Leggi di Norimberga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 3: disciplinamento dell’immaginario e del lavoro. https://www.carmillaonline.com/2021/03/16/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-3-disciplinamento-dellimmaginario-e-del-lavoro/ Tue, 16 Mar 2021 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65336 di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni [...]]]> di Sandro Moiso

Ho scritto recentemente, a proposito del pensiero di Carl Schmitt, che il concetto di “eccezione” è fondativo della sovranità ovvero del potere dello Stato, qualsiasi sia la forma politico-istituzionale che questo assume: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»1.

Da questa affermazione è possibile far derivare che l’eccezionalità, o stato di eccezione, e la facoltà/forza di deciderne gli aspetti formali e strutturali costituiscono le condizioni che devono sostanziare ogni governo poiché, se nelle fasi “normali” la normativa vigente è sufficiente a governare l’esistente e a dirimerne le contraddizioni, è proprio nella gestione di una fase inaspettata, e dunque potenzialmente pericolosa, che si esprime la vera autorità, riconosciuta come tale.

Se questo risulta essere piuttosto significativo dal punto di vista meramente politico, soprattutto in una fase come quella che stiamo attraversando e che abbiamo precedentemente definito come “epidemia delle emergenze”2, assume un’ulteriore importanza una volta che lo si associ alle riflessioni di Michel Foucault sul “potere di disciplina”.

In che consiste un simile potere? L’ipotesi che vorrei avanzare è che esiste, nella nostra società, qualcosa che potremmo definire un potere disciplinare. Con tale espressione mi riferisco, semplicemente, a una certa forma, in qualche modo terminale, capillare, del potere, un ultimo snodo, una determinata modalità attraverso la quale il potere politico – i poteri in generale – arrivano, come ultima soglia della loro azione, a toccare i corpi, a far presa su di essi, a registrare i gesti, i comportamenti, le abitudini, le parole; mi riferisco al modo in cui tutti questi poteri, concentrandosi verso il basso fino ad investire gli stessi corpi individuali, lavorano, plasmano, modificano, dirigono, quel che Servan chiamava “le fibre molli del cervello”3. Detto in altri termini, credo che il potere disciplinare sia una modalità, del tutto specifica della nostra società, di quel che si potrebbe chiamare il contatto sinaptico corpi-potere.
La seconda ipotesi che vi sottopongo è che tale potere disciplinare, in ciò che presenta di specifico, abbia una storia, e dunque non sia sorto all’improvviso, ma neppure sia esistito da sempre. Esso si è piuttosto formato a un certo punto e a seguito una traiettoria, in un certo senso trasversale, lungo le vicende della società occidentale4.

Se la sovranità si fonda sull’eccezione, la sua dichiarazione e direzione, e il potere disciplinare sulla permeazione dei corpi e delle menti da parte del potere “sovrano”, sembra piuttosto evidente che la situazione attuale, determinata dalla pandemia e dalla sua gestione politica, sanitaria ed economica, porti a compimento, in maniera impensabile anche nei regimi totalitari del ‘900, una forma “totale” e generalizzata in quasi tutto l’Occidente (ma non solo) di controllo sociale e dirigismo economico-sanitario.

Una forma di totalitarismo emergenziale che della “sicurezza” ha fatto il centro del suo discorso, facendo addirittura impallidire i precedenti discorsi in tal senso fatti a proposito del terrorismo o dei fenomeni migratori, che, a questo punto, sembrano soltanto aver costituito i presupposti discorsivi della nozione attuale di “sicurezza” e “controllo” (sociale)5.
Lo stesso Foucault, a proposito di un potere che neppure cercava più di salvare le apparenze, aveva affermato in una conversazione del novembre del 1977:

[Il potere] Ha ritenuto che l’opinione pubblica non fosse temibile, o che potesse essere condizionata dai media. Questa volontà di esasperare le cose fa parte d’altro canto del gioco della paura che il potere ha messo in atto ormai da anni. Tutta la campagna sulla sicurezza pubblica deve essere corroborata – perché sia credibile e politicamente redditizia – da misure spettacolari che provino la capacità del governo di agire velocemente e ben al di sopra della legalità. Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi. Il potere ha voluto mostrare che l’arsenale giuridico è incapace di proteggere i cittadini6.

Non si stupisca il lettore per il riferimento ad un testo che in realtà si ricollegava all’estradizione dalla Francia dell’avvocato Klaus Croissant, difensore della Frazione Armata Rossa (RAF) e accusato di complicità con i suoi clienti, verso la Repubblica Federale Tedesca dopo che i membri del gruppo Baader erano stati “ritrovati” morti nelle celle del carcere di Stammhein. La “sproporzione” sta soltanto nell’occhio disattento, una volta considerato come la strategia di demonizzazione dell’avversario politico e sociale e dell’istituzione di un “diritto penale del nemico” sia stata traslata, neppure in tempi troppo lunghi, dall’applicazione ai processi per terrorismo e banda armata a quelli destinati a reprimere e criminalizzare movimenti quali quelli No Tav e No Tap 7 fino ai Dpcm, autoritari e, come vedremo tra poco, incostituzionali, destinati a regolare, ancor più che la salute (intesa dal punto di vista sanitario) pubblica, i comportamenti sociali e individuali.

Intanto è di pochi giorni or sono la notizia che un magistrato di Reggio Emilia ha annullato le multe inflitte, dai carabinieri di Correggio, ad una coppia per un’autocertificazione falsa, in violazione delle norme di divieto di circolazione imposte dal primo dpcm emesso dall’ex-premier Giuseppe Conte l’8 marzo 20208. La decisione del magistrato, Dario De Luca, sottolinea come un dpcm non possa limitare la libertà personale perché è un atto amministrativo, motivo per cui un decreto del premier è illegittimo se viola i diritti costituzionali.

Il giudice emiliano ha infatti assolto gli imputati «perché il fatto non costituisce reato» visto che il falso è un «falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente», aggiungendo inoltre che la norma che impone l’obbligo dell’autocertificazione sia da ritenersi costituzionalmente illegittima e quindi da disapplicare. Poiché, spiega ancora, la limitazione della libertà personale può avvenire solo a seguito di un atto dell’autorità giudiziaria e non di un atto amministrativo qual era il decreto in questione di cui si rileva «l’indiscutibile illegittimità come pure di tutti quelli successivamente emanati dal capo del governo».

Ciò che importa, di tale sentenza, è il fatto che questa riveli come ormai i governi, approfittando dello stato di emergenza o di eccezione, possano operare in totale antitesi alle costituzioni così spesso presentate come “carte dei diritti”, ci sarebbe da aggiungere quasi mai applicati e quasi sempre ignorati. Ma la stessa può anche costituire un precedente giuridico importante per tutte quelle situazioni, come quella dei No Tav valsusini che stanno ricevendo multe individuali di centinaia di euro per essersi allontanati senza valide ragioni dal proprio domicilio, in cui la limitazione della libertà di movimento possa coincidere con la limitazione della libertà di espressione e di manifestazione.

Il caso è circoscritto, ma ciò non vuol dire che sia insignificante dal punto di vista giuridico nel rilevare come i governi si stiano muovendo nella totale illegalità, approfittando dell’occasione fornita loro dall’epidemia da Covid-19. Sulla quale ultima non è certo il caso di fare del complottismo o di adulterarne la gravità, dal punto di vista della salute e dell’economia, sminuendola. Piuttosto si rende necessario smontarne, pezzo dopo pezzo, tutta la narrazione che ne viene fatta a livello politico e mediatico.

Tornando a Foucault, val forse la pena di ricordare che il filosofo francese definì l’immaginario «segno di trascendenza» e il sogno «esperienza di questa trascendenza sotto il segno dell’immaginario»9. Poiché, come riassume Alessandro Fontana: «L’immaginario è dunque non tanto il ridotto della ragione, né il deposito dei suoi archetipi, quanto lo spazio delle direttrici costitutive e primarie dell’esistenza, delle sue virtualità trascendentali, prima del suo oggettivo esplicarsi nelle forme della storicità»10.

L’immaginario pubblico o collettivo, soprattutto a partire dalla fondazione dello Stato moderno tra XVI e XVII secolo, deve essere corretto e contenuto per il tramite di norme che siano corroborate da “verità evidenti” e da saperi che, a partire dalla fine del XVIII secolo:

avranno soprattutto il compito di stabilire ed enunciare come verità di natura la regolarità delle condotte prescritte dal potere disciplinare. Nasce così, sostiene Foucault, un nuovo regime di verità, quello di una verità normalizzatrice, la cui forma è fondamentalmente definita dal modo di funzionamento dell’esame, vero e proprio «rituale di verità della disciplina», grazie al quale potrà venir effettuato l’investimento pubblico dell’individualità normalizzata, e nelle cui tecniche le nascenti scienza umane e le stesse «scienze “cliniche”» cercheranno, secondo lui, l’essenziale dei propri metodi e delle proprie procedure […] la nuova economia del potere disciplinare, con il suo controllo permanente dei corpi, la normalizzazione delle condotte, le tecniche infime e minuziose di estrazione e di costituzione dei saperi (e di «saperi veri», precisa Foucault), rappresenta un tentativo di potenziamento degli effetti di potere in estensione, intensità e continuità. Si tratta, insomma, di una meccanica di potere che mira a penetrare la totalità del «corpo sociale» (che ha cessato di essere una semplice metafora per il pensiero politico, dirà nel 1976 al Collège de France) per produrre quei «corpi utili» funzionali ai nuovi meccanismi di produzione sviluppati dal capitalismo11.

Si torna qui, dunque, alla necessità per il potere di plasmare, a sua immagine e somiglianza, la società e i corpi, normalizzando il prodotto di quelle fibre molli del cervello di cui parlava Servan proprio alla fine del ‘700. E si torna anche alla necessità, per le forze che si vogliono antagoniste, di controbattere colpo su colpo alle vertiginose, o abissali, costruzioni dell’immaginario capitalistico con cui sempre più occorre fare i conti. Non lasciandosi abbindolare né dalla “razionalità” delle scelte dei governi, delle imprese e delle loro scienze, né, tanto meno, dalle disordinate e confuse, ma soprattutto fuorvianti, ricostruzioni dei complottisti di ogni ordine e grado.

La realtà è lì, pronta a dischiudersi davanti ai nostri occhi, in ogni momento.
Basti pensare alla campagna di vaccinazione, trionfalisticamente annunciata e descritta in ogni dove eppur così misera e tardiva. Mentre gli Stati Uniti annunciano che l’Alaska sarà il primo stato ad essere completamente vaccinato, i media si dimenticano di aggiungere che la stessa ha poco più di 700.000 abitanti e una densità di popolazione pari a 0,4 abitanti per chilometro quadrato12, in Italia e in Europa ai guai legati a piattaforme mal funzionanti per le prenotazioni e ai numeri delle fiale di vaccino assolutamente non sufficienti si è aggiunto anche il “grosso guaio” causato, in diversi paesi europei, compresa l’Italia, dai casi di trombosi verificatisi dopo la somministrazione del vaccino Astra-Zeneca13.

Vaccino che fin dall’inizio aveva suscitato dubbi sulla sua effettiva funzionalità e che solo per l’emergenza vaccinale, legata alla scarsità di dosi disponibili come si è già detto poc’anzi, è stato approvato dall’EMA, prima solo per gli under 65 e successivamente anche per gli over. Confermando così come la vera sperimentazione di vaccini (sviluppati forse troppo in fretta per motivi di mercato) si stia svolgendo sui corpi dei vaccinati. Motivo per cui oggi, dopo diverse morti sospette, siamo costretti ad ascoltare ministri e generali, rappresentati dei governi e della “scienza” (oltre che di Big Pharma, dell’OMS e dell’AIFA) che affermarno che quel vaccino è sicuro ed efficace come tutti gli altri, nonostante la sospensione “in via precauzionale” della sua somministrazione sia stata resa operativa in quasi tutti i paesi europei (buona ultima l’Italia, lasciata sola anche da Germania e Francia) fino a giovedì 18 marzo.

Ora, al di là della facile ironia che si potrebbe fare su quell’”essere sicuro ed efficace come gli altri”, che non si sa se sia una constatazione dell’effettiva efficacia di Astra-Zeneca oppure una svalutazione di fatto dell’efficacia degli altri vaccini, ciò che c’è, molto semplicemente, da rilevare non è il solito big complotto, ma piuttosto il fatto che, come il “nostro” Marx aveva già rivelato, non è la domanda a creare l’offerta ma, piuttosto, il contrario. Ovvero questo c’è, 400 milioni di dosi di Astra Zeneca già acquistate dall’Unione Europea (che sicuramente, nei prossimi giorni, contribuiranno a spingere l’EMA nella direzione di una ripresa delle vaccinazioni con lo stesso siero)14, questo vi beccate e questo deve pure piacervi (anima santa di ogni pubblicità, dal detersivo per i piatti ai segretari del PD fino a ciò che dovrebbe difenderci dalla morte e dal Male), altrimenti niente “miracolo”.

Se è però evidente l’uso politico del discorso medico (e scientifico) che oggi viene fatto, è proprio Foucault a spiegarci che:

Se c’è stato effettivamente un legame tra la pratica politica e il discorso medico, non è, mi pare, perché questa pratica abbia mutato prima di tutto la coscienza degli uomini, il loro modo di percepire le cose o di concepire il mondo, poi in fin dei conti la forma della loro conoscenza e il contenuto del loro sapere; non è neppure perché questa pratica si sia riflettuta prima, in modo più o meno chiaro e sistematico, in concetti, nozioni o temi che sono stati, in seguito, importati nella medicina; è perché, più direttamente, la pratica politica ha trasformato non il senso, né la forma del discorso, ma le sue condizioni di emersione, d’inserzione e di funzionamento; essa ha trasformato il modo di esistenza del discorso medico15.

Il filosofo francese situava a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo l’affermazione di una scienza medica di origine positivistica, basata sull’affidamento incondizionato e totale al metodo sperimentale16. Una medicina scientifica e razionale che, però, non si sarebbe mai allontanata del tutto dalla promozione di una fiducia o fede nella Scienza di stampo religioso, assumendo vieppiù le sembianze di un culto destinato a cancellare qualsiasi possibile “altra” eresia, grazie anche al panico oggi esasperato dai media.

Nel tentativo di spazzare via qualsiasi tipo di immaginario che veda nell’attuale modo di produzione la causa e non la salvezza per le attuali pandemie, destinate soltanto a moltiplicarsi in futuro (qui), l’immaginario medico-politico istituzionale trasforma i vaccini in una sorta di panacea universale (sanitaria, economica e sociale) e conferma le ipotesi formulate da Foucault sull’«improvvisa importanza assunta dalla medicina nel corso del XVIII secolo», a partire dagli studi di Baldinger che, nel 1782, aveva definito la medicina “scienza dello Stato”, iscrivendola così nel campo definito vent’anni prima da T. Rau come “polizia sanitaria”, articolazione della più generale “scienza della polizia” o “scienza dell’amministrazione”»17.

La funzione di quella che era stata chiamata la «polizia universale della società» non è più, insomma, di preservare «l’ordine universale dello Stato e il bene pubblico» […] ma, come mostra Foucault rileggendo il Traité de police di Nicolas de La mare e l’«immensa letteratura» sulla Polizeiwissenschaft tedesca, è diventata quella di una tecnica che investe direttamente la vita degli uomini. essa si occuperà progressivamente di tutto ciò che deve assicurare la felicità degli uomini, di tutto ciò che deve ordinare ed organizzare i rapporti sociali. Vigila, infine, su tutto ciò che è vivente […] E’ l’atto di nascita di una politica che è «necessariamente una biopolitica». Ma, aggiunge, poiché «la popolazione non è nient’altro se non ciò di cui lo Stato si fa carico, naturalmente a proprio vantaggio, lo stesso Stato potrà, se necessario, condurla al massacro. La thanatopolitica è così il rovescio della biopolitica»18.

Su questa traccia Foucault arriverà alla selezione razziale operata dagli stati in nome della razionalità scientifica e alle leggi di Norimberga, ma questo esula da questo scritto. Mentre lo stesso tema della thanatopolitica, come rovesciamento della biopolitica, lo possiamo riscontrare, pur rimanendo nell’ambito delle risposte alla pandemia, nel fatto che intorno ai vaccini si sia accesa una vera e propria guerra imperialistica per il controllo del mercato mondiale delle cure per il Covid-19. Guerra autentica che da un lato vede il ricco bottino rappresentato dal raddoppio dei profitti realizzati in un anno dalle grandi case farmaceutiche in gara per la distribuzione del siero19, da un altro lo scontro tra Occidente, Russia e Cina per il controllo geo-strategico dello stesso mercato e da un altro ancora, last but not least, quello che vede i media e i politici fingere sdegno e versare lacrime di coccodrillo su coloro che non possono usufruire di cure mediche adeguate in vaste aree del globo.

Constatare che più di sei miliardi di persone molto probabilmente non potranno usufruire dei vaccini anti-Covid e, allo stesso tempo, strombazzare l’efficacia delle campagne di vaccinazione condotte tra gli anziani dell’Occidente oppure lamentare il taglio delle forniture dei vaccini per i paesi europei, dimenticando i milioni di bambini che, semplicemente, muoiono di fame o per non poter usufruire dei medicinali più comuni, fa parte di questo indegno spettacolo20, che rende evidente come, per l’immaginario occidentale, continuino ad esistere morti dal peso diverso e non comparabile. Una forma ultima e spietata di guerra per mantenere inalterata la “povertà” degli altri e che nella difesa ad oltranza della proprietà dei brevetti vede una delle sue autentiche armi di distruzione di massa.

Oggi, in tempi di pandemia e di democrazie blindate, il ruolo del discorso medico e scientifico sembra aver rafforzato anche un’altra funzione, “interna” agli stessi paesi dell’Occidente: quella regolamentatrice del lavoro. Intendiamoci bene, non quella sempre utile della medicina del lavoro e degli organismi addetti al controllo (sempre meno numerosi e sempre meno ascoltati) degli ambienti in cui questo si svolge. No, qui si tratta delle migliori modalità per poter condurre il lavoro, senza interromperlo, anche durante un’epidemia la cui gravità dichiarata ha costretto la popolazione a rinchiudersi in casa e i giovani e i bambini a rinunciare alla scuola in presenza.

Già in articoli comparsi su «Carmilla» nella primavera scorsa21 si era parlato della radicale trasformazione del lavoro che sarebbe avvenuta a partire dall’emergenza pandemica. In particolare si parlava dello smart working che, oggi, non a caso, è diventato l’elemento centrale del nuovo contratto degli statali e della riforma della pubblica amministrazione.

Sebbene una delle motivazioni che sarà addotta, tra le altre, sarà sicuramente quella di venire incontro alle necessità femminili (famiglia, gestione dei figli e di quella che una volta si sarebbe detta “economia domestica”), che sembrano essere sempre le stesse individuabili nell’immaginario maschile e patriarcale della “famiglia felice”, certamente tale forma di atomizzazione del lavoro, sempre più collegata al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati, andrà sicuramente a fracassare il rapporto tra contratto, orario e salario che da molto tempo costituiva una conquista per tutte le categorie di lavoratori dipendenti formalmente “garantiti” da un contratto collettivo.

Se è facile immaginare ciò che tale nuovo tipo di contrattazione, già benedetta dai rappresentanti della triplice sindacale tricolore, comporterà per i lavoratori dello Stato (mentre, nel frattempo, iniziano ad essere messe in discussione anche le ferie degli insegnanti), altrettanto facile è comprendere come essa già porti in seno quella trasformazione dei rapporti di lavoro in fabbrica che, da diversi anni a questa parte, costituisce il vero cuore o core business di ogni richiesta avanzata da Confindustria e dagli imprenditori nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni: legare il salario (e magari anche l’orario) alla produttività e al raggiungimento degli obbiettivi.

Il prossimo accordo sindacale dei metalmeccanici e di tutte le altre categorie produttive, una volta scardinata la difesa dei “privilegi” dei lavoratori dello Stato, non potrà vertere che su questo punto. Approfittando, come nel dopoguerra cui si fa così tanto riferimento citando ad ogni piè sospinto la Ricostruzione, dello sfinimento delle categorie sociali meno abbienti, della loro delusione e del loro completo disarmo politico e sindacale. E soltanto allora, dopo la fine del blocco dei licenziamenti, si comprenderanno appieno i sinistri riferimenti a Winston Churchill e alla sua promessa di “sangue, sudore e lacrime”.

Ecco allora che ciò che si diceva all’inizio sul disciplinamento dei corpi e delle menti, passato nella storia dell’Occidente prima attraverso l’istituzione dei conventi e, successivamente, degli eserciti di leva e ferma prolungata (dopo la guerra dei trent’anni, forse l’ultima guerra ad essere combattuta da eserciti quasi esclusivamente formati da mercenari), le caserme, le prigioni, i manicomi, le scuole e le fabbriche, potrebbe giungere una volta per tutte al suo coronamento: il corpo umano sfruttato come produttore/consumatore e la mente ridotta a software funzionale a tale sistema e alla sua “rete”.

Ha scritto un giorno Foucault che la sofferenza e la sventura degli uomini fondano «un diritto assoluto a sollevarsi». Viviamo oggi in un mondo in cui «tutto è pericoloso», come ripeteva spesso. Lo stesso sapere è diventato pericoloso, «e non soltanto per le sue conseguenze immediate a livello dell’individuo o dei gruppi di individui, ma addirittura al livello della stessa storia». In un mondo siffatto quel che ci resta (quel che si impone) è «una scelta etico-politica» sempre rinnovata per «determinare quale sia il pericolo principale»22.

(per Carlo, Arafat, i lavoratori di Piacenza e quelli di Prato in lotta, per Dana e la Valle che resiste, ma anche in memoria di Michel Foucault)


  1. Carl Schmitt, Teologia politica (1934) ora in C. Schmitt, Le categorie del politico, (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), il Mulino, Bologna 1972, p.33  

  2. Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Il Galeone editore, Roma 2020  

  3. “Sulle fibre molli del cervello è fondata la base incrollabile dei più saldi imperi” in Joseph Michel Antoine Servan (1737-1807), Discours sur l’administration de la justice criminelle, Genève 1786, p.35 (n.d.A.)  

  4. Michel Foucault, Lezione del 21 novembre 1973 in Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli editore, Milano 2010, pp. 48-49  

  5. Solo per fare un esempio: è di questi giorni la notizia che nel corso di un anno di “misure eccezionali” le forze dell’ordine hanno effettuato 47 milioni di controlli, per un totale di 37 milioni di persone…un bel database, non c’è che dire, sulle abitudini e gli spostamenti degli italiani  

  6. Michel Foucault, Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, Conversazione con J.-P. Kauffmann, «Le Matin», 225, 18 novembre 1977, p.15 ora in Michel Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 63  

  7. Si veda, ad esempio, Dario Fiorentino, Xenia Chiaramonte, Il caso 7 aprile. Il processo politico dall’Autonomia Operaia ai No Tav, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  8. Patrizia Floder Reitter, «Dire il falso per uscire non è reato» Giudice fa a pezzi i dpcm di Giuseppi, «La Verità», 12 marzo 2021, p. 6  

  9. cit. in Alessandro Fontana, Introduzione a Michel Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, p.XVIII  

  10. A. Fontana, op. cit., p. XVIII  

  11. Mauro Bertani, Postfazione a Michel Foucault, Nascita della clinica, op.cit., pp. 234-235  

  12. Si pensi che la sola Manhattan, una delle cinque divisioni amministrative della città di New York e la più densamente popolata, conta da solo 1.630.000 abitanti  

  13. Astra Zenechaos come ha titolato, martedì 16 marzo, il quotidiano francese «Le Soir»  

  14. Di queste dosi il 10%, 40 milioni, sono state opzionate dal governo italiano, che proprio su Astra Zeneca ha puntato per la vaccinazione di massa entro settembre.  

  15. Michel Foucault, Réponse à une question, «Esprit», 5, 1968 tradotto in A. Fontana op. cit., p. XXIV  

  16. Si veda ancora in proposito: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, op. cit.  

  17. Si veda, ancora, Mauro Bertani, op.cit., p. 237  

  18. ibid, pp. 238-239  

  19. Andrea Franceschi, Marigia Mangano, Per colossi e start up dei vaccini 35 miliardi di utili extra nel 2021, «Il Sole 24 Ore», 14 marzo 2021, p. 3  

  20. Raphael Zanotti, Quante persone vivono nei paesi senza vaccini. Sono 6.170.120.899 le persone nel mondo che non hanno a disposizione i vaccini, «Specchio», inserto di «La Stampa», 7 febbraio 2021  

  21. Oggi raccolti in Jack Orlando, Sandro Moiso, op.cit.  

  22. M. Bertani, op.cit., p. 253  

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Il razzismo, la democrazia e il male assoluto https://www.carmillaonline.com/2020/09/16/il-razzismo-la-democrazia-e-il-male-assoluto/ Wed, 16 Sep 2020 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62585 di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di [...]]]> di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di Norimberga nel 1935.
Molti studiosi, storici del diritto e non, avevano già in precedenza rilevato il collegamento tra i due regimi giuridici, ma, quasi tutti, hanno cercato poi di sminuirne il valore o, almeno, di separare e distanziare nettamente le due realtà, tendendo a negare che le Leggi Jim Crow possano davvero avere avuto importanza nella costituzione del modello nazista.

Invece, fin dalla Prefazione, Whitman afferma che:

Si dice spesso che il razzismo americano sia incompatibile con i valori della democrazia americana – e in particolare che lo schiavismo su base razziale abbia rappresentato una macchia sulla Fondazione, una contraddizione con le promesse della nuova repubblica. Ma […] democrazia e razzismo andavano a braccetto agli albori della storia americana […] E’ dura convincere le persone ad accettare di essere tutte uguali. Una delle strategie migliori per ottenere questo risultato, come sappiamo, è di farle unire contro un comune nemico razziale -convincendo bianchi poveri e bianchi ricchi, ad esempio, a unirsi nel disprezzo per i neri. John C. Calhoun, un personaggio oggetto di una lusinghiera biografia nazista nel 1935, descrisse i punti chiave di questa strategia nel 1821. Lo schiavismo su base razziale, diceva, era necessario in quanto si trattava della “migliore garanzia di eguaglianza fra i bianchi. Esso produce fra loro un livello di parità […]”.
Anche la politica nazista era una politica che promuoveva una forma di egualitarismo nello stile di Calhoun – egualitarismo per quelle persone che i nazisti consideravano membri del Volk, a spese di quelli che non lo erano. Quando esaminavano la mostruosa legislazione razziale americana all’inizio degli anni ’30, i giuristi nazisti stavano esaminando un qualcosa le cui fondamenta politiche non erano poi così diverse dalle loro. Entrambi i paesi erano culle di un egualitarismo fatto di risentimento razziale.1

Nelle pagine successive l’autore ci ricorda poi che, il 5 giugno 1934, i più importanti giuristi della Germania nazista si erano riuniti per progettare quelle che sarebbero poi diventate le Leggi di Norimberga, vero impianto legislativo su cui si sarebbe fondato, fino alla sua caduta, il regime.
In queste l’esclusione dai diritti dei cittadini non ariani, la loro emarginazione e successiva proibizione dei matrimoni misti, si sarebbe accompagnato ad una vera e propria definizione e creazione del “vero” cittadino nazista e della sua bandiera.

Fu una riunione importante, e uno stenografo presente produsse una trascrizione letterale, un documento che la diligentissima burocrazia nazista conservò a testimonianza di quello che era un momento cruciale nella creazione del nuovo regime razziale […] Nel corso dei minuti iniziali, il Ministro della Giustizia Gürtner presentò un promemoria sulle leggi americane sulla razza, una nota redatta con grande accuratezza dai funzionari del ministero proprio in vista di quell’incontro; e durante la discussione i partecipanti tornarono più volte ai modelli americani di legislazione nazista. E’ assolutamente sbalorditivo scoprire che tra i presenti, i nazisti più radicali fossero i più appassionati sostenitori della lezione che l’approccio americano offriva alla Germania. Questa trascrizione, inoltre, non è l’unica testimonianza dell’attenzione dei nazisti alle leggi razziali americane. Fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 molti nazisti, fra i quali persino lo stesso Hitler, mostrarono grande interesse per la legislazione razzista degli Stati Uniti. Nel Mein Kampf Hitler lodava l’America come niente di meno che “l’unico stato” che fosse riuscito a progredire in direzione di quell’ordine razzista che le Leggi di Norimberga miravano a realizzare […] Per dirla con le parole di due storici del Sud, negli anni ’30 la Germania nazista e il Sud degli Stati Uniti si guardavano “come allo specchio”: si trattava di due regimi apertamente razzisti e di straordinaria crudeltà. Nei primi anni ’30 gli ebrei tedeschi erano braccati, picchiati e talvolta assassinati sia da bande organizzate che dallo Stato stesso. Negli stessi anni, i neri del Sud americano erano a loro volta braccati, picchiati e talvolta assassinati.2

Certo nella vulgata comune la vicinanza tra i due sistemi è una realtà negata e difficile da digerire.

Quali che siano state le analogie fra i regimi razzisti degli anni ’30, per quanto disgustosa possa essere la storia del razzismo americano, siamo abituati a pensare al nazismo come a un orrore senza precedenti. I crimini nazisti rappresentano l’abominio, l’orribile sprofondare verso quello che viene spesso definito “male radicale”.3

Eppure, eppure… la realtà è, secondo l’autore, che l’interesse dei nazisti per l’esempio americano di leggi razziali «fu duraturo, significativo e in certi casi persino entusiasta. Sicuramente volevano imparare dall’America».
Prova ne sia che appena dopo la proclamazione della Legge sulla cittadinanza del Reich, di quella sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco e di quella sulla bandiera del Reich, quarantacinque avvocati nazisti salparono per New York sotto gli auspici dell’Associazione nazionalsocialista tedesco dei giuristi. Il viaggio fu una ricompensa per gli avvocati, che avevano codificato la filosofia legale basata sulla razza del Reich.

Lo scopo dichiarato della visita era quello di ottenere “uno speciale spaccato del funzionamento della vita legale ed economica americana attraverso studi e conferenze”. I precedenti americani ebbero così modo di informare altri cruciali testi nazisti, tra cui il Manuale socialista nazionale per la legge e la legislazione. Un saggio fondamentale in quel volume, le raccomandazioni di Herbert Kier per la legislazione razziale, dedicava un quarto delle sue pagine alla legislazione degli Stati Uniti, che andava oltre la segregazione includendo le regole che governano gli indiani d’America, i criteri di cittadinanza per filippini e portoricani e gli afroamericani, i regolamenti sull’immigrazione e divieti contro l’incrocio di razze in circa 30 stati. Nessun altro paese, nemmeno il Sudafrica, possedeva un insieme così sviluppato di leggi pertinenti.

Non si confonda quindi il lettore nel pensare agli Stati Uniti degli anni Trenta, quelli dell’età di Roosvelt e del New Deal e poi avversari del nazismo e dell’espansionismo nipponico dopo l’attacco di Pearl Harbor, come al regno della democrazia e del diritto. Il Partito Democratico aveva una buona parte delle sue radici e del suo elettorato proprio in quel Sud in cui le leggi segregazioniste erano particolarmente diffuse mentre, nello stesso periodo, anche i bianchi poveri e i piccoli contadini sfuggiti alle tempeste di polvere dell’Oklahoma avrebbero dovuto fare i conti con una nuova forma di segregazione di classe nei campi che “accoglievano” i migranti interni in California. In attesa di essere impiegati come manodopera e braccianti a bassissimo costo nelle grandi imprese agricole del Golden State.

Lavoro coatto nella sua forma schiavista (o quasi) che dagli afro-americani si era esteso al proletariato bianco, non troppo dissimile da quello che sarebbe diventato poi d’uso comune per i prigionieri di guerra e gli internati dei campi di concentramento che, nel corso del secondo macello imperialista, avrebbe caratterizzato economie e società di gran parte dei paesi belligeranti. Non soltanto in Germania.

Come afferma Whitman, l’intento della sua ricerca «è quello di raccontare una storia trascurata: la storia di come i nazisti, al momento della redazione delle Leggi di Norimberga, andarono a scavare nella legislazione americana in cerca di ispirazione. Ma è anche quello di interrogarci su cosa questo ci dica della Germania nazista, della storia moderna del razzismo, e soprattutto dell’America».

Molto spesso ricerche come quella del Whitman sono state tacciate, a torto o a ragione, di costituire una sorta di reductio ad Hitlerum, ovvero una tattica tendente a screditare qualcuno o qualcosa comparandolo ad Adolf Hitler o al nazismo tout court. Per alcuni interpreti tale tattica potrebbe poi avere, in alcuni casi, anche la funzione di ridurre le responsabilità politiche e morali del nazismo dimostrando che anche altri avrebbero operato in passato nello stesso modo.

Peccato però che anche tale interpretazione potrebbe servire a mascherare le responsabilità dei disastri militari, politici, economici e sociali (oltre che morali) tipici del modo di produzione attualmente dominante, la cui distruttività non è merito soltanto di singoli individui (Hitler o Trump, solo per citarne due fin troppo facili da indicare) o partiti, ma soprattutto delle insopprimibili regole di divisione di classe e di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta che ne costituiscono le fondamenta, fin dal suo primo apparire nel XVI secolo.

A ben guardare, poi, è proprio l’America di oggi, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni attraverso i canali televisivi e tutti gli altri media, a confermarci la ferocia del razzismo sotteso dalla libertà americana. Una pur rapida disamina dei recenti atti di violenza poliziesca nei confronti della popolazione afro-americana ci conferma infatti ancora che gli Stati Uniti, dalla loro originaria fondazione fino all’uccisione di George Floyd e a quelle successive verificatesi a Kenosha, Los Angeles e Washington, hanno fondato la loro struttura sociale su una rigida divisione etnica basata su quella che è stata definita “linea del colore” e, anche all’interno delle etnie escluse, su una ferrea divisione classista tra chi ha e chi non ha.

Lo stesso estensore della Dichiarazione di indipendenza, Thomas Jefferson, poteva infatti lanciare l’idea di una indefinita ricerca di uguaglianza e felicità cui sarebbe stato destinato il popolo americano, pur mantenendo nelle sua piantagioni 250 schiavi, dimostrando così nei fatti (nonostante la sua successiva promessa di contribuire a liberare tutti gli schiavi mai veramente andata in porto) come segregazione razziale e sfruttamento o sterminio delle altre etnie ad opera dell’uomo bianco non fossero che l’altra faccia della medaglia del progressismo liberale. Cosa che già anche Marx aveva notato, nel 1847 in Miseria della filosofia, affermando che la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo4.

Anche se è pur sempre indubitabile che se gli Stati Uniti sono entrati negli anni ’30 come l’ordine razziale più consolidato del globo, i percorsi di Norimberga e le leggi Jim Crow si sono svolti in modo molto diverso, uno culminante nel genocidio di massa, l’altro, dopo molte lotte, in conquiste dei diritti civili. Ma, come ha rilevato Ira Kratznelson, politologo e storico americano specializzato nell’analisi dello stato liberale e delle disuguaglianze negli Stati Uniti presso la Columbia University, in una recensione del libro di Whitman: «nessuna di queste conquiste, nemmeno la presidenza di un afroamericano, ha rimosso le questioni di razza e cittadinanza dall’agenda politica. I dibattiti attuali su entrambi i punti ci ricordano chiaramente che i risultati positivi non sono garantiti. Le stesse regole del gioco democratico – elezioni, open media e rappresentanza politica – creano possibilità persistenti di demagogia razziale, paura ed esclusione». Per cui occorre ricordare che se Donald Trump, da un lato, minaccia l’uso della forza e delle armi per riportare l’ordine nelle città in rivolta, dall’altro il candidato “democratico” Joe Biden, nel discorso tenuto proprio alla Grace Lutheran Church di Kenosha il 3 settembre, non ha mancato di ribadire che: “Non conta quanto sei arrabbiato, se fai razzie o appicchi il fuoco, devi poi risponderne. Punto. Non puo’ essere tollerato, su tutta la linea”.

Il male, quello vero che ci attanaglia in ogni luogo e in ogni momento, ha il volto di un modo di produzione giunto alla sua fase terminale e che sopravvive grazie al mantenimento delle sue strutture più arcaiche e odiose, destinate a reprimere e dividere subdolamente la massa di coloro che dovrebbero affossarlo per sempre. Di queste strutture, ed eterne exit strategy per il capitalismo, certamente il razzismo, negli Stati Uniti di Trump e dei suoi predecessori oppure qui nell’Italietta di Salvini, Minniti, Meloni, Di Maio e Conte, costituisce ancora uno degli aspetti più insopportabili e verminosi.

N.B.
In memoria di Michael Reinoehl, “100% Antifa” come era solito definirsi, ucciso dagli agenti federali giovedì 3 settembre a Lacey, Stato di Washington, per essersi attivamente opposto alla manifestazione suprematista di Portland la settimana precedente.


  1. J.Q. Whitman, Il modello americano di Hitler, pp.11-12  

  2. J.Q. Whitman, op. cit. pp.15-16  

  3. Ivi, pag. 16  

  4. Per una più approfondita disamina dell’evoluzione del pensiero e dell’analisi di Marx sullo schiavismo si veda: J. Bellamy Foster, H. Holleman e B. Clark, Marx e la schiavitù, Monthly Review, qui  

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Cattolici antisemiti 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/02/cattolici-antisemiti-2-2/ Tue, 02 Oct 2018 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48800 di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche [...]]]> di Armando Lancellotti

Marino Ruzzenenti, «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma, 2018, pp. 256, € 20.00

[Qua la prima parte della recensione]

Di notevole interesse sono le riflessioni che Marino Ruzzenenti propone a partire dallo studio del caso spagnolo cinquecentesco degli Estatutos de limpieza de sangre e per dimostrare e ribadire come tra antisemitismo cattolico, che si vorrebbe religiosamente fondato e antisemitismo razzista moderno, basato sul concetto pseudoscientifico di razza, non vi siano quelle differenze e distanze che invece gli storici cattolici, anche i più avveduti come Giovanni Miccoli, tendono a fissare con estrema fermezza. Quello spagnolo è proprio un esempio, il più chiaro ed importante storicamente, di razzializzazione degli ebrei, in quanto per gli Esatatutos, anche a fronte della conversione e del battesimo, il giudeo, rimaneva giudeo, il converso era comunque marrano.

Gli Esatutos servivano in buona sostanza proprio per escludere dalla vita civile e politica, dall’accesso alle cariche ecclesiastiche, politiche o militari i conversos, i cristianos nuevos, affinché rimanessero relegati nella condizione di casta inferiore rispetto ai critianos vejos, i veri spagnoli. Come a dire che – secondo Ruzzenenti a differenza di quanto sostenuto da Miccoli – in questo caso la condizione di “razza maledetta”, l’ebraicità considerata infamia judìa, non era affatto una condizione storica, storicamente determinata e quindi storicamente superabile con l’ingresso nella nuova fede, ma costituiva un qualcosa di sostanzialmente immodificabile, un dato di natura, una condizione razziale, appunto.

Gli Estatutos vennero introdotti a partire dal 1495, in una Spagna – considera Ruzzenenti – proiettata verso la creazione del suo impero, e che avvertiva fortemente l’esigenza di autodefinire se stessa, di darsi un’identità contrapposta a ciò che era percepito come “altro”, tanto che questo fosse un “diverso interno” (ebrei e mori), quanto che fosse “esterno” (gli indios). Analoga situazione si sarebbe riproposta secoli dopo nella Germania nazista, che, protesa verso la realizzazione del proprio “impero millenario”, avrebbe sentito il bisogno di fissare un’identità tedesca, di definire il germano, l’ariano e quindi anche la conseguente necessità di individuare un polo opposto, negativo, rispetto al quale determinarsi. Ed anche per il caso del fascismo italiano si possono avanzare considerazioni simili, se è vero – come ormai tutta la storiografia al riguardo sostiene – che il razzismo e l’antisemitismo italiani abbiano trovato il luogo della loro incubazione nell’Africa coloniale, dopo la proclamazione dell’impero abissino e con l’introduzione di pesanti provvedimenti razzisti e segregazionisti nei confronti delle popolazioni del Corno d’Africa e quindi in un momento, nella ventennale storia del fascismo, in cui il regime avvertiva l’esigenza di procedere speditamente alla costruzione di un “italiano nuovo”, pronto per affrontare oneri ed onori imperiali e quindi solidamente certo della propria identità e superiorità razziali.

Certo, nel caso dell’antisemitismo nazista e fascista sono chiari gli apporti della scienza che da fine Settecento e per tutto l’Ottocento aveva classificato e misurato crani, tratti somatici o pigmentazioni della pelle, aspetti questi che sarebbe anacronistico cercare nella Spagna del ‘4/500, dove la definizione delle categorie veniva operata sulla base prevalentemente di aspetti religiosi, ma tanto nell’uno quanto nell’altro caso, sul piano giuridico, quando cioè il legislatore dovette fissare criteri precisi di identificazione, si fece ricorso alla genealogia, nella convinzione – anche nella Spagna della prima età moderna – che la presenza in essa di parentele, anche lontane, di natura giudaica inquinasse inesorabilmente il sangue, non più limpido, non più spagnolo. Se ciò che si ritiene di dover difendere da corruzione è il sangue, risulta allora difficile, secondo Ruzzenenti, sostenere che l’antisemitismo cattolico sia stato solo di matrice religiosa, culturale e storica e non razziale. Gli Estatutos, quindi, servirono nella cattolicissima Spagna per creare una “casta”, una “razza” inesorabilmente e costitutivamente inferiore, cosicché i conversos rimanessero in una condizione di «permanente inferiorità civile e sociale» (p. 49), condizione che neppure l’acqua della fonte battesimale poteva modificare completamente.

Pertanto, nel caso di un antisemitismo che si vorrebbe presentare come solamente “religioso”, la genealogia e quindi la trasmissione dei caratteri da genitori a figli e discendenti – osserva puntualmente Ruzzenenti – servirono per definire chi fosse cristianos vejos o spagnolo e chi conversos o marrano, così come sarebbe successo negli anni Trenta del ‘900 per i Volljuden, i Mischlingen e gli ariani. E all’estremo opposto, cioè quello di un antisemitismo che si vorrebbe solo “razziale”, vista la difficoltà di utilizzare solo fattori genealogici e (pseudo)scientifici per la distinzione dei gruppi razziali, si fece ricorso, per l’applicazione delle Leggi di Norimberga, anche a criteri culturali e religiosi per individuare entrambi i poli dell’opposizione ariano-ebreo. Nel caso della definizione dell’ariano intervennero elementi come la lingua, la cultura, la religione, le tradizioni e i costumi, ovvero tutti quei fattori che cementavano il legame Blut und Boden tanto caro all’ideologia völkisch e, per classificare e determinare i Mischlingen o meticci, discriminanti erano anche aspetti religiosi come l’iscrizione ai registri della sinagoga o l’appartenenza e la frequentazione della comunità religiosa ebraica. Tutto ciò prova come la teoria di una precisa e netta separazione tra un razzismo solo religioso e uno solo razziale sia insostenibile e come il confine tra i due concetti sia impreciso e poroso e frequenti siano i punti di tangenza e sovrapposizione.

La seconda parte del lavoro di Ruzzenenti si concentra su aspetti e momenti dei rapporti tra antisemitismo e cattolicesimo interessanti e di cruciale importanza tanto quanto quelli sui quali in questa sede si è scelto di concentrare principalmente l’attenzione, ma senz’altro più noti ai lettori (e per questo qui di seguito considerati più superficialmente), poiché concernenti i pontificati di Pio XI e Pio XII, le relazioni tra la Chiesa cattolica e i regimi fascista e nazista ed infine la vexata questio della posizione della Chiesa di fronte alla Shoah. Nel caso italiano, Ruzzenenti parla di una evidente convergenza e di una duratura e proficua collaborazione tra fascismo e Chiesa cattolica, che però «non significò necessariamente perfetta consonanza, perché Chiesa cattolica da un canto e regime fascista dall’altro rappresentavano in modo diverso istituzioni “totalitarie”, con finalità proprie e distinte, in quanto tali tendenti a un primato esclusivo, che mal si conciliava con una pacifica cooperazione». (p. 96)

Ma, si potrebbe aggiungere, troppo importanti erano per entrambe le parti i benefici di quella alleanza, perché il sodalizio tra cattolicesimo italiano e fascismo non riuscisse a superare qualche motivo di screzio. Il caso tedesco fu, senza dubbio, diverso e più complesso per la Chiesa, che non usufruiva in Germania della posizione di monopolio assoluto assicuratale in Italia dai Patti lateranensi, in più era religione minoritaria rispetto al protestantesimo e dovette rapportarsi ad un regime che, a differenza di quello mussoliniano, che si ancorò senza reticenza alcuna alla tradizione religiosa cattolica italiana, aspirò a sostituirsi al cristianesimo, legando il popola a sé attraverso la fede laica del razzismo ariano.

Nella politica della Chiesa di pieno appoggio al fascismo e di collaborazione con il nazismo, l’antisemitismo non poteva che diventare elemento centrale e decisivo. Ruzzenenti studia le posizioni della Chiesa del tempo, come già fatto col pensiero di Toniolo, anche attraverso l’esame delle riflessioni di due figure centrali dell’intellighenzia vaticana: Agostino Gemelli, allievo di Toniolo, tra i fondatori del Ppi e soprattutto dell’Università cattolica e tanto altro ancora e Mario Bendiscioli, intellettuale cattolico, che poi sarà anche partigiano ed antifascista, ma che negli anni Trenta esprimeva le stesse posizioni ideologiche di Gemelli e delle componenti più reazionarie ed antisemite della Chiesa, come la più volte citata Civiltà cattolica.

Gemelli, convinto sostenitore del fascismo e tenace antisemita, colse nel Concordato l’occasione per compiere quella restaurazione della società cristiana dentro la modernità, ma contro di essa, che era già stato il progetto politico di Leone XIII, che permaneva anche in Pio XI e che era stato pensato pure da Toniolo. Numerose sono le affermazioni antisemite di Gemelli in interventi e discorsi pubblici, in cui il ricorso alla formula della perfidia giudaica conseguente al deicidio è frequente, al punto che si meritò pure l’apprezzamento – espresso mezzo stampa – di uno dei più fanatici antisemiti del regime: Roberto Farinacci. Bendiscioli tradusse il libro del francese naturalizzato inglese Hilaire Belloc – The Jews – testo di riferimento fondamentale per gli antisemiti del periodo e pubblicato poi da Vita e Pensiero di Gemelli nel 1934. Nel testo l’autore sosteneva la tesi della impossibile assimilazione degli ebrei e della necessità della loro separazione ed espulsione dal corpo della società; in sostanza si trattava di quella “segregazione amichevole” che la Chiesa fece propria e di cui si è già detto.

Sostiene Ruzzenenti che la Chiesa, a metà anni Trenta, con i suoi esponenti, organi ed ambienti antisemiti, per certi versi anticipò, quindi facilitò, lo scatenamento della campagna propagandistica antisemita italiana, che di lì a poco il fascismo avrebbe montato in maniera sempre crescente – anche nel contesto della svolta imperiale, della guerra d‘Etiopia e della politica demografica e razziale innescata da questa – e che poi sarebbe culminata nel famigerato e tragico 1938.

«Per conquistare il dominio del mondo, il giudaismo si serve delle due potenze più efficaci di dominazione del mondo: l’una materiale, l’oro, che è al presente il padrone assoluto del mondo, e l’altra ideale: l’internazionalismo. Quanto all’oro, già lo ha in massima parte in mano. Gli resta ad accaparrarsi del tutto l’internazionalismo. Il giudeo è per essenza internazionalista e cosmopolita. Internazionalista, perché il suo sogno messianico di dominazione mondiale non può conciliarsi con i nazionalismi; cosmopolita, perché, in ragione della sua adattabilità, si stabilisce da per tutto, e da per tutto è a casa sua» (p. 139)

Queste parole, in cui ritroviamo tutti gli stereotipi dell’antisemitismo e che facilmente si penserebbero pronunciate da un Giovanni Preziosi o da un Roberto Farinacci o urlate da un qualsiasi balcone d’Italia da Mussolini, furono invece scritte da un religioso – padre Barbera, direttore della Civiltà cattolica – nell’aprile del 1937 e costituiscono solamente uno dei numerosissimi esempi che Ruzzenenti propone per mostrare quanto la Chiesa fosse impregnata di antisemitismo ed impegnata in una politica antisemita su posizioni di sostanziale allineamento a quelle del regime.

Le divergenze circa la politica antisemita tra Chiesa e fascismo riguardarono principalmente due questioni, una giuridica e una teorica. La seconda era conseguenza del fatto che in «Italia vi erano i “razzisti biologici” alla Telesio Interlandi, poi direttore de La difesa della razza o gli “spiritualisti esoterici” alla Julius Evola, o “i fanatici antisemiti” alla Giovanni Preziosi o alla Roberto Farinacci, che riflettevano posizioni presenti in alcuni esponenti del nazismo». (p. 135) La Chiesa diffidava del razzismo “scientifico” ma soprattutto di quello “neopagano” ed anticristiano nazista e cercò in tutti i modi di far sì che l’antisemitismo italiano e fascista rimanesse fedele alla tradizione dell’antisemitismo cattolico. Insomma, vi era un antisemitismo “buono”, quello pensato e praticato dalla Chiesa, dai suoi più alti vertici e avvallato dal papa e uno “cattivo” perché anticristiano e neopagano. Proprio per evitare frizioni con il Vaticano – secondo Ruzzenenti – gli estensori del Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938 usarono certe parole e formule. Il punto 7 – È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti – infatti diceva: “La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano – nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono”.

Non è un caso che – fa notare Ruzzenenti – l’assenza di intenzioni filosofico-religiose, il carattere italiano dell’antisemitismo e la presa di distanza dall’antisemitismo nazista venissero immediatamente apprezzate dalla Chiesa attraverso la Civiltà cattolica, l’Osservatore romano e L’Avvenire d’Italia. E questo tornava comodo anche al regime che, in un paese in cui gli ebrei erano una esigua e quasi trascurabile minoranza, in cui l’emancipazione ottocentesca era avvenuta con successo e in cui non vi era un sentimento antisemita diffuso, il fascismo «cercò di tracciare un proprio percorso autoctono all’antisemitismo, con un’elaborazione in qualche modo originale, che nel caso italiano non poteva non raccordarsi all’unica tradizione antisemita nazionale, quella cattolica. […] Ciò che importa sottolineare è che la responsabilità di aver adottato una legislazione antisemita è da addossare interamente al fascismo e alla Chiesa cattolica che […] condivise quella scelta». (p. 156)

Per quanto concerne l’altro motivo di frizione, quello giuridico, riguardò la questione dei “matrimoni misti”, che le leggi del 1938 proibivano, con disappunto della Chiesa, intenzionata a tutelare, innanzi tutto, quanto stabilito dai Patti lateranensi, che riconoscevano valore civile al matrimonio religioso, dal pericolo di un’invasione di campo da parte del regime e, in secondo luogo, la possibilità di celebrazione del matrimonio tra un cattolico “ariano” e un ebreo “convertito”, quindi “cattolico” per la Chiesa, ma per il regime di “altra razza”. Come è facile comprendere, si trattava di una inezia, che non metteva minimamente in discussione l’impianto complessivo e lo spirito della legislazione antisemita del 1938, per la quale la Chiesa in più occasioni, attraverso i propri organi ufficiali, espresse chiari apprezzamenti. Ed inoltre, come doverosamente fa notare Ruzzenenti, nulla sarebbe cambiato per la sorte degli ebrei italiani, discriminati e perseguitati, se anche quel punto della legge, disapprovato dalla Chiesa, fosse stato emendato.

Anche in Germania e per le stesse ragioni, la questione dei matrimoni misti dal 1935 aveva dato il via ad una polemica tra Chiesa cattolica e regime nazista, a cui si aggiungeva però un motivo di critica e dissenso di superiore peso specifico. Si trattava di ciò che papa Pio XI espresse nella molto nota Mit brennender Sorge, del marzo 1937, dalla storiografia cattolica, ricorda Ruzzenenti, spesso citata con l’intento di avvalorare la tesi dell’opposizione al nazismo della Chiesa stessa. In realtà ciò che il papa esprimeva con quell’enciclica era la preoccupazione per la diffusione in Germania di un neopaganesimo nazista ed anticristiano dal Vaticano deprecato e di un etnicismo razzista assurto a ruolo di fede religiosa e pertanto inaccettabile per una Chiesa cattolica intenta nella restaurazione dell’ordinamento cristiano della società dentro alla modernità. Per le stesse ragioni, osserva Ruzzenenti, il testo più importante di Alfred Rosenberg, Il mito del XX secolo, in cui il massimo ideologo del nazismo ipotizzava una riforma religiosa che eliminasse il Vecchio Testamento e le radici ebraiche del cristianesimo, fu dalla Chiesa condannato e proibito. Erano il razzismo e l’arianesimo assurti a dogma religioso e le derive neopagane ed anticristiane del nazismo – con il conseguente rischio di una loro diffusione anche oltre la Germania – che preoccupavano il Vaticano, che si guardò bene però dal condannare il nazismo in quanto tale, dal ridiscutere o sospendere il Concordato col regime hitleriano firmato nel 1933, dal denunciare la barbarie delle Leggi di Norimberga.

Marino Ruzzenenti in questo suo denso libro di poco più di duecento pagine fornisce un quadro estremamente dettagliato e complesso della problematica affrontata e suggerisce numerose piste di indagine per ulteriori studi e ricerche e rende evidente come, da parte della Chiesa cattolica, considerata la portata e la lunghissima storia del suo coinvolgimento nella questione dell’antisemitismo, sarebbero opportuni dichiarazioni ed atti ben più autocritici delle omertose parole del documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (1998), stilato dalla Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo della CEI, durante il pontificato di Giovanni Paolo II.

[Qua la prima parte della recensione]

 

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