letteratura americana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:09:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Owen il pacifista (Victoriana 50) https://www.carmillaonline.com/2024/03/30/owen-il-pacifista-victoriana-50/ Sat, 30 Mar 2024 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81863 di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry [...]]]> di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry James era apparso sul numero di Natale del “Graphic”, 1892, e verrà rivisto per la “New York Edition”: e inizia con un vivace scontro verbale, di cui solo poco per volta riusciamo ad afferrare l’oggetto. Il giovane, dotatissimo, brillante Owen Wingrave ha infatti sconvolto il suo istitutore, il napoleonico Spencer Coyle – un professionista che “preparava aspiranti per l’esercito, accogliendone tre o quattro alla volta, e facendo operare su di loro lo stimolo irresistibile che costituiva a un tempo il suo segreto e la sua fortuna” (seguo la stessa edizione citata qui). Mostrando ora, “davvero senza intenzione, una superiore saggezza che lo irritava”, ha infatti effettuato delle scelte in autonomia per il proprio futuro, rifiutando una “carriera magnifica” nell’esercito. Coyle lo invita a prendersi una vacanza a Eastbourne per tornare in sé (tanto ha il tempo, è molto avanti con gli studi), ma rifiuta di considerare chiusi i loro rapporti: e in realtà quella vacanza dell’allievo serve soprattutto a Coyle, per ricomporsi. Emerge che una zia del giovane è arrivata in città, e lui invita Coyle ad andare a trovarla: no, lei non sa ancora nulla della sua decisione, gli sembrava giusto parlarne prima con l’istitutore.

Ma Wingrave non parte subito, si dirige al parco di Kensington che dalla dimora dove Coyle tiene a pensione i discepoli non dista molto. Raggiunge il parco e si mette a leggere le poesie di Goethe. È sollevato dopo giorni di tensione al pensiero di quel colloquio con l’istitutore, ed è “caratteristico della sua natura che la liberazione assumesse la forma di un piacere intellettuale”. Anzi gli bastano pochi minuti di quella ricreazione per dimenticare tutto, “l’enorme dispendio di energia, il disappunto del signor Coyle e perfino la formidabile zia di Baker Street” che presto dovrà affrontare. In effetti, quando James cercherà di ricostruire la genesi del racconto, ricorderà di essere stato seduto – un pomeriggio estivo di molti anni prima – ai giardini di Kensington, e una splendida figura di giovane si era seduta vicino a lui leggendo un libro. Poi in realtà il tema, la mistica e le ossessioni sul soldato – vedremo che Owen, a dispetto del suo pacifismo, ne è immagine autentica nell’affrontare pericoli e disagi – vengono dalla lettura, nei giorni successivi la morte della sorella, delle memorie del generale napoleonico Marcelin de Marbot, tradotte in Inghilterra nel 1892. Troverà interessanti anche le memorie del feldmaresciallo visconte Wolseley, e, da non-combattente, tratterrà comunque viva memoria di scene della guerra di Secessione. I temi della famiglia e della guerra, le emozioni contraddittorie di un pacifista nonviolento che però ammira gli uomini d’azione, i fantasmi di un passato militare che approdano ai discendenti precipiteranno in questa storia – come attestano gli appunti fin dall’inizio – in chiave fantastica. Vedremo in che modo.

Intanto Coyle sta interpellando il miglior amico di Wingrave, il giovane Lechmere, anche lui sotto le sue cure formative ma non brillante quanto Wingrave e dunque tanto meno stimolante per l’istitutore. Che pure finisce ora col confrontarsi con lui: Wingrave rifiuta di andare alla scuola di guerra, rinuncia alla carriera militare ed è contrario “alla professione delle armi” che ha costituito una sorta di religione di famiglia. Coyle gli domanda se abbia conosciuto la signorina Jane Wingrave, la zia di Owen, che Lechmere definisce terribile e viene corretto dall’istitutore: “Formidabile, vorrete dire, ed è giusto che lo sia; perché, in certo qual modo, nel suo aspetto stesso, da quella brava vecchia zitella che è, rappresenta le tradizioni e le gesta dell’esercito inglese. Rappresenta la forza d’espansione del buon nome britannico”. Dunque Coyle intende coordinare ogni influenza per opporsi alle scelte del giovane, e cerca anche l’appoggio di Lechmere: questi conosce le idee dell’amico, anche se non sapeva volesse ritirarsi, e non si mostra così tranchant come Coyle sull’opinione che il mondo avrebbe di quel ritiro. Comunque ritiene di poter ricondurlo alla ragione.

Poi Coyle chiede un colloquio alla formidabile zia. Ovvio, ribatte lei alle osservazioni dell’istitutore sull’enorme intelligenza del giovane: ovvio che lo sia, in famiglia hanno avuto un solo idiota, Philip Wingrave, primogenito del defunto fratello di lei, imbecille, deforme e relegato in una clinica privata. Le speranze del casato di Paramore si sono dunque concentrate sul secondogenito, bello e pieno di doti eccellenti: ed erano stati i soli figli dell’unico rampollo del vecchio Philip Wingrave. Owen padre era rimasto ucciso sul campo da una sciabola afgana, il terzogenito e la moglie erano morti e Owen jr., rimasto a Paramore col nonno, era stato oggetto di premure particolari della zia nubile.

L’istitutore aveva un particolare ricordo di lei, quando il ragazzo gli era stato affidato per prepararlo alla carriera militare della tradizione di famiglia. Sir Philip viveva in una casa immiserita e tetra ma piena di dignità: per quanto vecchio e tremante, il vecchio militare era circonfuso della leggenda di storie impressionanti. Nell’occasione di quel primo incontro, Coyle aveva conosciuto anche altre due persone: un’amica vedova della signorina Wingrave – la scialba signora Julian, sorella di un gentiluomo caduto nella rivolta indiana, che era stato il fidanzato poi mollato dalla signorina – e la figlia diciottenne, “molto impertinente con Owen”. La morte dell’ex fidanzato aveva spinto la zia di Owen in preda ai rimorsi a espiare quell’abbandono preoccupandosi della sorella di lui e prendendola con sé come governante non remunerata, da poter maltrattare a proprio piacimento. In effetti, l’impressione della zia sull’istitutore non era risultata “tra le più fuggevoli di una giornata, singolarmente gremita per lui del senso di perdite dolorose, di lutti, di memorie, di nomi mai pronunciati, di lontani lamenti di vedove, di echi di battaglie e di notizie penose”. Al punto da lasciarlo un po’ turbato sulla professione a cui avviava i giovani allievi: e Jane Wingrave (col suo aspetto distinto e spigoloso, e il sembiante di genio d’una stirpe di soldati) lo faceva sentire anche peggiore. Non che la signora avesse caratteristiche da virago: erano invece gesti e toni di voce a rimandare al “supremo valore della famiglia”, con un vanto sproporzionato fino alla volgarità nei confronti degli antenati.

Ma per l’istruttore lei rappresenta ora un potente sostegno. “Avrebbe voluto che il nipote avesse una ristrettezza mentale anche maggiore, invece d’essere quasi diabolicamente ossessionato dalla tendenza a guardar le cose nei loro reciproci rapporti”: noi diremmo, nel rispetto della complessità. Certo, non è chiaro a Coyle perché la signorina arrivando a Londra prenda alloggio in Baker Street, che non è zona di abitazioni (Sherlock Holmes a parte). Ma un’unica cosa per lei conta…

Riceve dunque Coyle in una “grande stanza fredda e sbiadita”, dove l’unica comodità personale è offerta da un grosso catalogo dell’Unione militare per l’Esercito e la Marina: e alla notizia da lui recata l’unica reazione è l’indignazione. Dotata di troppo poca fantasia da lasciarsi prendere dalla paura e invece dell’abitudine a guardare il pericolo in faccia, resta inaccessibile al timore che il nipote dia pubblico spettacolo di sé, e persino alla sorpresa o ad altri sentimenti futili e delicati: si indigna della faccenda come farebbe se il nipote “si fosse permesso di fare dei debiti o di innamorarsi di una ragazza di bassa condizione”, ma tanto sa che nessuno prenderà in giro lei. Coyle ammette di non essersi mai interessato tanto a un discepolo, e la signorina trova il tutto ovvio: se gli piace tanto, lo tenga dunque tranquillo. Del resto, più lui parla dell’indipendenza intellettuale di Owen, più lei vede ciò come prova che il nipote sia un Wingrave e un soldato. Solo quando Coyle spiega che Owen svilisce la prospettiva di una carriera militare, lei stupefatta ordina di mandarlo da lei. L’istruttore spiega che era ciò che intendeva fare, ma la esorta a prepararsi al peggio, perché facilmente non riuscirà a convincerlo. La formidabile zia osserva allora di avere “un argomento molto forte”, e fissa Coyle, che perplesso la esorta a utilizzarlo. Solo, mette le mani avanti, il giovane andrà a Eastbourne per rilassarsi un po’: al che lei ribatte che non lo trattino come un invalido, di soldi per lui ne spendono già abbastanza. Lo porterà con sé a Paramore, “lì sarà trattato come si merita, e ve lo rimanderò col cervello raddrizzato”.

L’educatore riflette però che quella donna “è un granatiere”, e la sua mancanza di tatto rischia di peggiorare la situazione. “In conclusione, la difficoltà grande è che il ragazzo è il migliore di tutti loro”. Risultato confermato dai discorsi a cena, davanti all’imbarazzato amico Lechmere e al preoccupato Coyle. Che comincia a pensare che la rozzezza di quella famiglia sarebbe troppo per il giovane sottile che ha diritto di pensare con la sua testa. Poi lo invita a recarsi a Baker Street a incontrare la zia, e il giovane accetta – con un coraggio, al netto di ogni preoccupazione certamente provata, che Coyle deve riconoscergli. Qualcosa che rivela una sua sostanziale natura di soldato: “Molti giovani di fegato si sarebbero sottratti a un rischio di quel genere”. E uscito Owen, Lechmere commenta “Ha le sue idee, e come!”: hanno parlato, e l’amico ha spiegato come i suoi scrupoli riguardino la “crassa barbarie” della guerra. Con una particolare ostilità verso i grandi generali e in particolare versi Napoleone, “una canaglia, un criminale, un mostro”. Coyle vuol sapere cosa Lechmere gli abbia risposto, e questi spiega di avergli obiettato che “era un cumulo di sciocchezze”: e resta invece stupefatto che Coyle ammetta una verità parziale del discorso del discepolo pacifista. Tutto è nato comunque da una serie di letture sui grandi condottieri, che – come chiarito da Owen – gli hanno aperto gli occhi con un’ondata di disgusto. “Ha parlato della ‘smisurata tragedia’ delle guerre, e mi ha domandato perché le nazioni non fanno a pezzi i governanti che le promuovono”, con un odio speciale per Bonaparte. Che, ammette Coyle, era davvero una canaglia e un cialtrone; comunque Lechmere ha avvisato l’amico che i suoi scrupoli di coscienza sarebbero stati visti come un mero pretesto di chi non abbia il temperamento militare. Coyle immagina già che cosa Owen abbia risposto, “Al diavolo il temperamento militare!”: al che Lechmere aveva risposto sdegnato prendendo le difese della professione. Coyle è contento di come Lechmere abbia reagito, e lo invita a incalzare l’amico; gli offre anche un cicchetto, ma si rende conto che il giovane ha qualcosa fermo sullo stomaco. Un po’ ingenuotto, chiede conferma all’istruttore che Owen da lui tanto ammirato non stia semplicemente cercando di sottrarsi ai pericoli – ed è sollevato dalla risposta netta di Coyle, “Ma neanche per idea!”.

Il terzo capitolo inizia una settimana dopo questi fatti. Coyle riceve un invito – da allargarsi a sua moglie e al giovane Lechmere – all’antica tenuta di Paramore, dove Jane Wingrave non è riuscita ad avere la meglio sul nipote. A Coyle viene da sorridere, pensando che va “piuttosto a difendere il suo ex scolaro che ad accusarlo”: sua moglie, che lui scherzando accusa d’essere innamorata di Owen, accetta volentieri, e così l’altro allievo. Ma per l’istruttore “Quella brevissima seconda visita, che cominciò il sabato sera, doveva rimanere l’episodio più strano della sua vita”.

Trovatosi un attimo solo con sua moglie – dovevano vestirsi da sera – entrambi commentano “la sinistra tetraggine diffusa per tutta la casa”. La signora si rammarica d’essere venuta, “la casa aveva un aspetto cattivo, strano, sinistro” e la mette a disagio il fatto che la signorina Julian – la diciottenne figlia della quasi-governante – si atteggi con modi affettati come la persona più importante là dentro, mentre Owen pare invecchiato di almeno cinque anni. Evidentemente, osserva Coyle, per pressioni ambientali, gli hanno tagliato i viveri: e lui finisce col parteggiare per l’allievo, cosa che la moglie fa esplicitamente (“era troppo buono per diventare un soldataccio, e quel soffrire per le sue idee era un segno di nobiltà”). In effetti mezz’ora prima Owen si era concesso la familiarità di prendere a braccetto l’istitutore, mostrando “che aveva indovinato da chi poteva aspettarsi la maggiore bontà e comprensione”. Il tutto sotto l’occhiuto spiare della signorina Wingrave, a controllare che l’istitutore non venisse corrotto dall’ex-allievo. Questi tradisce – Coyle è molto diretto – “un’aria strana, malata” e parla della forza di resistenza che ha dovuto esercitare in quel contesto, un obiettivo interiore che il suo istruttore dovrebbe apprezzare. Certo, ha passato ore terribili con il nonno, “che lo aveva aggredito in un modo da fargli rizzare i capelli in testa”, mentre la zia – in modo diverso – è “egualmente oltraggiosa”. Si vergognano di lui e lo accusano di infangare pubblicamente il loro nome, unico in trecento anni a tirarsi indietro, parlando degli scrupoli di lui “come voi non parlereste di un dio dei cannibali”. Tra le pressioni c’è la minaccia di diseredarlo, ma non è questo che lo tormenta – del resto è chiaro che il ragazzo non è un debole o un vigliacco, e i suoi attacchi a chi propone la “stupida soluzione della guerra” sono aperti e duri. No, a turbarlo è altro,

 

l’atmosfera di questa casa. Ci sono strane voci che sembrano borbottare contro di me… dire cose terribili mentre passo. […] Ho ridestato gli spettri. I ritratti stessi mi guardano con occhi di fuoco dalle pareti. Ce n’è uno del mio trisavolo (quello di cui conoscete la straordinaria vicenda, il quadro appeso al secondo pianerottolo dello scalone) che addirittura si agita sulla tela, si sporge un po’ in avanti, quando m’avvicino. Devo pur salire e scendere le scale; è molto sgradevole! Mia zia li chiama la cerchia familiare: siedono là, aggrottati e feroci, costituiti in corte di giustizia. Sono tutti qui dentro, è una sorta di presenza paurosa che non lascia via di scampo, e si prolunga a perdita d’occhio nel passato. Quando tornai qui con lei l’altro giorno, la signorina Wingrave mi disse che non potevo avere l’impudenza di fare certi discorsi qui dentro. Ho dovuto farli a mio nonno, invece; ma ora che li ho fatti mi sembra che la questione sia conclusa. Voglio andarmene, anche se sarà per non tornare mai più.

 

Quanto alla signorina Julian, risponde Owen a una domanda di Coyle, la sua opinione è la stessa della cerchia familiare Wingrave, e della propria – visto che il padre di lei era morto combattendo. Per cui odia Owen, che tradisce quel legato di armi e ferocia patriottarda… Coyle non crede che la ragazza possa odiare il coetaneo, ma ci crede la moglie di lui, che ha notato il contegno perfido della diciottenne verso il giovane, e invece il suo ostentato civettare con il giovane, sciocco Lechmere. Coyle pensa che la ragazza non avrebbe vantaggio ad alienarsi Owen, dunque deve trattarsi di atteggiamenti innocenti, ma la moglie gli ricorda che Owen è caduto in disgrazia, dunque non è più l’erede… L’istitutore allora le racconta del minaccioso ritratto del trisavolo che infesterebbe la casa, e la moglie protesta che avrebbe dovuto fargliela conoscere prima.

Nella prima versione del racconto, la moglie chiedeva a Coyle: “Vuoi dire che la casa ha uno spettro?”, ma nella versione definitiva il testo suona “Vuoi dire che la casa ha notoriamente uno spettro?”, in riferimento alle prove della ricerca psichica al tempo di moda. Comunque la storia rimonta ai tempi di Giorgio II, quando il collerico colonnello Wingrave aveva impartito a un figlio ancora in età di crescita una tale botta sulla testa che il ragazzo era morto – la storia era stata messa a tacere “e i funerali si svolsero tra mormorazioni soffocate”. Ma la mattina seguente il colonnello, “uomo forte e sano”, era stato trovato stecchito – senza ferite o espressioni strane sul viso – nella stanza dell’altra ala (la cosiddetta camera bianca) in cui il corpo del figlio era stato composto prima del trasbordo al cimitero. Una morte inspiegabile, “Si suppone che andasse nella stanza durante la notte, prima di coricarsi, preso da un accesso di rimorso o affascinato da una qualche allucinazione paurosa”: e solo allora emerse la verità sulla fine del ragazzo, ma come conseguenza “nella stanza non dorme mai nessuno”. Una stanza – spiega Coyle che l’ha rapidamente visitata – in sé vuota e triste, niente di speciale.

La moglie resta molto impressionata, e davanti al ritratto del famigerato vecchio colonnello appeso sulla scala – una figura simile deve infestare la casa – dichiara che l’anziano Sir Philip gli somigli in modo prodigioso. Coyle si sorprende a rammaricarsi di non aver insistito di più per la gita di Owen a Eastbourne… A cena, per fortuna, l’ambiente della chiusa e tetra cerchia familiare si stempera per la presenza di estranei, tra i quali il pastore e sua moglie e un giovane venuto a pescare. Ma l’indomani ci sarebbe stato l’arduo confronto con l’arida Jane Wingrave – per cui insomma Coyle rischia di dover dire cosa davvero pensi su quella penosa situazione.

Owen cerca di non turbare l’apparente armonia, e finge di non essere stato messo “al bando”: ma la sua faccia ridente rivela all’istruttore tutta la sofferenza di un agnello destinato al sacrificio. Con “una mancanza di logica che era soltanto superficiale”, Coyle si rammarica che il giovane sia un tale combattente; e intanto osserva la bella Kate Julian e il suoi modi in fondo fuori luogo – sul piano della prudenza come del decoro – per una dipendente senza mezzi, ma con uno spirito incapace di precauzioni. Troppo indifferente per essere aggressiva, Kate ha “l’aria di pensare che poteva prendersi il lusso di comportarsi come meglio le piaceva”, senza nulla da perdere o da guadagnare. Probabilmente perché è protetta dell’anziano Sir Philip – ma qual è il rapporto con Owen? Certo non d’indifferenza, e tanto meno – giudica Coyle – di avversione. Non si tratta di Paolo e Virginia, anche se i due giovani sono cresciuti idealmente con una simile dinamica fraterna, sia pure inframmezzata da periodi di lontananza dell’uno e dell’altra. Mentre il candido giovane Lechmere appare fin troppo colpito da lei.

Si giunge così al quarto e ultimo capitolo, avviato dall’avvicinarsi di Kate a Coyle: senza preamboli, gli annuncia di sapere cosa sia venuto a fare, ma è inutile. Non riuscirà a far niente con Owen. Lo ammirano tanto, per questo sono tanto disperati. Lei adora “la carriera delle armi e [vuole] un gran bene al [suo] vecchio compagno di giochi”, ma evidentemente lui non desidera accontentarla, e la giudica “un’impudente sfacciata” per avergli detto “che il suo modo di comportarsi non era certo quello di un gentiluomo!”. Ma cosa avrebbe detto “se non ci fosse stato nessun precedente?” domanda Coyle, Kate ribatte di non capire, “credevo che aveste il compito di fabbricare dei soldati” e lui risponde che con Owen non occorre fabbricare nulla, “a parer mio Owen è, nel più alto senso del termine, un guerriero”. La ragazza ribatte impaziente “Allora lo dimostri!” e gli volge le spalle: Coyle la lascia andare, “c’era qualcosa nel suo tono che lo irritava e anche, non poco, lo disgustava”. Poi insiste per mandare a letto il giovane Lechmere – che vagheggerebbe di dormire nella stanza infestata, evidentemente per far colpo sulla ragazza – e la moglie vuol essere accompagnata a letto.

Iniziano i congedi per la notte, ma Kate si guarda bene di salutare Coyle, pur gettando un’occhiata a Owen. Il vecchio pestifero Sir Philip ne rifiuta sprezzantemente l’aiuto per recarsi in camera, neanche il giovane avesse falsificato una cambiale. Poi Coyle, ordinato nuovamente a Lechmere di andarsene a letto e di guardarsi dal fare qualunque sciocchezza nottetempo, chiede a Owen di mettere a letto il suo amico e “chiuderlo a chiave dal di fuori […] Lechmere ha una curiosità morbosa circa una delle vostre leggende… delle vostre stanze storiche. Soffocatela mentre è ancora sul nascere”. Owen svaluta a falso la storia della camera infestate, Lechmere obietta che non è sincero e lo sfida a passare la notte lì dentro, Owen ribatte “So chi vi ha detto questo” – ovviamente Kate – e conclude che “lei non sa”, non sa niente. Dopodiché promette a Coyle che rincalzerà le coperte a Lechmere, e l’istruttore si sente indiscreto perché la sua presenza pone involontariamente a disagio i discepoli.

Raccomandato loro di non rendersi ridicoli, incrocia Kate sulle scale: sta tornando giù perché ha perso un turchese, l’unico gioiello che possiede, e gli amici di cui sente il vociare l’aiuteranno nella ricerca. Coyle raggiunge la moglie, ma poi non si sveste e inquieto passa nel corridoio. La stanza di Lechmere è chiusa, a differenza che mezz’ora prima: ma poi sente dall’interno un suono dalla finestra, bussa e, quando il giovane apre, gli spiega che vuol verificare non si esponga a emozioni eccessive. L’ingenuotto risponde che “ce n’è da vendere”, Kate è scesa e lui l’ha lasciata intenta a litigare con Owen, che lei accusa di mentire. Lechmere ammette di aver avuto “la stupidità di tirar fuori di nuovo la storia della camera stregata e quanto [gli] dolesse la promessa […] di non tentare la prova”. Coyle ribatte che non si può cacciare “il naso in quel modo nelle case degli altri”, ma il giovane ribatte che Kate ha creduto al coraggio che avrebbe dimostrato. Ma ha poi aggiunto, “Non ci si può aspettare altrettanto da un uomo che ha preso la sua straordinaria decisione”, una palese sfida a Owen. Ha già passato la notte prima in quella stanza, dice il giovane, senza veder nulla: Kate non gli ha creduto, altrimenti le avrebbe raccontato qualcosa, ma all’affermazione di Owen di non curarsi del parere di lei ha accennato che la sua impressione è che volesse ingannarla – in sostanza che non fosse vera la storia della sua notte là dentro. In realtà l’amico – che ritiene Kate sia attratta dal giovane che sta maltrattando – sospetta che sia un altro l’elemento taciuto da Owen, cioè il fatto che al contrario vi abbia visto o sentito qualcosa… E alla domanda di Coyle, sul perché non ne avrebbe parlato, risponde “Forse è così terribile che non ci sono parole”. Comunque all’accusa di mentire, Owen ha risposto alla ragazza “Conducetemi lì voi stessa e chiudetemi dentro!”. Lechmere non sa se l’abbia fatto.

Coyle non sa dove sia la stanza di Owen e non può controllare; torna in camera, dove la moglie nota la sua incapacità di riposare. In quell’atmosfera oppressiva, non riescono a dormire e parlano dell’accaduto a lungo:

 

Verso le due la signora Coyle s’era fatta così nervosa sul conto del loro giovane amico perseguitato, e così presa dalla paura che quella perfida ragazza si fosse valsa della proposta di lui per sottoporlo a una prova abominevole, che supplicò suo marito, per quanto la cosa potesse turbarlo, di andare a dare un’occhiata. Ma Spencer, a mano a mano che il fascino della notte calava sopra di loro, avevo innaturalmente finito col ridursi a una trepida accettazione della prontezza con la quale Owen si era dimostrato disposto ad affrontare Dio solo sa quale inumana tensione nervosa: cimento tanto più estenuante per una sensibilità già eccitata, in quanto il povero ragazzo sapeva, dalla prova della notte precedente, quale sforzo disperato avrebbe dovuto sostenere.

 

Augurandosi che Owen sia andato davvero nella stanza, in modo da svergognare tutti quanti, Coyle resta però in scacco: non può farsi trovare a esplorare la casa al buio ma non riesce ad andare a letto, fermandosi a leggere nello spogliatoio; si assopisce ed è destato da un grido d’orrore dalla stanza di sua moglie.

Echeggia però un altro grido, “Aiuto! Aiuto!”, e lui corre in quella direzione, verso una parte lontana della casa, tra porte che si aprono, voci agitate e le prime luci dell’alba.

 

Alla svolta d’un corridoio, s’imbatté nella bianca figura d’una ragazza svenuta su una panca, e come illuminato da una rivelazione capì all’istante, continuando nella sua corsa, come Kate Julian, presa troppo tardi dal gelo del rimorso per la sfida beffarda cui il suo orgoglio l’aveva spinta, dopo essere andata a liberare la vittima della sua derisione, fosse fuggita via barcollando, costernata dalla visione della catastrofe di cui era stata causa, catastrofe davanti alla quale egli si trovò un momento dopo, sgomento, sulla soglia d’una porta spalancata. Owen Wingrave, vestito come lo aveva visto poche ore prima, giaceva morto nel luogo stesso dove il suo trisavolo era stato trovato. Aveva in tutto e per tutto l’aspetto del giovane soldato caduto sul campo della vittoria [nella prima versione, l’ultima frase suonava: “Sembrava un giovane soldato caduto sul campo di battaglia”].

 

Si è osservato che il fantasma è in questo racconto il fantasma di famiglia, il senso del passato come peso morto con cui l’orribile famiglia Wingrave vuole coartare il rampollo Owen – etimologicamente “giovane soldato”, in scozzese e gallese – perché prosegua la tradizione guerrafondaia. Il titolo del racconto in effetti è “The young soldier wins his grave”, “Il giovane soldato conquista la sua tomba”.

Ovviamente esiste una chiave psicologica di interpretazione del racconto, con il giovane pressato dalla famiglia, sminuito non solo da questa ma dalla ragazza che in prospettiva avrebbe potuto sposare, convinto obiettore di coscienza e dotato di un rigore da soldato nel portare avanti le proprie convinzioni. Il fantasma non lo vediamo e potrebbe non esserci: è più uno spirito oppressivo della famiglia. Anzi, quando James trasforma il testo in un atto unico teatrale (1908) e la versione viene portata in scena a Londra da Gertrude Kingston, questa fa comparire in scena una figura biancastra ondeggiante: informato mentre è in America, James scriverà una lettera sdegnata per quella soluzione tanto pacchiana che forza l’interpretazione.

In compenso la versione teatrale vede nascere una querelle con Bernard Shaw, che – semplificando molto l’argomentazione – accusa il finale di colpevole pessimismo. Per James, che descrive il peso della famiglia e della tradizione, la morte di Owen è una vittoria da soldato, nel segno stesso dello spirito di famiglia ma come invertendone la polarità; per Shaw, si è detto, è una vittoria di Pirro, perché lo spirito di famiglia vince contro Owen, uccidendolo. Shaw si ribella al finale per motivi ideali, James forse guarda l’amarezza dell’esistente: ma diciamo che il suo finale condanna senza appello gli altri personaggi e alla fine lo stesso Coyle. Tutti quanti dovranno trascinarsi il rimorso, non solo la velenosa superficialotta Kate: tutti quanti diverranno fantasmi di loro stessi, destinati a morire consunti dalla propria gretta visione del mondo e da una sconfitta che Owen ha così reso pubblica.

In questi tempi di pornografia bellica, di disegni di legge su leve diffuse – e inutili, in contesti dove tutto viene giocato su armi a lunga gittata e il numero dei morti civili è in percentuale sempre più alto – e la riflessione sull’obiezione di coscienza viene soffocata da paura, orgogli fallocratici, letture losche dei rapporti tra popoli e sbrodolature su pretesi mondi al contrario, non sembra inopportuno rileggere questo racconto di James.

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Soldati di carta sulla strada per l’inferno https://www.carmillaonline.com/2023/11/22/soldati-di-carta-sulla-strada-per-linferno/ Wed, 22 Nov 2023 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79958 di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che se, da un lato, ha comunque arricchito il cosiddetto complesso militar-industriale di quel paese, dall’altro, ha anche fatto sì che forse non esista al mondo altro paese che abbia prodotto altrettanta letteratura basata sull’esperienza bellica.

Una tradizione letteraria che ha avuto inizio nell’Ottocento con i romanzi sulla Guerra civile di Stephen Crane, i racconti di Ambrose Bierce e le cronache di Walt Whitman, ma che già a partire dagli anni successivi alla prima carneficina mondiale, iniziò a produrre romanzi sulla delusione dei soldati e le loro paure e sofferenze, come quelli di William March, John Dos Passos o William Faulkner e Donald Trumbo. Oppure critici della violenza espressa nel corso del secondo conflitto globale e delle progressiva disumanizzazione del soldato americano e, ancora, dell’inutile sacrificio di migliaia di giovani in divisa e del loro drammatico ritorno a caso, dove nulla sembrava essere cambiato.

Tralasciando l’opera letteraria di Ernest Hemingway, che scrisse romanzi e racconti basati sulla sua personale esperienza sia della Prima guerra mondiale che della guerra civile spagnola, fu quella l’epoca dei romanzi di Norman Mailer, Glen Sire, Richard Matheson, James Jones e John Oliver Killens. Ma è soltanto dall’esperienza della guerra di Corea e, ancor più, da quella del Vietnam che la separazione tra guerra fuori dai confini nazionali e guerra in casa oppure tra guerra con un “nemico esterno” e guerra con il “nemico interiore”, ancor prima che interno, viene definitivamente superata. Sono i romanzi e i racconti di Tim O’Brien, Kent Anderson, Gustav Hasford, Denis Johnson e Karl Marlantes a parlarci, in tempi diversi, di quella guerra e dei traumi psicologici ancor prima che fisici riportati dai giovani soldati che la combatterono.

Mentre l’esperienza delle guerre successive in Centro America, in Medio Oriente e nell’Asia Centrale ci è stata narrata, in anni più recenti, da autori come Phil Klay e da Tobias Wolff. Ma è stata proprio la guerra del Vietnam ha ridefinire, come si diceva prima, lo sconfinamento tra conflitto esterno e interno, tra devastazione dei territori “altri” e di quello “interiore” dei soldati. Basti qui ricordare almeno due romanzi: Primo sangue di David Morrell, da cui sarebbe stato tratto il primo Rambo, diretto da Ted Kotcheff, e quello appena ripubblicato da Minimum Fax, Dog Soldiers di Robert Stone1.

Quest’ultimo, comparso in edizione originale nel 1974, è quello che maggiormente ha introdotto il discorso dell’autentico disfacimento morale di un paese e di una generazione che, fino a pochi anni prima si erano illusi di aver definito una “nuova frontiera” e un mondo di cui l’estate dell’amore del 1967 avrebbe segnato invece l’inizio, più che dell’utopia comunitaria, del declino. Prima i Beat, la libertà di immaginarsi “altri” (in letteratura, nella realtà e negli esperimenti lisergici di Ken Kesey2 ), poi la cruda realtà dei macelli in Estremo Oriente e delle droghe in polvere da iniettarsi in vena, sia al fronte che una volta tornati a casa. Con la mente guasta e il corpo in astinenza da sesso facile, adrenalina, eroina o morfina.

Robert Stone (Brooklyn 1937 – Key West 2015) nel 1971 partì per il Vietnam, dove avrebbe trascorso due mesi in qualità di corrispondente di guerra per «INK», un piccolo giornale inglese, e da lì avrebbe tratto l’ispirazione per il suo secondo romanzo, poi pubblicato nel 19743. In precedenza, nel 1962, mentre si trovava alla Stanford University aveva conosciuto Ken Kesey, all’epoca già famoso, che gli aveva dato la possibilità di conoscere molti altri scrittori, tra cui Jack Kerouac che, in qualche modo, lo avrebbe influenzato nello stile narrativo.

Si dice, infatti, che l’autore americano si sia ispirato per uno dei personaggi del suo romanzo più famoso, Ray Hicks, al personaggio reale di Neal Cassady, scrittore e protagonista della Beat Generation, che incontrò grazie al suo rapporto con Ken Kesey. Cassady che era anche stato l’ispiratore della figura di Dean Moriarty, il co-protagonista di Sulla strada di Kerouac. Mentre le pagine finali di Dog Soldiers hanno tratto abbondantemente spunto dalla morte reale dello stesso Cassady, avvenuta nel 1968, lungo una strada ferrata messicana.

Non a caso, si potrebbe definire Dog Soldiers un romanzo “on the road”, non solo tra Vietnam, Stati Uniti e Messico, ma anche nell’interiorità dei personaggi che lo animano. Interiorità descritta, nella migliore tradizione americana, non attraverso l’analisi dei pensieri dei singoli, ma attraverso le loro azioni e le loro parole. A metà strada tra noir e romanzo di azione, in cui la fuga si trasforma in un viaggio verso l’abisso e la fine. Del noir il romanzo porta la traccia amara e indelebile di Raymond Chandler, delle sue amicizie tradite e dei suoi anti-eroi spietati perché nessuno, mai e per nessun motivo, ha provato pietà per loro.

Mentre, per certi altri versi, si presenta come un romanzo apocalittico, in cui la corruzione dell’America nixoniana del Watergate si riflette nelle azioni dei personaggi, nei loro tradimenti, nella loro avidità (di sesso o soldi non fa differenza), sia che si tratti di giornalisti disillusi come John Converse, uno dei protagonisti principali, oppure di un ex-soldato come Ray Hicks, di una tossica confusa e sposata infelicemente con Converse o, ancora, di un agente corrotto della DEA.

Vite che trascorrono sul bordo di un inferno tutt’altro che metafisico di cui, in qualche modo saranno i cani. Definiti con un termine, dog soldiers, che rinvia sia alle targhette metalliche appese al collo dei soldati per l’eventuale riconoscimento dei loro corpi disfatti dopo la morte in battaglia, le dog tag, che alla tradizione guerriera degli Indiani delle pianure, in particolare di quelli appartenenti alle tribù Cheyenne.

Le cosiddette “società guerriere” erano raggruppamenti che, all’interno delle bande o delle tribù, si incaricavano dell’inquadramento dei guerrieri. Svolgevano incarichi di “polizia” interna e portavano avanti le attività guerresche sempre in prima linea. La loro rilevanza era enorme e tra i Cheyenne l’importanza delle società guerriere, specialmente di quella dei Soldati Cane, fu veramente notevole.

Quella dei Soldati Cane fu una delle più famose fra le società dei guerrieri cheyenne. Molti dei suoi appartenenti fecero il giuramento di suicidarsi oppure pronunciarono “l’incantesimo dei vecchi”. Questo perché, quando sfilavano in parata intorno all’accampamento prima della battaglia, i vecchi si schieravano ai loro lati e i banditori annunciavano a gran voce: “Guardate questi uomini, fintanto che sono vivi, per l’ultima volta perché butteranno via le loro vite”.

Il guinzaglio e il piolo costituivano gli oggetti simbolo degli appartenenti a tale società guerriera. I giovani appartenenti facevano voto di conficcare il piolo in terra e di legarsi ad esso nella battaglia, quando il nemico avesse cominciato ad avvicinarsi diventando sempre più pericoloso. Questo significava che avrebbero saldamente occupato la loro posizione e non sarebbero indietreggiati, combattendo fino a quando il nemico non fosse stato respinto o loro stessi non avessero incontrato la morte.

Per i Soldati Cane, che avevano fatto tale giuramento, era un grande onore morire combattendo legati al piolo. C’era anche un altro modo di impegnarsi al suicidio in guerra. Ma in questo caso non venivano utilizzati né guinzaglio né piolo; il guerriero si limitava a lanciarsi in mezzo ai nemici e a caricarli senza sosta, esponendosi così fino a quando non veniva ucciso. Gli altri giovani guerrieri, influenzati dal gesto, ne avrebbero seguito l’esempio.

Vite buttate si diceva prima, come quelle dei soldati mandati in guerra tra le paludi e le giungle del Vietnam oppure come quelle dei protagonisti del romanzo, non tutti destinati a morire, ma tutti ugualmente legati al piolo della siringa o del denaro. Mai eroi per coraggio e dedizione a una causa autentica, ma quasi sempre per calcolo personale o irrimediabile corruzione.

E’ una Saigon che offre ad ogni angolo eroina e prostituzione che spalanca le braccia a John Converse appena arrivato in Vietnam, durante un conflitto sempre più difficile per le forze americane e per i loro alleati. Ed per questo motivo che Converse, abbandonata l’idea di scrivere, si trova a smerciare tre chili di eroina dal Vietnam alla California, negli Stati Uniti di Nixon e della guerra alla droga, dando così inizio a una fuga durante la quale la linea di demarcazione tra preda e cacciatore è fluida e impalpabile come quella tracciata tra i due Vietnam.

«Ti conviene stare attento», gli disse Hicks. «Negli Stati Uniti succedono cose strane ormai».
«Non può essere più strano di qui».
«Qui è tutto più semplice», disse Hicks. «In America è tutto più strano. Io non so bene con chi tela fai ultimamente, ma scommetto che non hanno il senso dell’umorismo».
Converse guardò dall’alto l’amico seduto, barcollando un po’. Spalancò le braccia in un gesto plateale. «Ora come ora potrebbe anche mettersi a piovere sangue e merda», disse. «Non saprei dove altro andare»4

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Dal romanzo, nel 1978, fu tratto il film Who’ll Stop the Rain (in Italia intitolato I guerrieri dell’inferno) diretto da Karel Reisz e interpretato da Nick Nolte nella parte di Ray. Stone, che nel frattempo aveva vinto il National Book Award con Dog Soldiers, partecipò alla sceneggiatura dello stesso, non fu mai particolarmente soddisfatto del risultato, anche se il film fu presentato in concorso al 31° Festival del cinema di Cannes.

Minimum Fax che già nel 2018 aveva proposto un altro ottimo romanzo noir basato sul reducismo successivo alla guerra di Corea, Country Dark di Chris Offutt, ha sicuramente il merito di continuare un’attività di pubblicazione, scoperta o riscoperta di romanzi particolarmente adatti a rilanciare l’attenzione del pubblico per la letteratura americana e per le profonde contraddizioni che attraversano la medesima società da decenni. E il romanzo di Robert Stone, oggi ancora una volta giunti alle porte dell’Inferno, vale davvero la pena di essere letto.


  1. Già comparso precedentemente in Italia con il titolo I guerrieri dell’inferno, Bompiani, Milano 1978.  

  2. Si veda Tom Wolfe, L’Acid Test al rinfresko elettrico, Feltrinelli, Milano 1970.  

  3. Il primo, A Hall of Mirrors uscito negli Stati Uniti nel 1966, gli era valso sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio.  

  4. R. Stone, Dog Soldiers, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 92.  

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La vita privata (Victoriana 45) https://www.carmillaonline.com/2023/10/28/la-vita-privata-victoriana-45/ Sat, 28 Oct 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79236 di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura [...]]]> di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, e per l’edizione italiana di Maria Luisa Castellani Agosti.]

Il racconto di Henry James “The Private Life” è un testo molto strano, godibilissimo a leggersi – quasi una commedia brillante – ma destinato a perdere moltissimo con un riassunto. Il tentativo sarà di recuperarne comunque la potenza allusiva e di metafora, condotta attraverso soluzioni narrative nuovamente assai singolari: il racconto di fantasmi diventa così una felice formula per una satira sociale che sa graffiare più a fondo, raggiungendo la meditazione sull’identità. Il racconto, attestano i Taccuini, viene immaginato il 27 luglio 1891: la stesura precede “Nona Vincent” e probabilmente anche “Sir Edmund Orme” anche se il testo viene pubblicato dopo, sull’Atlantic Monthly nell’aprile 1892 e in seguito nella raccolta The Private Life and Other Stories (1893) – seguiamo qui la forma rivista per la “New York Edition” (1907-1909, add. 1917).

La storia si svolge in Svizzera, dove un gruppo di esponenti del mondo culturale di Londra si trova fortuitamente riunito. Ci sono Lord e Lady Mellifont, il grande scrittore Clare Vawdrey e l’immensa attrice Blanche Adney: gente tanto richiesta in società da doverla “prenotare” con sei settimane di anticipo e che ora invece è per caso tutta lì. Anche il narrante fa parte dello stesso mondo ma in quel contesto la compagnia è quasi stupita dallo scoprire le persone più “umane” di quanto non sembri a Londra.

Un giorno, riuniti sulla terrazza dell’albergo per prendere “secondo lo strano uso tedesco, il caffè prima del pasto”, notano quasi di sfuggita la lunga assenza di Lord Mellifont e della signora Adney. Il fatto è che Clare Vawdrey – nome d’arte Clarence – sta parlando, e tutti lo ascoltano: un uomo cordiale, sano e ciarliero, che non parla mai di sé e per nulla avido di omaggi. Ma a un tratto Lady Mellifont chiede al narrante se abbia idea di dove suo marito e la signora Adney siano finiti. Milady è sempre pallida, incolore e sempre vestita di nero: “Nascondeva un segreto” e appare rassegnatamente malinconica. Il narrante spiega che si sono allontanati per una passeggiata un’ora prima, e le propone di chiedere informazioni al marito della signora Adney. Questi è un piccolo compositore, già modesto violinista nel teatro dove lei recitava e di cui aveva favorito la carriera; una specie di buon bambino cinquantenne che sostiene al meglio la parte di marito della diva, rendendola presente nella propria musica, anche se non è in grado di scrivere per lei un testo teatrale. Ma Lady Mellifont preferisce non far vedere di essere inquieta, come – ammette – è di solito quando il marito si allontana a lungo, “Non so esattamente che cosa temo: ho la sensazione generica che non debba più ritornare”.

Poco dopo vedono apparire la signora Adney senza di lui, ma con l’aria tranquilla: l’ha lasciata – spiega – pochi minuti prima, è rientrato in casa. Il narrante coglie però negli occhi dell’attrice, un messaggio come “Sì, ma un incidente c’è stato. Ve lo dirò forse più tardi”. La moglie conclude che Milord sarà andato a vestirsi per il pasto: e poi il narrante ci descrive questo nobiluomo di straordinaria presenza, uomo di mondo dall’impeccabile abbigliamento, con “un costume per ogni funzione e una morale per ogni costume”, di cui il romanziere Vawdrey conosce tutta la vita “quasi dai suoi primi passi nel mondo” sgranata in aneddoti – come di consueto le narrazioni su Lord Mellifont, sempre amabile e imperturbabile.

 

Personalmente, quando si parlava di lui, avevo sempre l’impressione che si parlasse di un morto: la conversazione era contrassegnata da quella particolare accumulazione di fatti significativi. La sua reputazione era una sorta di obelisco dorato, come fosse stato sepolto lì sotto: la somma di leggende e di reminiscenze di cui egli sarebbe un giorno stato oggetto si era cristallizzata in anticipo.

L’ambiguità derivava, suppongo, dalla circostanza che il solo suono del suo nome e l’aria della sua persona, l’aspettativa generale che egli creava, avevano in certo modo un tono così romantico e anormale. L’esperienza della sua urbanità veniva sempre dopo; la previsione, la leggenda, impallidivano di fronte alla realtà. Ricordo che la sera di cui parlo quella realtà mi colpì come suprema. Il più bell’uomo del tempo non avrebbe potuto competere con lui, e sedeva tra noi come un tranquillo direttore d’orchestra, il quale domini col modo armonioso del braccio un’orchestra ancora un po’ grezza. Guidava la conversazione con gesti non meno irresistibili che vaghi; si sentiva che senza di lui non avrebbe avuto niente che si potesse chiamare “tono”. Era questo essenzialmente il suo contributo in qualsiasi occasione – il suo contributo, soprattutto, alla vita pubblica inglese. […] Egli era tutto stile.

 

A confronto, la conversazione di Vawdrey fa “pensare al cronista di fronte al poeta”.

L’attrice, quarantenne, vorrebbe che Vawdrey scrivesse una commedia tutta per lei, portandola a quel ruolo eccelso che ha finora soltanto sognato, sulla base di un canovaccio di trama più sottile. Il problema, a giudizio del narrante, è che il romanziere ormai maturo non è in grado di scriverla. Meraviglioso è il ritratto “di questa donna incantevole, che era bella senza bellezza e completa con almeno una dozzina di deficienze”, da tutti ammirata, sorta di dipinto uscito dalla cornice per le strade del mondo, perpetua sorpresa e anzi miracolo per una società senza acume.

In realtà Vawdrey, a cui lei piace, ha iniziato a scrivere una commedia per lei, e per la stessa ragione tira in lungo l’opera: ora afferma di aver composto il terzo atto. Il problema è che ha passato il tempo a tener banco, prima ha giocato a biliardo, il giorno prima aveva detto di non aver prodotto nulla… per cui gli amici mostrano la loro perplessità. “Non credo di saper bene quando lavoro” commenta lo scrittore, e si proclama in grado di ripetere la scena a memoria… ma in realtà nessuno gli crede troppo. Viene ammannita anche un’introduzione musicale al suono del violino del marito della diva, ma al momento di recitare i versi il romanziere proclama soave di vergognarsi molto (non ne ha l’aria) ma di non ricordarli affatto. Se lui non è costernato, lo è la compagnia, però a salvare la situazione interviene Lord Mellifont: racconta un episodio personale, la volta in cui aveva dimenticato gli appunti per presentare qualcosa davanti a una folla immensa, ma il brillante successo dell’esibizione aveva fatto dimenticare il suo imbarazzo. Così la diva esorta il marito a suonare ancora e il narrante propone al romanziere di mandare qualcuno a prendere il fantomatico manoscritto: quello spiega che un manoscritto non c’è, scriverà l’indomani, ma poi alla confusione dell’altro corregge il tiro. “Se c’è qualcosa, è sul mio tavolo”. Poi la musica di Adney assorbe l’attenzione di tutti.

Però il narrante vuol chiedere qualcosa alla diva. Forzando un po’ il senso del discorso del romanziere, sostiene di aver avuto il permesso di andare a prendere il manoscritto: e lei lo scongiura di farglielo avere. Lui le chiede per contropartita di spiegargli cosa sia accaduto con Lord Mellifont durante la gita – che qualcosa sia successo gliel’ha letto in viso. La voce pubblica, commenta lei colpita, lo definisce in effetti “uno scrutatore di cuori, quella cosa frivola che si chiama ‘osservatore’”. Lei però esita a raccontare la “cosa veramente strana” accaduta; lui le propone un altro enigma, Vawdrey non ha scritto un verso. Lei ribatte di prendere le sue carte e vedranno: andare, intende, nella sua stanza a prelevare i fogli per scoprire. Poi riprende il dominio di sé, stanno dicendo un mucchio di sciocchezze: però gli raccomanda di prendere le carte.

In realtà l’operazione viene rallentata, una signora chiede al narrante una firma ricordo sul suo “album dei compleanni”, e lui è tanto confuso da non ricordare la propria data di nascita. Ma nel frattempo la compagnia si è sciolta, se Vawdrey è andato a letto lui non vuole disturbarlo – però poi realizza che può essere ancora sveglio. La signora Adney è uscita con amici nella notte alpina, il Nostro vagheggia di procurarle il manoscritto e di farglielo trovare al rientro. Raggiunge dunque la stanza di Vawdrey, l’ultima in fondo al corridoio del secondo piano: la mano corre al pomo della porta ed entra nella stanza buia senza bussare.

Davvero molto buia, sta già per accendere un fiammifero quando balza indietro con un sussulto e il balbettio di una scusa: “uno sguardo di qualche secondo mi aveva rivelato una sagoma d’uomo, seduto a un tavolo davanti a una delle finestre”. Di primo acchito l’ha scambiato per una coperta gettata sulla sedia, si è persino domandato se non abbia sbagliato stanza ma poi crede di riconoscere Vawdrey. A quel punto esclama: “Ehi, dico, siete voi Vawdrey?” ma quello non risponde e una luce in corridoio permette di riconoscere davanti a lui l’uomo che è convinto di aver lasciato in conversazione dabbasso con la signora Adney… “Mi voltava un poco la schiena ed era chino sul tavolo nell’atteggiamento di chi scrive, ma la sua identità mi penetrò attraverso ogni poro”. Il narrante si scusa, credeva che si trovasse dabbasso (una scusa un po’ bizzarra per essersi fatto trovare lì…), ma l’altro non dà segno di sentirlo e lui indietreggia fino alla porta, chiudendosela dietro. “Stavo lì, con la mano ancora sul pomo della porta, sopraffatto dall’impressione più strana che avessi mai provato in vita mia”. Perché il romanziere scriveva al buio e non gli aveva risposto? Attende dunque invano il rumore di qualche movimento all’interno ma tutto tace e lui scende, diretto alla porta dell’albergo. Gli altri devono essere rientrati: dopo pochi minuti va a letto.

Tale la prima parte del testo, e la seconda inizia con il sonno agitato del narrante. Ripensando alla sua esperienza è ancora più impressionato, ma tiene a chiedere a Blanche Adney chi fosse con lei sulla terrazza la sera prima. Desiderio che però stranamente evapora all’arrivo dell’alba di una giornata che si preannuncia splendida: per cui se ne esce dopo il caffè e si fa una passeggiata solitaria tra le montagne, con ampio spazio a un riposino sull’erba. Rientra nel tardo pomeriggio per la cena, e dopo essersi cambiato raggiunge gli altri a tavola. È curioso di vedere se Vawdrey lo fisserà in modo strano, ma il romanziere non mostra di considerarlo: dunque a fine pranzo raggiunge l’attrice proponendole un giretto all’esterno. E lì, tra dialoghi impagabili a cui solo una lettura del testo jamesiano può rendere giustizia, le domanda chi fosse lì fuori in terrazza con lei la sera prima, verso le dieci. Lei risponde che era Vawdrey, le ha parlato un po’ della sua commedia… Ma il Nostro vuol sapere di più, e all’ironico stupore della signora Adney a quelle domande risponde che “mentre voi e il vostro compagno eravate occupati nel modo che avete descritto, il vostro compagno era anche intento a scrivere nella sua stanza” (corsivo mio). Lei si ferma, gli occhi scintillano nelle tenebre: chiede se stia mettendo in dubbio il suo racconto, ma viene tranquillizzata. Realizzano così che – in modo del tutto paradossale – un Vawdrey le recitava la scena facendo ammenda per il fiasco in sala e senz’ombra di dubbio un altro, il suo doppio (“Oh, le eccentricità del genio!” commenta lei dopo un accurato interrogatorio dell’interlocutore) scriveva al buio nella propria camera. Una figura in fondo, commenta il Nostro, che “somigliava all’autore delle mirabili opere di Vawdrey. Gli somigliava infinitamente di più che non gli somigli il nostro stesso amico”. Che non mostra altrettanto genio nella conversazione…  Insomma, “Sono due. […] Uno esce, l’altro rimane a casa. Uno è il genio, l’altro il borghese, e noi non conosciamo personalmente che il borghese. Parla, va in giro, è enormemente popolare, vi fa la corte…”. La invita anzi a vedere coi suoi occhi andando in camera di lui, ma lei lo giudica sconveniente, “col tono delle sue battute migliori”. “Tutto è conveniente in un caso del genere”, ribatte il narrante.

Scorgono però in distanza Lord Mellifont, e ciangottando l’attrice commenta che “se Clare Vawdrey è doppio, e sento il dovere di dire che più ce ne sono meglio è, Sua Grazia ha il male contrario: non è nemmeno intero” – e domanda se l’abbia mai visto da solo. Certo, ma – emerge – sempre in modo da stabilire una relazione: Milord che va a trovarlo o il reciproco, ma con tanto di preannuncio. Mentre, spiega lei, “Dovete prenderlo alla sprovvista”, per esempio piombandogli in camera… e non vedrà niente. Mentre ora lo vedono lì, perfetto come per promuovere la candidatura elettorale delle Alpi, aureolato delle sue perfezioni, e il narrante comprende:

 

egli mi apparve così essenzialmente, così cospicuamente e uniformemente nella luce dell’uomo “pubblico” che lessi in un lampo la risposta all’enigma di Blanche. Era tutto “pubblico” e non aveva una corrispondente vita privata, così come Clare Vawdrey era tutto privato e non aveva una corrispondente vita pubblica. Avevo sentito soltanto la metà del racconto della mia compagna; tuttavia, mentre ci univamo a Lord Mellifont – ci aveva seguiti perché la signora Adney gli era simpatica, ma si pensava sempre di lui che accettasse la compagnia altrui piuttosto che cercarla – , mentre partecipavamo per mezz’ora della prodiga ricchezza del suo discorso, sentii, con una duplicità nella quale non era ombra di rossore, che noi lo avevamo, per così dire, smascherato.

 

Il tutto con un certo fondo di indulgenza:

 

Lo avevo segretamente commiserato per la perfezione con la quale recitava la sua parte, mi ero domandato quale vuoto quella maschera coprisse in realtà, che cosa gli rimanesse nelle ore spietate in cui l’uomo è solo con se stesso, o, peggio ancora, solo con quel se stesso anche più severo che è la sua legittima moglie. Com’era in casa e che cosa faceva quand’era solo? C’era qualcosa in Lady Mellifont che giustificava questi dubbi, qualcosa che suggeriva come anche per lei egli dovesse continuare a essere l’uomo “pubblico”, e lei assediata da dubbi della stessa natura. Non li aveva mai risolti: ecco il motivo della sua perpetua inquietudine.

 

Ma lui rappresenta per lei e per la servitù “l’eroe”: però quando nessuno poteva ammirarlo “Probabilmente si abbandonava, riposava; ma quale vuoto spaventoso doveva mai essere necessario per compensare tanta pienezza di presenza!”. E ora loro sono soltanto due, “ma non mi era mai apparso più ‘pubblico’”, più perfetto nei modi, più notevole nel tatto, più evidente “l’unicità assoluta della sua identità”.

La signora Adney gli deve ancora il suo aneddoto, ma quella sera non riescono a parlarne: lei resta incantata ad ascoltare Vawdrey che le legge la famosa scena finalmente composta. Il momento giunge solo l’indomani, quando lei accetta una passeggiata con il narrante. In quel contesto ammette di essere affascinata dal secondo io dello scrittore, la teoria del doppio spiega tutto e la incanta, tanto più che la scena è “Magnifica, e [lui] legge stupendamente” (salvo l’impressione di lei che sembrava trattarsi dell’opera di un altro). E parlano un po’ di “quale risorsa fosse nella vita un simile sdoppiamento di personalità”. Distante dal marito, lei ammette di essersi innamorata di un tale personaggio: “Disgraziata, egli non ha passioni”, ribatte algido il narrante ma lei spiega che è proprio per quello, un’attrice “non può prendersi il lusso di essere ricambiata”, in fondo il suo matrimonio gradevole e fortunato è “rovinoso”. E ascoltando quei versi lei sentiva solo un “folle desiderio di conoscerne l’autore”…

Poi, messa alla stretta sul racconto che deve al complice di indagini, cerca di ricordare i dettagli mentre entrano in un’incantevole valletta tortuosa: e a un tratto viene loro incontro Lady Mellifont. Pensava che il marito fosse là per dipingere, ma non l’ha trovato. Commentano che, se raggiunto, lui salterà fuori: la nobildonna si allontana, dicendo che non è il caso gli riferiscano che lei l’ha seguito. “Ha dei sospetti, sapete” commenta allora il narrante con l’attrice. Se non lo raggiungono, non ci sarà nessun dipinto. E finalmente la diva racconta l’episodio di qualche giorno prima. Non le era riuscito di trovare Milord, che d’altra parte non sapeva di essere cercato: “Appare non appena si accorge della presenza di qualcun altro”. Avevano passeggiato insieme, racconta, ma quando lei si era staccata per tornare all’albergo s’era accorta d’essersi portata via il temperino di lui: allora è tornata indietro, ma la valle non presentava possibilità di nascondersi e lui non c’era – come lì, nella valle davanti a loro. Forse per un momento di fatica, al ritorno alla solitudine, l’estinzione di lui era stata completa. “Era svanito, aveva cessato di esistere”. Ma appena lei l’aveva chiamato ecco l’uomo pubblico era riapparso dove avrebbe dovuto essere: poi certo, lei può essersi sbagliata – ammette alle obiezioni poste dall’interlocutore – ma ha la ferma convinzione del contrario. Per questo Blanche vorrebbe che il Nostro facesse una capatina in camera di lui. Che obietta non osi farlo nemmeno la moglie: no, ma in realtà lo desidererebbe, spiega l’attrice, perché nutre dei sospetti. Possibile che lui, d’altro canto, si sia accorto di aver suscitato stupore con la sua sparizione e riapparizione nella valle della passeggiata: ma alla domanda su quale aspetto avesse, ribatte “Esattamente quello che ha ora!” (corsivo mio) perché lui è apparso brandendo il proprio album degli acquarelli. Si mette in posizione, poi inizia a parlare e intanto dipinge, “Tutta la natura s’inchinava davanti a lui, e gli elementi stessi aspettavano”. E quando tornano in albergo, prima lo vedono alla finestra della sua stanza e poi non più, “Ridissolto […] Nell’immensità del cosmo” dopo la fatica della performance di poco prima a loro uso e consumo. Il quadro lasciato a Blanche si rivela però senza firma.

A sua volta Vawdrey è ora uscito per una passeggiata, ma a giudicare dalle nubi avrebbe fatto bene a portarsi dietro un ombrello. Blanche chiede al narrante se può portarglielo lui e fare in modo che restino fuori più tempo possibile: vorrebbe riuscire nel frattempo a vedere nella stanza il Vawdrey genuino.

Il Nostro calcola che prima di uscire ha tempo di fare una capatina fino al salottino di Lord Mellifont, con la scusa di chiedergli che firmi il suo quadro. Però, quando si trova davanti alla porta, si rende conto che bussando rovinerebbe tutto: un ingresso improvviso sarebbe l’unico modo per coglierlo nella sua assenza paradossale. E ha già la mano sul pomo quando Lady Mellifont appare dalla propria stanza… Non pronunciano parola ma corre tra loro uno scambio di pensieri e a un tratto lui riconosce sulle labbra di lei un quasi del tutto silenzioso “Non fatelo!”.

 

Se il mio esperimento le appariva sotto l’aspetto di un atto di violenza, ero pronto a rinunciarvi; pure, mi parve di cogliere nel suo viso spaventato una rivelazione anche più profonda, una possibilità di disappunto se io avessi ceduto. Era come dicesse: – Se ve ne assumete la responsabilità, fate pure. Sì, per mezzo di un altro sarei disposta a sorprenderlo; ma non dovrebbe mai sapere che io ci sono entrata per qualcosa.

 

Lui le spiega la storia della firma mancante al dipinto che tiene tra le mani come scusa. Lei prende la tela con un’evidente lotta interiore, rientra in camera sua e poi torna, avendo vinto la tentazione: se le lasciano il dipinto, lo farà firmare dal marito. Incassato il fallimento del progetto, il Nostro osserva per stemperare che il tempo sta cambiando: lei ribatte che in quel caso loro partiranno subito. Inattesamente poi gli stringe la mano, con un gesto che lui interpreta come: “Vi ringrazio dell’aiuto che avreste voluto darmi, ma meglio lasciare le cose come sono. Se sapessi, chi mi potrebbe più aiutare?”. E lui conclude che Milady è sicura, ma non vuole fare la prova.

Corre a portare l’ombrello allo scrittore e poco dopo devono assieme cercare riparo sotto un temporale di straordinaria violenza. Si rifugiano allora in una baracca per il bestiame e restano bloccati per un’ora, durante la quale il narrante resta ampiamente deluso da Vawdrey: “Non so esattamente come mi raffigurassi un grande scrittore esposto al furore degli elementi, non so dire quale atteggiamento alla Manfredi mi aspettassi dal mio compagno”. Ma certo non trova trascinante il sentirsi ammannire una serie di storie insulse, oltretutto già sentite, sulla famosa Lady Ringlose e sul noto critico signor Chafer: alla luce dei lampi, chiarissimo che

 

per i rapporti sociali quel mirabile genio trovava sufficiente una sua personalità di seconda scelta. Senza dubbio la società non meritava di meglio, ma la distinzione comportava un disprezzo che non poteva non riuscire umiliante per un ammiratore. Il mondo era volgare e stupido, e l’uomo genuino sarebbe stato uno sciocco a esibirsi davanti ad esso quando poteva chiacchierare e pranzare per delega.

 

Inutile pensare a una deroga soltanto per il Nostro…

Quando rientrano trovano gli amici un po’ preoccupati per la loro lunga assenza, Vawdrey si è inzuppato e va a cambiarsi – e Blanche lo guarda in modo studiatamente freddo. Il narrante la segue in sala, “non era mai stata così bella”. Entusiasta, gli bisbiglia – “col più rapido dei bisbigli, che fu al tempo stesso il grido più alto che avessi mai sentito” – di aver avuto la parte tanto sperata: è andata nella stanza di Vawdrey, quello vero, “È stata l’ora più bella della mia vita”… Poi, liquidati come irrilevanti Lord Mellifont e la firma sotto il suo quadro e invitato il narrante ad andare a cambiarsi, esce, entusiasta: trova l’innocuo marito, “Stavamo parlando proprio di te, amor mio!” e provvede a baci e abbracci.

Quando però il Nostro scende a mangiare scopre che il cattivo tempo ha già smembrato la compagnia: i Mellifont sono partiti, Blanche lo farà il giorno dopo, Vawdrey – la versione farlocca – domanda al narrante perché la diva abbia preso a detestarlo.

Tornati a Londra devono riconciliarsi perché Vawdrey termina la commedia e Blanche la interpreta. Evidentemente non un capolavoro, e l’attrice resta alla ricerca della gran parte da sostenere. Per la verità, il narrante ne avrebbe in mente una, ma lei sfortunatamente non lo corteggia: l’indagine ha permesso loro di avvicinarsi, ma solo in via transitoria. Come in fondo col marito di lei, si tratta di alleanze sociali, che nulla hanno in comune con pulsioni più genuine e viscerali – almeno da parte dell’attrice – in un mondo che è una gran recita. Lady Mellifont invece ha sempre una parola gentile per il Nostro, “ma questo non mi consola”.

In questo caso le apparizioni sono quelle speculare, dunque opposte, del doppio di una persona, Vawdrey, e – con trovata narrativa geniale, originalissima, ma in realtà con precedenti lungo il corso della storia della letteratura  – di un’altra persona quale semplice simulacro, proiezione di un’identità sociale e che esiste solo in pubblico ma svanisce in privato. Inevitabile pensare alla storia di Elena presente a Troia solo come simulacro mentre la sua identità autentica è in Egitto, o in generale alla lunga storia del Doppelgänger in letteratura. L’aspetto che rende tanto straordinario questo testo, con la sua coppia di anomalie parallele, è anche l’ironia che lo pervade. Vawdrey è ispirato a una figura reale, Robert Browning, grande poeta e uomo tanto comune – cordiale, dogmatico, pieno di opinioni risapute e giudizi usuali: quasi due personalità distinte, e James fatica a comprendere come abbia potuto conquistare Elizabeth Barrett. Browning muore nel dicembre 1889 a Venezia e James, presente alla funzione per lui all’abbazia di Westminster, ne scriverà un omaggio anonimo su The Speaker. Il tema peraltro si collega a tutta una riflessione condotta da James sulla doppia personalità.

A questo modello ne contrappone però un altro, l’uomo che esiste solo in pubblico, il pittore vittoriano – il massimo esponente dell’arte classica nel periodo – Frederic Leighton, baciato dal successo in tutti i campi, e tuttavia alla morte subito dimenticato. Era solo una figura pubblica.

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Occhio per occhio https://www.carmillaonline.com/2023/08/04/occhio-per-occhio/ Fri, 04 Aug 2023 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78231 di Giorgio Bona

Revenant – Redivivo  è un film del 2015 diretto, cosceneggiato e coprodotto dal regista messicano Alejandro González Iñárritu e il soggetto è tratto dal libro omonimo dello scrittore americano Michael Pumke (Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, 2014).

Il ruolo del protagonista è interpretato da Leonardo Di Caprio nella parte di Hugh Glass (c. 1783-1833), esploratore e cacciatore di pellicce che nel 1822 prese parte a una spedizione lungo il fiume Missouri e i suoi affluenti: a quei tempi il [...]]]> di Giorgio Bona

Revenant – Redivivo  è un film del 2015 diretto, cosceneggiato e coprodotto dal regista messicano Alejandro González Iñárritu e il soggetto è tratto dal libro omonimo dello scrittore americano Michael Pumke (Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, 2014).

Il ruolo del protagonista è interpretato da Leonardo Di Caprio nella parte di Hugh Glass (c. 1783-1833), esploratore e cacciatore di pellicce che nel 1822 prese parte a una spedizione lungo il fiume Missouri e i suoi affluenti: a quei tempi il territorio era di fatto inesplorato.

La prima missione per inoltrarsi in quelle zone impervie e piene di pericoli risaliva a diciotto anni prima coi famosissimi Meriwether Lewis e William Clark (1804-1806), finanziata dal governo statunitense immediatamente dopo l’acquisto della Louisiana in vista dell’annessione all’Unione. Missione voluta dal presidente Jefferson che condusse i due esploratori a tracciare le prime mappe del nord-ovest: impresa utile a raccontare una terra sconosciuta che seguiva il percorso dei fiumi Missouri e Columbia oltrepassando le Montagne rocciose e le Bitterroot Mountains.

Michael Pumke ricostruisce una storia vera, quella di Hugh Glass che viene abbandonato in pieno territorio indiano da due componenti della compagnia di pellicce perché creduto morto. Infatti nessuno può sopravvivere all’attacco di un grizzly, resistere ai suoi artigli che lacerano la carne e penetrano in profondità. Ecco allora che dato per spacciato viene lasciato al suo destino dai suoi due compagni. Uno dei due è niente meno che il celebre Jim Bridger (1804-1881), in questo contesto giovanissimo, alle prime armi, prima di diventare il famosissimo scout al pari di Kit Carson, Brigham Young, Thomas Fitzpatrick e John Sutter.

Jim Bridger sarà presente ne Il crinale (Einaudi, 2023), altro romanzo di Pumke, e ricordato come esploratore e veterano delle guerre indiane. Qui, invece, lo scout è un giovane pischello alle prime armi. Nella ricostruzione di Pumke il giovane Jim Bridger, rimasto orfano in povertà e senza alcuna istruzione dopo un breve periodo da apprendista fabbro, si unisce al generale William Henry Ashley e la compagnia di cacciatori di pellicce nell’alto fiume Missouri.

La trama del romanzo parla delle avventure della compagnia e Pumke cerca minuziosamente di ricostruirne la storia ma soprattutto cerca di darci una visione a 360° di quello scorcio di frontiera.

Il capitano Andrew Henry, capo della spedizione della Rocky Mountain Fur Company subisce un brutto colpo: i suoi trapper sono decimati da un attacco degli indiani Arikara.

Siamo nell’agosto del 1823 e contemporaneamente il suo uomo migliore, Hugh Glass viene assalito da un grizzly sulle rive del fiume Grand. I suoi compagni di viaggio, John Fritzgerald e Jim Bridger lo considerano morto abbandonandolo dentro una fossa, dopo avergli sottratto l’equipaggiamento e soprattutto il prezioso fucile Anstadt.

Solo, gravemente ferito, sprovvisto di qualsiasi mezzo, Glass riesce a sopravvivere alla dura vita della frontiera, al pericolo di indiani sul sentiero di guerra e giura vendetta intraprendendo un viaggio straordinario di tremila chilometri in quei territori selvaggi e pieni di insidie, tra Dakota, Montana, Nebraska e Wyoming, per raggiungere i due compagni e fargliela pagare.

È la dura legge della frontiera: occhio per occhio.

Durante questo interminabile viaggio che sembra non avere mai fine, ripercorre con la mente il suo passato tra naufragi al largo di Cuba, pirati, vagabondaggi, fino a un lungo periodo di permanenza presso una tribù di indiani Pawnee.

Rimettendosi in sesto poco alla volta, nutrendosi di piccoli roditori e bacche si muove strisciando per lunghi tratti e successivamente zoppicando in un territorio impervio e pieno di pericoli.

L’inferno che sta attraversando è anche quello delle fitte di una terribile lacerazione alla gola a causa degli artigli dell’orso, che gli lascerà segni indelebili sul timbro di voce ridotto come un sibilo.

Se la dura legge della frontiera rispecchia come grande valore il sentimento della vendetta per affermare la giustizia, in questo libro che ha un titolo comprensibile per la sua forte tematica, dove la frontiera è l’inferno, allora “the Revenant” rappresenta colui che ritorna dopo un viaggio dagli inferi.

Ecco Hugh Glass che risorge dal suo sepolcro con gli occhi iniettati di sangue e non cercherà la strada per salvare se stesso ma per cercare la pace attraverso la sete di giustizia.

Ma quello che emerge è il mito americano della frontiera. La frontiera intesa come terra selvaggia aveva per gli americani un significato: il proprio sogno di libertà legato alla conquista e all’affermazione del proprio io. Affermare la propria identità anche al prezzo di cancellare quella degli altri: qualcosa che comporterà una delle scelte più tragiche della storia, lo sterminio dei nativi nordamericani.

Un viatico della storia della frontiera parte da questo libro. Hugh Glass rappresenta l’uomo che apre una sfida con un mondo da dominare: conflitti con caccia all’uomo, lotte cruente che l’avidità della terra inaspriva, creando le premesse più atroci per vendette a catena.

In tutto questo gli indigeni dovevano soccombere respinti sempre più indietro dall’orda degli invasori.

Solo gli indiani morti sono buoni e per poterlo provare li uccisero quasi tutti.

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Elogio dell’eccesso /3: Cormac McCarthy e il rosso della sera dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/elogio-delleccesso-3-cormac-mccarthy-il-rosso-della-sera-delloccidente/ Thu, 20 Jul 2023 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78090 di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La [...]]]> di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La strada” – Cormac McCarthy)

Il 20 luglio di quest’anno Cormac McCarthy avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Per uno di quegli insondabili moti degli orologi biologici individuali così non è stato e lo scrittore americano se n’è andato il 13 giugno, nella sua casa nei pressi di Santa Fe, nel Nuovo Messico. Tornando a quel mistero, di cui la morte individuale è la massima espressione e manifestazione, di cui parlava nell’ultima riga di uno dei suoi romanzi più conosciuti.

Se la letteratura americana migliore è impregnata del mistero della morte, in tutte le sue possibili forme, Cormac McCarthy ne è stato forse il cantore più coerente e inflessibile.
Morte per violenza, soprattutto, ma anche morte come fine di tutto: di una vita, di un ciclo, di un mondo, talvolta, come in Non è un paese per vecchi, del senso e di qualsiasi tentativo di dare un significato alle azioni degli uomini.

In un mondo che, invece, ha cercato di allontanare da sé la morte, pur producendola in maniera esagerata, continua e con qualsiasi mezzo, trasformandola narrativamente in un accidente, magari irrimediabile, ma pur sempre tale. Un intoppo nel percorso di vite destinate all’eternità non solo spirituale ma anche fisica e alla realizzazione di sé attraverso il consumo e la produzione di ricchezza (quest’ultima decisamente meno egualitaria della morte che, almeno e nonostante gli sforzi di conservazione criogenica della carcassa individuale, in attesa di un futuro migliore, arriva sempre e comunque per tutti).

Come scriveva già il sottoscritto, qualche anno fa, l’ossessione ricorrente nella maggior parte della migliore letteratura americana certo è

quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.
Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.
Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di Pulp alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di Un brav’uomo è difficile da trovare1.

McCarthy ha sempre suonato il controcanto del fasullo vitalismo americano e per fare ciò ha smontato ogni mito, a partire da quello della Frontiera e se Morte e Male costituiscono i due caratteri dominanti della grande letteratura d’oltre oceano, allora Cormac McCarthy ne rappresentato la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva, tracciando, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana.

Morte e non Storia, soprattutto degli ultimi due secoli. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream. Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttrice e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti. Vendicarsi, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di sopravvivere o di “essere giusti”: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di Non è un paese per vecchi, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo La strada; da Meridiano di sangue, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

Come afferma Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda di The counselor (Il procuratore, Einaudi 2013), mentre confessa provocatoriamente i propri impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini.

Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione2.

D’altra parte la stessa Malkina è in qualche modo prodotto e conseguenza di una narrazione letteraria e politica che nasconde la menzogna e la violenza che sono servite a mantenere inalterato il volto perbenista di una società che dopo aver artificialmente rimosso il Ricordati che devi morire della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare e in cui la morte e il male sono portati alle estreme conseguenze, mentre solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. «Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni»3.

Scorrendo tutte le pagine dell’opera di McCarthy, per certi versi unico vero erede del lato più tragico e provocatorio di William Faulkner, non è difficile capire perché, proprio un attimo prima del raggiungimento del successo con il romanzo All the Pretty Horses (1992 – Cavalli selvaggi, Guida 1993 – Einaudi 1996) che vinse il National Book Award nel 1992, tutte le sue opere precedenti (fino ad allora cinque) fossero uscite dal catalogo della Random House nonostante il successo di critica, non accompagnato però da un adeguato risultato nelle vendite e presso il pubblico. Compreso quello che sarebbe stato poi considerato uno dei suoi capolavori, se non proprio il capolavoro, Blood Meridian, del 1985 (Meridiano di sangue, Einaudi 1996).

L’autore americano aveva iniziato la sua carriera nel 1965, all’età di 32 anni. Era un dropout dell’Università del Tennessee, privo di agente letterario, quando aveva sottoposto il dattiloscritto del suo primo romanzo proprio alla Random House. Manoscritto che per puro caso finì sulla scrivania di Albert Erskine, colui che aveva fatto pubblicare Ralph Ellison, Robert Penn Warren e lo scrittore che sembra aver maggiormente ispirato McCarthy: William Faulkner. Erskine apprezzò il “manoscritto” e così la Random House pubblicò il primo romanzo, The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), un debutto ruvido, strano e decisamente non commerciale, che però già conteneva alcuni dei temi tipici di tutte le sue opere successive.

Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere4.

Eccone qui il primo esempio: il Mito della Frontiera e dei suoi uomini liberi e indipendenti, indifferenti alle leggi del progresso e abitatori di una terra selvaggia non è altro che polvere ancor più che polverosa leggenda. Come si afferma nel risvolto di copertina della prima edizione italiana, le vicende «hanno come sfondo un paesaggio arcaico, descritto con una prosa dalle cadenze bibliche che rimanda alla tradizione faulkneriana. I personaggi di McCarthy convivono con una natura che non ha nulla di idilliaco, ma è capricciosa e ostile proprio come i suoi abitanti.»

Un altro dei temi di McCarthy è infatti proprio la Natura, indifferente al destino degli uomini e alle loro storie e la cui sacralità è definita non dall’idillio, ma dalla sua crudeltà e impenetrabilità. Non a caso gli sfondi più spesso descritti dall’autore non sono quelli di colline e paesaggi ameni, ma piuttosto quelli di deserti soleggiati e ricchi di tempeste di polvere, di rocce granitiche e di pianure riarse dal sole. Per precipitare poi, in uno degli ultimi e più noti romanzi, The Road (2006 – La strada, Einaudi 2007) in uno scenario di ceneri e alberi bruciati. In cui la specie muore insieme al mondo che ha finto di poter dominare, soltanto per distruggerlo.

Erskine smosse mari e monti per promuovere il libro, sollecitando autori come Truman Capote, James Michener e Saul Bellow affinché lo leggessero, ma nonostante questi sforzo promozionale il romanzo vendette poco. Così come il successivo del 1968, Outer Dark (Il buio fuori, Einaudi 1997).

Una storia scandalosa e crudele in cui un giovane insegue la sorella, da cui ha avuto un figlio che lui ha cercato di uccidere subito dopo la nascita, attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Una storia di incesto e povertà cui si sovrappone la violenza di un mondo spietato e, come sempre, tinto di rosso cremisi. Con un epilogo di inimmaginabile crudeltà, come se l’entità che sembrerebbe presiedere nella più totale indifferenza le vicende umane avesse finalmente deciso di svelare il proprio ghigno grondante sangue.

Quando la Random House chiese a McCarthy se avesse qualcuno a cui inviare il suo terzo romanzo, Child of God (1973 – Figlio di Dio, Einaudi 2000) la storia di un assassino seriale e necrofilo che terrorizza una contea del Tennessee, l’autore, con una lettera, rispose: «Ed McMahon del Tonight Show, è un conoscente. Siamo stati a pescare insieme a Bimini la primavera scorsa e poi a bere al Cat Cay (fino a quando è caduto dal molo e hanno dovuto portarlo in aereo a Lauderdale per ricorrere alle cure ospedaliere). Provate a fargli giungere una copia del mio libro. Dovrebbe leggerlo (non come beve, certamente, ma più o meno)5

Quel romanzo, ancora una volta, raccontava il trionfo assoluto del Male, incarnato nella figura di Lester Ballard, uno dei tanti white trash che popolano le catapecchie del Sud rurale, le campagne ferme nel tempo in cui la Storia è scandita dai linciaggi e dalle pubbliche impiccagioni, dove la promiscuità e l’incesto costituiscono la regola, dove la miseria e l’abiezione sommergono qualsiasi forma di società strutturata secondo i canoni della modernità. Un mondo destinato a produrre mostri e su cui sembra campeggiare, come in ogni altro romanzo di McCarthy, l’avviso: No politically correct, please.

Se la casa editrice contattò o meno McMahon non è dato sapere, però anche quel romanzo vendette poco o nulla. Così come il quarto Suttree, pubblicato nel 1979 (Suttree, Einaudi 2009). Romanzo che il critico Stanley Booth definì come il «libro più esilarante di McCarthy, ma anche il più insopportabilmente triste.» Popolato da una schiera di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.
E’ il mondo di Knoxville, Tennessee, nel 1951 ed è quello in cui vive e sopravvive Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore protagonista delle vicende narrate. L’altra faccia dell’America perbenista narrata dall’immaginario dell’American way of life dunque.

In quell’occasione l’autore aveva ottenuto il riconoscimento di autorevoli premi letterari e borse di studio finanziate dall’American Academy of Arts and Letters, dalla Fondazione Guggenheim e dalla Fondazione Rockfeller, mentre nel 1981 ne ottenne anche una dalla MacArthur che, come avrebbe scritto ad un amico, rappresentava una piccola “manna” che gli avrebbe permesso «di rimanere nel “business” ancora per un po’.»

Nel 1976 si era trasferito a El Paso dove si sarebbe in seguito documentato e avrebbe iniziato a scrivere il suo quinto romanzo, Blood Meridian. Un libro violentissimo, l’unico in cui compaiano i nativi americani colti nel momento in cui guerreggiano selvaggiamente contro i bianchi che invadono i loro territori sempre più in profondità e mentre un branco di mercenari, comandati da uno dei personaggi più infernali usciti dalla mente di McCarthy, il giudice, scorrazza sulle pianure del Texas e del Sud-ovest, uccidendo e scalpando i membri delle tribù distribuite a cavallo del confine tra Stati Uniti e Messico.

E’ la storia di un ragazzo che a quattordici anni lascia la casa paterna nel Tennessee e si dirige avventurosamente, disperatamente, coraggiosamente e incoscientemente verso l’Ovest, verso il West. Ma il lettore non si aspetti un romanzo di formazione. L’America, come avverrà poi nel terzo e ultimo romanzo della trilogia della Frontiera, Cities of the Plain (1998 – Città della pianura, Einaudi 1999), non cresce o educa i suoi figli: li divora. In Vietnam come in tante altre inutili guerre ai confini del suo impero, negli slums delle metropoli come sulle pianure secche e aride del West. Tom Sawyer in un romanzo di McCarthy non avrebbe mai avuto il tempo di diventare saggio o adulto, avrebbe avuto soltanto il tempo di morire. Possibilmente in maniera ingiusta e violenta.

E anche i nativi non sono da cartolina. Non sono soltanto pacifici rappresentanti di un mondo in estinzione davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Non espongono la bandiera a stelle e strisce come avviene in Soldato blu6 nel tentativo di non essere massacrati. Combattono, aggrediscono, uccidono, scalpano e stuprano (anche le “giacche blu”), riservando ai bianchi ciò che questi ultimi hanno perpetrato su di loro. Non per nulla Blood Meridian è stato definito, dal critico statunitense Harold Bloom, come «il western definitivo».

La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna.[…] Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini i ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve7.

E’ sempre una scrittura visionaria quella dell’autore statunitense, in questo senso biblica per la forza delle immagini che sembrano andare in sovrimpressione, soprattutto nella mente di chi legge. Ma nonostante ciò, o forse proprio in virtù di tutto questo, anche il quinto romanzo vendette poco, o nulla. Così a partire dalla seconda metà degli anni ’80 le prospettive di carriera dello scrittore si annunciavano ormai come tetre e desolate.

Nel 1987 Erskine lasciò il suo posto alla Random House per andare in pensione e McCarthy, nel 1989, ebbe modo di scrivere ad un amico: «Sono stato uno scrittore professionale per 28 anni e non ho mai ricevuto un assegno per i diritti d’autore. Penso sia davvero un record.» Ciò significava, al di là dei riconoscimenti ricevuti e della successiva fortuna editoriale, che lo stesso avrebbe dovuto cambiare il modo di presentare i suoi libri agli editori. Soprattutto dopo il ritiro di Erskine.

E così fu. In un contesto in cui le grandi corporation, proprio a partire dagli anni Ottanta, avevano iniziato ad assorbire un grande numero di case editrici, grandi, medie e piccole, che erano state messe in ginocchio dall’aumento dei prezzi determinato dall’inflazione degli anni settanta che a parità di salari aveva fatto sì che il costo dei libri aumentasse e i lettori diminuissero. Da lì in avanti alla direzione delle case editrici più grandi furono messi uomini che non venivano dalla “letteratura” (come agenti o editori), ma dal marketing,

Nel frattempo McCarthy aveva scritto a Lynn Nesbit (che rappresentava, tra i tanti altri, autori come Joan Didion, Toni Morrison e Tom Wolfe) in cerca di un agente. Per farlo, le aveva scritto le seguenti parole: «Non ho mai avuto un agente prima d’ora, ma penso che sia giunto il momento di averlo e così, se è interessata a parlarmi, può chiamarmi prima di mezzogiorno, ora delle Montagne Rocciose (Rocky Mountain time).»

La Nesbit passò la lettera ad una sua protetta, Amanda “Binky” Urban, che aveva letto Suttree e lo aveva trovato stupefacente. Così Amanda Urban prese in carico lo scrittore e progettò il suo passaggio dalla Random House alla Knopf, dove un nuovo direttore editoriale, Sonny Metha, aveva bisogno di un buon colpo iniziale. Quando la Urban gli propose McCarthy, stimato borsista della MacArthur che però non aveva ancora venduto, con un francesismo, un cazzo, Metha rispose: «Già lo amo».

La stessa Urban, in seguito, avrebbe affermato: «Non potevo credere di stare per prendere in mano il telefono e chiamare un autore che fino ad allora aveva venduto al massimo 2500 copie». Ma in quel frangente si aprirono le porte del successo per Mc Carthy, con il romanzo Cavalli selvaggi, che non è certo tra i suoi migliori, ma da cui fu tratta una versione cinematografica, anch’essa risibile rispetto a quelle tratte da La strada e Non è un paese per vecchi, interpretata da un giovane Matt Damon.

Romanzo che apriva però quella trilogia della frontiera cui si è già accennato e di cui il secondo, The crossing (1994 – Oltre il confine, Einaudi 1995), costituisce forse la summa della visione tragica e nichilista della vita contenuta in tutta la sua opera. Ancora una volta la storia di un giovane, Billy Parham, che lascia la casa di famiglia per addentrarsi, alle soglie del secondo conflitto mondiale, “oltre il confine” nel Messico. Tra deserti, montagne, cavalli, fantasmi di uomini e rivoluzioni, fotografie sbiadite e zingari alla ricerca dei proprietari delle stesse perché si riconoscano prima di svanire anche loro nel tempo o più semplicemente nel nulla.

A farla da padrone è ancora una volta il paesaggio metafisico, ma concretissimo, che assume il ruolo di testimone muto e spietato che vedrà due fratelli cercarsi, perdersi, trovarsi e perdersi ancora su un confine, quello del Sud-ovest, che più che una linea divisoria tra gli stati sembra tracciare quella tra tra il mondo reale e quello narrato, tra la Vita e la Morte, l’Essere e il Nulla.

Dovevano ancora venire altri romanzi, tutti di successo soprattutto negli Stati Uniti, ma già in un’intervista dl 1992, rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel», McCarthy avrebbe dichiarato: «Le classifiche dei bestseller non hanno nulla a che fare con la letteratura. Ha mai guardato i titoli che sono in classifica? Pensa che sia lusinghiero essere in quella compagnia?». E poi, a proposito dell’America: «Più di ogni altro paese sulla terra, l’America è una provvisorietà. Un’invenzione senza storia». In quell’occasione l’intervistatore ebbe modo di osservare come l’autore, che abitava ancora a El Paso «dove la città dei morti sembra provvisoria come la città dei vivi:

E’ affascinato dalla prospettiva in cui l’astrofisica colloca la storia umana, l’insensato arrancare dell’umanità e la sua sofferenza. Ci sono molti elementi che suggeriscono, dice, che l’esperimento umano sarà presto finito. E stranamente, come i predicatori dei suoi romanzi, Cormac McCarthy è un moralista. Meno fanatico, più rassegnato. Quando parla di sventura, non parla di catastrofi ecologiche o economiche, ma della morte interiore dell’uomo, della morte del significato. «Come si può vivere senza morale?», dice ad un certo punto.[…] Ha sottotitolato il suo romanzo Meridiano di sangue il “rosso della sera dell’Occidente”, un libro che, come i dipinti di Hieronymus Bosch, fornisce metafore per la caduta dell’umanità8.

Certo un moralista, come lo sono stati Leopardi o Céline, eccessivi perché perfettamente consci della condizione umana e delle menzogne di un secol superbo e sciocco. Consci che l’ingiustizia, la violenza, il dolore fanno parte di tale condizione e che non saranno le fregnacce liberali, new age, politically correct e della cancel culture (tutte varianti di un unico perbenismo già morto e sepolto) a modificarla. Anzi tali fregnacce son proprio ciò che è necessario continuare a diffonder per nascondere la realtà. Non a caso uno (Céline) è stato demonizzato, l’altro (Leopardi) sminuito a pessimista gobbo e quasi cieco e Mc Carthy spesso inquadrato in un canone americano di difesa di valori che non ha mai sicuramente apprezzato.

Proprio per questi motivi, in tempi di guerra e di crisi autentica dell’Occidente e dei suoi “valori fondativi”, è consigliabile che il lettore non si adagi sulle false sicurezze e le false speranze, distribuite a piene mani sia da destra che da sinistra, e faccia piuttosto un salto di paradigma iniziando subito a sprofondarsi nella lettura dell’opera di McCarthy. Possibilmente integrale.


  1. qui  

  2. C. McCarthy, The counselorIl Procuratore, Einaudi 2013, pp. 114 – 115  

  3. op. cit., pag. 51  

  4. C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002  

  5. Fonte: Dan Sinykin, A career that couldn’t happen now, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  6. Soldier Blue è un film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, Arrow in the Sun, anch’esso liberamente ispirato ai reali eventi del massacro di Sand Creek del 1864.  

  7. C. McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi 1996, pp. 56-57  

  8. «Der Spiegel», 30 agosto 1992  

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La scala a chiocciola (stavolta ad Arkham) https://www.carmillaonline.com/2023/01/19/la-scala-a-chiocciola-stavolta-ad-arkham/ Thu, 19 Jan 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75639 di Franco Pezzini

H.P. Lovecraft. Edizione annotata, prefazione e note di Leslie S. Klinger, introduzione di Alan Moore, a cura di Massimo Scorsone, pp. LXXIV + 854, € 48,00, Mondadori, Milano 2022.

Di anni, da allora, ne sono passati tanti – al netto di qualunque banalità sul “Sembra ieri”, visto che il primo a invecchiare è chi scrive. Erano gli anni Ottanta in cui nasceva in Italia un’attenzione critica anche accademica sul fantastico, e si moltiplicavano collane bellissime (per Theoria, Serra & Riva, vari altri), anche se col riflusso [...]]]> di Franco Pezzini

H.P. Lovecraft. Edizione annotata, prefazione e note di Leslie S. Klinger, introduzione di Alan Moore, a cura di Massimo Scorsone, pp. LXXIV + 854, € 48,00, Mondadori, Milano 2022.

Di anni, da allora, ne sono passati tanti – al netto di qualunque banalità sul “Sembra ieri”, visto che il primo a invecchiare è chi scrive. Erano gli anni Ottanta in cui nasceva in Italia un’attenzione critica anche accademica sul fantastico, e si moltiplicavano collane bellissime (per Theoria, Serra & Riva, vari altri), anche se col riflusso si contraeva la carica provocatoria che per esempio aveva connotato tanto gotico del decennio precedente.

Ma il fantastico sapeva trovare luoghi in cui insediarsi. A Torino in via Volta, per esempio, la leggendaria libreria Sevagram di Riccardo Valla – esperto autentico, sommo traduttore e interlocutore di grandi scrittori: bello ricordarlo a dieci anni dall’improvvisa scomparsa nel gennaio 2013, aveva fatto appena in tempo a promuovere la fondazione del MuFant. Oppure, e da me più frequentata, perché non distante da casa, la Ziggurat di corso Re Umberto: un luogo molto particolare di penombra e scaffali, sede per me di infinite scoperte, organizzata su due piani. Quello sottostante, cui si accedeva da una pittoresca scala a chiocciola, traboccava di fantastico, compresi pionieristici volumi in inglese sul cinema horror. E non posso evitare di associarvi il nome di Lovecraft, in cui mi ero imbattuto negli anni di liceo attraverso una vecchia edizione Sugar de Le montagne della follia (1966, recuperato in un angolo della cartolibreria di zona) e soprattutto l’insuperato Storie di fantasmi di Fruttero & Lucentini – i veri importatori in Italia di una serie di nomi eccellenti qui ancora sconosciuti. Al punto che la nostra corrispondenza di cartoline tra amici, in quella seconda metà anni Settanta, traboccava di citazioni pseudolovecraftiane, come i nostri soggiorni canavesani si trovavano infestati dalla presunta presenza di un mostro di pastasciutta vagamente cthulhuforme.

Ormai da quella scala a chiocciola della Ziggurat, chiusa tanti anni fa, scendo solo con la fantasia: ma mi è accaduto di recente, prendendo in mano – con tutte e due le mani, dato il peso delle quasi mille pagine – una delle ultimissime uscite degli “Oscar Draghi” Mondadori, il monumentale H.P. Lovecraft. Edizione annotata, varato in occasione dell’anniversario della morte di Lovecraft, e oggetto della sollecita cura di Massimo Scorsone, coltissimo e infaticabile curatore di molti degli ultimi “Draghi”, nonché (tutto torna) amico di antica data di Riccardo Valla.

Scorsone è l’uomo giusto per far emergere la dignità letteraria di Lovecraft: quel Lovecraft autore per esempio di eleganti liriche finora in Italia tradotte scipitamente in chiave prosastica nel completo sprezzo del ritmo musicale cui l’autore teneva tanto. Il tenore delle traduzioni di Scorsone, offerte anni addietro in una serata del gruppo Poesia in Progress al Circolo dei lettori di Torino, è al contrario alto e molto fedele. Un solo esempio che HPL amerebbe, la resa della lirica lovecraftiana St. Toad’s (qui di seguito nel testo originale), rititolata carduccianamente Davanti a San Bodda:

 

XXV. St. Toad’s

 

“Beware St. Toad’s cracked chimes!” I heard him scream

As I plunged into those mad lanes that wind

In labyrinths obscure and undefined

South of the river where old centuries dream.

 

He was a furtive figure, bent and ragged,

And in a flash had staggered out of sight,

So still I burrowed onward in the night

Toward where more roof-lines rose, malign and jagged.

 

No guide-book told of what was lurking here –

But now I heard another old man shriek:

“Beware St.Toad’s cracked chimes!” And growing weak,

 

I paused, when a third greybeard croaked in fear:

“Beware St. Toad’s cracked chimes!” Aghast, I fled –

Till suddenly that black spire loomed ahead.

 

 

XXV. Davanti a San Bodda

 

«Da San Bodda, e i suoi rochi cariglioni»

L’udii sgolarsi «guardati!» in quel borgo

Sognante, a Sud del fiume, nell’ingorgo

Cacciatomi di ronchi, e cupi androni

 

Secolari. E furtivo, e curvo egli era,

E lacero ; e in un lampo era svanito.

Senza un indugio pur me n’ero uscito

Sotto irte gronde, torve nella sera,

 

Né lessi in nessun libro quale azzardo

Vi si corresse ; ma ora un altro vecchio

M’urla «alla larga, San Bodda!» all’orecchio,

 

Al che ristò; quando un terzo vegliardo

«Via da San Bodda!» a gran voce ancor muglia…

E fuggo – ero già all’ombra della guglia…

 

Ma torniamo al volume, che non è ovviamente e non potrebbe essere un Tutto Lovecraft – operazione del resto già varata con successo dal compianto Giuseppe Lippi proprio per Mondadori, in quella che rappresenta a tutt’oggi la migliore edizione circolante in Italia (1989-92): il curatore, lo studioso e avvocato americano Leslie S. Klinger, seleziona e glossa i racconti, secondo una prassi da lui già riservata a vari classici del gotico. Diavolo d’un uomo, per annotare Dracula (2009) Klinger era riuscito a mettere le mani sul manoscritto originale con le parti poi stralciate – in grazia di speciale concessione del proprietario Paul Allen, cofondatore della Microsoft. Unico punto debole di tale operazione in sé preziosa mi pare l’eccesso di concessione al pop, sulla scia dei giochi in voga tra sherlockiani, nel presentare il testo come realmente raccolto dal coniugi Harker, con tutta una serie di allegre ma alla fine stucchevoli affabulazioni (compreso l’intervento di Dracula, illeso, che pretende il tranquillizzante finale del suo incenerirsi): strategia funzionale a giustificare quelle contraddizioni nel romanzo che rappresentano invece per il lettore attento un elemento di intatto fascino, permettendo di ravvisarvi come a tocchi di pennello la stratificazione di infinite versioni perdute.

In questo Lovecraft annotato, il risultato – il primo di due volumi già editi negli USA (2014 e 2019), almeno un terzo plausibilmente seguirà – è per fortuna più filologicamente sobrio, e raccoglie i racconti del cosiddetto “ciclo di Arkham”, dal nome del centro immaginario del New England attorno a cui si consumano incresciose vicende. Come noto, costruendo liberissimamente il suo lovecraftverse l’autore non prevedeva rigide partizioni tra “ciclo di Arkham” e resto dei racconti, ma si tratta di un lecito sistema editoriale per raccogliere un bel po’ di materiale in un volume oggettivamente grandioso.

Le traduzioni sono in gran parte quelle ottime del Tutti i racconti lippiani già in casa Mondadori, glossate dalle ricche note di Klinger, in rosso. Introduce alle danze il fumettista e mago cerimoniale Alan Moore, che ben evoca per Lovecraft la cifra di un “autentico trionfo del Perturbante”: formula che riesce a saldare le vertigini di ciò che sta in alto e ciò che sta in basso (come li definiva il vecchio Trismegisto), molto meglio di stantie etichette come ultimo demiurgo e suggerisce che il cosmo/caos dei racconti sia anzitutto interiore e indicibile. Il filtro è in genere quello delle emozioni di un narrante davanti a indescrivibili creature umidicce, a ibridi e abissi, a sussurri di qualcosa tanto più esplosivo quanto più fuggevolmente avvertito: le epifanie (anti)cosmiche non sono frequenti (di voragini stellari se ne vedono pochine, le creature sono tanto più raccapriccianti quanto meno viste), e gli accumuli di aggettivi che spesso i critici di Lovecraft hanno (anche ingenerosamente) biasimato sono in realtà tentativi di riportare a un balbettio soggettivo, percettivo e comunque emotivo, idiosincrasie comprese, brividi su oggetti altrimenti insuscettibili di presentazione – e che semmai, descritti, rischierebbero di perdere molto della loro terribilità. Per cui sì, orrore cosmico, dove però il peso, più che sull’aggettivo come in genere si insiste a rimarcare, va sul sostantivo inerente abissi di straniamento in primis umani. Ecco il Perturbante.

E qui il fantastico si conferma in fondo linguaggio dell’identità e delle sue crisi: Moore sottolinea con grande lucidità il sistema di paure (verso migranti e non bianchi, omosessuali, suffragette, scioperi e ripercussioni della rivoluzione russa)

 

che ossessionavano una fascia assai ampia della perbenista società americana, [e] avrebbe trovato espressione negli scritti e nelle idee di Lovecraft. È vero tuttavia che l’intelletto di Lovecraft e le sue abitudini di lettore onnivoro lo mettevano in grado di cogliere e sperimentare una gamma di malesseri ben più estesa rispetto a quella che poteva affliggere l’esasperato cittadino medio.

 

Quelli appunto sulla terrificante incommensurabilità del cosmo rispetto al minuscolo essere umano (con connotazioni escatologiche, di parola sulla fine, che dovrebbero spingere a uno studio attento del rapporto simbolico e linguistico tra apocalittica lovecraftiana e peso delle fonti scritturistiche della sua biblioteca). Ma

 

malgrado possa aver guardato a se stesso – secondo l’opinione professata di comune accordo con i suoi lettori, anzi persino con quanti lo conoscevano di persona – come all’incarnazione dell’Estraneo, protagonista della più emblematica delle sue fiabe, The Outsider, nella realtà delle sue ansie e dei suoi incubi Lovecraft finisce col rivelarsi qual è, al punto da rappresentare il più inaudito colpo di fortuna tra i fenomeni statistici: il perfetto uomo medio, ossia l’Intraneo, un Insider sociale assediato e turbato al pensiero di dover patire nuove e aliene contaminazioni provenienti dall’esterno. Questo, come si potrebbe supporre, è il motivo alla base della fatale attrazione esercitata su di noi dalla sua opera.

 

(Del resto è il solito discorso: a credere di cavalcare la tigre, ad assumere posture eroicomiche da Outsider è in genere proprio il perfetto, impauritissimo uomo medio. Con la differenza che, nelle tristi platee di uomini medi, di maestri di scrittura come Lovecraft ce ne sono pochini.)

A seguire, una buona introduzione di Klinger che contestualizza il Nostro nell’ambito della storia dell’horror, e tocca un po’ tutti i punti utili sull’opera e l’autore. Ovvio, i cultori di HPL non vi troveranno forse vertiginose novità, ma non sarebbe lo spirito giusto con cui avvicinare questo bel sontuosissimo volume, ricchissimamente illustrato a colori con foto (molte di luoghi, davvero interessanti), tavole, locandine. E ovvio, si tratta di un prodotto pop.

Che però, se lo guardiamo in modo non troppo superficiale, viene a provocare su una questione fondamentale. Al di là delle ricadute in prodotti derivati e fenomeni di costume (compreso il ridicolo folklore fascistoide italiota) si parla di uno scrittore, un autore a cui oggi si può riconoscere un’autentica dignità letteraria, e capace di innovazioni espressive infinitamente più grandi del piccolo cabotaggio delle sue paure di Insider. Mentre tutta la pletora di imitatori pedissequi – a volte a lui devoti in un modo che HPL troverebbe irresistibilmente buffo – non va molto oltre il livello delle nostre cartoline liceali lovecraftianeggianti o del nostro mostro di pastasciutta canavesano: con la gravità aggiunta, imperdonabile, di prendersi sul serio e passare dal cosmico al comico. La scrittura di Lovecraft dovrebbe invece spingere a imitarlo nel condurre il fantastico un passo oltre quel che abbiamo ereditato, a trovare nuovi linguaggi e magari giocarci – come lui faceva allegramente coi suoi amici – senza il sussiego che spesso troviamo rimbombare a tutela di scritti dimenticabili di suoi “discepoli”.

Ben diverso il livello dei ventidue testi forti qui antologizzati sulla settantina di quelli dell’autore: testi (i principali racconti, e persino il romanzo Le montagne della follia), presentati in ordine utilmente cronologico, muniti di congrui cappelli introduttivi e seguiti da un sistema di sfiziose appendici. Testi che è bello rileggere ancora, per scoprire tra le pieghe una serie di sottigliezze narrative troppo spesso sacrificate dalle svianti traduzioni ammanniteci per anni in Italia (anche da sedicenti esperti).

E torno alla mia scala a chiocciola, in quell’Arkham di tanti anni fa. Dove, parafrasando quanto detto per altri, non resta che domandarmi se non vorrei scoprire Lovecraft solo ora, per sentire oggi come al tempo del primo incontro quell’abbagliante e a volte terribile felicità.

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James & James – Fantasmi (Victoriana 38/I) https://www.carmillaonline.com/2022/10/21/james-james-fantasmi-victoriana-38-i/ Fri, 21 Oct 2022 20:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74484 di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, [...]]]> di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, con traduzione in questo caso di Maria Luisa Castellani Agosti.]

 

1.1. Corpi, fantasmi e tante opere

Sforbiciare dall’opera di un autore come Henry James i soli testi sui fantasmi può risultare senz’altro una forzatura, considerando i mille fili tesi all’interno di una produzione eccezionale e i mille tipi di fantasmi – sociali, sentimentali, emotivi, morali – che corrono tra le sue opere. Questo è senz’altro un limite dell’operazione che ci apprestiamo ad avviare, che però non è un Tutto (Henry) James ma mira a comparare due serie di ghost story databili a un periodo più o meno sovrapponibile legato al mondo vittoriano – quelle appunto dei due James, Henry e Montague Rhodes, che declinano il tema del fantasma in modo diversissimi, nell’ambito di una cultura che ne sta facendo un vero e proprio feticcio. Studi recenti mostrano quanto l’impatto del lavoro delle società spiritiste influisca sugli sviluppi letterari della suggestione, che d’altra parte riceve forza dall’incontro e lo scontro di nuovi paradigmi filosofici e scientifici.

Henry James non è inglese ma americano, nasce a New York nel 1843: quindi quasi contemporaneo di un altro immenso narratore americano di fantasmi, Ambrose Bierce, nato l’anno prima (tra l’altro James morirà nel 1916, Bierce scompare nel 1914). James ha cinque anni quando esplode l’ultima delle grandi rivoluzioni del 1848, quella spiritista, ne ha sei quando l’anno dopo muore Poe e ventuno quando nel 1864 muore Hawthorne, che come Balzac e Turgenev sarà tanto importante per la sua narrativa.

L’ambiente in cui Henry James cresce è particolarmente fertile sul piano culturale. La sua è una famiglia di intellettuali di origini irlandesi: è figlio di una donna colta, Mary Walsh e di un teologo swedenborgiano (come certi personaggi di Le Fanu) e filosofo cultore di letteratura e amico di tutto il giro dei trascendentalisti, Henry James Sr., coltissimo e forse ingombrante. Il fratello di Henry è il filosofo pragmatista e psicologo William James (1842-1910), tra i fondatori della psicologia funzionale, presidente tra l’altro della Society for Psychical Research dal 1894 al 1895, per cui di spettri si discute in famiglia; anche la sorella Alice James (1848-1892) scrive, è molto legata a William (forse troppo, con sfumature incestuose tutte mentali) e soffre fin dall’età di diciannove anni di un insieme di problemi al tempo etichettati spesso come isteria, ma anche nevrastenia, gotta reumatica, suppressed gout, complicanza cardiaca, nevrosi spinale, iperestesia nervosa, crisi spirituale (nel diario parla di impulsi a uccidere il padre, o a uccidersi…), e che, trattati con terapie sperimentali come massaggi elettrici continueranno comunque ad affliggerla fino alla morte precoce a quarantatré anni – un personaggio di enorme interesse, il cui diario vivace, spiritoso e speziato tenuto fin dal 1889 mostra una scrittura elegantemente letteraria. I fratelli ammireranno quel testo, e William vi vedrà il radicale, insanabile conflitto tra ciò che è stata Alice e il mondo esterno, laddove invece lei riteneva trattarsi di una lotta tra la propria volontà e il proprio corpo. Sperando di averne giovamento, Alice si trasferirà in Inghilterra nel 1884 assieme all’amica educatrice Katharine Peabody Loring. Dalla sua figura, Susan Sontag trarrà materiale per il suo unico testo teatrale, Alice in Bed: ma il diario di Alice è un’opera a sé, e preziosissima è la parte della sua malattia terminale, tre anni con un cancro al seno, in assenza di altre terapie fronteggiato con morfina e altri oppiacei.

La famiglia conduce Henry in continui viaggi tra l’America e l’Europa, fa sì che studi con istitutori di rango a Ginevra, Londra, Parigi e Bonn; all’età di diciannove anni frequenta con scarso successo la Harvard Law School, ma fin da giovane legge e studia con passione le letterature europee –  inglese, francese, italiana, tedesca e russa, solo quest’ultima in traduzione – e prende a misurarsi con la scrittura, dal primo racconto, pubblicato in forma anonima nel 1864, “A Tragedy of Error”. Due anni dopo la famiglia si trasferisce da Boston a Cambridge, e lui conduce vita sedentaria a casa – che interromperà solo per il primo viaggio da adulto in Europa (1869). Una tranquillità imposta dal fatto che la vita sociale non lo ricrea in alcun modo, ma la vita in casa è “vivace quanto l’interno di un sepolcro”.

A quel punto è lanciato, e inizia a collaborare con una quantità di testate (tra queste The Nation, The Atlantic Monthly, Harper’s e Scribner’s), producendo una messe di opere che incideranno con potenza sull’idea moderna di romanzo. Scriverà 22 romanzi, di cui due incompiuti, 112 racconti (tra lunghi e brevi), alcune opere teatrali e un enorme numero di testi saggistici e articoli di critica letteraria. Dopo un periodo a Parigi, nel 1876 eccolo trasferirsi in pianta stabile in Inghilterra, inizialmente a Londra. Ma facciamo un passo indietro.

 

1.2. “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”

Quello che è stato individuato come il primo racconto del sovrannaturale di HJ (il suo settimo racconto pubblicato) compare appunto nel febbraio 1968 sul citato The Atlantic Monthly: “The Romance of Certain Old Clothes” verrà rivisto a più riprese fino all’edizione definitiva del 1885. E di primo acchito può sembrare un racconto di Hawthorne: teniamo conto che l’autore ha venticinque anni ed è ovviamente influenzato dalle letture che ama.

L’epoca è metà Settecento, Massachusetts: lì vive una gentildonna vedova, Veronica Wingrave (nella prima versione era Willoughby), con tre figli, un maschio e due femmine. “La bellezza era una tradizione di famiglia”, e i figli sono tutti belli. Il maschio Bernard è benedetto da tutte le doti esteriori e interiori salvo l’intelligenza, toccata alle sorelle, che hanno nomi shakespeariani in grazie della venerazione del defunto padre per il Grande Bardo (tanto più apprezzabile in una società che al tempo non ama quel tipo di scrittura): la maggiore è Rosalind, dall’eroina di Come vi piace (nella prima versione era Viola come la figura della Dodicesima notte, e la Rosalind di Shakespeare è più aggressiva della sua Viola, come la spinosa rosa lo è rispetto alla violetta); la minore Perdita, dal Racconto d’inverno. La madre, adempiendo con animo rotto il desiderio del defunto, invia il figlio in Inghilterra a studiare a Oxford. Dopo cinque anni e un viaggio in Francia, il ventitreenne Bernard torna un po’ preoccupato di trovare il New England noioso e antiquato, e in realtà deve ricredersi. Le sorelle intanto sono divenute “due deliziose signorine, con tutte le prerogative di grazia delle giovani inglesi e una certa innata simpatica brusquerie, un che di selvatico che, se non era una dote, costituiva un’attrattiva in più”. E il giudizio positivo è anche rafforzato agli occhi di Arthur Lloyd, un suo compagno di università e grande amico, bello e ricco, venuto con lui in America per motivi di commercio e che ha suscitato ottima impressione a casa Wingrave.

Le due sorelle, “nel fiore della loro freschezza giovanile”, sono comunque molto diverse. Rosalind, alta e pallida con trecce dai riflessi dorati – e plausibilmente molto diversa dal peperino omonimo di Shakespeare – “non era fatta per le avventure”. Quanto a Perdita, non richiama le malinconie evocate dal nome: “Aveva una carnagione da zingara e occhi infantili, ardenti, oltre al vitino più sottile e i piedini più veloci di tutta la patria dei Puritani”, ed è molto più vivace della sorella anche nel dialogo. Su entrambe Lloyd fa colpo, con le sue doti esteriori e interiori, l’educazione e i discorsi affascinanti che non trovano pari tra i giovanotti locali. A sua volta Lloyd, che ha il presentimento che finirà con lo sposare una delle due, è ancora incapace di formulare preferenze. Le due frattanto mostrano un contegno irreprensibile, pur vivendo una sottesa competizione per il signor Lloyd:

 

Nel loro rapporto reciproco […] stavano piuttosto sul chi vive. Erano buone amiche fraterne, e concilianti compagne di letto (dividevano infatti il lettone a quattro colonne) e più di un giorno sarebbe occorso perché tra loro germogliassero e fruttificassero i semi della gelosia […] Ognuna aveva deciso che, se disprezzata, avrebbe sopportato il suo dolore in silenzio e nessuno ne avrebbe saputo nulla; poiché, se erano capaci di molto amor proprio, erano anche fornite di una buona dose di orgoglio. Ma ciascuna nel proprio intimo pregava che, malgrado tutto, la scelta, la preferenza di Lloyd cadesse su di lei. Abbisognavano certo di molta pazienza, di molto dominio di sé, di molta capacità di dissimulazione. A nessuna ragazza di buona famiglia era lecito, a quei tempi, prendere la minima iniziativa; le era soltanto consentito rispondere a quelle che venivano prese. […] Le due giovani, l’una in quasi costante compagnia dell’altra, avevano infinite occasioni di tradirsi. Che ciascuna sapesse d’essere osservata non causava però la minima differenza in quei piccoli favori che si rendevano a vicenda, o nelle varie mansioni casalinghe che assolvevano insieme. Né l’una né l’altra dava segno di timore o d’agitazione sotto il muto dardeggiare degli occhi della sorella. L’unico visibile mutamento nelle loro abitudini fu che ebbero meno da dirsi. Parlare del signor Lloyd era impossibile, e parlar d’altro era ridicolo. Per tacito accordo cominciarono a mettersi i vestiti più belli, a escogitare dei piccoli espedienti di civetteria in materia di nastri, gale e falpalà consentiti nell’ambito d’un’indiscussa modestia.

 

È possibile che James abbia qui in mente altre due figure ispirate al teatro di Shakespeare, cioè la dialettica tra le pur diversissime Matilda e Isabella nel Castello d’Otranto di Walpole. Ma è estremamente interessante che proprio la compressione di emozioni qui in scena – per educazione, per buonismo – finirà con lo spurgare fantasmi terribili.

Per qualche mese sembra che nulla accada. Ma una sera di dicembre Rosalind si sta pettinando i capelli davanti allo specchio della toeletta, ma è buio, dunque accende le due candele fissate alla cornice dello specchio e va alla finestra a tirare le tende: e vede la sorella risalire il viale, poi esaminare qualcosa che tiene in mano e premerselo alle labbra. Quando Perdita appare sulla soglia della stanza sobbalza – pensava che la sorella fosse con la madre a un ricevimento di signore – e Rosalind le chiede di entrare e darle qualche colpo di spazzola ai capelli, profittando dello specchio per sorvegliarla. Perdita si accorge degli occhi di Rosalind puntati alle sue mani, e pochi attimi dopo la sua mano sinistra viene afferrata: “Di chi è quest’anello?” domanda la sorella con veemenza. Perdita deve confessare che è stato il signor Lloyd: ma al commento stizzito della sorella, secondo cui il giovane è diventato generoso tutt’a un tratto, ribatte che no, “Non tutt’a un tratto. È già un mese che me l’ha offerto”. Breve scambio teso: le è bastato farsi corteggiare un mese per accettarlo? Lei l’avrebbe fatto attendere almeno dueNon conta l’anello, ma ciò che significa!non è una ragazza ammodo, mamma e Bernard sono informati?la mamma ha approvato, e alla richiesta di Mr Lloyd ha concesso la sua mano. “Avresti voluto che chiedesse la tua, sorella carissima?”

 

Rosalind le rivolse una lunga occhiata, piena di rovente invidia e di sofferenza. Poi abbassò le ciglia sulle guance pallide e si scostò. Perdita si rendeva conto che la scena era stata spiacevole; ma la colpa era della sorella. Questa, tuttavia, ritrovò il proprio orgoglio e tornò sui suoi passi. – Ti faccio i miei migliori auguri, – le disse con un leggero inchino. – Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita.

Perdita uscì in un riso amaro. – Non parlarmi in quel tono, – esclamò. – Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore. Via, sorellina, – aggiunse, – non poteva mica sposarci tutt’è due!

– Ti auguro ogni bene possibile, – ripeté Rosalind come un automa, risedendosi davanti allo specchio, – una lunga vita e un mucchio di figli.

C’era qualcosa nel suono di quelle parole che non piacque affatto a Perdita. – Un anno almeno me lo concedi? – le domandò. – In un anno posso avere un bel maschietto… o magari una bambina. Se mi ridai la spazzola, ti aggiusto i capelli.

– Grazie – rispose Rosalind. – Sarà meglio che tu raggiunga la mamma. Non sta bene che una signorina fidanzata si prenda cura di una ragazza che non lo è.

– Ma andiamo – ribatté Perdita ritrovando il suo buon umore. – Io ho Arthur che si prende cura di me. Hai più bisogno tu del mio aiuto che io del tuo.

Ma la sorella la spinse fuori.

 

E a quel punto, finalmente sola, Rosalind può scoppiare in lacrime e sfogarsi un po’, in modo tale che al ritorno di Perdita insiste e riesce ad aiutarla a vestirsi con quanto di più bello abbia e ad accettare un suo merletto, per apparire degna della scelta del pretendente. “Assolse tali servigi con laconico rigore, ma si trattò appunto di puri servigi, intesi a chieder perdono, a offrire riparazione; e non ne prestò più altri”. Di nuovo il non detto, il non espresso che però resta sotteso al di là di ogni buona intenzione cosciente: aveva ragione Perdita a dire “Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore”: quel che cova lì davanti allo specchio è quasi un atto di magia ritmato da auguri sinistri: “Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita […] una lunga vita e un mucchio di figli”.

Non troviamo qui ancora il quadro di oppressive convenzioni sociali – legate anche al fronte dei passaggi di eredità – che non troppi anni dopo renderà un dramma il matrimonio di una sorella minore prima della maggiore (pensiamo a certe storie di Jane Austen), nell’ambito di un progressivo irrigidimento della condizione femminile dal Sette all’Ottocento: però certo la situazione di Rosalind è doppiamente difficile, sul piano psicologico come di giudizi collettivi.

Viene stabilita la data del matrimonio per l’aprile che viene, ma Lloyd è molto preso da impegni d’affari e insomma lo spettacolo delle tenerezze con Perdita fa soffrire Rosalind meno di quanto temuto. Del resto, verso di lei Lloyd ha la coscienza tranquilla, non c’è mai stato alcunché d’ambiguo e non nutre sospetti di un affetto diverso da quello fraterno. “Arthur si sentiva del tutto a suo agio: la vita prometteva così bene, sia dal lato domestico che finanziario!”, dove certo emerge il ritratto di un amabile babbeo incapace di empatia, e che non avverte una serie di rischi. Quelli grandi come quelli piccoli, quelli collettivi come quelli personalissimi: si è ancora lontani dal clima della Rivoluzione americana, e non avverte motivo di drammi familiari.

“Intanto in casa della signora Wingrave più che mai frusciavano sete, risuonavano i colpi secchi delle forbici, gli aghi correvano veloci. La brava signora aveva deciso che la figliola dovesse portarsi via di casa il corredo più elegante che i suoi mezzi le consentissero o che la contrada potesse fornire”. Inevitabile, di nuovo, pensare a Hawthorne: in particolare quello della Lettera scarlatta, dove il giudizio si attacca a un pezzo di stoffa, visto che la lettera scarlatta viene indossata. I sobri puritani, la cui enfasi sull’interiorità bandisce ogni vezzo esteriore, restano perplessi e tuttavia sottilmente intrigati dal gusto barocco di Hester Prynne, quella dimensione creativa che lei trasfonde nelle decorazioni, pizzi e trine degli abiti con cui si guadagnerà da vivere e nel design di moda della stessa lettera scarlatta che porta sull’abito. La voce narrante ne sorride, è una sorta di piccolo regalo che la sua eroina concede a se stessa, un assaggio di Bellezza. Qualcosa che però può in fondo richiamare a un’altra dimensione creativa nel segno del gusto e della Bellezza, la scrittura che aiuta a uscire dalle gabbie asfittiche del moralismo.

Teniamo ancora presente il titolo di questo racconto, “The Romance of Certain Old Clothes”, ma anche La lettera scarlatta è presentata nel sottotitolo originario come A Romance: parliamo cioè una narrazione allegorica, visionaria, se vogliamo fantastica ed ecco il rapporto col gotico del perturbante, non di un novel con le tipiche caratteristiche di attenzione alla concretezza sociale. E il frutto proibito circonfuso d’indicibile non è, come nella Lettera scarlatta, una trasgressione sessuale – per quanto astratta in chiave mitica e quasi onirica – ma qualcosa denunciato insospettabilmente fin dal titolo.

Tutti questi preparativi in vista del matrimonio, compresi i consulti con le comari dei dintorni, non possono che far soffrire Rosalind, che oltretutto per gli abiti nutre “una passione smodata e un gusto assolutamente squisiti, come sua sorella sapeva benissimo”: tanto più che Rosalind è alta, “maestosa e fiorente” e sembrava “fatta per portar rigidi broccati e ricche trine pesanti” – e dunque da quei conciliaboli tra madame cerca solo di astrarsi. Quando poi arriva a casa “un bel taglio di seta bianca damascata in turchino e argento, mandato dal fidanzato stesso, giacché a quei tempi non si considerava sconveniente che lo sposo prescelto contribuisse al corredo della sua promessa”, Perdita si rattrista di non sapere immaginare come utilizzarlo degnamente, andrebbe meglio a Rosalind – che, stimolata, a quel punto inizia a intervenire con competenza su tanta meraviglia di sete, rasi, mussole, velluti e merletti, senza una parola d’invidia. “Grazie ai suoi sforzi, il giorno delle nozze Perdita era pronta a sposare vanità mondane in numero superiore a qualsiasi altra emozionata fanciulla che mai avesse affrontato la benedizione sacramentale di un ecclesiastico del New England”.

Si è convenuto che la coppia passi i primi giorni dopo il matrimonio nella villa di un amico scapolo inglese di Lloyd, quindi dopo il rito Perdita torna alla casa materna per indossare un abito da amazzone. Rosalind la aiuta, ma poi non scende a salutarla: Perdita risale in casa, torna alla stanza e la trova in piedi davanti allo specchio, abbigliata con velo e ghirlanda da sposa lasciati dalla sorella per riprenderli al ritorno dalla campagna. Anzi, attorno al collo ha il pesante filo di perle donato come dono nuziale dal marito a Perdita – che resta in piedi sbigottita, fissando la sorella che si contempla nello specchio, come in un triste teatro,

 

scorgendovi Dio sa quali visioni audaci. Perdita ne fu orripilata. Vide risorgere l’odioso spettacolo della loro antica rivalità. Fece un passo verso la sorella, come per strapparle di dosso velo e fiori. Ma, incontrando nello specchio gli occhi di Rosalind, s’arrestò.

– Addio, cocca, – disse. – potevi almeno aspettare che fossi uscita di casa –. E abbandonò di corsa la stanza.

 

Notiamo di nuovo il tema dello specchio, rivelatore di verità imbarazzanti e dunque nascoste: Rosalind è la donna dello specchio, la sua magia è tutta lì, laddove Perdita si servirà di altri medium.

Nel primo anno di matrimonio, la distanza di venti miglia da Boston dove Lloyd ha acquistato una magnifica casa è sufficiente, coi mezzi limitati del tempo, a rendere rari gli incontri con la famiglia della madre di Perdita. E intanto Rosalind, afflitta da una terribile depressione, viene spedita dai parenti di New York per farla un po’ distrarre. Fa ritorno a casa in occasione del matrimonio del fratello, in apparenza guarita, e viene anche il cognato senza Perdita, che sta per partorire – e, serio e pensieroso com’è in quel momento, Rosalind lo trova particolarmente interessante. Una serietà che d’altronde non gli impedisce di notare lo scarto tra la bella e opulenta Rosalind (vestita oltretutto con scintillante eleganza, grazie a una cifra corrispondente a quella spesa per la sorella) e la sposina sofferente a casa, in faticosa gravidanza.

Il giorno dopo il matrimonio Arthur porta dunque con sé Rosalind per una cavalcata: avendo perso a un certo punto la strada, tornano al crepuscolo. La signora Wingrave li accoglie preoccupata, a mezzogiorno è giunto un messaggio da Perdita, sono iniziate le doglie: Arthur si mangia le mani e ingoiato un rapido boccone monta a cavallo, arrivando a casa a mezzanotte. Il parto è già avvenuto, è nata una bimba: la moglie gli domanda perché non sia stato con lei, e lui spiega candido – teniamo presente che non conosce la dinamica tra le due sorelle, o almeno non vi bada – di essere stato fuori con Rosalind. “La moglie emise un debole lamento e gli volse le spalle”, ma nonostante tutto la sua ripresa procede per una settimana… Salvo poi interrompersi e crollare, “fosse per un eccesso di dieta o per un’infreddatura”, e il disperato Arthur deve constatare che Perdita è vicina alla morte.

Lei dichiara di esservi rassegnata, e tre giorni dopo il peggioramento annuncia di sentire che non passerà la notte: fa allontanare la madre e i domestici e tiene accanto solo la piccola e il marito. Commenta che pare strano davanti al bel fuoco nel camino non ritrovare vita: tutto il fuoco che lei aveva dentro l’ha donato a quella “piccola favilla mortale”. Poi fissa il marito con sguardo penetrante, sospettoso: “Non era riuscita a riprendersi dal colpo infertole da Arthur quando egli le aveva detto che nell’ora del suo travaglio era stato con Rosalind”. Pur avendo fiducia in lui,

 

ora, sul punto di scomparire per sempre, provava nei confronti della sorella un senso di gelido terrore. Intuiva nell’intimo che Rosalind non aveva mai cessato d’invidiarle la sua buona sorte; un anno di serena sicurezza non aveva cancellato in lei l’immagine della fanciulla ornata dei suoi paramenti nuziali, sorridente di finto trionfo.

 

Chiaro che adesso che Arthur resta solo e afflitto la sorella – bella, seducente – si allargherà. Guardando lui ora, desolato e piangente, pare difficile “dubitare della sua costanza”, e del resto “lui non è fatto per una come Rosalind […] lei non lo ama veramente: ama soltanto i fronzoli, i bei vestiti, i gioielli”; e guardando gli anelli donatile dal marito e le crespe di merletto sulla camicia da notte considera che la sorella tiene più a quelle cose che a lui. “Fu come se, in quel momento, al pensiero dell’avidità della sorella, un’ombra scura si frapponesse tra Perdita e il corpicino indifeso della piccola”: e chiede al marito di toglierle gli anelli e, con tutti i suoi merletti, le sue sete, quel meraviglioso guardaroba che non ha uguali nella provincia, di destinarli come preziosa eredità alla figlia quando sarà donna. Quella spoliazione è rivelativa: a Perdita non interessano gli abiti in sé, ma la loro forza simbolica che passa al frutto del suo grembo.

Dal letto, argomenta: “Alcune di quelle cose un uomo può permettersi di comprarle una sola volta: se andassero perdute non le vedresti mai più. Perciò dovrai custodirle gelosamente”. Per la sorella ha lasciato comunque una dozzina di capi, specificando alla madre quali siano: compreso quell’abito azzurro e argento che era proprio fatto per Rosalind, mentre lei la faceva sembrar malata (una stoffa mandata dal marito, e che finisce con l’avere un tragico valore di prefigurazione del volto cereo di Perdita e di un futuro status per Rosalind). Ma tutto il resto dev’essere per la piccola, fortunatamente dotata della sua stessa carnagione e colore degli occhi. Dopo una ventina d’anni si sa che la roba torna di moda: e canfora e foglie di rosa, nel buio del cassone, conserveranno tutto. Chiede dunque che le prometta di conservare quei vestiti, ché non vadano dispersi: la madre “provvederà a farli avvolgere bene”, e lui li terrà in disparte, sotto chiave, nel cassone listato di ferro del solaio. Madre e governante consegneranno a lui la chiave, che lui darà solo alla figlia. Al marito, “stupito della forza con cui la moglie pareva aggrapparsi a quell’idea” fa promettere e poi giurare tutto quello, poi conclude che si fida di lui, con sguardo supplichevole.

“Arthur sopportò il suo lutto con virile fermezza”, e un mese dopo la morte della moglie alcune circostanze legate al lavoro lo richiamano in Inghilterra, dove passa quasi un anno – e la piccola viene accudita dalla nonna. Al ritorno, lui riapre casa e annuncia “l’intenzione di mantenere lo stesso tenore di vita che aveva prima della morte della moglie”. Alle voce che si sarebbe risposato, almeno una decina di fanciulle prendono a ronzargli attorno e “non si può davvero dire che fosse colpa loro se, nei sei mesi successivi al suo ritorno, la previsione non si avverò”. Continua a lasciare la piccina alla nonna, “la quale asseriva che un cambiamento d’ambiente in così tenera età poteva nuocere”, ma poi il senso di mancanza per il padre è troppo forte e la manda a prendere dalla governante. Per far fronte ai timori della madre preoccupata della piccola, Rosalind la accompagna annunciando che tornerà l’indomani, salvo invece restare a Boston per tutta la settimana e tornare a casa solo per prendere del vestiario. Il fatto è che quando mostra di voler allontanarsi la nipotina piange, e Arthur sostiene che il dolore ucciderà la figlia (notiamo che la bambina senza nome è un mero oggetto di una dinamica di giochi di ruolo). “Insomma, l’unica soluzione fu che Rosalind rimanesse con loro finché la piccina si fosse abituata ai visi estranei”: e ci mette due mesi. Solo allora Rosalind si accomiata dal cognato. Beninteso, la madre non era stata affatto contenta, “non era cosa per bene, aveva protestato, in provincia ne parlavano tutti” – anche se poi si era rassegnata alla cosa per il periodo di oggettiva quiete così goduto dalla casa. Il fatto è che il figlio vi ha condotto la moglie, e tra lei e Rosalind “esisteva un’aperta ostilità. Rosalind forse non era un angelo, ma nel trantran quotidiano era abbastanza di buon carattere e, se bisticciava con la moglie di Bernard, non era che non vi fosse provocata”. Il soggiorno presso il cognato risolve il problema: tanto più che le permette di stare accanto alla sua antica fiamma. “Gli acuti sospetti della povera Mrs Lloyd circa i sentimenti di Rosalind per il marito erano stati ancora ben lontani dalla realtà”.

Di quella passione – che passione rimane – Arthur sente l’influsso: l’idea di una fedeltà nell’amore alla defunta non rientra nella sua natura, e dopo non molti giorni di coabitazione con la cognata inizia a convincersi che (a usare il linguaggio del tempo) Rosalind è “diabolicamente bella”. Utilizzi o meno le arti insidiose che la povera Perdita “era stata tentata di attribuirle”, in ogni caso sa muoversi: e la scena di lei che ricama davanti al camino con la piccola sul tappeto che gioca con i gomitoli è un “quadretto affascinante”, che Lloyd sarebbe uno stupido a non notare, tanto più che Rosalind rivela atteggiamenti sapientemente materni verso la piccina. È però dignitosa e per lui quasi inavvicinabile, pronta sempre a ritirarsi mezz’ora dopo cena: e “Se queste erano arti, Rosalind era una grande artista”. Comunque il loro effetto graduale e ben dosato finisce col dar frutto:

 

parecchie settimane trascorsero prima che Rosalind cominciasse a sentirsi sicura che le sue entrate avrebbero compensato le spese. Allorché ne fu intimamente persuasa, fece il baule e riprese la via di casa. Per tre giorni aspettò; al quarto giorno Mr Lloyd comparve, pretendente rispettoso ma pieno d’ardore. Rosalind lo stette ad ascoltare con grande umiltà e lo accettò con infinita modestia. È difficile supporre che Mrs Lloyd avrebbe perdonato il marito; ma se qualcosa avesse potuto annullare quel risentimento, sarebbe stato il comportamento cerimonioso di quell’incontro. Rosalind impose al fidanzato un periodo d’attesa assai breve. Si sposarono, com’era doveroso, con una cerimonia molto intima – quasi in segreto –, forse nella speranza che, come si disse allora per celia, la defunta Mrs Lloyd non lo venisse a sapere.

Il matrimonio appariva felice sotto ogni aspetto: ognuno dei contraenti aveva ottenuto ciò che aveva desiderato: Lloyd “una donna diabolicamente bella”, e Rosalind… ma i desideri di Rosalind, come il lettore avrà osservato, sono rimasti un bel mistero.

 

Con due nubi sulla loro felicità, anche se forse il tempo le avrebbe dissolte. Nei primi tre anni, Rosalind non riesce a diventare madre, ma intanto il marito subisce pesanti perdite di denaro, col risultato di una diminuzione delle spese, “e Rosalind dovette adattarsi a non essere la gran signora ch’era stata sua sorella”. Regge comunque bene la parte della signora elegante, anche se ha scoperto con dispetto che il meraviglioso guardaroba di sua sorella è requisito a beneficio della figlia.

Per parecchi mesi non parla della questione al marito, ma, quando la evoca, lo fa in termini timidi: gran peccato che tante meraviglie vadano perdute, scolorite, mangiate dalle tarme, private di valore dal mutare della moda. Però il rifiuto secco di Lloyd le fa archiviare la questione, almeno temporaneamente; passano altri sei mesi, e i pensieri di Rosalind sono sempre lì al cassone, che sale a contemplare come un oscuro oggetto del desiderio – chiuso con tre grossi lucchetti e fasce di ferro, percosso con la scarpina si rivela favolosamente pieno. Eccolo l’oggetto perturbante e sostitutivo della morta, quasi a imitare la statua di Ermione del Racconto d’inverno. Trovando tutto ciò un’ingiustizia e una cattiveria, Rosalind decide dunque di ripartire all’attacco con il marito: ma quando l’indomani solleva la questione, lui la interrompe severo – non se ne parla. Lei ribatte d’essere “lieta di sapere in quale considerazione sono tenuta”, si sente “davvero una donna felice […] sacrificata a un capriccio”, e inizia a lacrimare di stizza e delusione. Al che il marito, che “come tutti gli uomini di buon cuore, nutriva orrore dei singhiozzi di una donna” si risolve a spiegare che è stata una promessa, un giuramento a Perdita: e a quel punto Rosalind prorompe in singhiozzi convulsi “che erano il seguito lungamente differito della violenta crisi di pianto cui s’era abbandonata la sera che aveva scoperto il fidanzamento della sorella”. Pensava di aver chiuso con la gelosia, che invece riemerge selvaggia: chiede che diritto avesse Perdita di disporre del suo avvenire e di obbligare lui a essere meschino e crudele. “Ah, occupo davvero un posto ben degno, ci faccio una gran bella figura! Mi si chiede di prendere il posto che Perdita ha lasciato! E che cosa ha lasciato, dopo tutto? Mai come ora m’ero resa conto di quanto poco ha lasciato!”, non ha lasciato niente… Per quanto il discorso sia illogico, non è perciò meno appassionato: Adamo/Lloyd cerca di baciarla e Rosalind/Eva lo respinge. Ha desiderato la donna “diabolicamente bella” e l’ha trovata… per cui si ritira confuso verso lo scrittoio, dov’è la chiave del cassone, chiusa in un pacchetto col suo sigillo gentilizio (“Je garde, ne era il motto”). La prende, si vergogna di rimetterla a posto – un’abdicazione che tradisce il suo stesso motto di famiglia – e la getta sul tavolo davanti alla moglie: lei ribatte di tenersela, la odia, lui dichiara di lavarsene le mani, “E che Dio mi perdoni”. Poi i due, come in una scena teatrale, abbandonano la stanza, ciascuno da una porta diversa: e quando lei vi rientra, trova la bambinaia e la piccola, che impossessatasi del pacchetto ha spezzato il sigillo con le manine. Può sembrare una simbolica autorizzazione: Rosalind si impossessa della chiave del frutto proibito.

All’ora di cena Lloyd esce dall’ufficio, ma è giugno e c’è ancora luce. Le pietanze sono in tavola, ma Rosalind non c’è e il domestico non la trova – in apparenza manca da tutto il pomeriggio. Anche il marito la cerca invano e gli viene in mente di poterla trovare in solaio, dove sale da solo. La chiama senza risultati dalla rampa e gli trema la voce: notiamo questa sua inquietudine, quasi paura, che annuncia il rapporto con il Perturbante ma insieme la trasgressione alle regole del Giardino. Sale dunque al vano tappezzato di armadiature (che, piene di abiti e biancheria, stanno alla situazione come gli alberi non interdetti dell’Eden), che termina con una finestra a occidente: il baule è lì davanti e la moglie vi sta di fronte in ginocchio. Incapace di emettere un suono, Arthur la raggiunge: il coperchio è sollevato a mostrare i tesori di Perdita, ma Rosalind ora è caduta riversa, una mano a terra e una sul cuore.

 

Le sue membra erano mortalmente rigide: sul suo volto, nella luce del sole al declino, c’era il terrore di qualcosa di peggio della morte. Le labbra erano dischiuse come in una supplica, in un’espressione d’angoscia e d’agonia; sulla fronte e sulle gote esangui spiccavano i segni di dieci orribili ferite cagionate dalle mani di un fantasma vendicatore.

 

A questo punto il titolo, “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”, rivela la sua misura sorniona e ironica. Si è osservato che il riferimento al romanzesco fa pensare alla scelta del primo Hawthorne di mescolare prodigioso e reale, anche se in Hawthorne un po’ tutta l’atmosfera è pregna di visionario, qui l’elemento sovrannaturale arriva solo in chiusura. Ma è pur vero che già nel discorso finale di Perdita, e se vogliamo fin dagli auguri – sinceri ma sinistri – formulati da Rosalind alla sorella davanti allo specchio un fiato di fatalità vagamente magico, da maledizione antica ristagna nell’aria. E in fondo il preludio è già in quella contesa tra le sorelle in apparenza tanto educata e contrassegnata da bon ton e parvenze di affetto: proprio Hawthorne era stato maestro nell’impastare fantasmi nel linguaggio.

D’altronde la dimensione perturbante – i rancori dei morti richiamati in una storia di rivalità tra sorelle – sedimenta negli abiti e particolarmente in quella raccolta proibita dove le foglie di rosa impediscono all’altra rosa, Rosalind, di accedere.

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Un altro Truman Show https://www.carmillaonline.com/2020/07/03/un-altro-truman-show/ Fri, 03 Jul 2020 21:09:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61122 di Franco Pezzini

Les Edgerton, The Rapist, ed. orig. 2013, prefaz. di Cortright McMeel, trad. di Annarita Guarnieri, pp. 116, € 14, Meridiano Zero, Città di Castello PG 2019.

«Cosa mi dici dell’umanità? Non ti interessano i tuoi simili?»

Lo fisso. Parla sul serio?

«I miei simili? Vuoi dire quelle creature il cui solo scopo nell’esistenza è quello di trangugiare una quantità sempre maggiore delle nostre risorse naturali? O di alimentare il loro enorme ego nel nome del “sapere”? Quell’umanità? Stai scherzando, vero?»

 

Les Edgerton è un signore texano vissuto a lungo [...]]]> di Franco Pezzini

Les Edgerton, The Rapist, ed. orig. 2013, prefaz. di Cortright McMeel, trad. di Annarita Guarnieri, pp. 116, € 14, Meridiano Zero, Città di Castello PG 2019.

«Cosa mi dici dell’umanità? Non ti interessano i tuoi simili?»

Lo fisso. Parla sul serio?

«I miei simili? Vuoi dire quelle creature il cui solo scopo nell’esistenza è quello di trangugiare una quantità sempre maggiore delle nostre risorse naturali? O di alimentare il loro enorme ego nel nome del “sapere”? Quell’umanità? Stai scherzando, vero?»

 

Les Edgerton è un signore texano vissuto a lungo in Indiana, muscoloso, calvo, con baffoni bianchi. Un’aria da duro. E in effetti prima di diventare scrittore, ha fatto di tutto: ha lavorato nella Marina degli Stati Uniti, si è beccato qualche anno di galera per furto con scasso di secondo grado, all’uscita si è illustrato all’Università dell’Indiana, ha spacciato (e usato) droghe ma anche assicurazioni per la vita, lavorato come bodyguard per anziane madame ricche, poi anche in televisione, nel cinema, come giornalista sportivo eccetera. Matrimoni, come prevedibile, vari – forse non quanti i tipi di lavoro. Insomma una vita vivace, che a un certo punto ha trovato la rispettabilità (quella che non spinge gli ospiti, sogghigna, a far la conta dell’argenteria quando esci da casa loro) attraverso la scrittura, diciannove titoli tra romanzi e saggi sulla tecnica della narrazione.

E che questo signore sappia scrivere – e prima ancora leggere, perché è chiaro che si tratta di un lettore forte – lo mostra The Rapist, un romanzo molto bello e molto strano che mixa e sovverte in modo radicale L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo (1829), Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij (1864), Accadde al ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce (1890) e un mezzo scaffale di altre opere di varia nobiltà. L’efficacia è forte, Edgerton trascina dentro la storia che corre fino all’ultima pagina. Ma una prima caratteristica che spiazza è che l’insieme non segue generi o percorsi narrativi noti: non è un thriller giudiziario né un noir né un romanzo carcerario, né né né… e soprattutto non ti immagini dove ti porterà a distanza di mezza pagina. E tantomeno alla fine, una conclusione del tutto inattesa che pare ammiccare a certe storie popolari dal guizzo malizioso finale – i fumetti neri di Stan Lee, per dire – ma con ben altra solidità narrativa. Lo scrittore ed editore Cortright McMeel nell’introduzione avverte:

 

Credo che The Rapist sia il tour de force di Les Edgerton in mezzo ai suoi molti altri meravigliosi romanzi noir. Forse si cercherà di classificare e intellettualizzare questo libro. Considerando i suoi temi esistenziali e il tono a volte nichilistico di Truman [il protagonista narrante], potrebbe insorgere la tentazione di paragonarlo a Lo straniero di Camus o a qualche opera teatrale di Sartre, ma vi vorrei mettere in guardia dal farlo. Con la sua forza esplosiva, la sua furia indignata, la sua rabbia verso l’istituzionalizzazione, la sua violenza ribollente vista tanto in una dettagliata gangbang quanto in uno stupro, esso è – perversamente ma intrinsecamente – un’opera di fiction americana, sfacciata e petulante come un cowboy che varca la porta basculante di un saloon, sicura di sé nella sua imparagonabile individualità come un vanaglorioso Charlie Manson e pervasa di una rabbia pura e di una furia indignata del genere che si può trovare solo negli Stati Uniti d’America, la Terra delle Opportunità, dove si abbraccia la democrazia ma a dominare sono la volontà di potenza nietzschiana e il Might Is Right (ovvero “il diritto deriva dal potere”) di Ragnar Redbeard.

 

L’editore italiano ha scelto di tenere il titolo originale con la sua fredda alienità, ma potremmo tradurlo semplicemente Lo stupratore: ed è appunto per uno stupro con omicidio che il narrante quarantaquattrenne Truman Ferris Pinter si trova in galera, condannato a morte e in attesa del capestro. Fin qui tutto chiaro, come sul fatto che il Nostro sia un sociopatico grave, spocchioso fino all’intollerabilità, dotato per nostra fortuna di un certo humour ma sicuramente non tale da attrarre eccessive simpatie.

Eppure, di nuovo, Edgerton ci spiazza, perché qualsiasi tipo di approccio – rigorista o buonista, e tutte le posizioni intermedie – va in crisi alla voce dell’outsider Truman: lo troviamo orrendo, ogni volta che crediamo di comprenderlo riesce a strapparci il terreno sotto i piedi per l’inaccettabilità di una certa logica, ma poi ogni volta ripropone un nuovo motivo per confondere le tranquillizzanti distanze che vorremmo mettere tra lui e noi. Per renderci impossibile dimenticare che appartiene alla nostra umanità e che qualche volta il suo sguardo – quello che nella copertina italiana si svela come un sesso dietro una zip – coglie dimensioni che ci fanno pensare.

È un ex-bambino morbosamente soffocato nell’infanzia da una madre appiccicosa (“la associo a cose appiccicose, come lo sciroppo di mais o quella pasta bianca per cancellare che ci davano a scuola e che a volte mordicchiavamo per il suo sapore simile a quello del pane”) e ingombrante: candidato a una serie di turbe – di delitto pare ne abbia commesso anche un altro, nel passato, sempre in un contesto malsano – ancora nel braccio della morte abbina a un approccio fantasiosamente infantile una straniante dignità.

È un benestante di piccolo cabotaggio il cui relativo benessere economico – vive con una piccola rendita – è divenuto motivo di invidiosa marginalizzazione al paese, in una provincia americana cattiva e ipocrita.

È un classico represso sessuale, che esplode quando arriva una provocazione – di qui il delitto – ed è un ideale cattivo esempio: un tipo che ancora nell’ultima cella resta a baloccarsi tra uno storytelling di sprezzo di tutto il resto del mondo, di rancorosa pretesa superiorità, e la compulsiva necessità di dimostrare a quel mondo qualcosa…

Si definisce gentiluomo e “democratico – con la d minuscola” ed è dotato di buona cultura: conosce non solo un po’ di Omero, Eschilo, Thoreau e – per dire – i sonetti di Andrew Marvell, ma è in grado di recare nel suo monologo-arringa una serie di critiche non banali e non sempre infondate alla morale corrente, per quanto poi infarcite di commenti spiacevoli e nell’ambito di un discorso eticamente inaccettabile. Certe sferzate di questo show di Truman alla società americana restano in ogni caso esemplari.

Il nostro imbarazzo di fronte a Truman aumenta poi considerando come il suo delitto abbia dettagli particolarmente odiosi. Greta Carlisle, fuggita dopo essere stata picchiata e stuprata, è caduta nel fiume, e lui ha scelto per dispettosa noncuranza di lasciarvela morire. È vero che mentre lui si trovava tranquillo a pescare, Greta era andata a insultarlo con toni di volgare cattiveria (o almeno questo è il punto di vista di Truman, su tale distinguo dovremo tornare): la notte prima lui stava passando in bicicletta nel bosco fuori paese e ha avuto la discutibile idea di fermarsi a occhieggiare Greta, intenta a un’orgetta in situ con tre uomini. Ma l’autore non può essere accusato di equivoca simpatia per il rapist né di aver “giustificato” l’ingiustificabile – tanto più che la scena della violenza, cruda e goffa, è del tutto priva di compiacimenti equivoci. Più semplicemente il quadro complessivo di un certo mondo provinciale è sordido: la stessa supponenza di Truman, la logica del “Feci quello che avrebbe fatto qualsiasi uomo onesto” (cioè, nel caso specifico, rimettersi a pescare dopo il fatto, ignorando la sorte di Greta o piuttosto non ignorandola), presenta in fondo gli stessi stigmi di moralismo autogiustificativo della società degli onesti che godutissima lo condanna alla pena capitale, lo lascia violentare da un altro detenuto, lo sottopone a gratuite vessazioni ancora nel braccio della morte e si appresterebbe a fargli la festa.

Insomma, non si tratta del solito apologo – in fondo tranquillizzante, magari pietistico – dell’uomo che sbaglia e della società che l’ha portato a sbagliare: Edgerton ci precipita in un loop in cui comprensione, ripugnanza, rabbia, disagio si incalzano continuamente, ferocemente. E persino la chiave di un male come miseria, tanto più umana quanto meno vuol esserlo, finisce con lo zoppicare. Questo l’inizio del suo show:

 

Lasciate che vi dica chi occupa questa cella di prigione. Perfido, il suo nome è Perfidia. Il suo nome è Bugiardo, Blasfemo, Profanatore della Verità, Lingua Marcia. Giace in pari misura con tutti i membri della congregazione e a ciascuno dice che è il suo amante, mentre già passa al successivo nel suo incessante consumare anime.

 

Un monologo da attore, col Nostro che appare come da una scena buia e annuncia la propria verità: e badiamo ai titoli che si attribuisce. Per i lettori di un’America nata con la Bibbia in mano, sostenere di essere il Mentitore è immediatamente riconoscibile come griffe demoniaca, anticristica; poche righe dopo Truman si definisce “figlio di Moloch” e in cella leggerà I demoni. Un uomo insomma coperto di nomi blasfemi come la bestia che regge la Meretrice di Babilonia, portatore di tutti i mali del mondo. Si può liquidare tutto come enfasi, ma alla luce del provocatorio finale che apre ulteriori soluzioni (“Forse, dopo aver letto questo resoconto, giungerete a una diversa conclusione riguardo a chi sono, o forse no…”) potremmo dover rileggere tutto il romanzo. A farla breve, Edgerton ci caccia in un bel pasticcio, e non è il caso di spoilerare.

Possiamo però parlare un po’ più puntualmente della trama: The Rapist non è un romanzo carcerario anzitutto perché per una generosa parte del testo Truman riesce a star fuori da quelle mura, immerso nel passato o nel futuro – compreso quello virtualmente post mortem. A spalancarsi davanti al lettore è in effetti – potremmo dire – l’intero, vertiginoso repertorio di possibilità che nei millenni l’uomo ha potuto immaginare, temere o sperare per la propria sorte ultima: tra speculazioni teoriche ed esperienze visionarie (deliri, intuizioni, rivelazioni?), Truman queste dimensioni le attraversa tutte, in una straniante odissea pneumatica. Reincarnazioni (“Forse veniamo riportati in vita sotto forma di zanzare, cosa che di certo spiegherebbe come mai ce ne sono così tante”), riduzioni a cellule, fluttuazioni del corpo astrale, diaspore tra multiversi…

Una chiave – parziale, imperfetta – potrebbe essere il definire The Rapist un romanzo sul tempo. Coronato dal dittico di John Donne “Passato, presente e futuro coesistono nello stesso tempo, / come dimostrato dai nostri sogni”, il lungo monologo di Truman è in effetti articolato in tre capitoli, Il Presente, Il Passato, Il Futuro.

Il Presente parla del braccio della morte, della situazione che vi ha portato Truman (apprendiamo la verità poco per volta), del suo rapporto col mondo ma anche della sua rivelazione di essere stato capace, in giovane età, di sollevarsi nell’aria: sia volando in senso vero e proprio, sia staccandosi dal corpo e librandosi su di esso. È davvero convinto di possedere simili capacità? O la sua misantropia ha preso la china del delirio? O piuttosto mente a se stesso, per costruirsi una realtà alternativa protetta? E in tal caso quanto di ciò che abbiamo ascoltato finora appartiene al dominio dell’illusione o della menzogna? Certo, in questo Presente c’è anche molto passato e persino futuro, che noi sentiamo narrato dall’attore monologante in scena: diciamo che qui il personaggio si confronta con il senso del suo presente. Compreso quanto riguarda la decisione polemica di sfuggire all’esecuzione volando via, come volava un tempo, ma per poi tornare a costituirsi: un segno di sprezzo che non cura neppure la dimensione autoconservativa.

E il primo capitolo termina appunto con un’ultima esercitazione notturna, introducendo al secondo, Il Passato, e all’esperienza del Nostro in volo sul pianeta. Qualcosa che lo porta indietro, ai rapporti a volte drammatici in famiglia, ad altre vicende traumatiche vissute o forse no (un attacco di elicotteri col napalm: il Vietnam?), alle domande sul suo status (perché non vede altri spettri come lui?) in una serie di esperienze psichiche e riflessioni filosofiche che sarebbe sciagurato ridurre a un riassunto. Fino all’incontro, davanti a una scacchiera, con il vecchio dagli occhi rosa che per approssimazione teologica potremmo definire demiurgo. Interessa poco che esista sul serio o costituisca una mera istanza interiore: si presenta come un gestore della matassa degli eventi e provoca Truman, svelandogli realtà sulla sua vita che consciamente non ha mai accettato. Fino a spiegare al Nostro, che pretende di brandire la logica contro la stupidità del mondo:

 

«Truman, credo che la tua “logica” ti abbia fuorviato, e penso che lo imparerai. Spero che tu lo faccia. Non credo che saresti davvero felice di essere un granello di sabbia o una macchiolina d’inchiostro, e che in realtà tu sia soltanto pieno di rabbia. E questo è sconcertante, perché per quanto ne so nessuno ti ha mai fatto del male.»

 

La provocazione è forte (il corsivo è mio) perché da quanto sappiamo – o crediamo di sapere – il passato col padre è stato anche un passato di violenza, e di violenze dall’ambiente Truman sembra averne subite eccome: perché il vecchio non se ne rende conto? È perché il Nostro, nella sua deriva sociopatica, si è inventato quelle vessazioni e in sostanza finora ha mentito? O perché il vecchio (come emergerà nella terza parte), dal proprio punto di osservazione nel futuro non gode di agevole visione di tutti i nessi causali? Oppure sta solo – appunto – provocandolo, e con successo a giudicare dalla reazione di Truman (“Mi credi uno di quegli organismi senza cervello che spendono la vita reagendo agli stimoli? Mia madre mi picchiava, quindi io picchio mia moglie e i miei figli? Mi ritieni quel genere d’idiota senza cervello?”): forse il vecchio intende spingerlo a un’autonomia di scelte, a non subire passivamente – come Truman sembra fare, persino con quella fuga sterilmente dimostrativa – un destino da frustrato. Ma il senso potrebbe essere molto più semplice, che cioè esistono passati diversi, anche solo perché non riusciamo a ricostruire quello giusto: li percepiamo come un intero ventaglio di possibilità, puntini che siamo noi a dover collegare con linee rette attraverso un ordine che resta dubbio – e così quel passato opinabile entra nella costruzione del nostro futuro. A questo punto comprendiamo che l’oggetto del capitolo non è tanto il passato in sé quanto il senso del passato: e termina con Truman che si prepara al volo.

Il terzo capitolo, Il Futuro – inteso, ormai ci è chiaro, come senso del medesimo – inizia così con i preparativi del Nostro per il giorno fatale, l’evasione in volo… e qui ha senso fermare il riassunto.

Un romanzo dunque sul tempo, sul senso del tempo: quel tempo – memoria/coscienza – che apprendiamo andrebbe percepito non come un filo ma come un cappio (forma che si sarebbe tentati di interpretare come suggerita dalla psiche del condannato, più che da qualche rivelazione metafisica). E quindi sul senso della vita: Truman comprenderà a un tratto che la sua filosofia apparentemente tanto liberante – credere d’aver tutto sotto il proprio controllo e fregarsene di tutto – lo rende invece più schiavo degli altri a cui importa cambiare le cose. Ma niente paura, amico lettore, nessun pistolotto moralistico: il Nostro (scopriremo) resta sempre lui. E a noi non rimane che constatare l’abilità sorniona dell’autore e il tipo di gioco in cui – demiurgo dispettoso – è riuscito a trascinarci.

 

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La peste scarlatta di Jack London https://www.carmillaonline.com/2020/03/13/la-peste-scarlatta-di-jack-london/ Fri, 13 Mar 2020 22:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58561 Adelphi Milano 2009, pp 94, € 9

di Pierluigi Sullo

Il Coronavirus sta, tra le altre cose, impedendo la presentazione dei nuovi libri. Ho almeno due amici che ne hanno appena pubblicato uno e si chiedono: e ora? Non resta che parlarne sul web. Dove il tempo ha un altro ritmo. Così, leggere un romanzo di Jack London pubblicato esattamente 108 anni fa risulta bizzarramente attuale, come fosse stato scritto l’altro ieri. Sarà il tema del racconto, a dare questa impressione. Il romanzo, breve, descrive quel che accade al mondo quando si scatena [...]]]> Adelphi Milano 2009, pp 94, € 9

di Pierluigi Sullo

Il Coronavirus sta, tra le altre cose, impedendo la presentazione dei nuovi libri. Ho almeno due amici che ne hanno appena pubblicato uno e si chiedono: e ora? Non resta che parlarne sul web. Dove il tempo ha un altro ritmo. Così, leggere un romanzo di Jack London pubblicato esattamente 108 anni fa risulta bizzarramente attuale, come fosse stato scritto l’altro ieri. Sarà il tema del racconto, a dare questa impressione. Il romanzo, breve, descrive quel che accade al mondo quando si scatena una epidemia, o pandemia, globale.

La capacità di London di immaginare il futuro è stupefacente. Già ne Il tallone di ferro, uscito due anni prima, aveva immaginato che all’inizio degli anni trenta del novecento molte nazioni sarebbero state preda di dittature sanguinarie. E La peste scarlatta precede di sei o sette anni la peggiore epidemia globale che, fin qui, si sia impadronita del pianeta, quella passata alla storia come “spagnola”: tra cinquanta e cento milioni di morti (sui due miliardi dell’umanità di allora).

Leggerlo ora, questo romanzo, fa ovviamente impressione, anche se la “peste scarlatta” è molto diversa dal “coronavirus”. Perché è letale al cento per cento, il corpo si ammala e in pochi minuti la pelle dei malati diventa tutta rossa, e i contagiati muoiono.

Nel 2073, sessanta anni dopo lo sterminio, un vecchio ridotto malissimo cerca di raccontare ai nipoti selvaggi, i piccoli delle tribù create dai pochissimi sopravvissuti misteriosamente immuni al contagio, vestiti di pelli e che allevano capre, cosa sia accaduto in quel tempo ormai lontano. I ragazzi capiscono a malapena la lingua, l’inglese, del vecchio macilento, che era stato un docente universitario a Berkeley. Ora parlano un linguaggio semplificato, che serve solo per le faccende pratiche, mangiare, salvarsi dai lupi, il sesso…

Con fatica, il vecchio spiega che nessuno capì, all’inizio, cosa stava accadendo, finché il contagio non si diffuse così rapidamente che l’industria, le città, l’istruzione, tutto ciò che fa da scheletro della civilizzazione, cominciarono a crollare rapidamente. E tutto si riassunse nel cercare di sottrarsi, di fuggire, perdendo via via umanità e compassione, e chi diventava rosso (forse una metafora? London era socialista) veniva allontanato, addirittura abbattuto. Intanto i sani, almeno coloro che ancora lo erano, si chiudevano, si ritiravano, si armavano: in quattrocento barricati nella facoltà di chimica dell’università, poi in fuga, quando il morbo entrò anche lì, ai piani superiori; fuori sulla strada in colonne di affamati, deboli (e qui il romanzo ricorda o previene La strada di Cormack McCarthy), perdendo sempre più persone, famiglie intere. Finché il docente restò solo e sopravvisse in un bosco, per anni.

Quando ne uscì trovò che i più forti, tra i pochi rimasti, dominavano i deboli. L’aristocratica e bellissima moglie di uno dei Magnati, l’élite che governava il paese al momento dell’epidemia (il potere dell’economia e delle multinazionali, già), veniva trattata come una schiava da un ex autista di autobus volgare e violento, fondatore di una delle nuove tribù, quella degli Autisti.

Una volta Einstein, se non ricordo male, disse una di quelle frasi che finiscono sull’involucro dei cioccolatini: non so come finirà la seconda guerra mondiale, ma so come sarà la terza: si combatterà con bastoni e pietre. Il mondo che London racconta assomiglia a questo ritratto, solo che a far crollare la civiltà in questo caso non è una guerra generale, ma un morbo di origine sconosciuta.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (II) https://www.carmillaonline.com/2019/10/03/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-ii/ Thu, 03 Oct 2019 21:18:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55110 di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un [...]]]> di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un ritratto di Poe di Elisa Lo Presti, Red Right Hand workshop, 2017, coll. priv.]

 

3. Dopo The Pit and the Pendulum, 1842-43 si apre una terza fase, che arriva fino alla morte di Poe: una stagione produttiva che presenta caratteri abbastanza diversi – pur senza cesure assolute – e che potremmo definire dei capolavori del delirio. Il fantastico non viene abbandonato ma incanalato in specifici filoni oppure ricondotto a un tipo visionario di linguaggio più che di contenuto: le storie parlano ora di sperimentazioni mesmeriche, di ossessioni criminali, di pulsioni misteriose della realtà-uomo. Se un po’ sempre i personaggi di Poe hanno flirtato con lo squilibrio e con il delirio, ora questo aspetto è posto in primo piano. Emblematico un testo come The System of Doctor Tarr and Professor Fether, dove folli e sani di mente si sono scambiati i ruoli.

In chiave protothriller, questa è la stagione dei racconti sul genio della perversione (The Tell-Tale Heart, The Black Cat, The Imp of the Perverse) e sul nesso tra delitto & vendetta (The Cask of Amontillado, Hop-Frog). Continua anche la produzione poliziesca già avviata con un secondo sequel alle avventure di Dupin, The Purloined Letter, e un racconto che salda beffardamente gioco macabro e indagine di giustizia, Thou Art the Man; mentre il tema delle cifrature da sciogliere raggiunge la sua più trionfale espressione in chiave narrativa con The Gold-Bug. Per Poe, che conduce una sua guerra personale contro i romanticismi d’accatto, il richiamarsi ai fasti dell’intelletto e all’orgoglio della razionalità ha però anche sempre una dimensione di spettacolo: emblematico è l’istrionismo di Dupin nello snocciolare la ricostruzione della verità e le meraviglie del raziocinio.

Quale che sia il sapore del testo, il cadavere ne è spesso il focus: ora un cadavere in qualche modo “attivo” (Thou Art the Man, Some Words with a Mummy, The Facts in the Case of M. Valdemar), ora passivo ma dotato di un peso fatale (The Oblong Box), ora un cadavere – potremmo dire – solo virtuale (il tema del sepolto vivo, già documentato nel primo periodo con Loss of Breath e Berenice e nel secondo con House of Usher, torna ora in The Premature Burial).

Il fantastico è del resto ricondotto al nesso tra fisicità e mente, come nei racconti mesmerici (A Tale of the Ragged Mountains, Mesmeric Revelation, The Facts in the Case of M. Valdemar), che mostrano l’interesse almeno narrativo di Poe per filoni di speculazione in senso lato esoterici. Mentre il tema della donna che torna è elaborato ancora più alla lontana nel citato The Oblong Box e nel celeberrimo poema narrativo The Raven.

In vari casi, a essere pervertita, spingendo a una percezione falsata della realtà, è la visione oppure la conoscenza. Poe è sempre stato affascinato dal tema dello scarto tra realtà autentica e solo immaginata, scarto motivato da cause diverse (truffa, inganno per beffa, imperfetta percezione, svista…): e ciò emerge ora in una serie di racconti dal sapore comico o almeno ironico. Diddling riguarda appunto il tema della truffa, The Spectacles evoca i rischi di corteggiare una donna senza occhiali se non si vede bene, The Sphinx (che pur ripropone il tema dell’epidemia) spalanca visioni da incubo che si riveleranno alla fine tutt’altro. Sul tema dello scarto beffardo dalla conoscenza di un’epoca sono poi gli unici racconti esoticheggianti di questa fase, The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade e Some Words with a Mummy. In chiave di beffa “scientifica” con toni da commedia troviamo poi Von Kempelen and His Discovery.

Va detto che, per quanto non manchino racconti umoristici piuttosto surreali (The Angel of the Odd, The Literary Life of Thingum Bob, Esq., X-ing a Paragrab e altri dei racconti già citati) l’autore ha in genere abbandonato le tipologie burattinesche dei periodi precedenti.

Per contro, rilevante è lo spazio offerto alla dimensione scientifica: abbandonate anche le saghe esplorative di terra e di mare, ad affascinare è ancora il cielo – sia pure in chiave di sberleffo – con The Balloon-Hoax e Mellonta tauta. E in quel testo particolarissimo che è Eureka: A Prose Poem, Poe sviluppa in chiave cosmologica spunti solo accennati nei periodi precedenti. Non manca un ultimo dialogo filosofico tra spiriti disincarnati, The Power of Words, che discute il tema della creazione dell’universo.

Anche il tema della bellezza è affrontato piuttosto in chiave filosofica o almeno riflessiva (The Domain of Arnheim, Landor’s Cottage, l’articolo Morning on the Wissahiccon).

Se poi Poe ha per tutta la vita riflettuto sulla scrittura, e osservazioni interessanti emergono nei testi più vari (si pensi a How to Write a Blackwood Article, beffardo ma rivelativo di meccanismi “a effetto” usati dallo stesso autore), di particolare rilievo sono in questo periodo The Rationale of Verse, The Poetic Principle e soprattutto quell’opera-chiave che è The Philosophy of Composition.

Resta misteriosissimo The Light-House, lasciato incompleto e di cui è impossibile capire come (e se) l’autore prevedesse di continuarlo. Ma più in generale, è impossibile immaginare dove Poe si sarebbe spinto con la sua fantasia se la salute l’avesse assistito. Personalmente tendo a credere che avrebbe fatto tesoro in chiave fantastica e magari di beffa del boom crescente dello spiritualismo, preludendo forse al tipo di storie poi prodotte da un altro americano dark, Ambrose Bierce (1842-1914?).

 

3. Ossessioni e strutture narrative

Quanto detto costituisce naturalmente solo un abbozzo di panoramica e in nessun modo può intendersi quale griglia analitica: i fili che collegano i singoli testi sono infiniti, e il singolo tema può passare dall’avventura al macabro alla commedia lieve in successive declinazioni. Non è insomma particolarmente utile “classificare” i racconti – le connessioni tra gruppi restano troppo strette, le partizioni troppo ampie – quanto piuttosto rimarcare richiami ricorrenti o grumi di suggestioni. Proprio la lettura in ordine cronologico permette di rilevare più agevolmente tali nessi: e il lettore attento può cogliere affinità tra racconti di tipo diverso.

Qualunque scrittore presenta temi forti, che tornano con frequenza significativa: in questo senso Poe non è certo il solo a rivisitare gli stessi motivi e provocazioni declinandoli in versioni svariate. Una certa maschera della vulgata, quella dell’Americano Maledetto vittima di demoni interiori e di vizi degradanti, conduce a considerare alcuni di questi soggetti continuamente richiamati come vere e proprie ossessioni: si pensi alla donna che torna o al seppellimento da vivo. È naturalmente possibile che dimensioni ossessive possano individuarsi, ma occorre sempre una certa cautela nell’interpretare testi letterari costruiti in realtà con lucida consapevolezza.

Certo, il discorso della donna che muore e che spesso torna (ma potremmo dire che torna sempre, sul piano letterario), e la stessa natura insistitamente passiva di buona parte delle figure femminili potrebbero collegarsi a un quadro di fantasmi interiori segnato dalla troppo precoce perdita della madre: qualcosa che conduce da un lato all’angelizzazione (le figure femminili di Poe non mostrano mai connotazioni erotiche) e dall’altro all’affiorare di tendenze sadiche/punitive verso la donna che lo abbandona. Anche se poi è vero che non si tratta di un mero teatro interiore, da esaurire a colpi di psicanalisi. È un dato di fatto, realistico e storico, che i suoi testi fotografino un mondo durissimo, quello americano ottocentesco, dove soggetti fragili come le dame soavi di racconti e poesie soccombono più facilmente e precocemente, falciate dalla consunzione. E d’altro canto si tratta anche (Poe stesso lo ammetterà) di figure del pathos letterario, di topoi del patetico che gli permettono di veicolare lucidamente una serie di effetti narrativi e di temi cari – identità & individuazione, eccetera.

Si pensi anche, per esempio, al tema del grande fuoco che emerge con maggiore o minor enfasi lungo tutto l’arco della sua produzione (idealmente dal primo racconto Metzengerstein del 1932 a uno degli ultimi, Hop-Frog del 1949). Un’immagine che certo potrebbe legarsi con potenza di simbolo al già citato rogo del teatro di Richmond associato – sia pure indirettamente – alla morte della madre, e dunque evocare qualcosa di più profondo di una mera invenzione narrativa ad effetto. Anche se (di nuovo) va detto che negli Stati Uniti del tempo, dove moltissimo è costruito in legno, quella degli incendi devastatori risulta una dimensione ben più quotidiana di quanto noi possiamo percepire… E così via.

Allo stesso modo, il suo istrionismo – palese nei modi teatrali delle voci narranti, ma in fondo anche nei toni di altri tipi di testi – potrebbe rivelare tratti isterici; e almeno sembra di ravvisarvi un desiderio spasmodico dell’attenzione altrui. Forse di essere amato? Ma se è vero che su Poe abbiamo una ricchissima documentazione, a indagini puntuali sulla sua interiorità osta il mistero riguardante alcune dimensioni fondamentali, in particolare i rapporti concreti con figure basilari della sua vita: si pensi solo alla relazione misteriosa e molto discussa tra Edgar e sua moglie Virginia Eliza Clemm (1822-1847), sua cugina prima, sposata tredicenne quando Edgar ha già ventisette anni. Cosciente su quanto i testi di Poe abbiano rappresentato un intrigante terreno d’indagine sia per riflessioni psicanalitiche serie – a partire in fondo da quelle datate ma affascinanti di Marie Bonaparte – sia per intere palestre di psicologismi da rotocalco, lascio volontariamente questo fronte a lettori con competenze specifiche.

Dove invece ci si può muovere in modo un po’ più agevole è sul piano delle strutture narrative: ed è forse possibile distinguere tre tipologie.

a) Anzitutto, a fronte del panorama generale dell’opera di Poe, non sembra scorretto parlare di vere e proprie strutture mitiche e di mitopoiesi nell’indicare quelle costellazioni forti – pensiamo appunto alla donna che torna, al Doppio, al palazzo in rovina, al Grande Contagio, al seppellimento da vivi, alla reincarnazione, ai misteri mesmerici – che Poe consegna come un lascito perenne all’immaginario. Interessante è vedere per esempio l’uso che ne farà il cinema, con caratteri che richiamano proprio alla plasticità del mito. Lo stesso tema vampirico, in Poe sviluppato in forme liberissime dai tradizionali canoni del gotico, emerge come chiave mitica generale: le giovani morte de The Oval Portrait e The Oblong Box subiscono o esercitano vampirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Ligeia, Morella e una sorta di vampirismo – come detto – è anche quello di The Man of the Crowd.

Tali strutture si agganciano e si innervano una con l’altra. Si pensi alle dinamiche tra personaggi, come nel continuo riproporre tre figure-base: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno, sorella di sangue o di adozione, unita in sponsali castissimi e privi di eros; e due figure maschili, a loro volta in rapporto di doppio/rifrazione – come eminentemente espresso in William Wilson, dove la scissione si consuma a partire da una scuola labirintica a immagine di una tortuosa interiorità affondata nell’infanzia. Ma si pensi anche a The Man of the Crowd con il rapporto tra narrante e inseguito, entrambi alla deriva della propria eccitazione; o a The Tell-Tale Heart, dove all’occhio velato della vittima corrisponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispettivi battiti cardiaci si echeggiano l’un l’altro. Emblematico è poi The Sphinx, sorta di Decameron liofilizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epidemia a New York i due uomini che dividono il rifugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe – e se a narrare è quello più tormentato, la chiave beffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornite dall’altro, il razionalista. Anche in The Gold-Bug, il Legrand sospettato di sragione dall’amico narratore, e in effetti invaso da una qualche febbre interiore, è in realtà il fine analista: e su questa linea troviamo in Dupin il protomodello dell’investigatore seriale bizzarro, avo di infiniti cultori di cocaina e orchidee alle prese con una “spalla”, suo doppio opaco. Se poi le figure-base appaiono solitamente a due a due, in un caso eclatante, The Fall of the House of Usher, le troviamo in scena tutte e tre: e come al ritmo di quei carillon con figurine che la rotazione tende a fondere e confondere – magari in uno dei tanti orologi dei racconti di Poe –, ecco che in fondo riecheggiano sempre lo stesso dramma.

b) Altri temi ritornano invece in forme più frantumate, e possiamo parlare semplicemente di topoi. Pensiamo a tutti i racconti giocati sul tema dell’imperfetta percezione della realtà, ma in realtà per motivi diversi, dalla truffa alla svista all’equivoco alla sostituzione alla superstizione: casi troppo vari per permettere di ricondurli a un’unica struttura mitica, anche se si colgono forti affinità. Ma pensiamo anche, in termini più contenuti, a certe singole provocazioni tematiche. La scimmia può essere proiezione umana in chiave di teatrale orrore: si pensi alla Rue Morgue col suo finto uomo e a Hop-Frog coi suoi finti oranghi, quasi scaturiti da un incubo di Dupin. Il tema dell’idillio appartato svela ora natura d’incanto ora dimensioni asfittiche. Mentre un’intera serie di testi evoca la costellazione tempo/orologi/pendolo conducendo in direzioni piuttosto varie.

Un discorso a parte può valere poi sul tema ricorrente delle confessioni di omicidi, alcuni impuniti (The Cask of Amontillado, Hop-Frog) e altri smascherati e in attesa della morte (The Black Cat, The Imp of the Perverse, Thou Art the Man): un itinerario che sembra rigirare come un guanto le diffusissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul dato molto esteriore della truculenza dei crimini. Mentre è dai bassifondi dell’anima che, interpellando filosofi e frenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poe offre i suoi reportage: e se a volte il movente è la vendetta (circonfusa magari di mitologica potenza ma insieme – ecco il giornalista – raccordata al meschino orizzonte delle infezioni dello spirito), a trascinare sono altrove altre cause. Tra le quali quel citato genio della perversione che induce al precipizio interiore, facendo compiere il male per la coscienza che è tale, e per contro inseguendo i rei a vomitare confessioni non volute. Certo in questi abissi c’è l’America puritana, che irrompe inesorabile attraverso le violazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia prefreudiana di una vertigine di colpa connessa a qualche forma di degradata ribellione alla legge dei Patriarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’unica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tradizionali categorie di peccato e gli stessi timori di un inferno oltremondano. Basta in fondo, sembra dire Poe, quello che abbiamo dentro.

E connessioni e continui ritorni investono i personaggi. Molti dei quali conoscono stati di coscienza alterati, eccitazioni più o meno morbose, derive dei nervi o vere patologie mentali: condizioni frutto di peculiarità ereditarie (il legato familiare di sensibilità e fantasia febbrile che torna in parecchi racconti), contingenze metaboliche (l’eccitazione da convalescenza del narratore di The Man of the Crowd) o speciali situazioni emotive (L’ombra), ma altrove causate o almeno agevolate dal ricorso a oppio o sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (ben prima di Le Fanu: The Oblong Box); e soprattutto di quel vino che porta alla degradazione (The Black Cat), permette la vendetta (The Cask of Amontillado) o la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla nemesi (Thou Art the Man). Con l’esito più eclatante in King Pest, trasfigurazione alcoolica, grottesca e onirica, dell’incalzare di un Contagio assurto a topos e categoria interiore: dove il narratore è fin dall’inizio partecipe della deformazione visiva che l’etile reca ai protagonisti, descritti in termini non meno paradossali dei mascheroni della corte di Re Peste.

Ma il reticolo di connessioni è strettissimo: e rammentando Hop-Frog, è curioso notare che in Thou Art the Man, tra i presunti mittenti della fatale cassa di vino c’è un Frogs, e che il cadavere accusatore “salta” (to hop) fuori inatteso. Tutto un tessuto insomma di connessioni talora evidenti, ma altrove più sotterranee e giocate in chiave di sghemba allusione.

c) Però c’è un’altra tipologia che mi pare interessante, quella che potremmo chiamare delle forme. Alcune strutture visive, vorrei dire geometriche, evocate nei racconti tendono infatti a proporsi in declinazioni diverse di testo in testo. Per esempio la cassa è una struttura chiusa dal contenuto misterioso che può anche essere un corpo: appare in opere diverse, ha una funzione molto materiale e di servizio, difficile parlare di un topos, eppure la sua forma squadrata torna di frequente. Ma c’è un altro caso, anche più eclatante: la costellazione pozzi/fori circolari/gorghi i cui esempi emergono in testi importanti a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo… e così via.

 

4. Tra cortine e sipario

Si è citato il gotico, ed è affascinante notare come Poi lo reinventi radicalmente in un mix originalissimo con il fantastico grottesco alla Hoffmann, con il lascito degli autori neri americani (Brockden Brown, certo Washington Irving) e gli sviluppi neri del romanticismo coevo inglese (Bulwer-Lytton). Finisce così col porsi quale essenziale trait d’union tra l’epoca del primo gotico (quello che corre da The Castle of Otranto di Horace Walpole, 1764, a Melmoth the Wanderer di Charles Maturin, 1820 e alla versione definitiva del Frankenstein di Mary Shelley, 1831: Metzengerstein è del 1832) e la seconda ondata del genere. Cioè l’ondata che parte a metà anni Quaranta, e riceverà spinta da vari fattori, dal successo inglese dei penny dreadful grazie alle nuove rotative a vapore, al botto della nascita dello spiritismo “classico” col caso americanissimo delle sorelle Fox, 1848 (poco più di un anno prima della morte di Poe), a vari altri: e proprio la produzione del Nostro avrà un peso determinante nell’innescarla.

Tuttavia, come detto, soffermarsi troppo sul taglio al nero avalla l’equivoco di esaurirvi un autore ben più ricco. Se è vero che i suoi racconti macabri ne restituiscono la voce più nota e amata dal pubblico, e insieme forse più rispondente a certe crisi interiori, il rischio è di confondere Poe coi suoi personaggi: di dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiato da uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore e produzione letteraria. Emblematico è il saggio The Philosophy of Composition sulla genesi di The Raven: opera che certo denuncia per l’ennesima volta un rimpianto-vampiro dalle emersioni perturbanti e psichicamente devastatrici, ma anche l’uso che egli sa trarne razionalmente, inseguendo i lettori nelle loro emozioni e malinconie.

Significativo del resto il richiamo alla cifra del grottesco e arabesco da Poe stesso richiamata nel noto titolo della prima raccolta: quel lavoro di cesello da artista controllatissimo, profondamente letterario, che non si esaurisce nel travaso di angosce, e insieme un senso di spiazzamento che corteggia insieme macabro e ironia. A rammentare tra l’altro come pochi altri autori “neri” offrano un corpo tanto significativo di racconti ironici, sarcastici o decisamente comici – a volte macabri, a volte no.

Figlio di attori (è questa la fantasia ereditaria indicata in varie opere come matrice di irrequieta e febbrile visionarietà?), Poe offre nei racconti ideali monologhi teatrali: e se l’attenzione che il cinema gli tributerà guarda ovviamente, in prima battuta, al contenuto fantastico e nero, è pur vero che sceneggiature in sé non troppo fedeli possono ricondurre alla fonte attraverso lo stile d’interpretazione – capace di proclamare le ragioni della Notte con l’elegante teatralità dei soliloqui di Poe. Le cupe cortine dei suoi letti a baldacchino tirate a svelare epifanie della morte, le tappezzerie illusionisticamente arabescate mosse da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti svelano tutti, in qualche modo, i caratteri del sipario. E insomma la contestazione da “puristi” sul frequente, presunto tradimento di Poe su grande schermo – si pensi alle libere versioni di Roger Corman con l’immenso Vincent Price – può essere confutata alla luce di questa vocazione degli scritti virtualmente teatrale, spesso istrionica, gigionesca, tale da far riconoscere a certe pellicole popolari una maliziosa fedeltà allo spirito se non alla lettera di Poe.

Certo, la scrittura può essere quella con cui l’invitato di The Fall of the House of Usher tenta vanamente d’intrattenere l’ospite Roderick nella notte della tragedia: un placebo – ci provoca Poe – non molto diverso dagli oppiacei o dall’etile. In The Oval Portrait l’arte svela addirittura una dimensione vampirizzante. La scrittura può essere tante cose, e nelle pagine di Poe troviamo libere fantasie e polemiche puntuali, provocazioni e pose, ansie di gloria letteraria e genuini rovelli interiori – e poco importa che siano portati in scena dall’attore Edgar che cambia continuamente maschera e non ci permette realmente di vederlo dietro. Da qualche parte di queste confessioni avvertiamo una verità profonda, legata a un vissuto pesante e agli abissi di un inconscio con cui certe epopee di nicchie sotterranee e sepolti vivi potrebbero avere a che fare: qualcosa che ci sfida a capire ma cogliamo solo e sempre in modo incompleto, venato di dubbi. Come i suoi successori (si pensi a Lovecraft, cui viene spesso paragonato) e predecessori nel linguaggio fantastico, Poe non può essere confinato nel caso clinico, nel limbo di uno strano e neppure nelle logiche di immediata appetibilità dell’odierno pubblico pop – non sempre intenzionato a lasciarsi sfidare dalla complessità. Se l’uomo è un libro maledetto che non si lascia leggere, la condivisione donata di sofferenze e glorie attraverso il tempo ha piuttosto il nome di letteratura.

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