le coloriture del suo lavoro si fanno sempre più livide e tenebrose. Tra il 1909 e il 1910 avvia una serie di conferenze sulla religione di Satana e si abbandona alla morfina, e nel 1913 sceneggia il suo primo vero film, lo straordinario e sulfureo Der Student von Prag, tra i protomodelli dell’espressionismo su schermo, giocato sul tema del patto faustiano e del doppio: di nuovo una sorta di prefigurazione, stavolta su un patto fatale che lui stesso firmerà una ventina d’anni dopo. E per inciso, in un remake nuovamente sceneggiato da Ewers (assieme a Henrik Galeen, 1926) troverà per caso una piccola parte quell’Horst Wessel poi oggetto del citato film propagandistico su commissione nazista.

Der Student von Prag è d’altronde l’ennesimo caso di capacità di Ewers di collaborare con altri artisti d’eccezione (in questo caso i due registi Stellan Rye e Paul Wegener, qui anche interprete, poi mattatore del fantastico tedesco su schermo), di studiare tecniche nuove che influiscono sul complesso della sua produzione, di rileggere la grande età del primo romanticismo tedesco in un nuovo epos espressionista.

D’altra parte, a proposito di occulto, tra il 1914 e il 1918 il Nostro intrattiene contatti e amichevoli frequentazioni con il mago inglese Aleister Crowley: fatto non strano perché in qualcosa si assomigliano, entrambi eccessivi, egocentrici, visionari e coltissimi, entrambi cultori di occulto ma con allegre derive verso l’osceno e il pornografico.

Quanto ai viaggi di Ewers in questi anni, i motivi non sono solo culturali. Lo troviamo in Spagna tra il 1915 e il 1916 con passaporto svizzero falsificato, poi in Messico dove in apparenza solidarizza con la rivoluzione e conosce Pancho Villa, quindi in Perù dove apprende l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando… Sulla via per il ritorno in Europa resta bloccato negli USA dall’esplosione della Grande guerra, dove diventa attivissimo tra gli emigrati tedeschi: su invito dell’ambasciatore del Kaiser conduce propaganda filotedesca, gira il paese tenendo discorsi contro l’entrata in guerra degli americani, pubblica a New York Deutsche Kriegslieder (cioè canzoni di guerra tedesche), raccoglie fondi per la Croce Rossa tedesca e aiuta compatrioti – come emergerà a un certo punto – a raggiungere il fronte in Europa con documenti falsi. D’altra parte è entrato negli USA assieme a una “Grethe Ewers” presentata come moglie ma la cui identità resta ignota, e lo stesso viaggio in Messico sembra finalizzato a creare turbative contro gli USA, evidentemente per ostacolare la loro partecipazione alla guerra. È un fatto del resto che in questi anni il suo sentire veda una sterzata – o almeno una svolta, coerente del resto con un certo immaginario amato da sempre – dal precedente cosmopolitismo al nazionalismo. Col risultato che dopo l’entrata in guerra americana, nel 1918 il Nostro è impacchettato quale “propagandista attivo”, non processato come agente nemico (come invece lo considerano i servizi inglesi e francesi e studi recenti confermano), ma internato a Fort Oglethorpe in Georgia: si ammala gravemente, viene ricoverato a New York e lo scrittore inglese John Galsworthy si attiva per riguadagnargli la libertà vigilata su cauzione nell’agosto del 1919. Riceve comunque il divieto di tornare a pubblicare negli USA, e la commedia musicale Das Mädchen von Alaska, di cui ha scritto il libretto, non viene rappresentata. Frattanto in sua assenza in Germania appaiono per i tipi Georg Müller le raccolte Der gekreuzigte Tannhäuser und andere Grotesken, 1916 (che unisce Grotesken e alcune novelle precedenti) e, nella collana “Galerie der Phantasten” precedentemente curata dal Nostro, Mein Begräbnis und andere seltsame Geschichten, 1917 (altra selezione di testi precedenti).

Liberato dopo la fine della guerra, rientra in patria (agosto 1920) con la giovane Josephine Bumiller che diverrà sua moglie. Ma il ritorno di Ewers in una Germania impoverita e provatissima non è lieto, tra crediti non saldatigli da parte dell’editore, debiti a sua volta insoluti che gli causeranno un arresto (gli alimenti alla prima moglie) e difficoltà varie. Possiamo non stupirci trovando la sua fantasia farsi sempre più nera: pubblica il citato Vampir e la nuova raccolta Nachtmahr, 1921, che gronda morbosità quasi ai limite dell’intollerabile, continua (fino al 1925) le conferenze sul diabolismo attingendo anche all’opera del 1897 Die Synagoge des Satan di Stanisław Przybyszewski… Ma edita anche un originale Der Geisterseher, a ideale completamento del Visionario di Friedrich Schiller, 1921, purtroppo stroncato dai critici, biografie romanzate come Der Graf Cagliostro, 1921, e persino un testo di divulgazione scientifica, Die Ameisen, 1923-1924.

Sembra paradossale il disagio di Ewers in una Germania che sembra uscita dalle sue stesse fantasie d’inizio secolo, quasi sia lui ad avere il ruolo del Ghigno che la sogna e la plasma: una Germania dove i suoi racconti sono letti e ripubblicati, dove l’eros e l’occulto di cui si è baloccato – e in fondo continua a farlo – sono assurti a mode, dove tra scossoni sociali, rivolte, tentati putsch (soprattutto nella prima fase 1919-1923) fioriscono le arti, la filosofia, gli studi sulla sessualità. Basti citare il pionieristico Institut für Sexualwissenschaft fondato nel 1919 (e spazzato via dai nazisti nel 1933) dell’“Einstein del sesso” Magnus Hirschfeld, grandissimo studioso e militante omosessuale, amico del Nostro. Le speculazioni narrative di Ewers sull’androginia, per esempio, e la convinzione che non si esaurisca sul piano estetico (si pensi al peso del tema in Alraune) perché la psiche contiene elementi sia maschili che femminili, si accordano proprio con il libero dibattito di quegli anni di Weimar. D’altra parte non mancano anche componenti più torbide, e basta aprire il volume Voluptuous Panic. The Erotic World of Weimar Berlin di Mel Gordon (Feral House, expanded edition, 2008) per rendersi conto di come le fantasie di Ewers abbiano in parte precorso i tempi, in parte fornito forme adeguate a fenomeni d’epoca in fermentazione. Fenomeno del resto parallelo a quello di altri grandi nomi le cui fantasie associamo a Weimar ma che già prima – si pensi alla squadra di Der Student von Prag – avevano iniziato a seminare.

Quando nel 1922 l’amico Walther Rathenau, che aveva cercato di coinvolgerlo nel proprio lavoro ed è diventato ministro degli Esteri, viene assassinato da terroristi di estrema destra, per Ewers è un ulteriore trauma. È però proprio verso destra che le sue posizioni politiche muovono sempre più: ma pur aderendo al partito popolare monarchico, con il suo bagaglio di tradizionalismo fuori tempo, su alcuni temi continua a rompere le righe. Firmando per esempio petizioni contro la punibilità dell’omosessualità maschile (1923 e 1926).

La sua fama letteraria ha trovato del resto una sorta di consacrazione con l’uscita per Georg Müller dell’Hanns Heinz Ewers Brevier, 1922, antologia di testi dal complesso della sua opera con un’ampia bibliografia. Ma, quasi in sintonia con la deriva sempre più a destra, la sua vena creativa inizia a inaridirsi.

Tanto più che nel 1926 muore sua madre, interlocutrice preziosa. Tanto più che nel 1927, amareggiato, è costretto a chiudere il rapporto con Georg Müller che non gli versa i diritti arretrati: passa a Sieben Stäbe Verlag. Tanto più che varato un nuovo romanzo – Fundvogel, die Geschichte einer Wandlung, 1928, libera ripresa di un testo dei Grimm che ora include la storia di una mutazione sessuale – e fondata la società cinematografica Hanns Heinz Ewers Produktion, deve fare i conti con la crisi del 1929 che impatta anche su editoria e cinema. Tanto più che si ammala, e vede entrare in crisi anche il secondo matrimonio. Tanto più. Tanto più…

Pubblica con Hirschfeld i tre volumi di Liebe im Orient ma è quasi un canto del cigno, e a fine 1929 decide di uccidersi. Però non lo fa, e l’anno dopo si separa dalla moglie.

Ma torniamo al racconto, e ad altre tentazioni di suicidio. Come spiega l’ex-prigioniero del carcere di Reading:

 

Oscar Wilde non si è mai piccato d’impegnare battaglia con la stoltezza umana, né di giocare all’eroe e al martire di fronte ai piccoli e miserabili tormenti dell’esistenza. Ma qui mi si offriva un eccitamento e un combattimento nuovo: un combattimento che pochi mortali hanno mai sostenuto. Volevo vivere per dimostrare alla maledetta che io vivevo! La mia esistenza era destinata a provare l’inesistenza di un altro Essere.

 

Se nel passato si spezzavano le ossa, ora Wilde è spezzato dalla prigionia: e tuttavia resiste alla Cosa ghignante che gli si presenta tutte le notti e talora di giorno, sempre con nuovi motivi per spingerlo al suicidio. Soltanto dopo un anno di sue resistenze le visite si rarefanno: lui la annoia, confessa la Cosa, “Non vali abbastanza per tenere un ruolo nei miei sogni. Ci sono cose più divertenti. Credo che comincerò a dimenticarti tranquillamente”. E anche Wilde inizia a quel punto a dimenticare se stesso:

 

Di tanto in tanto le succede ancora di sognare di me, ma sento che la mia vita onirica sta sfumando. Non sono ammalato, ma la mia vitalità comincia a cedere. La Cosa non vuol più sognare di me; quando mi avrà completamente abbandonato, mi spegnerò.

 

Gli pare anzi di riconoscerla, in quel momento, in uno scoglio, “ha la facoltà di conferire la sua forma a qualunque oggetto. Guardi come sogghigna!” e anche al narrante sembra di riconoscerla. Poco dopo, sulla barca che li riporta indietro, Wilde lo esorta a credergli: “non c’è dubbio possibile. Rinunci una volta per tutte alle sue magniloquenti concezioni dell’umanità. La vita umana e tutta la storia del Mondo non sono altro che il sogno che un Essere beffardo fa a nostre spese”.

Concludendo il racconto a Capri, nel maggio 1903, Ewers non può ancora sapere che il Ghigno attenderà lui pure al varco.

Mentre sta cercando di ripartire con l’attività creativa, cerca interlocutori sempre più a destra, pubblicando nel 1932 il romanzo Reiter in Deutscher Nacht come apologia dei Freikorps, le milizie volontarie di antica storia in Germania (quelle stesse, per intendersi, responsabili nel 1919 dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht). Dietro la figura del tenente omosessuale Detlev Hinrichsen del romanzo è Karl-Günther Heimsoth, medico, poligrafo e politico che gli fornisce utili informazioni sul tema: attivista del primo movimento omosessuale (è forse il primo ad introdurre il termine homophilia in sessuologia), diviene membro del partito nazista e finirà assassinato dalle SS a Berlino, nell’ambito della Notte dei Lunghi Coltelli.

Ma ormai il cerchio è chiuso, dal 1931 Ewers è entrato nell’orbita di Hitler. La svastica può esser vista in effetti come un ragno mostruoso, ed è in quel mondo fattosi improvvisamente claustrofobico – come una certa stanza di un albergo di Parigi – che lo scrittore pagherà le conseguenze del suo patto faustiano. Salvando qualche vita di amici ebrei, riuscirà ancora a stritolare coi denti il ragno che l’ha invaso dentro: ma non a salvarsi. Non tanto dalla morte fisica, che logoro com’è ormai si attende, o dalla damnatio memoriae di cui francamente può non importargli; ma dal sapore in bocca di quella Grande Bruttezza che in qualche modo ha sostenuto, come forse è ancora abbastanza lucido da avvertire.

Riconoscere le qualità tecniche di uno scrittore, le sue grandezze e per contro le sue miserie, non è un’operazione da tifoseria acritica (e per favore evitiamoci banalità udite in certe presentazioni, per esempio su Lovecraft, come “Bisogna capirlo, a quell’epoca tutti pensavano così”: non è vero, ed è un mezzuccio per non porsi questioni). Il problema non sta nell’affibbiare etichette a uno scrittore, tanto più dalle posizioni continuamente fuori e dentro il coro come Ewers, e comunque in un percorso che resta cangiante: per questo le stigmatizzazioni facili (o le facili canonizzazioni, c’è anche quel rischio) restano, a un’analisi che intenda esser seria, operazioni di scarsa utilità, intelligenza, onestà. E tantomeno sta nel giudicare l’uomo dietro la scrittura, una missione i cui maldipancia possiamo serenamente evitarci. Ma nell’individuare, questo sì, tra le pieghe di quegli scritti tracce di un terreno malsano, pre-fascista o francamente fascista, nutrito di nazionalismo e di sessismo (pensiamo alle contraddizioni di aperture coraggiose verso l’omosessualità e di avalli almeno equivoci alle peggiori fantasie virili sulla donna), di aggressive insicurezze e di estetizzazioni losche: qualcosa che nel contesto di quella Germania ha infine condotto a soffocare ogni sogno di libertà e richiesto un prezzo altissimo. In alcune forme storiche, non sappiamo quanto ripetibili. Però quei mali del mondo moderno non si sono esauriti lì, ci accompagnano, nutrono certe colture batteriche delle destre anche italiane – spesso irriconosciute nei giudizi facili di chi si crede estraneo a una certa area, e pontifica da “uomo della strada”. Dipende quale strada.

La cartina al tornasole di una serie di problemi è in fondo, potremmo sintetizzare, quella dell’identità: cioè la grande questione posta sul tavolo, nella sue dimensioni individuali come collettive, proprio dal linguaggio del fantastico moderno, fin dalle sue origini. Se il fantastico è il linguaggio dell’ambiguità – perché le fa emergere – è anche quello delle crisi (nel senso più ampio possibile del termine) legate all’identità. L’opera di Ewers, con le sue contraddizioni, ne è un grande teatro, e richiederà senz’altro studi ulteriori. Contribuendo forse a ricordarci che in quella chiave di provocazione identitaria si gioca non solo ciò che leggiamo, ma ciò che intendiamo o non intendiamo essere.

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