Legge Reale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fuori legge: a proposito del 41 bis https://www.carmillaonline.com/2023/02/03/fuori-legge-liberi-tutti-dal-41-bis/ Fri, 03 Feb 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75889 di Sandro Moiso

[Mentre uno Stato senza alcuna vergogna, che tratta con i capimafia e irride gli ultimi vendicandosi sui detenuti e i settori sociali più deboli, finge un’intransigenza che è soltanto una mascherata dichiarazione di guerra di classe, mai cessata e mai scomparsa con qualsiasi governo in carica, le condizioni di salute di Alfredo Cospito impongono, oltre che la manifestazione di una piena solidarietà nei suoi confronti e di tutti gli altri detenuti, la ripubblicazione di un articolo, già apparso il 24 Settembre 2012 su Carmillaonline e debitamente aggiornato per questa occasione, [...]]]> di Sandro Moiso

[Mentre uno Stato senza alcuna vergogna, che tratta con i capimafia e irride gli ultimi vendicandosi sui detenuti e i settori sociali più deboli, finge un’intransigenza che è soltanto una mascherata dichiarazione di guerra di classe, mai cessata e mai scomparsa con qualsiasi governo in carica, le condizioni di salute di Alfredo Cospito impongono, oltre che la manifestazione di una piena solidarietà nei suoi confronti e di tutti gli altri detenuti, la ripubblicazione di un articolo, già apparso il 24 Settembre 2012 su Carmillaonline e debitamente aggiornato per questa occasione, il cui intento era e rimane quello di svelare le origini, il vero volto e la vera sostanza del famigerato articolo 41 bis. Un modo per rispondere anche ad una bagarre parlamentare e mediatica in cui a trionfare sono i veleni e il conformismo dell'”ordine” borghese più che la ragione. Tanto meno quella di Cesare Beccaria.]

Nel paese in cui l’aspersorio e il manganello continuano ad andare a braccetto sulla testa dei cittadini, qualunque sia il governo in carica, è inevitabile che permangano zone d’ombra di cui non si parla o di cui si parla soltanto in una maniera talmente distorta da travisare anche ciò che sta sotto gli occhi di tutti. Tale opera di distorsione, se non di vera e propria rimozione, del reale, è evidente, non deriva solo dai “forti” argomenti rappresentati dall’acquasantiera e dalla violenza dello stato, ma, e soprattutto, dall’accondiscendenza di tutte le forze politiche e dal totale asservimento dei media alle esigenze del regime catto-tecno-fascio-capitalista.

Opere come quella di Maria Rita Prette1, che ha già curato il quinto volume del “Progetto Memoria” edito da Sensibili alle foglie e dedicato al carcere speciale, acquisiscono quindi, nonostante l’esiguo numero di pagine, un’importanza che travalica l’argomento trattato.
I paragoni possibili sono, infatti, con le opere sulla storia dell’Inquisizione dello storico americano ottocentesco Henry Charles Lea2 e quella, importantissima, di Italo Mereu3 sulla nascita delle strutture giuridico-repressive dello stato moderno a partire dalle procedure messe in atto dai tribunali dell’Inquisizione.

In questo preciso istante diverse centinaia di detenuti4 sono sottoposti, in Italia, a misure restrittive assolutamente inaccettabili all’interno di uno Stato che voglia dirsi democratico. Tale giudizio non è espressione delle idee dell’autrice o dell’autore del presente articolo, ma il risultato del giudizio della Corte Europea dei diritti dell’uomo, nei confronti dello stato italiano, che ha assimilato alle torture i trattamenti riservati ai detenuti in regime di isolamento.

Come afferma Maria Rita Prette: «L’assunto inaccettabile è che ad una persona, quando le sia appiccicata addosso un’etichetta qualunque (in quest’epoca e qui da noi vanno di moda le etichette mafioso o terrorista), possa essere fatto di tutto, con spirito vendicativo o secondo il principio che la sua sofferenza possa agire come deterrente verso altri» (p.8).

I fatti della Diaz, la morte di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, il suicidio quasi quotidiano di detenuti dimenticati ed isolati, affondano quindi le loro radici in una struttura giuridico-repressiva che ha pian piano sostituito il normale corso dell’accertamento della responsabilità e della pena successivamente inflitta con soprusi, violenze e pratiche, non riconosciute dalla “giustizia” italiana, di esplicita tortura fisica e psichica.

Tracciare la storia del 41 Bis, a partire dall’originario codice Rocco e dalle leggi speciali varate negli anni settanta per far fronte alle lotte diffuse e alle pratica della lotta armata, significa perciò indagare lo sviluppo di pratiche inquisitoriali che hanno progressivamente cercato non soltanto di annullare la personalità e l’individualità del detenuto, ma di sostituirla con un’altra, «plasmata allo scopo di servire la causa dei torturatori» (p.57).

Se fino alla metà degli anni ’70 era stato il Regolamento per gli istituti di Prevenzione e Pena di Alfredo Rocco, approvato nel 1931, a codificare l’istituzione carceraria, a partire dalla stagione delle grandi lotte sociali sarà la legge n. 354 del 26 luglio 1975 a riformarne i contenuti e a “modernizzare” il carcere. L’articolo 90 però, “disposizione finale e transitoria” apposta all’ultimo minuto, reciterà:

Esigenze di sicurezza. Quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministero di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

Tale articolo introduceva in una Legge che doveva costituire una risposta all’ondata di lotte sociali e dei detenuti, finalizzate ad un ampliamento delle garanzie democratiche fuori e dentro il carcere, un enorme potere discriminatorio a discrezione della magistratura e degli organi destinati alla repressione. Il provvedimento seguiva di pochi mesi l’approvazione della cosiddetta legge Reale, cioè la numero 152 del 22 maggio 1975, che aveva come titolo Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico e, di fatto, sanciva il diritto delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco quando strettamente necessario anche per mantenere l’ordine pubblico. Il ricorso alla custodia preventiva — misura prevista in caso di pericolo di fuga, possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini — veniva esteso anche in assenza di flagranza di reato. C’era quindi la possibilità di effettuare un fermo preventivo di quattro giorni, entro i quali il giudice doveva poi decretare una convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Infine, veniva ribadito che non si potevano utilizzare caschi o altri elementi che rendessero non riconoscibili i cittadini, salvo specifiche eccezioni. I provvedimenti previsti dalla legge Reale, modificati nel 1977 dalla legge 533, portarono, dal giugno del 1975 a metà 1989 all’ uccisione di 254 persone e al ferimento di altre 371. Nel 90 per cento dei casi le vittime non possedevano nemmeno un’arma da fuoco al momento del confronto con le forze dell’ordine. Lo Stato si era in questo modo modernizzato e riformato per far fronte alle nuove realtà determinate dallo scontro di classe in atto.

Due anni dopo, un decreto interministeriale (n. 450 del 12 maggio 1977) istituiva le carceri speciali. In Italia, negli anni ottanta saranno costruite 80 nuove carceri.

Sarà il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a scegliere gli istituti o le sezioni delle carceri da adibire a circuito speciale. E a selezionare, sulla base di informazioni raccolte dalla direzione di tutte le carceri con criteri totalmente arbitrari, i detenuti da trasferire in questo circuito. Nel luglio del 1977, un migliaio di persone viene prelevato nelle celle di diversi carceri italiane e trasferito in segretezza, facendo uso anche di elicotteri, in sezioni adibite allo scopo (p.18).

La funzione prevalente del circuito speciale sarà quella dell’isolamento, cui andranno ad aggiungersi le violenze che varieranno da luogo a luogo nella forma e nella consistenza. Le nuove strutture di ferro e cemento sorgeranno come funghi alla periferia delle città, quasi a voler minacciare con la loro presenza quelle aree, già degradate, da cui sembra debba provenire ogni pericolo per l’ordine sociale e la tranquillità borghese. Così, mentre da un lato si inizia sollevare il problema dell’incostituzionalità dell’art. 90 dall’altro la risposta saranno le botte (come al solito) e l’istituzione dei braccetti della morte che saranno proprio i “tecnici” del Ministero a chiamare in questo modo.

Le testimonianze sui braccetti della morte sono chiarissime su un punto: le misure di sorveglianza e privazione a cui sono sottoposti i reclusi (una ventina) in queste sezioni non hanno alcun nesso con la sicurezza, ma semmai si prefiggono l’annichilimento della persona. Non si capisce infatti come potrebbe essere lesivo della sicurezza lavarsi, mangiare, sentire un notiziario, vestirsi con i propri vestiti, scrivere e ricevere posta, leggere (p.25).

Il 1982 sarà un anno decisivo per la lotta al “terrorismo”: 965 persone finiranno in carcere per reati connessi a quello di “banda armata”. Ed è anche l’anno in cui le torture fisiche e psicologiche inizieranno a dare i loro risultati: almeno 300 arrestati decidono infatti di collaborare con polizia e carabinieri. Il Parlamento, coerentemente, approverà la legge 304 del maggio 1982, la cosiddetta legge per i “pentiti” che prevede la non punibilità per coloro che determinano lo scioglimento delle associazioni o delle bande e forniscono in tutti i casi ogni informazione sulla loro struttura e sulla loro organizzazione. Dal 1983 al 1986 saranno

gli anni delle ammissioni collettive di colpa nei tribunali speciali. Qualcosa che ricorda l’Inquisizione nell’esplicita richiesta di abiura che li caratterizza […] gli anni necessari ad incubare due nuove leggi: la legge n. 663, cosiddetta Legge Gozzini del 10 0tt0bre 1986 e la legge n. 34 recante misure a favore di chi si dissocia dalla lotta armata, del 18 febbraio 1987 (p. 31).
Dal punto di vista generale, la Legge 34, insieme alla 304 del 1982, sancisce definitivamente nella cultura giuridica del Paese un salto di qualità. La pena non è più commisurata al reato, bensì diventa una merce scambiabile sul mercato della giustizia: quale che sia il reato commesso, un comportamento, un’opinione, possono determinare in maniera rilevante la pena che lo sanzionerà. La legge Gozzini riforma la Legge 354 del 1975, introducendo articoli basati sul binomio premio-punizione, che valorizzano l’individualizzazione del trattamento […] La parola chiave è premialità (pp.32-33).

Proprio nella riforma prevista dalla Legge Gozzini della legge 354 del 1975 sarà abrogato l’articolo 90 che rientrerà dalla finestra, e in maniera più articolata, come art. 41 Bis, posto cioè subito dopo l’articolo 41 della suddetta legge e che avrebbe dovuto regolamentare e limitare l’uso della forza e delle armi, da parte dell’istituzione, all’interno del carcere. Riprendendo tale quale l’art. 90, il 41 Bis reciterà:

Situazioni eccezionali. 1 – In caso eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministero di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto. 2 – L’art. 90 della Legge 26 luglio 1975, n. 354 è conseguentemente abrogato.

La sua applicazione non servirà affatto a sedare rivolte o a fronteggiare situazioni d’emergenza,

bensì colpirà raggruppamenti per categorie di detenuti, indipendentemente dal comportamento carcerario in senso stretto tenuto da quei detenuti. Ad essere determinante, per essere sottoposti al regime di 41 bis, saranno di volta in volta il tipo di reato per il quale si è finiti in carcere e, successivamente, il comportamento processuale (p.35).

La Legge Gozzini introduce inoltre all’interno della Legge 354 l’art. 14 bis che

si occupa del regime di sorveglianza particolare cui può essere sottoposto il detenuto, qualora con il suo comportamento comprometta la sicurezza o turbi l’ordine nell’istituto, o con la violenza impedisca le attività degli altri reclusi, ma anche sulla base di precedenti comportamenti penitenziari o di altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell’imputazione, nello stato di libertà (p.36).

Tra il 1990 e il 1991 il numero dei detenuti aumenta da 25000 a 45000. La legge 203 del 12 luglio 1991 introdurrà nell’ordinamento penitenziario l’art. 4 bis, che ammette i benefici di legge (permessi, riduzione di pena, etc.) solo per coloro per i quali saranno «acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamento con la criminalità organizzata o eversiva». Un anno dopo, con la Legge n. 306 del 8 giugno 1992, sarà aggiunto un secondo comma al 41 bis che stabilisce uno a stretta connessione tra trattamento e tipo di reato e finirà con il sancire i benefici per chi collabora con la giustizia e l’inasprimento del trattamento per tutti gli altri.

Il 23 dicembre 2002, il Parlamento approverà la legge 279, che modifica ancora gli articolo 4 bis e 41 bis e da quel momento la premialità si sgancerà completamente dal comportamento carcerario e si misurerà soltanto più sulla base della collaborazione con gli ordinari giudiziari e di polizia.

«Lo Stato d’eccezione non è più eccezione: diventa regola ordinaria» (p.42). Con circolare n. 3359/5809 del 21 aprile 1993, saranno istituite le sezioni di Alta Sicurezza con l’intento di «separare i detenuti appartenenti alla realtà della criminalità mafiosa e del terrorismo da tutti gli altri detenuti».

Mentre nel 1998 verrà istituito il circuito di Elevato Indice di Vigilanza (EIV) al quale verranno assegnati «detenuti di particolare pericolosità desumibile». Circuito che «verrà poi abolito, come sigla, nel 2009 a seguito della condanna inflitta dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo all’Italia, per la violazione dell’art. 6, par.I, della Convenzione» (pag. 44). Nonostante ciò oggi languono nelle carceri italiane almeno 1500 ergastolani con “reati ostativi” privi di qualsiasi accesso ai benefici previsti dalla legge. «A nessuno interessa quanti sono, dove sono. Sono considerati scarti, non del passato ma del presente, il che è ancora peggio. A nessuno interessa se vivono o se muoiono» (p.45).

Sono circa 66600 i detenuti delle 206 carceri sparse sul territorio nazionale (dati 2012). In una decina di queste sono state istituite delle Aree riservate «nelle quali non è consentito l’accesso alle delegazioni che normalmente frequentano il carcere per parlare con i detenuti e accertarsi delle loro condizioni, ma neanche al cappellano del carcere, per fare un esempio […] Le aree riservate sono un indicibile nell’indicibile» (pp.52-53). Occorre, dunque, prendere atto che

il regime del 41 bis è ispirato ad un principio di vendetta e, nella sua funzione fondamentale, si accosta pericolosamente all’istituzione della tortura […] il fine ultimo della tortura non è, in sé, ottenere delle informazioni, bensì distruggere l’identità personale del torturato […] La richiesta esplicita che viene infatti rivolta ai condannati con il 41 bis e il 4 bis è quella di collaborare con la giustizia. Le statistiche ministeriali dimostrano con estrema chiarezza che l’obiettivo del provvedimento non viene raggiunto: nel 2010, su 680 detenuti in 41 bis, 8 sono state le persone diventate collaborative per uscire da quel circuito. Le statistiche sui 19 anni che vanno dal 1992 al 2011 indicano una percentuale del 1,87%. Non solo il 41 bis è abominevole per uno stato di diritto, ma sembra pure del tutto inefficace (pp.57-58).


  1. M. R. Prette, 41 Bis. Il carcere di cui non si parla, Sensibili alle foglie 2012  

  2. Henry Charles Lea (1825- 1909) autore della monumentale A History of Inquisition of the Middle Ages (Filadelfia 1888 – Parigi 1902), parzialmente tradotta in Italia (vol. III) in H. C. Lea, Il processo ai templari e altri roghi, Sul ruolo della repressione inquisitoriale nella nascita dello Stato-nazione europeo, Celuc Libri, Milano 1982  

  3. Italo Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Mondatori 1979  

  4. Attualmente 759 – con una concentrazione massima all’Aquila, dove sono ben 152, e ad Opera, vicino a Milano, dove se ne contano 100. A Sassari sono 91 e a Spoleto 81 – dati 2022. Mentre almeno altri 1500 sono sottoposti all’ergastolo ostativo.  

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Contrappunto nel giorno che precede la commemorazione dei morti (nelle galere e nelle piazze italiane) https://www.carmillaonline.com/2015/10/31/via-via-la-nuova-polizia-nel-giorno-dei-santi-e-prima-di-quelli-di-altri-morti-nelle-galere-e-nelle-piazze-italiane/ Sat, 31 Oct 2015 22:01:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26297 di Sandro Moiso

polizia 1 Ogni tanto qualcuno, discorrendo amabilmente, cerca di convincermi che la Polizia sia altro da quello che è. Mi dicono che mi sbaglio, che non tutti gli agenti sono come quelli della Diaz oppure come quelli che pestano in Val di Susa o che hanno contribuito a por fine al soggiorno in questa valle di lacrime di un sacco di giovani detenuti, meno giovani fermati o semplicemente tossicodipendenti e manifestanti. “Sono poche mele marce” mi dicono “gli altri fanno il loro dovere e proteggono il cittadino”. Così, di solito, faccio spallucce e non do seguito alla discussione.

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di Sandro Moiso

polizia 1 Ogni tanto qualcuno, discorrendo amabilmente, cerca di convincermi che la Polizia sia altro da quello che è. Mi dicono che mi sbaglio, che non tutti gli agenti sono come quelli della Diaz oppure come quelli che pestano in Val di Susa o che hanno contribuito a por fine al soggiorno in questa valle di lacrime di un sacco di giovani detenuti, meno giovani fermati o semplicemente tossicodipendenti e manifestanti. “Sono poche mele marce” mi dicono “gli altri fanno il loro dovere e proteggono il cittadino”. Così, di solito, faccio spallucce e non do seguito alla discussione.

Non mi sono mai abituato all’arroganza del potere e degli uomini in divisa. Non ho mai creduto alle fandonie sugli errori commessi da qualche ruota di scorta del carro funebre delle forze del dis/ordine. Non ho mai creduto, né a Genova né a Ferrara né tanto meno a Roma o in qualsiasi altro teatro di violenze poliziesche, che le “cose siano andate male” oppure che “siano sfuggite di mano”. Ho sempre però creduto che una struttura abbia svolto e stia svolgendo il ruolo per cui è stata creata: garantire l’ordine del capitale. Ad ogni costo e con qualsiasi mezzo necessario.1

In occasione della presentazione, avvenuta a Palazzo Chigi lo scorso 27 ottobre, del libro “Dieci anni di ordine pubblico”, l’Associazione Funzionari di Polizia (Anfp) ha presentato al governo le proprie lamentele e le proprie richieste, criticando la gestione dell’ordine pubblico e chiedendo, allo stesso tempo, un ammodernamento dei reparti Mobile.

Come osservano i curatori del testo, “oggi il conflitto sociale rischia di ritornare sulla scena con tutta la sua carica dirompente, come testimoniato dalle numerose proteste contro il governo Berlusconi prima, nel 2011. E contro le politiche di austerità del governo Monti poi, nel 2012. Nonché quelle avverso l’esecutivo Renzi nel 2014“.2

DIECI_ANNI_DI_OR_55f00efbda883 Nella prefazione del testo, il segretario dei Funzionari di Polizia, Lorena La Spina, sostiene che la gestione dell’ordine pubblico, così com’è oggi, non è adeguata ai tempi. Le forze dell’ordine non dispongono di mezzi adeguati e, soprattutto, non esiste un adeguato quadro normativo.
Bene, penseranno molti lettori, lo Stato ci ripensa e i suoi funzionari più illuminati rivolgono la loro critica agli atteggiamenti brutali, alla scarsa preparazione psicologica degli agenti e a un quadro di norme e leggi che favorisce l’evasione “penale” dalle proprie responsabilità dei rappresentanti, in divisa o meno, delle forze del dis/ordine e un impiego sproporzionato di mezzi e di violenza rispetto al pericolo realmente costituito dalle loro vittime.

No, niente illusioni, le richieste sono altre. Come al solito: più armi, più controlli, più repressione e, soprattutto, più libertà di azione. La Spina, per iniziare, suggerisce “la modernizzazione dei reparti preposti al mantenimento dell’ordine pubblico”, attraverso “la creazione di vere e proprie task force “antisommossa”, altamente specializzate”, in modo da garantire “l’isolamento dei teppisti professionisti che confidano di essere protetti dalla folla”. Che poi si tratti di studenti in lotta per la scuola, lavoratori in difesa dei posti di lavoro, sfrattati che difendono il diritto ad avere una casa oppure valligiani che si difendono dalla cementificazione e dalla distruzione dell’ambiente poco importa: lo spauracchio dei black bloc torna utile sempre per giustificare qualsiasi azione in difesa delle scelte del governo e del capitale mafioso.

Secondo lo stesso sindacato di Polizia, dovrebbe poi essere valutato l’uso di proiettili di gomma, che hanno grande efficacia deterrente contro i violenti, e potrebbero essere utilizzati fucili “marcatori”, armi ad aria compressa che sparano sfere di plastica contenenti vernice colorata, “per rendere possibile l’identificazione dei facinorosi e dei violenti, anche una volta cessata l’emergenza”. Ancora una volta non importano i feriti gravi, coloro che per un proiettile di gomma sono morti o hanno perso un occhio. Quello che conta è marcare, stordire, individuare e punire. La foucaultiana sorveglianza si è ben allargata nei mezzi e nei fini.

Gli sfollagente di gomma, oggi disposizione dei poliziotti “si rivelano spesso insufficienti a contenere i manifestanti”, per cui il tonfa, già ampiamente sperimentato a Genova nel 2001, essendo un’arma a tutti gli effetti si rivelerebbe più utile essendo in grado (ma questo non è detto nel testo) di provocare gravissime lesioni, quali traumi o ossa fratturate.

Per altro verso, osservano i Funzionari, le misure di prevenzione attualmente previste si rivelano inidonee a fronte di soggetti la cui «pericolosità sociale possa dirsi “qualificata” da un sostanziale abuso del diritto di manifestare». E così ben venga il Daspo anche in ordine pubblico. È infatti «certamente debole», denuncia La Spina, «l’ambito degli strumenti volti a fronteggiare e contenere il pericolo nelle fasi immediatamente precedenti gli scontri»“.3

Anche perché, gli stessi funzionari, ritengono che già si sia troppo permissivi nei confronti di coloro che partecipano ai cortei con il volto coperto o facendo uso di caschi protettivi: troppo lievi le pene da 1 a 6 mesi. Non bastano le telecamere diffuse sul territorio e gli arresti in differita: occorre di più, occorre andare oltre quella legge Reale, legge 22 maggio 1975, n. 152, che già diversi rappresentanti politici suggerirono di ampliare e rinforzare dopo gli scontri di Roma del 17 ottobre 2011.4

Ma, per ora, niente codice identificativo sulle divise, perché i soliti Funzionari sono contrari all’uso di un codice identificativo poiché “rappresenta un punto di arrivo, che si potrà concretizzare solo quando il livello degli strumenti legislativi e tecnici a disposizione potrà garantire un contesto di legalità non manipolabile” (?). Evidentemente le norme europee, strombazzate ad ogni piè sospinto per giustificare qualsiasi iniziativa economica e giuridica a danno dei giovani e dei lavoratori, in questo caso non contano.

Il tutto (insieme alla richiesta di scudi in kevlar, uniformi paracolpi e collegamenti radio hi-tech) è giustificato dall’enumerazione dei poliziotti feriti durante le manifestazioni (“soprattutto in quelle ambientaliste” significa forse “in quelle contro il Tav”?), anche se non conta se il codice di richiesta di soccorso sia stato rosso, giallo o verde. Così come continuano a non contare Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giannino Zibecchi, Giuseppe Uva: tutti morti ammazzati, con così tanti altri che non è nemmeno più possibile elencarli tutti.

Infine, l’aumento del 19% delle manifestazioni di piazza, avvenuto dal 2005 ad oggi secondo il testo in questione, che sembra preoccupare tanto il governo, le forze politiche, gli amministratori ed gli apparati repressivi, sembra essere messo in evidenza soltanto come ulteriore motivo per reprimere ancora di più ogni forma di organizzazione dal basso, criminalizzare ogni accenno di lotta sociale e per promuovere nuove paure insieme ad una ulteriore fascistizzazione dello Stato.

Però, almeno su una cosa non si illudano i signori funzionari: non ci sarà mai più, come dopo Valle Giulia nel ’68, un altro annebbiato Pasolini a giustificarne le quotidiane Saint Louis.


  1. Si veda anche “Distrutto di polizia”, Carmilla on line, 1 marzo 2012  

  2. Armando Forgione, Roberto Massucci e Nicola Ferrigni, Dieci anni di ordine pubblico, Focus sulle manifestazioni politiche – sindacali – sportive, Eurilink  

  3. Questa citazione, come altre informazioni contenute nel testo, è tratta da Alberto Custodero, Polizia: ”Per le manifestazioni di piazza servono armi diverse e nuove tecnologie”, Repubblica. it, 27 ottobre 2015  

  4. «Si deve tornare alla Legge Reale. Anzi bisogna fare la Legge Reale 2. Non è tempo di rimpalli ma di un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche per creare una legislazione speciale e specifica che introduca specifiche figure di reato, aggravamento dei reati e delle pene oggi previste, allargamento del fermo e dell’arresto, riti direttissimi che permettano in pochi giorni di arrivare a sentenza di primo grado». Roberto Maroni: “Nuove misure contro le violenze“, Antonio Di Pietro: “Torniamo alla legge Reale” – Repubblica.it  

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