Lettera – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Lettera dalla campagna cinese alle sorelle lavoratrici domestiche https://www.carmillaonline.com/2020/04/19/lettera-da-wuhan-alle-sorelle-lavoratrici-domestiche/ Sat, 18 Apr 2020 22:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59424 di Meng Yu

[La versione originale è stata tratta dal blog Jianjiao buluo e tradotta con il permesso dell’Autrice, dal cinese, da Federico Picerni]

Sorelle che presto rivedrò,

in questo momento, qualcuna di voi sarà già al lavoro; qualcun’altra, benché già al proprio posto, sarà in isolamento temporaneo e impegnata a concordare con il datore di lavoro i tempi del rientro in servizio; e altre saranno ancora a casa a trascorrere quella “vita speciale”, tutta cibo e letto, letto e cibo, che non vi sareste mai sognate in precedenza.

Già, la Festa di [...]]]> di Meng Yu

[La versione originale è stata tratta dal blog Jianjiao buluo e tradotta con il permesso dell’Autrice, dal cinese, da Federico Picerni]

Sorelle che presto rivedrò,

in questo momento, qualcuna di voi sarà già al lavoro; qualcun’altra, benché già al proprio posto, sarà in isolamento temporaneo e impegnata a concordare con il datore di lavoro i tempi del rientro in servizio; e altre saranno ancora a casa a trascorrere quella “vita speciale”, tutta cibo e letto, letto e cibo, che non vi sareste mai sognate in precedenza.

Già, la Festa di Primavera [capodanno “cinese”, NdT] del 2020 è stata davvero senza precedenti. Dopo aver trascorso giornate lunghe quanto anni interi dentro la casa dove lavoro, finalmente sono arrivata in fondo anche a quest’anno. Con gran fatica sono riuscita anche a comprare il biglietto per tornare a casa; volevo partire un po’ prima del solito per andare in ospedale per un problema ginecologico posticipato da tempo, ma anche per sistemare il matrimonio di mia figlia e tenere un po’ di compagnia alla mia vecchia mamma. Arrivata a casa, il tutto era appena cominciato e, prima ancora che potessi rendermi conto di quanto stava succedendo, hanno chiuso le città, chiuso i distretti, chiuso i villaggi, bloccato i mezzi di trasporto… a poco a poco, ci hanno tagliato fuori dal mondo esterno. 

La prima volta che mi sono imbattuta in questo termine sconosciuto, “nuovo coronavirus”, è stato il 22 gennaio. Poco prima di andare a dormire, al termine di una lunga giornata trascorsa a sbrigare vari impegni, fra le notizie lessi di questa misteriosa malattia che a Wuhan aveva già raggiunto livelli molto preoccupanti. Dal momento che non sapevo nulla in proposito e che non avevo ben ragionato sulla situazione, pensai che, in fondo, Wuhan era così lontana, e poi comunque si stava facendo un notevole lavoro per curare i malati e contenere il virus. Non ci saranno grossi problemi, pensavo. Lasciai perdere fino alla mattina del 23 gennaio, quando accesi il cellulare e lessi che Wuhan era stata isolata. Solo a quel punto mi resi conto della gravità della situazione.

Da quel giorno, ogni mattina, appena sveglia, controllo le notizie. Il numero dei contagiati e dei morti aumentava giorno dopo giorno, e anche il mio stato d’animo, solitamente spensierato, cominciava ad appesantirsi: ansia, paura, angoscia, emozioni d’ogni genere mi si riversavano in testa.

Volevo andare a far visita a mia madre e tenerle un po’ di compagnia, ma gli accessi al villaggio erano già stati sigillati e nessuno aveva il permesso di uscire. Ormai non potevo più farci niente. Comunque le telefonai subito per dirle di chiudersi in casa.

“Ho ottantacinque anni, di che dovrei avere paura? Anzi, tanto meglio se muoio!”

“Ah, mamma, sarà anche meglio se muori, ma non siamo riuscite a rivederci, e poi guarda che se muori non possiamo venire a seppellirti!”

“Davvero? È così grave?”

“Sì, mamma, questo virus si diffonde velocissimamente e fa stare malissimo. Rimani a casa, non uscire per nessuna ragione. Ti vengo a trovare appena passa l’epidemia, d’accordo?”

Feci del mio meglio per convincerla, poi dissi a mio fratello e mia sorella di telefonarle a loro volta. Finalmente tranquillizzammo la nostra vecchia madre. Certo, capivo bene il suo stato d’animo: dopo un anno di separazione, non vedeva l’ora di rivedere sua figlia, ma ora che mi aveva a portata di mano, non potevamo stare insieme: ovvio che ne soffrisse. E figurarsi se io, in quanto figlia, non provassi lo stesso!

Sì, quest’anno avevo deciso di rientrare prima per il matrimonio di mia figlia. Eh! Io avrei voluto prima concludere il fidanzamento e rimandare le nozze alla Festa di Primavera dell’anno prossimo. In fondo, mia figlia è ancora giovane, e poi io non avevo ancora mai visto il mio futuro genero. La famiglia di lui però diceva che l’anno prossimo non si sarebbe potuto fare, in quanto l’anno del suo segno zodiacale, e poi comunque i due ragazzi stavano insieme già da più di un anno e sembravano fatti l’uno per l’altra. Anche a me in effetti il genero sembrava di buoni principi e sapevo che mia figlia fosse molto soddisfatta, quindi alla fine, non senza perplessità, ma stremata dalle continue preghiere della famiglia di lui, ho acconsentito che si sposassero il 20 gennaio. E così, in questo breve lasso di tempo, abbiamo concluso il matrimonio.

Allora non avevo ancora avuto notizia dell’epidemia, ma con il senno di poi sono felice di aver sistemato le cose in quel momento: è davvero un’ottima cosa che due giovani, innamorati da tempo, possano passare insieme questi giorni così particolari!

Chiusa la questione del matrimonio, era tempo – come, credo, anche per voi tutte – delle spese di Capodanno. La gente di campagna ha tantissimi riti prestabiliti da osservare. In famiglia abbiamo degli anziani e, naturalmente, ogni anno tantissimi parenti e amici vengono ad augurare loro buon anno, quindi dovevamo provvedere a una quantità di doni piuttosto consistente. Risolto anche questo, ci stavamo preparando per riunirci con i parenti per salutare l’anno nuovo, quando giunse la notizia che l’epidemia si era aggravata al punto che ci si poteva contagiare da persona a persona.

A questo punto, credo di dovervi fare un invito: se siete già sul posto di lavoro, state al sicuro e curate bene la salute; se uscite portate la mascherina, evitate il più possibile i luoghi affollati, se possibile indossate guanti monouso, disinfettatevi e lavatevi bene le mani, quando rientrate cambiatevi i vestiti. Le grandi città sono affollate e l’aria è cattiva; noi, domestiche senza alcuna assicurazione sanitaria, dobbiamo assolutamente prenderci cura di noi stesse! Se siete a casa in attesa di riprendere l’impiego, non abbiate fretta di tornare a lavorare, prima di partire accordatevi bene con il “padrone”, soprattutto accertatevi se avrete a disposizione un posto sicuro dove passare la quarantena, se vi saranno garantiti tre pasti al giorno e se durante il periodo di quarantena vi sarà corrisposto lo stipendio. Se è tutto a posto, potete richiedere il certificato di uscita dal luogo dove vi trovate e, prese tutte le varie misure precauzionali (mascherine protettive, disinfettante, sapone, guanti monouso, ecc.), potete tornare al luogo di lavoro.

Se invece non avete sistemato tutto questo, allora non abbiate fretta, restare a casa, rilassatevi, mangiate, bevete, ascoltate un po’ di musica, ballate, leggete qualche buon libro, imparate a scrivere ciò che vedete e sentite. Potete anche fare una maratona di serie tv con gli altri parenti. Insomma, consideratela un’occasione per rinfrancarvi.

Tutti quei medici e infermieri in prima linea, notte e giorno, a soccorrere i malati, per la maggior parte non hanno fatto nemmeno le ferie, sono stati trasferiti nei luoghi con il più alto numero di contagi e lavorano quotidianamente in ambienti ad alto rischio di trasmissione del virus. Alcuni sono stati contagiati e hanno persino perso la vita senza nemmeno rivedere i propri cari. Sono convinta che, come me, anche voi sorelle sarete estremamente addolorate da queste notizie.

A proposito della vita, a dire il vero in questo periodo ho fatto alcuni pensieri estremi. Non vi nascondo che a volte vorrei persino gridare: non mi fa paura essere contagiata, ma i maltrattamenti da parte di mio marito.

Parlo sul serio: il conservatorismo della mia famiglia mi soffoca e sono state le limitazioni arrivate con questa epidemia a farmi vedere con ancora più lucidità i traumi causati dalla mia famiglia: ne ho avuto abbastanza di questa vita!

Lui passa le giornate a far niente (e io non oso certo chiedergli di fare nulla), ogni volta che sbrigo una faccenda eccolo a fare qualche commentino, ogni cosa per lui è fatta male, e non solo non mi lascia spiegare, ma mi insulta anche in ogni modo possibile. Non gli va bene nulla, nemmeno il cibo è conforme ai suoi gusti. Io non lo considero, e lui che fa? Mi accusa di disprezzarlo, lui che è “il capo di questa famiglia”, mi dice che sono una donna che vuole ribellarsi, “rovesciare il cielo”. Se non ha scuse a cui aggrapparsi comincia a insultarmi, dice: “È da un bel po’ che sei in città, eh? Non è che hai un ‘amichetto’?” Quando litighiamo, vomita oscenità persino sulla mia famiglia. Non fa che sbraitare sul “… (questo è l’insulto più maligno, il senso è figlio illegittimo)” dei miei “clienti di città”. Ditemi, sarebbe mai possibile mantenere la calma in queste condizioni?

Ma ciò che mi ferisce di più è la mentalità dei miei cari. Ero appena tornata a casa, con la mente ancora intontita dagli scossoni del treno, il corpo non ancora svestito della spossatezza del viaggio, che mi hanno messo davanti a una pila di cose lì ad aspettarmi: “Finalmente sei tornata, presto, fa’ questo, fa’ quell’altro…”, “Questa è roba da donne…”.

E se fai fatica a riabituarti ad un ambiente che non vedi da più di un anno, eccoli a dire: “Ti sei rovinata, non riconosci più nemmeno casa tua”. Se ti senti offesa e vuoi rispondere, chi ti circonda subito ribatte: “È un anno che non rincasi, porta pazienza!”, “Sei sempre fuori, almeno quando sei qui comportati bene”, “Gli uomini si arrabbiano facilmente, le donne devono sopportare! Non è sempre stato così? Chi ti obbliga a non tornare più spesso a fargli compagnia?”.

Sentire questi discorsi mi fa male. Dirò la verità: sono un’ultracinquantenne anch’io, sento già che fisico e mente sono in fase calante, quando torno a casa vorrei tanto ricevere affetto e attenzioni, invece è sempre il contrario.

Qui al villaggio non si sentono che i suoni di Kuaishou [app di video sharing cinese, NdT] e TikTok, o di gente radunata a giocare a carte, bere e chiacchierare, e non si vede nessuno che porti la mascherina. A casa vorrei leggere e scrivere qualcosa, ma le donne che vengono a trovarmi per fare due chiacchiere dicono che sono diventata ormai una donna di città e ho la puzza sotto il naso. Mi prendono in giro dicendo che voglio fare la scrittrice. Ai loro occhi sono chiaramente una pecora nera. Mia suocera ha pure detto: “Di che dovrebbe occuparsi una donna se non del cucito? Cosa leggi a fare?”, “Alla tua età ancora a leggere e scrivere roba, ma che ci fai? Mettiti a fare qualcosa di serio!”

Sono fuori di me! Sì, è vero, sono una lavoratrice domestica, lavoro lontano, mi occupo degli altri, mi faccio comandare, talvolta mi capitano anche cose che per altri sarebbero inimmaginabili. Da mattina a sera sacrifico tutte le mie energie e tutto il mio tempo sul posto di lavoro, con attenzione e impegno, per poter dare alla mia famiglia una vita migliore. E però quando torno a casa non solo devo sopportare le illazioni dei parenti, ma anche qui devo pure occuparmi degli altri.

Ancora più importante: non si può fare altro, non si può pensare ad altro. La loro logica è che se ti occupi degli altri, è quello il compito che ti spetta. Desiderare di impegnarmi in qualcosa di diverso fa di me una che non sa stare al suo posto, non come le persone normali. Nemmeno la mia indipendenza economica è riuscita a cambiare questa situazione. Ogni anno mando puntualmente i soldi a casa, non tengo per me nemmeno un centesimo, e devo comunque sentirmi dire che non faccio “ciò che è consono”!

Tutte queste ingiurie e occhiatacce quotidiane mi fanno sentire come se dalla vita fosse scomparsa ogni gioia, come se fossi già arrivata al capolinea. La differenza è che gli anni scorsi me ne partivo prima per tornare a guadagnarmi da vivere, figurarsi se me ne stavo qui a subire tutti i giorni le cattiverie gratuite da recluso frustrato di mio marito. Non è la prima volta che faccio questo pensiero: noi, che viviamo in città, pur dovendo subire angherie e sottostare agli ordini, comunque abbiamo un guadagno! Dopo tutti questi anni, sul lavoro siamo come pesci nell’acqua, ci siamo abituate ai rapidi ritmi della vita di metropoli, ma adesso fatichiamo a reintegrarci nella vita di famiglia che ci manca così nel profondo.

Eppure al pensiero di tornare in città ho ricominciato a provare sensazioni contrastanti, a farmi prendere dall’ansia: quella vita così opprimente, fatta di giornate piene di preoccupazioni, per non parlare delle prospettive lavorative ben poco rosee dopo l’epidemia, mi hanno fatta sentire senza riparo. Chissà come faremo ad affrontare quel che ci aspetta?

Stare tappati casa, con l’epidemia in corso, manda in subbuglio l’umore. Vi ho riversato addosso così tante parole uscite direttamente dal cuore, posso solo immaginare tutti pesi di cui anche voi vorreste liberarvi. Non vi vedo da tantissimo tempo, come mi mancano le ore passate insieme a voi. Mi rendono così felice! Spero di potervi rivedere presto!

Per concludere, stare alla larga dal virus! Vi auguro buona salute e allegria, e tante belle cose.

Un abbraccio!

La vostra Meng Yu, che vi vuole tanto bene.

13 febbraio

 

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Lettera ai miei studenti indiani sugli effetti linguistici dei colpi d’arma da fuoco partiti dal ponte di una petroliera italiana https://www.carmillaonline.com/2014/02/25/lettera-ai-miei-studenti-indiani-sugli-effetti-linguistici-dei-colpi-darma-fuoco-partiti-dal-ponte-petroliera-italiana/ Tue, 25 Feb 2014 20:47:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13132 di Alberto Prunetti

Dora e Jeen, moglie e figlio di JelestineCare ragazze, cari ragazzi,

per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala. Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici  dei vostri familiari, che speravano di regalarvi un futuro con una laurea in infermieristica e un corso di italiano. Ricordo che l’Italia e l’Europa rappresentavano ai vostri occhi la possibilità di una svolta nella vostra professione e nelle vostre vite.

Ricordo  anche che, come tutti gli studenti, l’uso [...]]]> di Alberto Prunetti

Dora e Jeen, moglie e figlio di JelestineCare ragazze, cari ragazzi,

per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala. Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici  dei vostri familiari, che speravano di regalarvi un futuro con una laurea in infermieristica e un corso di italiano. Ricordo che l’Italia e l’Europa rappresentavano ai vostri occhi la possibilità di una svolta nella vostra professione e nelle vostre vite.

Ricordo  anche che, come tutti gli studenti, l’uso delle preposizioni italiane vi metteva in difficoltà.

Per presentarvi, dicevate: “Sono nato a Kerala”. Io allora spiegavo che la regola grammaticale vuole l’uso della proposizione “in + nome dello stato” e “a + nome di città. Per questo si dice “Sono nato in Italia” e “Sono nato a Roma”. Dato che il Kerala è uno stato (l’India è una confederazione di stati, come gli Usa per capirci) si deve dire: “Sono nato in Kerala, a Trivandrum”, come si dice “Sono nato in Colorado, a Boulder”.

Capirete il mio stupore e la mia tristezza, dopo l’assassinio dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki, colpiti da colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera Enrica Lexie (è un dato di fatto: le istituzioni italiane hanno già versato un indennizzo ai parenti delle vittime in un accordo extra-giudiziario di cui si parla poco nel bel paese). Dopo questo tragico episodio, all’improvviso gli italiani hanno scoperto l’esistenza del vostro mare e hanno cominciato a dire: “Il nostro ambasciatore” oppure “l’inviato del governo”… “è andato a Kerala”. L’hanno fatto tutti, da chi allora era a capo del governo, ai direttori dei più prestigiosi telegiornali.

Hanno sbagliato, dimostrando la propria ignoranza di almeno una di queste realtà:

_l’India;

_la grammatica italiana;

Probabilmente entrambe, direi.

Purtroppo però voi, ascoltando questi importanti opinionisti, potreste pensare che devo aver sbagliato io. Che non ero un buon insegnante. Perché io vi dico una cosa e quelli che contano mi contraddicono. E poi in fondo sono solo un insegnante di italiano – anzi, un ex insegnante – e probabilmente ho meno autorevolezza ai vostri occhi di un direttore di un Tg o di un capo del governo.

Ma la realtà, cari studenti, è che la ragione se la prende chi impugna un fucile o chi usa le parole come se fossero armi. Perché può raccontare le cose come più gli conviene. Come quei fatti di cronaca definiti eroici quando nella migliore delle ipotesi sono un tragico errore. Come le preposizioni usate a caso.

Io però qualche consiglio linguistico ve lo do lo stesso.

Su aggettivi e pronomi possessivi: diffidate da chi eccede nell’uso dei possessivi. “La nostra lingua”, “la nostra religione”, “i nostri marò”, “la nostra patria”. Servono a alimentare un immaginario condiviso, dietro costrutti identitari, per nascondere divisioni più importanti. Questa retorica della condivisione è sempre più diffusa, in italiano. Come del resto da voi. Ma prestate attenzione alla retorica. Guardate cosa c’è dietro. Si parla di “uomini di mare” con un termine-ombrello che ha una denotazione troppo ampia. Anche sul mare, non esistono solo “uomini di mare”. A un tiro di schioppo, sul vostro mare pieno di pesce e di reti cinesi, si sono trovati vicini inermi pescatori e soldati in funzione di contractor armati, che rivendicano il diritto di sparare a difesa del petrolio e delle merci occidentali. Quel petrolio maledetto che si paga in dollari e in vite umane. Quegli “uomini di mare” tanto diversi, in realtà sono stati per un istante uniti da una sola cosa: la traiettoria di un proiettile. Non si possono mettere sotto uno stesso termine, “uomini di mare”, chi difendeva le merci occidentali su rotte coloniali, guadagnando in un giorno quello che i  vostri genitori guadagnano in un anno, e chi è morto per portare il pane e il pesce sulla tavola dei propri figli. Non fatevi ingannare dalla retorica degli “uomini di mare”. Voi conoscete l’opera di Jack London e sapete  che un mozzo non è un capitano.

Un’altra parola controversa, che in classe non abbiamo mai usato, è questa: “terrorista”. Ne capite il significato ma non comprendete il campo di denotazione. Io sono più confuso di voi. Con buona ragione, le autorità italiane si stanno battendo perché l’accusa di terrorismo non cada sulle spalle dei due marò. Capisco il vostro stupore di fronte al fatto che in Val di Susa quattro giovani no tav sono stati accusati da una procura italiana dello stesso reato. Anche loro sono considerati terroristi, eppure non hanno ucciso dei pescatori, ma pare che siano accusati del danneggiamento di un compressore. Insomma, mi sembra che bisogna precisare meglio i campi di denotazione e la profondità semantica di alcuni termini appartenenti al lessico italiano, per non dare l’impressione che un compressore valga più della vita di due pescatori indiani.

Avrei tante cose da dirvi, ma tante altre dovrei dirle ai miei connazionali che si fanno bombardare da parole prive di idee nei telegiornali. Parole che fanno gonfiare il petto ma svuotano la testa. Informazione o propaganda? Comunicazione o rumore martellante che solletica le emozioni più viscerali degli italiani? Espressioni ben composte grammaticalmente che però rimandano a assurdità nel campo della referenza. L’espressione “Pirati in Kerala”, ad esempio, grammaticalmente ben formata, ha lo stesso valore delle “idee verdi senza colore che dormono furiosamente”, di cui parlava un altro professore, ben più importante di me: Noam Chomsky. Perché in Kerala i pirati compaiono solo sugli schermi dei vostri splendidi cinema. Ma qui si entra nel campo della logica e il vostro teacher preferisce non avventurarsi tanto al largo nel mare delle idee chiare e distinte. Non vorrei che prendessero per pirata anche me.

A proposito: degli effetti linguistici di quegli spari ne ho parlato sopra, di quelli pragmatici non ne vuole parlare nessuno. Jalestine e Binki sono morti, dopo quegli spari. Quanti italiani si ricordano i loro nomi? Se mai tornerò a farvi lezione, vi proporrò un’unità didattica con due canzoni dedicate ai pescatori, una cantata da Fabrizio De André e l’altra da Pierangelo Bertoli (lo so che vi annoiate con la musica italiana, ma che ci posso fare?). Meritano di essere didattizzate, innanzitutto perché si prestano per illustrare il modo imperativo e il tempo futuro, poi perché ogni volta che le ascolto mi viene in mente una banalità: che un soldato può diventare un eroe, ma un pescatore quando non torna a casa viene dimenticato.

Un ultimo punto. Quello della condanna. Che poi è linguaggio anche quella, è un atto linguistico sia l’imputazione che la sentenza, un atto linguistico con conseguenze pragmatiche. Qui si parla tanto di condanne e pene. Io credo che il carcere, come la bacchetta dei professori di un tempo, non serva a nulla e credo anche che le vite umane non si tolgono, né con la corda né con il fucile. Immagino però che da qualche parte, in quelle migliaia di pagine di epica e di leggende e nei film e nelle canzoni dei pescatori del Kerala che avete invano cercato di insegnarmi – che pessimo studente di malayalam sono stato… – ci deve essere la soluzione anche per questa cosa dei marò, per uscirne bene oltre quel polverone sollevato dai media e dalle retoriche nazionaliste, che rende tutto più avvilente e incomprensibile. Nei panni di chi ha sparato dal ponte della petroliera Enrika Lexie, chiederei di essere condannato a costruire asili per gli orfani del Kerala. E chiederei che invece di comprare costosi bombardieri F35, il ministero della difesa italiano usi una parte di quei soldi per costruire delle scuole in Kerala (non “a Kerala”, cari ministri).  E che invece di spedire militari e diplomatici, l’Italia accolga degli infermieri del Kerala nei propri ospedali e li paghi correttamente. E che i due paesi attivino dei programmi di scambio tra studenti e delle borse di studio, pagati dal ministero italiano della difesa, visto che nel paese di Marco Polo anche gli opinionisti della televisione pensano che l’India sia un paese di fachiri (e io credo che voi in Kerala non abbiate mai visto un fachiro, giusto?). E che i fucilieri che hanno sparato contro i pescatori facciano la mattina il muratore e il pomeriggio l’insegnante di italiano in una scuola del Kerala, che forse a quel punto in omaggio ai “nostri insegnanti” il ministero si degnerà di riconoscere la professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2. Poi la pena continuerebbe la sera: dopo aver mangiato un thali di riso sulle foglie di banano, che non c’è niente più sano e gustoso, i nuovi professori diventerebbero studenti per imparare la vostra lingua, il malayalam. Liberi di muoversi in Kerala e di ricevere visite, dovrebbero vivere come i pescatori e conoscere l’uso delle reti cinesi, che sorgono maestose a Kochi. Se vi sembra una pena leggera mettersi nei panni di un muratore o di un insegnante, pensate che un militare italiano in funzioni di contractor per un armatore privato sui vostri mari guadagna 467 euro al giorno, un insegnante di italiano all’estero su un progetto non ministeriale, a parità di latitudine, è pagato circa 40 euro al giorno, mentre un pescatore o un muratore indiani vivono sotto la soglia della povertà del vostro stesso paese, sudando per poche rupie dall’alba al tramonto.

La pena poi dovrebbe essere linguistica, ovvero condizionata alla scrittura di una canzone in malayalam che parli dei frutti del mango e del sorriso delle ragazze di Allepey. Una di quelle canzoni che, costretto da voi, ballavo con poca maestria. Un giorno allora, dopo aver imparato il malayalam al punto di saper scrivere una canzone con le parole della lingua di Jalestine e Binki, quel debito con la terra dell’acqua e del riso sarebbe estinto e chi ha sparato contro dei pescatori sulle acque del Malabar sarebbe libero  di tornare nel paese dove è nato. O di rimanere, se fosse felice di quella nuova vita.

A patto di non cantare mai quella canzone a Sanremo.

Probabilmente queste mie parole risulteranno naif a voi e poco patriottiche alle orecchie dei miei connazionali. Ma io non sono un fuciliere né un diplomatico, non amo né le armi né le galere e leggo troppi libri. Dico solo che da insegnante io il caso Jalestine e Binki, che qui – ennesimo errore linguistico – chiamano “il caso marò”, l’avrei già risolto così, da tempo.

Forse le cose andranno in un altro modo.

In ogni caso vi abbraccia il vostro insegnante di italiano, vostro allievo di tante giornate indiane, che con queste righe si toglie un rospo dalla gola (è una metafora, non prendetela alla lettera) e vi ricorda per l’ennesima volta che non dovete alzarvi quando il prof entra in classe.

Alberto

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