legge – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 In ricordo di Vincenzo Ruggiero https://www.carmillaonline.com/2024/02/04/in-ricordo-di-vincenzo-ruggiero/ Sun, 04 Feb 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81078 di Gioacchino Toni

In occasione della recente scomparsa di Vincenzo Ruggiero è doveroso tributargli un ricordo su “Carmilla online”. Chi scrive ha conosciuto e frequentato Vincenzo a Londra nei primi anni Novanta mantenendo nel tempo con lui un rapporto di amicizia. Signorile nei modi come, a volte, soltanto chi è di origini sottoproletarie sa essere, Vincenzo amava intrattenersi con le persone più diverse e farle incontrare tra loro. Frequentarlo significava imbattersi in intellettuali radicali così come in devianti dalla retta via refrattari ad accettare il presente e il futuro loro riservato da questo mondo, oppure in artisti, attori o musicisti fuori [...]]]> di Gioacchino Toni

In occasione della recente scomparsa di Vincenzo Ruggiero è doveroso tributargli un ricordo su “Carmilla online”. Chi scrive ha conosciuto e frequentato Vincenzo a Londra nei primi anni Novanta mantenendo nel tempo con lui un rapporto di amicizia. Signorile nei modi come, a volte, soltanto chi è di origini sottoproletarie sa essere, Vincenzo amava intrattenersi con le persone più diverse e farle incontrare tra loro. Frequentarlo significava imbattersi in intellettuali radicali così come in devianti dalla retta via refrattari ad accettare il presente e il futuro loro riservato da questo mondo, oppure in artisti, attori o musicisti fuori moda per scelta o condannati ad esserlo o, ancora, in chi si trovava, a distanza di tempo, a dover fare i conti con un passato turbolento. A cena con lui facilmente tutta questa umanità si mescolava tra le nuvole di fumo delle sue, tante, Nazionali o Gauloises rigorosamente senza filtro. Da lui si imparava soprattutto a infrangere i pregiudizi ed a guardare le cose e le persone da altri punti di vista rispetto a quelli spacciati come unici dal buonsenso comune e dagli accademici accomodanti e riappacificati con il mondo.

Vincenzo Ruggiero rientra sicuramente tra gli studiosi di spicco della sociologia e della criminologia critica contemporanea. A lui si devono imprescindibili studi sulle devianze e sugli aspetti criminali del potere. Autore di una produzione saggistica davvero sterminata, basti osservare l’elenco dei suoi principali lavori riportati dal sito della Middlesex University di Londra ove, oltre a dirigere il Crime and Conflict Research Centre, ha insegnato Sociologia occupandosi in particolare di sistemi penali, violenza politica, movimenti sociali, crimine, conflitto e controllo.

In Vincenzo è difficile distinguere l’intervento accademico da quello militante. Egli è stato tra gli animatori di “Senza Galere” e di “Controinformazione”, insieme ad Ermanno Gallo, ed occuparsi di carcere e carcerazione – non solo politica – su posizioni abolizioniste non è mai stato facile in questo paese. A ricordarlo è lui stesso in un intervento in cui rendeva omaggio allo scomparso Primo Morioni: «Occuparsi di carcere negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo era come pronunciare una sorta di auto-denuncia; il carcere veniva considerato il luogo per eccellenza nel quale la “sovversione” doveva essere annientata, ma simultaneamente il luogo dove la stessa sovversione poteva divulgarsi. I comitati per la difesa dei detenuti politici venivano presi di mira dagli inquirenti e dai mass media in quanto “agenti esterni e interni” della lotta armata, organismi di trasmissione del dissenso e della rivolta tra militanti in custodia e complici o simpatizzanti in libertà». Così Vincenzo ha elencato ciò che secondo lui (e il sodale Primo) costituiva e costituisce l’universo carcerario:

il carcere è una fabbrica che produce criminalità, una sorta di scuola di avviamento al lavoro extra-legale; il carcere non è rivolto ai detenuti, ma a coloro che esigono continue rassicurazioni in merito all’esemplarità della propria condotta; il carcere è il tributo pagato da chi non riesce a dimostrare che la sua condotta è meno dannosa di quella di coloro che lo condannano; il carcere non è altro che un periodo di riposo violento, una forma di cassa integrazione degradante e non pagata, per chi viene espulso dal ciclo dell’economia criminale in quanto “esuberante”; il carcere, in periodi e sistemi di piena occupazione, seleziona forza lavoro coatta, alla quale affida le mansioni più avvilenti e faticose; è carcere produttivo (si vedano i gulag sovietici); il carcere, in periodi di esuberanza di lavoro, assume funzione distruttiva, deve eliminare il surplus di energie disposte ad occuparsi: è carcere improduttivo che sa soltanto annientare; il carcere, quando inflitto ai minori, è una forma di nonnismo sociale erogato a chi deve “pagare” per diventare come la maggioranza degli adulti; il carcere, quando inflitto alle donne, è un avvertimento affinché non diventino come gli uomini; il carcere, quando inflitto agli stranieri, è un monito rivolto a tutte le persone socialmente vulnerabili: non crediate di poter commettere reati senza possedere status, protettori, alleati e complici nel mondo ufficiale; il carcere traduce in sofferenza la nozione volgare di scambio e commercio: il creditore si appropria del corpo e della mente del debitore, che è incapace di farsi commerciante; il carcere non intende risocializzare, ma soltanto vendicarsi, producendo handicap psico-fisici; il carcere serve ad abbassare le aspettative sociali di chi lo subisce: una volta in libertà, gli ex detenuti accetteranno qualsiasi occupazione e retribuzione; il carcere è l’estensione del mercato del lavoro sommerso, destinato a chi si trova suo malgrado in una “porta girevole” che lo conduce periodicamente dal lavoro mal retribuito al lavoro semi-legittimo, da qui al lavoro extra-legale e, appunto, alla detenzione; il carcere, in quanto crea opportunità di lavoro, è un contributo, una tassa, estorta da chi altrimenti sfuggirebbe al computo fiscale; il carcere eroga servizi in condizione coercitiva a chi quei servizi non ha ricevuto in libertà; il carcere è un deposito di esseri umani, un concentrato di problemi creati da chi non è in grado di risolverli; il carcere è parte dell’industria della sicurezza, troppo remunerativa per concepirne l’abolizione1.

Su “Carmilla online” è stato dato spazio  diverse volte alle analisi da lui prodotte, a partire dal suo articolo I rifugiati politici italiani in Francia, concepito originariamente per un pubblico non italiano, per una rivista di sociologia critica del diritto2 circolante nelle maggiori università del mondo,  tradotto e pubblicato in italiano sulla rivista “Vis-à-vis. Quaderni per l’autonomia di classe” nel 1994 e riproposto da “Carmilla online” nel 20043. Si tratta di un pezzo riguardante l’enormità della situazione dei rifugiati politici in Francia nota in questo paese soprattutto tra i meno giovani militanti della sinistra e pressoché sconosciuta all’estero. L’intenzione dell’autore è stata perciò quella di documentare una storia e denunciare una condizione di cui pochi erano a conoscenza.

Di seguito si riprendono, in ordine meramente cronologico, gli scritti che su “Carmilla online” si sono occupati di alcuni dei suoi tanti libri.

Dopo una serie di conferenze e articoli in cui Ruggiero ha fatto ricorso a testi letterari e artistici al fine di spiegare determinati concetti sociologici, e dopo aver guardato alle stampe di Giovan Battista Piranesi, alle sue “prigioni della mente”, per spiegare l’essenza immateriale del carcere contemporaneo, e ad alcuni scritti di Daniel Defoe per ragionare sulla differenza tra “affari appropriati” e “affari non appropriati” e sulla “legittimità morale” degli affari, lo studioso ha deciso di selezionare alcuni classici della letteratura per ragionare sulle principali questioni concernenti criminalità e controllo sociale, nella convinzione che l’immaginazione letteraria possa davvero fornire contenuti essenziali all’argomentazione razionale.

È da tale convincimento che nasce Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura (Il Saggiatore, 2005), originale testo in cui alcuni classici della letteratura – di Fëdor Dostoevskij, Albert Camus, Miguel de Cervantes, John Gay, Bertold Brecht, Charles Baudelaire, Jack London, Émile Zola, James Baldwin, Richard Wright, Herman Melville, Thomas Mann, Mark Twain, Victor Hugo, Octave Mirbeau e Alessandro Manzoni – vengono letti sociologicamente, con la convinzione che la finzione possa essere più importante della sociologia, in quanto «la finzione possiede la parola e la parola conquista le idee»4.

Nel volume La violenza politica (Laterza, 2006) l’autore si è invece soffermato sul rapporto tra violenza istituzionale (dall’alto) e violenza anti-istituzionale (dal basso) partendo dagli strumenti concettuali della criminologia, polemizzando con le omissioni di comodo di numerosi studiosi a proposito della “violenza politica”. Ad essere qua affrontate sono le diverse varianti di violenza istituzionale ed anti-istituzionale e le teorie e le definizioni specifiche delle diverse epoche5.

All’inizio del 2023, intervenendo sullo sciopero della fame portato avanti dall’anarchico Alfredo Cospito condannato a forme di reclusione disumane, proprio per non limitare la questione alla sproporzione tra la pena ed i reati di cui era stato accusato ed a denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti, a chi scrive è sembrato utile invitare a una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei riprendendo il volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011) recensito su “Carmilla online” una decina di anni prima6.

Nel passare in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni, Vincenzo non si è limitato a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma ha voluto occuparsi della questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo. Il pensiero abolizionista a cui ha inteso rifarsi emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena.

Con Perché i potenti delinquono (Feltrinelli, 2015) Vincenzo ha voluto introdurre all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, la tendenza dei potenti ad arrogarsi il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.

L’approccio proposto da Vincenzo ha voluto capovolgere l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, ha sostenuto lo studioso, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. In questo testo, forte del suo approccio legato alla criminologia critica o radicale in cui ci si interessa più del danno sociale che non della definizione ufficiale di criminalità, Vincenzo non si è limitato a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma ha voluto prestare attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. In coda alla recensione di questo volume pubblicata su “Carmilla online” il 28 ottobre 2015, l’autore ha risposto anche ad alcune domande che gli sono state sottoposte a proposito di tali questioni7.

Le riflessioni proposte da Vincenzo nel libro Violenza politica. Visioni e immaginari (DeriveApprodi, 2021) aiutano a comprendere meglio le dinamiche di alcune forme di rivolta urbana, che ormai da tempo si susseguo su scala internazionale e caratterizzate, al di là dell’elemento scatenante – che può essere l’ennesimo episodio di violenza poliziesca nelle periferie delle grandi città, una pratica di gentrificazione selvaggia nelle metropoli o di distruzione dell’ambiente ecc. – da una logica economica che non esita a soffocare ed eliminare tutto ciò che rallenta il suo cammino. Secondo l’autore, l’analisi della violenza – condotta attraverso prospettive derivate dalla criminologia, dalla teoria sociale, dalle scienze politiche, dalla critica del diritto, dalla letteratura e, più in generale, dalle opere di finzione –, può contribuire a spiegare la formazione e la distribuzione sociale del potere nel corso del tempo. Nell’analizzare la violenza sistemica e istituzionale, i comportamenti delle folle, i tumulti, le sommosse e le rivolte, il terrorismo e la guerra, lo studioso scorge nella violenza politica, oltre che l’origine di alcuni dei pericoli che attraversano la contemporaneità, un potenziale di emancipazione e liberazione8.


  1. Vincenzo Ruggiero, Perché la pena?, in Archivio Primo Moroni, pubblicato originariamente sulla rivista “Come”, 2007.  

  2. “Crime, Law and Social Change”, Vol. 19, n. 1, 1993  

  3. Vincenzo Ruggiero, I rifugiati politici italiani in Francia, in “Carmilla online”, 10 Marzo 2004.  

  4. Vincenzo Ruggiero, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, Il Saggiatore, Milano 2005. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Devianza e letteratura 1/2, in “Carmilla online”, 24 dicembre 2006 e Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Devianza e letteratura 2/2, in “Carmilla online”, 26 dicembre 2006.  

  5. Vincenzo Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero: Il sogno di Prometeo e l’ignobile carneficina. Un inno agli antieroi, in “Carmilla online”, 14 Settembre 2006.  

  6. Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2011. Gioacchino Toni, Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena, in “Carmilla online”, 6 gennaio 2012.  

  7. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Roma 2015. Gioacchino Toni, L’essenza criminale del potere. V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Recensione e intervista all’autore, in “Carmilla-online”, 28 ottobre 2015.  

  8. Vincenzo Ruggiero, Violenza politica. Visioni e immaginari, DeriveApprodi, Roma 2021. Gioacchino Toni, Leggere le rivolte metropolitane, in “Carmilla online”, 16 febbraio 2021.  

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Un enigma letterario: la trilogia di Gormenghast https://www.carmillaonline.com/2023/01/17/un-enigma-letterario-prime-riflessioni-sul-tito-di-gormenghast-di-mervyn-peake/ Tue, 17 Jan 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75520 di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].» «Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto. […] [...]]]> di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].»
«Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto.
[…] «E ora fammi vedere mio figlio» disse il Conte, lentamente.
«Mio figlio Tito. È vero che è brutto?» (Tito di Gormenghast – Mervyn Peake)

E’ un paesaggio a dir poco desolato quello che circonda il castello dei Conti de’ Lamenti, dominato dall’aspro e altissimo monte Gormenghast e costituito da lande in cui dominano la polvere e la pietra oppure terreni paludosi sconfinati e in cui la vegetazione è costituita da cactus, foreste di rovi impenetrabili e boschi di alberi ritorti e minacciosi. Lo stesso castello millenario che prende il nome dal monte soprastante sembra costituire, con la sua struttura labirintica e tentacolare definita da secoli di bizzarrie architettoniche volute da settantasei generazioni della stessa famiglia nobiliare, una diretta emanazione e continuazione delle rocce e delle cavità che caratterizzano la montagna.

Gli abitanti del gigantesco maniero sono tutti grotteschi nelle movenze e nell’aspetto, sia che si tratti dei rappresentanti della aristocratica famiglia che dei servitori. Storpi, magrissimi, gobbi, grassi oltre ogni dire, deformi oppure dotati di nasi lunghissimi e volti equini. Portatori, tutti, delle stimmate del proprio egoismo incise nelle posture assunte e nel fisico. Il conte Sepulcrio e la gigantesca contessa Gertrude, la figlia pre-adolescente Fucsia e le zie gemelle, sorelle del conte, Clarice e Cora; la piagnucolosa balia settuagenaria Mamma Stoppa, il segaligno e torto (nel corpo e nell’animo) maggiordomo Lisca, il grasso sadico e perverso capo-cuoco Sugna, il dottor Floristrazio e la sorella Irma, insieme all’autentica anima nera rappresentata dal giovane Ferraguzzo, ragazzo di cucina che grazie alla sua mente perspicace e freddamente calcolatrice scala le più infide e infime trame delle gerarchie di un mondo che non vuole conoscere e riconoscere altro da sé. Tutti intenti a danzare un mostruoso e sgraziato minuetto ritmato da regole e leggi, riti e doveri improbabili che soltanto il vecchissimo Agrimonio, maestro di cerimonie, e successivamente il figlio Barbacane, zoppo e perennemente in guerra con tutti coloro che lo circondano, conoscono e dettano quotidianamente. Al Conte e a tutta la servitù.

Ma anche gli abitanti del piccolo e malsano borgo che si è sviluppato vicino alle pareti e alle rocce del castello non sono da meno. L’unica loro attività sembra essere quella di intagliatori di sculture di legno, attività artigianale riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile che viene valutata annualmente dal Conte stesso e premiata con l’esposizione delle opere migliori in una galleria dimenticata del castello, e mai visitata da nessuno, custodita dal sonnolento e indolente Stoccafisso. Uomini e donne del borgo conservano però una certa grazia e bellezza fino al compimento del diciannovesimo anno di età, momento in cui la pelle incartapecorisce e la bruttezza della vecchiaia prende il posto dell’aura della giovinezza.

Tra gli stessi non vi è nessuna forma di comunitarismo, se non quello rappresentato dalla dipendenza dal castello e dai suoi nobili proprietari. Anzi la rivalità, sul piano artistico e personale può raggiungere livelli di odio e violenza abissali. Come dimostra la vicenda di Keda la, momentaneamente, bella e giovane vedova del più famoso, e vecchio, scultore del borgo senza nome, divisa tra l’amore per due giovani e abili intagliatori rivali, Rantel e Braigon. Un triangolo amoroso destinato ad una drammatica e sanguinosa conclusione. Anche se una bimba, partorita in seguito da Keda, ne rappresenterà il frutto dopo la tragica scomparsa dell’ormai invecchiata madre.

Nella Presentazione anteposta all’attuale edizione italiana della trilogia, Anthony Burgess1 avverte i lettori che «sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan (Tito di Gormenghast nella traduzione italiana – NdR) alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico»2.
Eppure, eppure…

Forte rimane la tentazione di interpretare il gotico sogno di uno scrittore, Mervyn Peake (1911- 1968)3, tormentato per gran parte della vita da depressioni e crisi che lo avrebbero progressivamente portato all’irreversibile malattia mentale e alla morte, in chiave simbolica e allegorica, anche perché la monumentale trilogia del “mondo” di Gormeghast e il suo giovane principe Tito, può davvero essere considerata come uno degli enigmi della letteratura fantastica del Novecento. Il cui motivo del contendere non è offerto soltanto dalle numerose e svariate interpretazioni che è possibile dare di un testo che considerare labirintico è ancora troppo poco e la cui scrittura dipinge sotto gli occhi del lettore strati su strati di situazioni rinviabili ad infiniti tòpoi, personaggi e situazioni della letteratura gotica, grottesca o orrorifica.

L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica’, ma il termine è inadeguato. Leggendo Titus Groan abbiamo l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo col dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore dovrà prendere i personaggi molto sul serio4.

E la stessa difficile collocazione dell’opera (Fantasy? Gotica? Diario indiretto di una “lucida” e progressiva follia? Espressione del malessere di un secolo, il Novecento, che già Kafka aveva anticipato?) a costituire una parte dell’enigma. Difficoltà data sia dalla sua struttura che dal progressivo peggioramento delle condizioni della salute mentale del suo autore sia, ancora, dal suo inserimento in un catalogo, quello di Adelphi, voluta da Roberto Calasso, un intellettuale magmatico e controverso, che nel corso di un cinquantennio ha fatto conoscere ai lettori italiani titoli e autori, spesso osteggiati da altri editori oppure dalle consorterie politico-culturali cattoliche e tardo zdanoviste o, ancora, fasciste.

Autori che spesso praticavano una letteratura di carattere fantastico, passando per il noir, la fantascienza di Theodor Sturgeon, la letteratura americana del Sud immaginato e descritto da William Faulkner, le opere di Antonin Artaud e Nietzche, la Mitteleuropa di Joseph Roth e Karl Kraus, le grandi mitologie e religioni, il nichilismo e i testi iniziatici (o supposti tali). Un direttore e un indirizzo editoriale che è stato sempre poco amato, se non apertamente osteggiato, sia dalle correnti estreme della Destra politica e cattolica che dalla Sinistra osservante dell’ortodossia più dogmatica e d’antan.
Lasciamo, però, ancora una volta che a parlare sia Anthony Burgess:

Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 19465. L’autore aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventura del protagonista e l’elaborazione del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950)6 e in Titus Alone (1959)7 i quali però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo.
[…] Peake si è attirato lodi, ma anche sospetti. Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft8.

Sospesi tra le atmosfere delle opere di Franz Kafka (dalla Metamorfosi a Il processo oppure Il castello) e, a tratti del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Ionesco, dando vita ad un universo in cui non esistono il Bene e il Male e nemmeno un Dio, ma in cui a valere sono soltanto i riti, le tradizioni e le regole che si tramandano di generazione in generazione, divenendo sempre più assurde e incomprensibili ma pur sempre irrinunciabili per i detentori del Potere e il suo mantenimento, i tre romanzi di Mervyn Peake potrebbero costituire per chi, come il sottoscritto, non ha mai particolarmente amato l’opera di Tolkien, una valida alternativa al Signore degli Anelli, altra monumentale trilogia della letteratura fantasy e fantastica.

A far da contraltare all’opera di J. R. R. Tolkien può contribuire il fatto che in quella di Peake l’eroe è quasi del tutto assente o, perlomeno, al termine del primo romanzo non ha ancora compiuto il secondo anno di età, costituendo per le quattrocentosessanta pagine che lo compongono più un oggetto della storia narrata che il soggetto. Ancor di più, però, a fare del Gormenghast un’alternativa al Lord of the Rings contribuisce il fatto che mentre nel secondo gli eroi devono riportare o ricostruire l’ordine sconvolto dal ritorno di Sauron e del Male che rappresenta, nel primo è proprio l’invadenza e il predominio dell’ordine dato a costituire la causa del disagio e dello scontro tra i diversi interpreti del dramma.

Il mondo di Gormenghast, a differenza della Terra di mezzo, non è un luogo pacifico dove gli appartenenti alle varie razze umane o diversamente umane (elfi, nani, hobbit, uomini) potrebbero, soltanto con un po’di buona volontà, collaborare pacificamente e condurre tranquillamente le loro bonarie (hobbit), scorbutiche (nani) e illuminate (elfi) esistenze a fianco degli uomini se non fosse per il ritorno di un Male antico e odioso, destinato a riportare il buio là dove dovrebbe risplendere soltanto la luce.

No, quello disegnato da Peake è un mondo di conflitti, più o meno malcelati, dove solo la tradizione, le leggi e i riti più antichi possono impedire la “naturale” dissoluzione di un ordine che costituisce non soltanto “una certa qual massiccia corposità architettonica”, ma anche l’intero orizzonte in cui tutti i personaggi si muovono, senza alcun riguardo o curiosità per ciò che potrebbe estendersi oltre i suoi confini.

Non vi è divisione tra Bene e Male nel Titus Groan, non vi è religione o magia se non quella della celebrazione dei riti fini a se stessi. Non c’è sacralità né, tanto meno, un’autorità morale o spirituale superiore, cui far riferimento. Non ci sono neppure una vera scienza o un vero raziocinio, esiste soltanto la Legge, che non è possibile interpretare, ma soltanto seguire. Tanto che la vecchia biblioteca, dove il conte Sepulcrio passa la maggior parte del suo tempo, prima del suo incendio e della sua distruzione, è composta per la maggior parte da testi scritti dagli antenati dello stesso.

Un tempo fermo, apparentemente immobile, che solo Tito potrà forse, un giorno, scuotere o abbandonare. Ma questo al termine del primo romanzo del ciclo non è ancor dato sapere. L’ordine e la pace, in tale contesto, non costituiscono una conquista, ma un”obbligo” noioso e mortifero. Siamo ad anni luce di distanza dall’epica tolkeniana. In un mondo in cui il sole sorge ad est e tramonta a ovest, esiste il petrolio e insieme ad esso molti altri oggetti del viver quotidiano inglese tra XIX e XX secolo.

Il dubbio che sorge, nel lettore, è costituito dal fatto che, al di là di quanto affermato da Burgess nella Presentazione, quella dipinta da Peake sia un’allegoria della società inglese successiva al secondo conflitto mondiale: un ordine che ha perso pezzi importanti del proprio impero, ma che vuole mantenersi immutabile con suoi riti e le sue tradizioni. Come anche i recenti funerali della regina Elisabetta II e la saga infinita della famiglia reale (Carlo ora Carlo III, Diana, Camilla, Harry, Meghan, William e consorte) sembrano ancora confermare (grazie anche alle serie televisive prodotte da Netflix).

Se sia davvero così non è dato sapere con certezza, ma certo la carica nichilista ed eversiva contenuta non soltanto nelle pieghe del romanzo fa sì che lo stesso finisca coll’acquisire un significato devastante nei confronti dei sistemi di potere, anche per l’attuale vigente in un Occidente che non vuole riconoscere ordine altro dal proprio, che lo pone in uno spazio ben diverso e provocatorio rispetto a quello che, anche a sinistra, si è voluto definire per l’opera di Tolkien nel suo insieme. Tanto che anche lo stesso Burgess è costretto ad ammettere che nelle pagine del romanzo:

Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso?
Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampa del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico9.

Allora, soltanto per giungere a una prima conclusione, il vero enigma del Gormenghast sta forse proprio nel chiedersi perché tanta cultura pretesa alternativa o di sinistra abbia speso tanto tempo nel contendere alla destra un ciclo sostanzialmente tradizionale come quello del Signore degli Anelli e abbia tralasciato di prestare attenzione a un ben più feroce e sovversivo esempio di critica dell’ordine esistente come quello rappresentato dal ciclo comunque epico di Peake. Forse perché la tradizione manichea che accomuna certa destra e certa sinistra, con la rigida divisone tra Bene e Male, è destinata ad essere l’ultima a morire? Speriamo, sinceramente, di no.


  1. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 1917 – Londra, 1993), è stato scrittore, critico letterario, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista e traduttore. E’ considerato uno dei più importanti autori inglesi del secondo dopoguerra e tra le sue opere più significative vanno annoverate: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1962), Notizie dalla fine del mondo o La fine della storia (The End of the World News: An Entertainment, 1982) e la Trilogia malese (Malaysian trilogy, 1958-1960). Nei suoi romanzi uno dei temi centrali è costituito dall’uomo schiacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici e oppresso dagli apparati dello Stato. Nella Trilogia malese ha descritto il crepuscolo nel quale si è chiusa la dominazione inglese nelle colonie dell’Estremo Oriente.  

  2. A. Burgess, Presentazione in M. Peake, Gormenghast. La Trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, p. 13  

  3. Mervyn Peake fu, oltre che scrittore, poeta, pittore e affermato illustratore di libri per l’infanzia e non soltanto, come dimostra la tavola qui accanto in cui sono raffigurati alcuni personaggi del suo romanzo: Ferraguzzo, Fucsia, Signa e Lisca  

  4. A, Burgess, op. cit., pp. 10-11  

  5. In Italia per la prima volta nel 1981 per Adelphi e con il titolo già precedentemente citato: Tito di Gormenghast  

  6. In Italia: Gormenghast, Adelphi 2005  

  7. In Italia: Via da Gormenghast, Adelphi 2009  

  8. A. Burgess, op. cit., p. 10  

  9. Ibidem, p. 13  

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La contro-idea abolizionista https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/la-contro-idea-abolizionista/ Sun, 01 Jan 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75292 di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, [...]]]> di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, perennemente in preda a beceri istinti forcaioli, nonostante la cortina di silenzio  eretta attorno a tale incredibile vicenda abbia di fatto negato ai più anche semplicemente di conoscere sufficientemente gli eventi, nonostnte tutto le espressioni di solidarietà nei confonti del detenuto non mancano.

Soffermarsi sulla palese sproporzione tra i reati di cui si parla e la pena a cui è sottoposto Cospito può e deve essere un punto di partenza non solo per denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti e quanto siano disumane le modalità di dentezione e la condanna senza fine pena che toccano lui come altri reclusi, ma anche per aprire una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei.

A tal proposito può essere di qualche utilità riportare una recensione pubblicata su “Carmilla” ormai una decina di anni fa (06/01/2012) relativa al volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011).

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Il testo passa in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni. L’autore non si limita a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma affronta la questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo.

Il pensiero abolizionista emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena. Una coraggiosa, radicale e controcorrente riflessione su tali questioni può essere salutata come una boccata di ossigeno per un cervello che, ultimamente, pare davvero, in questo paese, essersi accontentato di un’ora d’aria al giorno.

Il saggio inizia con l’analizzare il pensiero abolizionista a partire dal rigetto della netta distinzione tra bene e male. L’abolizionismo non resta, però, insensibile a tale distinzione ma evita di ordinare gerarchicamente i valori in quanto ciò richiederebbe una parità di vantaggi da parte di chi li adotta; gli atti illegittimi non risultano per forza di cose ingiusti se non sono derivati da una libera scelta. Sviluppando la riflessione amorale di Spinoza, in cui bene e male sono da intendersi come concetti relativi, l’abolizionismo sostiene che la probabilità che le azioni compiute vengano classificate o meno come criminali dipende dalle opportunità sociali.

Il sistema della giustizia criminale tende a sottrarre i conflitti alle parti direttamente coinvolte e a separare l’individuo dal contesto ove il fatto si è dato. L’intervento istituzionale nelle situazioni problematiche tende a cancellare un’etica di responsabilità condivisa in favore di una responsabilità individuale, determinando così una sorta di monopolio istituzionale circa il potere di punire o meno.

La legislazione criminale si presenta come espressione di un conflitto e, in un contesto in cui vige una sostanziale ineguaglianza, sono le componenti dotate di maggior potere a criminalizzare le condotte di chi ne detiene meno. I detentori del potere delegano l’applicazione della legge criminale a organizzazioni professionali che finiscono con l’incidere profondamente sulla percezione del crimine e sulle forme da attuare per combatterlo. La legislazione criminale determina una costruzione di realtà: il soggetto in causa viene separato dal contesto in cui ha agito e viene a forza inserito all’interno di una gamma di eventi e condotte limitata.

A proposito della questione carceraria vengono passati in rassegna dall’autore le riflessioni di diversi studiosi. In Kant la punizione è un imperativo categorico; i crimini rendono gli autori proprietà dello Stato e la detenzione non è intesa come strumento riabilitativo. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è invece il reo ad avere il diritto di essere punito e la punizione non deve per forza avere utilità ma deve essere intesa come affermazione della giustizia, come annullamento del male. La punizione rende onore ai rei considerandoli esseri razionali.

Marx, diversamente, intende la pena come uno strumento a cui ricorre la società per difendersi da chi mette a repentaglio le condizioni stesse che ne tramandano l’esistenza.

Durkheim ritiene che un atto umano non provoca sgomento nella società perché è criminale, ma viene inteso criminale proprio perché provoca sgomento. Visto che in Durkheim la pena vale come messaggio rivolto all’intera società, Ruggiero sottolinea come in tale approccio essa finisca per rafforzare il senso di superiorità etica di chi la infligge, rispondendo ad un bisogno di vendetta retributiva. Il progressivo declino del principio di responsabilità collettiva, base delle società antiche, ha determinato la centralità del carcere nel sistema penale contemporaneo.

La logica conseguenzialista si presenta in forme diverse difficilmente distinguibili: misura comunicativa simbolica (espressione di disapprovazione), misura deterrente, misura di incapacitazione (rendere innocui i rei), misura riabilitativa (mira al miglioramento morale e materiale delle vite dei rei).

Con riferimento alla funzione del carcere è possibile confrontare gli approcci istituzionali e quelli materiali. I primi enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo. La punizione si rifà ad un’idea di vendetta o retribuzione. I corpi devono essere distrutti. Negli approcci materiali, invece, si enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. La punizione è intesa come strumento regolativo: i corpi devono produrre.

Secondo le analisi di Rusche e Kirchheimer i sistemi penali tendono ad adeguarsi ai rapporti produttivi del momento: durante i periodi di crisi economica si abbassano i salari e peggiorano le condizioni della popolazione carceraria in quanto parte della forza lavoro eccedente, mentre nei periodi di espansione economica, ove vi è carenza di forza lavoro, le condizioni della popolazione carceraria migliorano.

In Foucault il carcere è l’emblema della società disciplinare moderna, egli vede nella pena un dispositivo disciplinare che tocca ogni aspetto dell’individualità ma nei periodi emergenza il regime carcerario si fa distruttivo per annientare i sui nemici. Occorre però considerare i rapporti tra punizione e sfera economica tenendo conto del controllo penale e sociale fuori dal carcere. Tenendo presente che la forma più incisiva di controllo sociale si esprime attraverso il rapporto salariale, Ruggiero indica nelle “zone carcerarie sociali” quelle aree ove le attività illegali si intrecciano con quelle marginali e con il lavoro precario. Tali zone subiscono una gradualità di forme di controllo e di punizione,

le funzioni di deterrenza individuale e generale della pena non sono dirette esclusivamente verso i recidivi o i criminali irriformabili, ma in generale contro la popolazione esclusa (…) occorre enfatizzare che la funzione materiale o educativa della pena, in queste aree, non smette di operare. I marginali, i lavoratori occasionali, i piccoli extra-legali e gli sconfitti in genere, che si muovono tra legalità ed illegalità, vengono “educati” a rimanere e sopravvivere nelle loro aree di esclusione, come nei secoli scorsi i loro omologhi venivano educati alla disciplina industriale. La disciplina imposta attraverso la pena mira ad abbassare le loro aspettative sociali (…) ai reclusi verrà riconosciuta completa riabilitazione quando accetteranno di rimanere nel loro specifico settore della forza lavoro e quando, implicitamente, rifiuteranno di evadere dalle zone carcerarie sociali loro assegnate. La forza lavoro “criminale” e la adiacente forza lavoro precaria costituiscono il deposito della popolazione carceraria, la riserva umana dalla quale attingere (pp. 98-99).

Diversi studiosi smontano l’idea del carcere riabilitativo visto che gli effetti carcerari in termini di prevenzione della recidiva risultano davvero trascurabili. La detenzione pare, piuttosto, peggiorare la condotta visto che i detenuti hanno la tendenza ad interiorizzare quei valori e quelle regole che regolano la vita di un ambiente violento come il carcere; da qua discende l’idea del carcere come scuola del crimine. La stessa convinzione che il valore deterrente della detenzione sia rivolto alla popolazione nel suo complesso appare davvero traballante, visto che il valore deterrente pare agire soltanto su chi non ne ha bisogno. Inoltre, in tale logica, l’obiettivo dissuasivo nei confronti dell’intera popolazione verrebbe paradossalmente raggiunto anche nel caso di condanna di innocenti; anche punendo individui a caso, prescindendo dalle loro responsabilità penali, l’intera comunità potrebbe venire dissuasa dal commettere reati.

La presunzione contemporanea che ci si sia indirizzati verso un pena umanizzata, più mite, dovrebbe fondarsi sulla misurazione della differenza tra la condizione di “normalità” dell’esistenza e quella indotta dal sistema coercitivo. Da questo punto di vista il sistema carcerario tendenzialmente interviene sugli strati più svantaggiati della popolazione ed ammesso vi sia stato un miglioramento delle condizioni di vita anche dei livelli più bassi di esistenza a livello europeo, le condizioni carcerarie non sembrerebbero essere affatto progredite di pari passo.

I criminologi critici tendono poi a svalutare la teoria retributiva:

in una società che incoraggia all’individualismo, all’egoismo e all’ingordigia, la teoria retributiva invoca la punizione di chi appare autonomo anche se, in realtà, è perdente, in quanto, vista la sua condizione sociale, è spesso vittima dell’ingordigia degli altri (…) Chi viola le norme si presenta come un concorrente sleale, che si avvantaggia degli svantaggi degli altri, e questo rende la punizione moralmente accettabile (…) Ma come può una società radicalmente ineguale affermare che lo status quo crea benefici per tutti? (pp. 110-111).

Appare evidente come abitualmente si sia dato un fenomeno di pendolarismo tra “zona carceraria sociale” e carcere. A tale proposito sarebbe auspicabile un drastico cambiamento in cui allo svilupparsi di forme di “economia associativa” alternative al mercato del lavoro ufficiale possano funzionare forme di giustizia partecipativa.

Nella trattazione di Ruggiero vengono approfonditi gli approcci di Louk Hulsman, Thomas Mathiesen e Nils Christie, che rappresentano alcune tra le figure più importanti del pensiero abolizionista. L’olandese Hulsman, a partire dalle esperienze personali, deriva dalla dottrina cristiana alcuni dei tratti fondamentali che, intrecciati soprattutto con aspetti della teologia della liberazione, formano il suo pensiero anti-criminologico. In particolare lo studioso rifiuta il sistema della giustizia criminale che riduce i problemi sociali in colpevolezza individuale. Il giudizio individuale nega gli aspetti comunitari del crimine così come, nell’ambito religioso, la confessione privata nega gli aspetti comunitari del peccato.

Il norvegese Mathiesen fonda buona parte della sua analisi sullo studio dei rapporti di forza in continua evoluzione all’interno della società e sulle forme di contropotere dal basso che si scontrano incessantemente con il potere. Nonostante l’eterogeneità delle fonti da cui trae spunto, l’intera analisi dello studioso si fonda su una nozione di conflitto che conduce all’azione, conflitto inteso però «non come espressione di rapporti sociali inalterabili, ma come manifestazione di energie per il mutamento» (p. 179). Una convinzione importante sviluppata da Mathiesen riguarda la critica alle metodologie di ricerca sociologica definite “neutrali” od “oggettive”. Nel rifiuto di una netta distinzione tra ricercatori e soggetti esaminati «L’azione è implicita nel metodo adottato, e gli “oggetti” della ricerca sono i soggetti principali non solo della ricerca medesima che li riguarda, ma anche dell’azione. La critica radicale di Mathiesen (…) traduce costantemente conoscenza sul conflitto in prassi collettiva per coloro che lo producono» (pp. 179-180).

Lo studioso norvegese Christie ha evidenti punti di contatto in particolare con le argomentazioni del libertario russo di Pietr Kropotkin; in entrambi i casi si ritiene che la proliferazione delle leggi finisca per ridurre la possibilità di controllo collettivo producendo una sorta di circolo vizioso in cui le leggi finiscono col creare ansia ed insicurezza a cui poi si finisce col risponde con nuove leggi. Inoltre, la proliferazione delle leggi avrebbe nell’ignoranza diffusa un fattore di moltiplicazione. Nel pensiero anarchico la legge viene percepita come una vera e propria forma di rapina perpetuante la dominazione dei potenti sul resto della comunità e la punizione finisce col creare la propria immagine nelle persone alle quali viene inflitta creando così essa stessa la criminalità.

Una parte del saggio di Ruggiero viene dedicata al dibattito sulla giustizia ripartiva. Nell’approccio abolizionista si rifiuta l’idea che sia un’organizzazione statale ad avere il monopolio della definizione delle condotte criminali. Per gli abolizionisti il crimine dovrebbe essere intesto come una “disputa partecipativa” ove tutti gli attori implicate negli eventi, rei compresi, dovrebbero farsi carico direttamente della discussione finalizzata a risolvere in qualche modo il contenzioso che ha sue specificità e non può essere analizzato applicandovi meccanicamente formule preconfezionate dettate da qualche, supposta, analogia.

Il metodo partecipativo permette di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche che si intendono affrontare. È sull’onda di tali ragionamenti che lo studioso Herman Bianchi ha sviluppato il concetto di “giurisdizione partecipativa” ove il reo viene inteso come debitore tenuto ad assumersi la responsabilità umana dei propri atti partecipando attivamente alla ricerca di una riparazione; debito e responsabilità sostituirebbero così i concetti di colpa e colpevolezza. Nell’idea di Bianchi, però, le pratiche di restituzione e riparazione non mirano, come in Durkheim, a ristabilire le condizioni precedenti l’atto ma, piuttosto, hanno come finalità quella di promuovere rapporti solidali tra gli individui, dunque, a modificare le condizioni ante-crimine. Il contenzioso, in altre parole, diventerebbe un’occasione per costruire dialogo e rapporti più profondi tra i membri di una comunità.

Concludendo, in un periodo in cui si invoca il carcere per i potenti ma le celle scoppiano di poveri cristi, il tintinnare delle manette pare essere un suono gradito a tanti ed il buttar via la chiave della cella torna, ancora una volta, a essere uno slogan con cui conquistare consenso, il pensiero abolizionista getta una nuova luce sul delitto, sulla legge e sulla pena, questioni su cui da troppo si evita di riflettere.

Recensione pubblicata originariamente su“Carmilla” il 6 gennaio 2012


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