Lee Van Cleef – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 19 Apr 2025 20:00:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 52 https://www.carmillaonline.com/2013/09/06/ddv52/ Thu, 05 Sep 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8887 di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981 La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni [...]]]> di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981
La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni imperanti modelli produttivi risulta felicemente povero di mezzi ma ricco di idee, come quella beffarda e geniale della Manhattan ridotta a un carcere. E l’aereo dirottato che ci finisce schiantato è… beh, diciamo un’intuizione criminale azzeccata, anche se dubito che Osama Bin sia un appassionato di Carpenter, regista anarchico, mai banalmente qualunquista, sempre attento a ricordarci che il Potere è marcio, corrotto, violento e senza alcuna pietà nei confronti dei misfits che lo combattono. L’edizione in Dvd regala un veloce ma interessante documentario che ripercorre le tappe produttive del piccolo gioiello, nato da una sceneggiatura dei tempi dell’università, pensata – guarda il caso – per Clint Eastwood. Cast spettacolare che include anche Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton e Isaac Hayes (e subito sentiamo tutti il chugga chugga del wah wah di Shaft). Rivisto durante gli anni del liceo (sicuramente in seconda, probabilmente anche più avanti e mai più dal 1995 in poi), lo vidi la prima volta all’Instabile di Genova nell’estate del 1982, con la mia amica Roberta. M’era piaciuto moltissimo: avevo già ragione. Carpenter promise che MAI avrebbe realizzato un sequel. Mentiva. (Dvd; 23/1/05)

ddv5202513 – La febbre del sabato sera sedata da Pasazerka di Andrzej Munk, Polonia 1963
Il mio sabato ideale: a casa, con un capolavoro polacco, in lingua originale. Barbara recalcitra e m’impongo poco democraticamente, tirando fuori anche la Giornata della memoria e il dovere civile di vedere un film in tema. Cede e ci vediamo l’incompiuto La passeggera del regista Munk, morto in un incidente d’auto prima di aver ultimato il montaggio. Dopoguerra pacificato. Lisa, che è stata guardia ad Auschwitz, è in crociera e le sembra che una delle passeggere sia Marta, una ragazza ebrea con cui aveva instaurato un tremendo rapporto di potere durante la prigionia. Racconta al marito, edulcorando la vicenda e mascherando la sua meschinità con la compassione. Un film eccezionale, forse anche aiutato dalla sua incompletezza che rende scarni ed essenziali i momenti ambientati al presente (narrati da una voce fuori campo su foto delle scene). Il lager come universo concentrazionario dove è annullata ogni umanità e un biglietto, uno sguardo, una carezza, diventano gesti per cui vale la pena di rischiare la vita. L’orrore della dignità calpestata continuamente, l’illusione degli aguzzini di essere assolti dalla loro cattiveria concedendo avarissimi scampoli di carità, sottomessi sempre all’opportunismo. Munk sceglia una strada difficile: l’incerto tormento personale di Lisa, l’indifferenza di fronte all’immane tragedia e la ricerca di una complicità con una prigioniera per sentirsi meno colpevole. Splendido. In nottata, tra l’altro, Fuori Orario l’ha riproposto, facendolo precedere dal toccante Notte e nebbia di Alain Resnais, visto anni fa e rivisto, impietrito e insonne, non appena ci son capitato su, scanalando. Agghiacciante e dolorosamente necessario. (Vhs da RaiTre; 29/1/05)

ddv5203514 – L’horror de paura Ju-On The Grudge di Shimizu Takashi, Giappone 2003
Nipponata orrorifica dove l’oggettiva impossibilità di distinguere i personaggi rende trama e comprensione oltremodo difficoltosi. Ma non c’è molto da girarci attorno: una casa infestata da bimbo, madre e gatto nero, vittime in passato di un capofamiglia sanguinario. Chi frequenta la casa ha le visioni e prima o poi viene risucchiato in soffitta. Perché The Grudge è piaciuto, tanto da diventare un cult e autorizzarne un rifacimento hollywoodiano? Boh! Direi perché ormai qualunque cosa presenti qualche vago motivo d’interesse diventa allora un’opera d’arte da elevare sopra lo squallore generale. E The Grudge un vago motivo d’interesse lo ha nel fare una paura del diavolo, al di là della farraginosità assolutamente non necessaria e nonostante la staticità narrativa, poco aiutata dall’espressività da bassorilievo di alcuni attori. La scommessa, in questi horror metafisici e metà stronzate, è trovare un modo per farci accapponare la pelle e se da ogni angolo spunta e poi scompare il pallidissimo bimbo Toshyo, beh, lo spaghetto viene eccome. Peggio ancora quando ti appare la madre che rantola come un radiatore rotto e ha capelli degni di Tina Turner metà anni Ottanta. Nella totale indifferenza della trama, mi son goduto un’oretta e mezza di fifa blu. Per cui ve lo consiglio? Mah! Vi lascio nel dubbio: non vi devo niente, io. Dvd affittato dal Blockbuster di Papiniano: sfornito, con commessi da freakshow che non sanno che lavoro fanno e ti mettono in coda per ore. Ah, domenica Prodi è stato intervistato dalla Dandini: per la gioia del Nano, sotto una funerea luce da confessionale il Professore ha risposto disastrosamente alle domande della dentona. Ci meritiamo tutto. (Dvd; 3/2/05)

ddv5204515 – La puzzonata The Peacemaker di Mimi Leder, USA 1997
Il classico film fracassone e ottuso del venerdì sera di Italia1: un richiamo troppo perverso per rinunciarvi. Stavolta tocca a The Peacemaker, film d’azione molto stereotipato, povero di psicologie e, più in generale, di idee che lo distinguano all’interno del genere. Mentre la guerra in Bosnia va concludendosi portando seco un pericoloso carico di vendetta, un’esplosione atomica (!) insospettisce il fisico nucleare Julia Kelly (Kidman), ingenuotta primina della classe. Le affiancano il gaglioffo e non cristallino Thomas Devoe (Clooney), che, da tenente colonnello dei servizi segreti, sa bene come funzionano le cose nel disintegrando ex impero sovietico. La strana coppia è litigarella, ma finirà coll’amarsi (la cosa è intuibile fin dal manifesto del film), ma la regia mette da parte ogni smanceria e va dritta al sodo, con inseguimenti, botti e decisioni fatali dei soldati americani, pronti a sacrificarsi per il bene mondiale. In questa messa in scena muscolare di una regista che vuol far vedere che ha due coglioni di titanio, si salva solo una battuta profetica: di fronte al pakistano cattivo che ha studiato ad Harvard, Clooney chiosa: “Eh già, li abbiamo istruiti quasi tutti noi, i terroristi!”. Se c’è un motivo d’interesse in The Peacemaker è nella compresenza di due attori che da lì a breve sarebbero diventati star a tempo pieno. Nicole Kidman, non ancora sfigurata dalla chirurgia estetica tanto da sembrare oggi la gemella di Eva Grimaldi, pare una ragazzina, con occhi azzurrissimi e capelli rossicci. È di ieri la dichiarazione dello stilista Karl Lagerfeld che ha definito il suo corpo “bizzarro” (è una dichiarazione ripresa da tutte le agenzie di stampa e probabilmente propagata da quello dell’attrice stessa). In effetti ha gambe da fenicottero, sederone e tronco magrissimo e quando corre sembra una papera. Clooney, invecchiando, ha invece guadagnato charme e qui è ancora tutto adrenalina, anche se lo sguardo da giuggiolone promette già quella simpatia sorniona che lo fa amare da donne e uomini. Film molto lungo, non particolarmente ispirato, ma infettivo: visto il primo quarto d’ora, diventa difficile mollarlo. (Diretta tv su Italia1; 4/2/05)

ddv5205516 – Un piccolo capolavoro, Mad Max 2 di George Miller, Australia 1981
Prima di interpretare un poliziotto isterico e spericolato (i vari Arma letale) e prima di dirigere un horror con protagonista Gesù Cristo, il reazionario Mel Gibson è stato un ribelle ricoperto di cuoio che sfrecciava sulla terra devastata dai conflitti nucleari. Unico obbiettivo, procurarsi la prossima tanica di benzina. Era l’ossessione degli anni Settanta (dopo la crisi petrolifera) e oggi ce ne siamo dimenticati: per risolvere facciamo ogni tanto una guerra a chi possiede il petrolio e si rimanda la soluzione al futuro, quando arriverà Mad Max sul serio. Per adesso godiamoci questo splendido memento cinematografico, arrivato in Italia col titolo Interceptor – Il guerriero della strada. Come aveva previsto Einstein, si combatte con le pietre, all’arma bianca e solo Mad Max ha un fucile a canne mozze, ma i proiettili sono rari e spesso difettosi. Abbondano balestre, coltelli e boomerang affilatissimi e vige la legge del più forte. Nella fattispecie i selvaggi che abitano il wasteland agli ordini del temibile e orrendo Humungus. Mad Max, da vero eroe anarchico e cinico, sceglie i buoni per interesse, perché gli possono assicurare un po’ di carburante, cioè vita, strada. La vicenda è divertente, senza cali di ritmo, equilibrata nella costruzione e azzeccata nello svolgimento, con un’introduzione e un finale suggestivi. Da un punto di vista figurativo, il film ha pesantemente influenzato tutto l’immaginario degli anni Ottanta, popolando la videomusica e la fantascienza cinematografica di punk mohicani, abbigliati come moderni gladiatori. Cinemascope oceanico per paesaggi (australiani) di selvaggia bellezza. Azzeccato score classicheggiante di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen. Gran film, visto con la cugina Alessandra. (Dvd; 5/2/05)

ddv5206517 – L’ambiguo (?) Rambo di Ted Kotcheff, USA 1982
Anche questo venerdì cado nell’agguato di Italia1: il film (visto anche recentemente) è perfetto per staccare i lobi cerebrali e identificarsi ottusamente nel protagonista, John J. Rambo, reduce dal Vietnam leggermente confuso e abbandonato a se stesso sulla fredda costa del Pacifico. Alla ricerca di un commilitone, ultimo superstite del suo battaglione, scopre che è morto di cancro dovuto al tremendo defoliante, l’agente arancione. Il commilitone, peraltro, era pure nero e – sicuro – i due assieme avranno fumato e si saranno calati più d’un acido. Fai due più due e ti viene un atroce sospetto: ma questo è mica un film di sinistra?! Possibile che abbiamo preso un simile abbaglio per tutti questi anni? Bisogna rivederlo tutto, Rambo, perché qui è in agguato una rivalutazione ideologica non da poco! Dunque: Rambo arriva a Hope, pacifica cittadina dove lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) è frustrato dalla monotonia e non vede l’ora di avere qualche problema per poter menare le mani. Un girovago è l’ideale e Rambo viene portato in cella per vagabondaggio. Siccome puzza da far schifo lo strigliano ben bene e minacciano di tagliargli i capelli perché sembra uno hippie; infine provano a fargli la barba, a secco (sai che roba: e tirargli un pizzicotto, no?). Alla vista del rasoio, Rambo ripensa alla sua prigionia in Vietnam e, come un cane di Pavlov, sbarella e sbava: mena tutti e scappa su pei monti (cane di Pavlov come recitazione, non come reazione, eh?). Teasle non ci pensa due volte e scatta la caccia all’uomo: finalmente un po’ d’azione! Ma c’è un problema, hanno sbagliato indirizzo: Rambo è un ex berretto verde decorato, sopravvissuto alla giungla vietnamita, e sceriffi e guardia nazionale (formata da ciccioni parolai) gli fanno un baffo. Lo riporterà alla ragione solo il colonnello Trautman (Richard Crenna), suo comandante in guerra, uomo talmente coraggioso da sopportare con infinita pazienza anche la frignata finale in cui Rambo tira via la maschera e dice, testuale, che la guerra era già vinta, ma qualcuno a casa, non ha voluto che finisse così. E i dubbi su una possibile riabilitazione rambistica svaniscono d’un colpo. Avevamo ragione da vendere, cazzo. Rambo il film è confuso quanto Rambo il personaggio, anche se come mero prodotto d’azione il film si fa vedere, lo ammetto. Sempliciotto, virile, girato economicamente, abbastanza ritmato, ben fotografato (Laszlo), recitato così cosà, con Stallone capace di due espressioni: o assente o piagnucolante. Sbattuto in carcere, di Rambo se ne rivaluteranno le qualità belliche e i capitoli successivi lo vedranno protagonista in Vietnam e nell’Afghanistan sovietico. Si parla di un quarto episodio: Iran? Corea del Nord? Tra le scene passate alla storia sicuramente il rammendo del protagonista che si ricuce una ferita sul braccio. In un’estate dei primi anni Novanta mia sorella calpestò in casa un ago lasciato per errore per terra. Gli entrò nel tallone e dovetti portarla al pronto soccorso dove un geniale infermiere – saputo l’accaduto – chiamò così il medico di guardia: “Megu, mia! U l’è arrivou u sciu Rambo!”. (Diretta tv su Italia1; 11/2/05)

ddv5207518 – Giochiamo a fare la guerra con The Warriors di Walter Hill, USA 1979
Il Bronx, un improbabile raduno notturno, con tutte le bande della città in tregua, perché Cyrus, il carismatico capo dei Riffs, ha da fare un discorsetto: se ci uniamo, non c’è polizia che tenga e New York sarà nostra. Ma il leader schizzato dei Rogues gli pianta una pallottola in corpo: Cyrus muore. Il caos, coi Warriors accusati dell’assassinio: casa è lontana una cinquantina di miglia e tutti vogliono fargli la pelle. Per tornare alla fetida Coney Island affrontano gli skinhead Turnbull A.C.’s, gli sfigatissimi Orphans, le assatanate lesbiche Lizzies, i Baseball Furies truccati da Kiss e infine i temibili Punks, col leader sui pattini. Botte da orbi e dei nove componenti la delegazione, due onorevoli perdite: il carismatico Cleon, subito fatto fuori dai Gramercy Riffs, e Fox, quello perbene, gettato da un agente sotto un vagone della metrò. L’esuberante Ajax (James Remar) viene invece arrestato perché ci prova con una poliziotta nel parco. Gli altri, capitanati dal sosia magro di Jim Morrison, Swan, raggiungeranno le livide spiagge dell’Atlantico e si chiederanno se sia valsa la pena di questa impresa. Grande western metropolitano, con una New York mitica e irriconoscibile, stilizzatissima grazie alla luccicante fotografia di Andrew Laszlo. La storia non è altro che l’attualizzazione dell’Anabasi di Senofonte (che sbulaccone, eh? Eddài, lasciatemela passare, su) e il vero valore di Warriors risiede nella messa in scena, all’epoca considerata d’insopportabile violenza (oggi fa ridere: poco sangue, niente droghe, nessuna arma da fuoco, volano solo pugni e qualche coltellata). Irrealistica la definizione delle bande giovanili, improponibile – perlomeno oggi – la mescolanza razziale, inesistente il realismo, ma il cinema americano ha sempre inseguito la leggenda. Coloratissimo, amaro, epico: non perfetto, ma comunque imprescindibile, perlomeno per la mia generazione. E a un certo punto, per pochi frame, c’è il mio amore Debra Winger, paffutella e tenerissima. (Dvd; 12/02/05)

ddv5208519 – The Untouchables di un ludico Brian De Palma, USA 1987
Per combattere Al Capone bisogna usare le maniere forti e mettere in conto che non ci saranno più amici sicuri, famiglia tranquilla e orari di lavoro da ufficio. Kevin Costner è lo specchiato federale che va a Chicago a scontrarsi con la polizia locale corrotta. Mette su una banda pronta a tutto (gli Intoccabili, appunto) e reagisce colpo su colpo al mefistofelico boss mafioso, passando pure al contrattacco e infine incastrandolo. Messa in scena sontuosa, attori in parte, pochi indugi autoriali, qualche esibizionistico pezzo di bravura (la scena della carrozzella, che omaggia Ejzenstejn), una più generale voglia di abbracciare il grande pubblico: è il cinema italo-americano nella sua variante più spettacolare, con un Morricone particolarmente fracassone e sintetico, un De Niro mattatore e i ricchi costumi di Armani. Divertente. Perso all’epoca, riguadagnato in versione originale e chilometrico cinemascope. Questa ottusa recensione si accompagna alla ferale notizia che ho smesso di comprare Film Tv. Avevo cominciato a leggerlo anni fa su consiglio di Marco Polese, compagno di straordinarie visioni al cineclub Lumière. Dopo gli ultimi mesi in cui non lo guardavo neanche, questa settimana mi sono semplicemente dimenticato di chiederlo in edicola. La rivista è forse diventata un po’ noiosa, ma soprattutto sono io a essere sicuramente diventato mortale: non c’è film che desideri vedere e – di conseguenza – non c’è articolo o recensione che voglia leggere. E poi, l’odierna critica cinematografica mi sembra un esercizio di dissezione di cadaveri. Qualche nome che mi piace? Beh, sì: il vivace Filippo Mazzarella, che leggo qui e là. Oppure Alessio Guzzano, libero pensatore dotato d’ironia e di creatività linguistica, che costruisce miniature finissime e ha gusto (e idiosincrasie, ma dichiarate). Ma altro non saprei. È colpa mia? È colpa mia, probabilmente. (Dvd; 13/02/05)

ddv5209520 – Lo spaventevole Zeder di Pupi Avati, Italia 1983
Beh, questa è storia. Scrivo esclusivamente pensando a Pier che un giorno leggerà queste righe e ricorderà anche lui quel fine agosto a Champoluc. Sarà stato il 1983, direi. Pier Paolo, alquanto precocemente, ha già “la ragazza”, Tiziana, e io sono il terzo incomodo. Fatto sta che in una serata ancora calda, finiamo lì, a casa di Tiziana per vedere questo horror, in prima serata sulla Rai. La casa verde era sul curvone per andare ad Antagnod ed era famosa perché si diceva che lì avesse soggiornato Bettega quando aveva dovuto curare i polmoni deboli. Chissà: io riferisco, ma non ho mai verificato tutta la vicenda, anche perché l’interesse è oggettivamente prossimo allo Zero Assoluto. Ricordo perfettamente che il film ci aveva fatto abbastanza cagare addosso e nell’intervallo avevamo riso come matti per una pubblicità micidiale di prodotti in gomma il cui slogan era “il chiodo fisso”: il nome dell’azienda era letteralmente martellato in fronte a un tipo. Altri tempi, altre strategie di marketing: darei una cifra per rivederla. La vicenda di Zeder vi ricorderà quella di altri più fortunati horror: esistono terreni speciali, detti terreni K, dove i cadaveri possono riprendere vita. Più o meno come nel cimitero indiano di Pet Semetary o come sul palco dell’Ariston a Sanremo. A proposito: lessi il libro di Stephen King durante l’Interrail europeo del 1989, quando conobbi Barbara. Faceva paura (il libro, non Barbara). Poi qualche anno dopo, con Ferro, abbiamo visto anche il film e faceva paura anche quello, ma per lo schifo. Tornando a Zeder: ancora bello inquietante, nonostante durante la visione Barbara e Alessandra abbiano anticipato mirabilmente tutti i colpi di scena perché lo ricordavano meglio di me. Sceneggiato da Pupi Avati assieme a Maurizio Costanzo che – dopo essersi occupato anche de La casa dalle finestre che ridono – da allora ha deciso di dedicarsi ad altre forme di orrore, tipo Buona Domenica. (Vhs da RaiUno; 15/02/05)

ddv5210521 – Il primo clamoroso episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra di Renato Pozzetto, Italia 1978
Questo episodio (di una trentina di minuti) è un po’ il Graal di certa commedia italiana anni Settanta, perlomeno per me e la mia famiglia. Mi sto addentrando nei meandri della salute mentale dei miei genitori e di mia sorella, ma da sempre, quando tra di noi uno dice “bestiale”, subito gli viene risposto con marcato accento lumbard “ha stabilito il record del letame!”, citando uno dei momenti stracult dell’episodio in questione. Protagonista è Pozzetto, ingenuo abitante di una casupola prefabbricata. Si guadagna da vivere consegnando merda di vacca col suo Ape Piaggio spoilerato e tirato da corsa, ma il frustrato Ponzoni lo assolda come cameriere col preciso piano di far secca la moglie ricca. Finirà tutto in un colossale sputtanamento, come canta strascicato Jannacci. Mezz’ora di surrealtà purissima, umorismo geniale e freddo come un ghiacciolo nel culo. Tra battutacce da declamare tra amici, nonsense e qualche ingenuità di regia, viene fuori una perla di follia, ma è di questa materia che sono fatti i sogni e i film che più amiamo, cari amici. Tra i tanti che appaiono c’è Giorgio Porcaro (con le mani “come due badiletti”) e soprattutto Massimo Boldi, fantastico cameriere ribelle con la Porsche che fa rivendicazioni proletarie agitando coltelli. Rivedendo Io tigro, tu tigri, egli tigra, ho goduto come sempre, notando però più i difetti che i pregi. Barbara era abbastanza attonita, ma certe cose o le vedi a tredici anni oppure non ne coglierai mai più la sublime poesia. (Vhs da RaiUno; 16/02/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 52)

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