lavoro precario – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 2: qualche luce, molte ombre e tanti abbagli. In attesa del Primo Maggio e dell’arrivo dei “siberiani”. https://www.carmillaonline.com/2023/04/29/cronache-marsigliesi-2-qualche-luce-molte-ombre-e-tanti-abbagli-in-attesa-del-primo-maggio-e-dellarrivo-dei-siberiani/ Sat, 29 Apr 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77004 di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mondo coloniale è un mondo a scomparti. (F. Fanon, I dannati della terra)

Ci siamo lasciati i primi giorni di aprile evidenziando come, a proposito di quanto stava andando in scena in Francia, vi fosse sicuramente della luce ma anche molte ombre e come, proprio l’insieme di queste ombre, obbligassero a una serie di interrogativi. Interrogativi che, nelle mobilitazioni dal 6 aprile in poi, avrebbero dovuto trovare una qualche risposta. Dal 6 aprile a oggi vi sono stati due nuovi scioperi generali mentre, il 15 aprile, il presidente Macron non ha fatto alcun passo indietro, firmando la legge che, dall’autunno prossimo, vedrà i francesi andare in pensione con due anni di ritardo rispetto a ora. In un articolo precedente (“Cronache marsigliesi. Non è tutto oro ciò che brilla” – Carmillaonline, 3 aprile 2023) avevamo evidenziato come il movimento contro il prolungamento dell’età pensionabile fosse, a conti fatti, molto circoscritto e come, nei suoi confronti, gran parte della classe operaia e del proletariato francese si mostrasse a dir poco tiepida. A uno sguardo minimamente attento era evidente come a scendere in piazza fosse quella quota, in Francia assai corposa, di classe operaia e proletariato garantito occupato nel settore pubblico mentre gli operai del settore privato, i precari e i disoccupati osservassero tutto ciò rimanendo alla finestra. La stessa adesione studentesca vedeva una sostanziale spaccatura tra gli studenti del ceto medio, entrati massicciamente in lotta al fianco dei lavoratori, e gli studenti proletari i quali, con questa lotta, hanno ben poco interagito.

Anche in questo caso, come la volta precedente, i nostri interlocutori sono stati V. R., una ragazza del Collectif Boxe Marseilles, M. L., un uomo del Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille e una ragazza, S. D., del Collectif Boxe Marseilles ma attiva, soprattutto, nel lavoro territoriale. A questi abbiamo aggiunto M. C, una donna precaria ex gilets jaunes, oggi attiva nel Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille con la quale ci è parso interessante porre a confronto il movimento odierno con quello dei gilets jaunes.

Iniziamo, pertanto, ascoltando V. R. operaia precaria delle pulizie e abitante nel quartiere Fèlix Pyat notoriamente noto come uno dei quartieri più malfamati di Marsiglia. Ciò che ci sembrava importante capire era il tipo e il grado di coinvolgimento sia dei precari, sia degli abitanti del suo quartiere nelle mobilitazioni e se, dal 6 aprile in poi, vi fossero stati significative modifiche rispetto alle mobilitazioni precedenti.

Eravamo rimasti evidenziando quanto a dir poco tiepida fosse la partecipazione dei precari, dei disoccupati e in generale degli abitanti dei “quartieri malfamati” nei confronti della lotta sulle pensioni. Questo lo constatavamo prima del nuovo sciopero generale del 6 aprile al quale ha fatto seguito quello del 12. Macron, da parte sua, ha tirato dritto e ha firmato la legge che proroga di due anni l’accesso al pensionamento. Tutto ciò ha cambiato qualcosa tra di voi?
Come è facile constatare il movimento si è abbastanza ridotto. Qua a Marsiglia la cosa è stata quanto mai evidente. Questo è anche facilmente comprensibile se consideri il fatto che la città di Marsiglia ha circa 900.000 abitanti dei quali almeno 400.000 vivono nei quartieri segregati e quindi sono precari, disoccupati, illegali o, come spesso succede, tutte e tre le cose messe insieme. Io sono un’operaia precaria delle pulizie, mia madre precaria nella ristorazione, mio fratello è un po’ qua e un po’ là e mio padre, per fortuna, non lo vediamo da anni. Questa mia condizione non ha nulla di speciale ma riflette la condizione media dei nostri quartieri. I nostri problemi chiaramente sono altri, la polizia tanto per incominciare che con noi non simula lo scontro ma ci va giù pesante per qualunque cazzata. Il razzismo della polizia e delle istituzioni e la vita di merda che dobbiamo fare. Io vivo dentro questa realtà e con me la vivono almeno altri 400.000 marsigliesi ed è abbastanza chiaro che questa condizione ha ben poco a che fare con quella di chi è sceso in piazza o meglio il nesso c’è ma non è così facile farlo capire e soprattutto trovare delle convergenze in grado di unificare queste due condizioni proletarie.

Voi, come collettivi precari, di quartiere ma anche come collettivo boxe in questo periodo come vi siete mossi, che bilancio potete fare della vostra attività?
Noi siamo stati dentro a tutte le manifestazioni e agli scioperi organizzando dei nostri spezzoni ma, soprattutto, abbiamo continuato il nostro lavoro di organizzazione e di lotta sui posti di lavoro e nei quartieri. Nel terzo stiamo facendo molto bene soprattutto sul fronte delle occupazioni di case ma di questo è meglio che ne parli con un’altra compagna che dentro a questa cosa ci sta dentro direttamente. Sicuramente possiamo rilevare una nostra crescita perché le lotte che stiamo mettendo in piedi hanno sicuramente un seguito e quindi stiamo portando in piazza anche un certo numero di persone ma, questo bisogna dirlo, rispetto alla gran massa sono solo avanguardie anche se, questo mi sembra importante dirlo, non sono avanguardie politiche in senso generico ma avanguardie di lotta ossia compagne e compagni del tutto interni alle realtà operaie e proletarie. Questo ci permette di guardare all’immediato futuro con un po’ di ottimismo.

Quanto ascoltato offre già un quadro abbastanza preciso della realtà marsigliese. Sulla scia di ciò proseguiamo ascoltando S. D. proveniente anche lei dall’ambito del Collectif boxe e attiva soprattutto nel lavoro di quartiere. Questo ci è sembrato particolarmente importante perché, proprio per le caratteristiche che la nuova composizione di classe riveste, l’ambito territoriale assume un aspetto spesso strategico. Questo per almeno tre buoni motivi. Per un verso l’obiettiva debolezza che le attuali condizioni di lavoro impongono dentro la produzione possono essere ribaltati sul territorio così che, a differenza del passato dove il “potere operaio” di fabbrica si espandeva sul territorio, l’organizzazione della forza operaia e proletaria sul territorio può riversarsi dentro i posti di lavoro del resto, avendo a mente l’Italia, non si tratterebbe di un fenomeno poi così nuovo. Negli anni Settanta furono proprio le ronde e le squadre operaie a supportare dall’esterno le lotte operaie delle piccole fabbriche e aziende dove il controllo padronale e poliziesco inibiva ogni forma di organizzazione autonoma operaia. In seconda battuta, la lotta territoriale, consente di articolare una lotta sul salario indiretto che non è sicuramente meno importante della battaglia salariale sui posti di lavoro. Infine, e certamente non per ultimo, la lotta sul territorio consente di costruire spazi di contropotere effettivo e dare vita a “zone liberate” dove la gestione dello spazio pubblico sfugge al controllo statale. Molto sinteticamente abbiamo parlato di questo con la nostra pugile.

Voi, come precari e disoccupati, pur stando dentro al movimento che sta agitando la Francia avete svolto una attività parallela specificamente rivolta a quel settore di classe che non sembra particolarmente interessato alla lotta sulle pensioni. Potresti spiegarmi, molto sinteticamente, come avete maturato questa scelta e quali tipi di risposte avete ricevuto?
Abbiamo aperto un intervento all’interno del terzo, che è anche il mio quartiere, il quale è considerato uno dei quartieri più poveri d’Europa. È un quartiere prevalentemente arabo dove disoccupazione e illegalità sono ciò che Marsiglia offre ai suoi abitanti. Credo che sia persino inutile ricordare la violenza quotidiana che i suoi abitanti subiscono da parte della polizia, il razzismo che circonda questo quartiere insieme alla sua povertà. Chiaramente in questo quartiere una lotta come quella sulle pensioni non ha senso così come le modalità sostanzialmente pacifiche di questo movimento non hanno molto da dire agli abitanti del quartiere. Qua gli scontri con la polizia hanno ben altro tenore e non sono certo paragonabili a quelli che si sono visti nel corso degli scioperi generali. Insieme agli altri del collettivo di quartiere abbiamo individuato nel problema abitativo uno dei problemi essenziali delle persone che abitano qua. Su questo abbiamo deciso di muoverci. Chiaramente lo abbiamo fatto attraverso un lavoro di inchiesta, cioè non siamo arrivati dall’alto dicendo: “Occupiamo le casa” ma costruendo l’occupazione con le reti che abbiamo all’interno del quartiere. Abbiamo così individuato due stabili e li abbiamo occupati. Sarebbe interessante, e anche utile, raccontare la storia e le dinamiche di questa occupazione ma non è questo il luogo. Ciò che mi preme dire è come la gestione dell’occupazione sia stata ed è una vera e propria “scuola politica” per il quartiere. La sua gestione e la sua difesa è interamente in mano agli abitanti e molti di loro sono già, a tutti gli effetti, delle avanguardie di lotta. Questa prassi consente di costruire quadri e organizzazione. Vorrei aggiungere ancora una cosa che mi sembra veramente importante: il rapporto con le varie gang di zona. Anche qua si apre un capitolo che andrebbe affrontato in altro modo ma, anche se in poche battute, mi preme dire che proprio grazie al lavoro che stiamo facendo siamo riusciti a instaurare un buon rapporto con queste. Queste sono realtà che non si possono ignorare perché migliaia di ragazzi vi sono dentro e si tratta di gente nostra che non può e non deve essere abbandonata al suo destino. Dobbiamo, e lo stiamo facendo, lavorare con il proletariato a partire dalle sue forme concrete e le gang, piaccia o meno, ne sono una sua forma.

Questo, molto sinteticamente, l’aria che si respira tra le fila di quel proletariato che, sino a ora, è rimasto sostanzialmente alla finestra. Sulla scia di ciò passiamo a ascoltare M. C. focalizzando l’attenzione, in particolare, sull’esperienza dei gilet jaunes ponendole a confronto con quanto sta andando in scena in questi giorni.

Per prima cosa, anche se in maniera estremamente stringata, vorrei chiederti cosa ti ha portato dai gilet jaunes al movimento dei precari e dei disoccupati.
L’esperienza con i gilet jaunes è stata molto utile e importante ma aveva un limite la sua incapacità di costruire organizzazione e programma politico tra gli operai e i proletari. In poche parole non aveva, e per sua natura neppure poteva averla, una linea di classe. Questo è abbastanza normale in movimenti che mettono insieme diversi settori e strati sociali e, almeno all’inizio, questo ci sta. Nelle situazioni di crisi entrano in gioco tutti quelli che della crisi sono vittime per cui la genericità del movimento è più che comprensibile, ma se questa genericità si perpetua allora diventa un limite enorme. Questo è ciò che è accaduto con i gilet jaunes. Bisogna rilevare, infatti, che non si è stati in grado di bloccare la produzione, di organizzare uno sciopero generale nonostante, nel movimento la presenza di operai, precari e disoccupati fosse notevole. È indicativo il fatto che le nostre manifestazioni si tenessero il sabato e non avessimo mai neppure pensato di bloccare la Francia in un qualche altro giorno. Inevitabilmente quel movimento, privo di una chiara linea di classe, si è spento. Personalmente avevo iniziato a distaccarmene, nel senso che non avevo più un ruolo attivo e militante, già prima che il movimento si esaurisse e mi sono indirizzata verso l’attività del Collectif Chomeurs Precaires che qua a Marsiglia iniziava a muovere i suoi primi passi. Ho fatto questo perché, come ti ho detto, ciò che ho riscontrato dentro l’esperienza dei gilet jaunes è stata proprio l’assenza di un programma operaio e proletario ma vorrei anche precisare meglio quanto detto proprio perché il collegamento tra l’esperienza dei gilet jaunes e l’approdo al Collectif ha una sua continuità. Come ti ho detto dentro i gilet jaunes vi era una componente proletaria rilevante ma di quale proletariato stiamo parlando? La componente proletaria presente tra i gilet jaunes era proprio quel proletariato precario, disoccupato e quella classe operaia impiegata nel settore privato, cioè la nuova composizione di classe la quale vive una condizione di marginalizzazione ed esclusione politica e sociale. Una condizione che, tra l’altro, mi appartiene. Questo il motivo per cui, dopo l’esperienza dei gilet jaunes, mi sono collocata in una realtà formata essenzialmente da precari e disoccupati. Una condizione che, qua a Marsiglia, è quella ormai maggioritaria.

Sulla base della tua esperienza ci sono, e nel caso di che tipo, delle differenze tra il movimento che sta scuotendo la Francia in questi giorni e i gilet jaunes?
Sicuramente sì, le differenze ci sono e neppure di poco conto. Per prima cosa la composizione di classe. Il movimento sulle pensioni è essenzialmente un movimento legato al lavoro subordinato pubblico le cui condizioni sono del tutto diverse da quelle degli altri operai e proletari. Per capirsi ormai c’è una grossa fetta di proletariato per il quale la pensione è solo un miraggio per cui è ovvio che nei confronti di questa lotta è abbastanza tiepido. Nella loro confusione i gilet jaunes esprimevano una loro radicalità, generica, indistinta, tanto è vero che dentro c’era un po’ di tutto, anche molta frustrazione propria delle classi sociali che più che in via di proletarizzazione sono in via di pauperizzazione anche se, questa è una cosa che in molti non notano, oggi proletarizzazione e pauperizzazione tendono a essere la stessa cosa, insomma per quanto caotico e senza alcuna prospettiva, era un movimento carico di una notevole radicalità. Tutto ciò, nel movimento attuale, non c’è. Basta vedere le dinamiche di piazza e i comportamenti della polizia.

Cioè?
Se guardi a quello che succedeva nel corso dei sabati dei gilet jaunes e a ciò che accade nelle manifestazioni attuali, la cosa è evidente. Il livello di scontro è imparagonabile e teniamo presente, perché è fondamentale, che in quel caso la pratica della violenza aveva veramente una dimensione di massa con anche forme di auto organizzazione non proprio trascurabili. Nel movimento di oggi questo non c’è e i rari episodi di scontri e attacchi, continuamente sovra esposti dai media, sono soprattutto il frutto di alcuni gruppi con l’estetica del conflitto che battaglie di strada vere e proprie. Dei gilet jaunes si può dire tutto, e io non credo di essermi sottratta a una critica anche piuttosto dura nei loro confronti, ma non che avessero l’estetica o la simbologia del conflitto. Nei sabati dei gilet jaunes la battaglia di strada c’è stata a tutti gli effetti. Il comportamento della polizia mi sembra abbastanza eloquente. Oggi la polizia, nei confronti di questo movimento, si muove con il freno a mano tirato sapendo benissimo che, in fondo, siamo di fronte a delle scaramucce e nulla di più. Al proposito basta confrontare il modus operandi della polizia a Sainte – Soline a quello che si è visto nelle piazze recenti. Il livello di scontro è decisamente basso e la polizia, o meglio il governo, si guarda bene dall’innalzarlo. A Sainte – Soline la polizia ha operato dentro uno scenario di guerra perché di fronte aveva un movimento con determinate caratteristiche non certamente prono a una qualche forma di mediazione cosa che, invece, mi sembra si possa tranquillamente dire della stragrande maggioranza dell’attuale movimento sulle pensioni.

Quindi, secondo te, questo movimento non è in grado di radicalizzare lo scontro e non ne ha neppure l’intenzione poiché, alla fine, immagina di poter giungere a una qualche forma di accordo?
La cosa non è così scontata perché la situazione è in movimento e tante tensioni sono nell’aria. Certo è che se a dominare la scena sarà la composizione di classe che ha condotto la lotta sino a questo momento le prospettive non sono delle migliori basta pensare che, il massimo che c’è stato dopo la firma di Macron sono state le battiture delle pentole ma, come ti ho appena detto, la partita è tutt’altro che chiusa perché la possibilità che nell’immediato futuro a scendere in campo siano anche gli altri settori operai e proletari non è così impensabile. Mi auguro che non sia solo una mia speranza.

Giunti a questo punto chiudiamo la seconda puntata delle nostre “Cronache marsigliesi” ascoltando M. L. al quale abbiamo chiesto un approccio maggiormente politico e analitico.

Ciao, la prima cosa che vorrei domandarti è una valutazione complessiva su quanto sta accadendo in Francia e, ovviamente, con un occhio particolare sulla realtà marsigliese. Hai avuto modo di sentire quanto raccontato nelle precedenti interviste per cui ti chiederei, per capirsi, più astratto che concreto.
Intanto cominciamo con il dire che tanto la giornata del 6 quanto quella del 12 hanno visto un certo riflusso. Inutile nasconderlo i numeri sono calati. Il Congresso della CGT ha visto l’affermazione della sua ala più destra che, nell’immediato, ha comportato l’epurazione di tutte quelle situazioni dove militanti di estrema sinistra avevano raggiunto un qualche ruolo organizzativo. La CGT ha asfaltato la sinistra e tutti quegli spazi che per un certo periodo si erano aperti al suo interno si sono chiusi. Vedo che in Italia in molti guardano alla CGT bé dalla Francia posso dire che è un abbaglio clamoroso e lo dice uno che, comunque, non si è fatto problemi a interagire con questa organizzazione. Qua a Marsiglia dove, per la sua composizione sociale, questa lotta è di fatto una lotta di minoranza l’entusiasmo è stato notevolmente ridotto. Gli altri settori di classe non sono entrati in gioco e quindi, tutto quello che quel movimento poteva dare lo ha dato. La natura sociale di questo movimento è per sua natura riformista poiché si tratta di quella composizione di classe che ha il “patto socialdemocratico” nel suo DNA. Quindi, il suo orizzonte, è sempre stato tutto interno al sistema capitalistico il che non significa che questo settore di classe non abbia fatto, almeno in passato, lotte di notevole spessore e radicalità. Sicuramente il “patto socialdemocratico” è stato anche nelle corde della borghesia che su quello ha costruito interi decenni di dominio ma occorre anche ricordare che i termini di questo “patto” sono sempre stati oggetto di una lotta serrata perché la borghesia mirava a costruire un patto al ribasso, concedendo il minimo, mentre gli operai miravano al massimo. Le condizioni di vita di questo proletariato garantito sono state il frutto di lotte e battaglie e, usando un termine che a voi italiani piace molto, una forma non proprio irrilevante di esercizio di potere operaio. Tutto ciò, ovviamente, appartiene alla storia di ieri perché il modello capitalistico attuale non prevede alcuna possibilità di “patto”. L’attacco di Macron mira esattamente a questo, destrutturare del tutto le postazioni di forza di ciò che, in qualche modo, possiamo definire come aristocrazia operaia. Si tratta di un progetto non solo francese tanto che, qualcosa di simile, lo stiamo osservando anche in Inghilterra e Germania. Anche in quei paesi tutto ciò che rimanda a forme di rigidità operaia, postazioni di forza, esercizio di potere sui posti di lavoro è sotto attacco. A fronte di ciò mi sembra che si possa parlare di offensiva unitaria del comando capitalista contro le vecchie fortezze operaie. Questo movimento, se rimane all’interno delle coordinate attuali, non può che essere sconfitto poiché non si rende conto che i padroni hanno completamente cambiato le regole di gioco.

Quindi consideri questa battaglia inesorabilmente persa?
Non sarei così drastico o meglio credo che questa situazione sia in movimento e alcuni inizi di rottura all’interno di questo fronte iniziano a manifestarsi. Per dire, qua a Marsiglia, l’occupazione spontanea della stazione ferroviaria e il blocco dei treni è stata opera dei ferrovieri, cioè di quella composizione di classe che è scesa in piazza dietro alla CGT. Dobbiamo tenere presente che Macron vuole spazzare via e destrutturare le condizioni di vita di questo proletariato e che non vi sarà mediazione possibile. Qualcuno lo sta capendo, bisogna vedere se il fenomeno sarà limitato o assumerà connotati di massa.

Secondo te, questo movimento potrebbe cambiare pelle?
Cambiare proprio pelle non credo perché è difficile pensare che un settore sociale abituato a vivere in un certo modo, diciamo da ceto medio, possa approdare a modalità di lotta e di scontro di un certo tipo ed è anche difficile che, in tempi brevi, metabolizzi il fatto che è la borghesia a imporre un determinato livello di scontro. Quello che può succedere è che inizino a esserci delle contaminazioni tra questo settore di classe e il resto del proletariato, in questo caso lo scenario inizierebbe a cambiare ma anche in questo caso dobbiamo andare cauti con i facili entusiasmi. Per essere chiari, capisco l’entusiasmo che in molti nutrono per la banlieue ma se tutto quel potenziale non trova una forma politica organizzata rischia di essere, come già sta accadendo, semplice materiale per la saggistica sociologica.

Ma voi, come precari, disoccupati, organismi di quartiere come vi state muovendo?
Intanto stiamo preparando, attraverso continue iniziative di lotta, il Primo Maggio che potrebbe essere già un primo banco di prova di tutto ciò che si sta muovendo. Per il resto lavoriamo alla costruzione di forme di organizzazione stabili perché lotta e organizzazione non possono che marciare unite. Le lotte senza organizzazione non vanno da nessuna parte, l’organizzazione senza le lotte è solo micro burocrazia.

Chiudiamo qua, in attesa del Primo Maggio, la seconda puntata delle “Cronache marsigliesi”. Sono molti i nodi che queste corrispondenze stanno portando al pettine per questo, dopo il Primo Maggio, cercheremo di ragionare, sulla base di quanto i “materiali empirici” ci hanno fornito, in termini decisamente più analitici per il momento auguriamoci solo che i “siberiani” non rimangano alla finestra.

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Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/11/18/linee-di-faglia-delle-guerre-civili-americane/ Wed, 18 Nov 2020 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63480 di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali [...]]]> di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.

Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.

In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.

Fu un momento di grande trasformazione economica e sociale, di cui, come si è già detto più volte su queste pagine, la liberazione degli schiavi neri fu solo l’ultimo dei motivi, mentre sicuramente il primo fu la trasformazione degli Stati Uniti da paese esportatore di materie prime verso l’impero britannico e l’industria inglese a paese industriale destinato, nel volger di pochi decenni, a superare la produttività di molti paesi europei industrializzatisi in precedenza.
Solo questa industrializzazione poté garantire negli anni successivi quello sviluppo delle ferrovia che avrebbe finito col velocizzare il trasporto di merci e persone, unificando definitivamente un paese che si affacciava sui due principali oceani, distanti tra di loro quasi 5.000 chilometri.
E’ importante ricordare al lettore tutto ciò perché anche lo scontro in atto attualmente ha a che fare con trasformazioni che ancor prima che politiche e culturali, come vorrebbero i raffinati intellettuali alla Saviano (qui), sono economiche e tecnologiche.
Ma procediamo, come sempre, un passo alla volta.

Il Nord all’epoca della rottura era governato, insieme al resto del paese, da un presidente repubblicano, Abramo Lincoln, che fu anche il primo presidente di un partito nato da poco, mentre gli stati confederati erano rappresentati da un partito democratico che all’epoca, e da diverso tempo, rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri proprietari di schiavi e dei piccoli proprietari terrieri che, anche con l’utilizzo di una manodopera schiava di numero assai ridotto rispetto a quello delle grandi piantagioni, campavano comunque sull’esportazione di cotone e tabacco verso le industrie al di là dell’Atlantico. Infatti, come aveva avuto modo di affermare Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo.

Ma se, da un lato, furono i piccoli proprietari a fornire alle armate confederate il grosso dell’esercito, dall’altro furono spesso gli operai a fornire i contingenti principali dell’esercito unionista. Anche su invito di Marx e d Engels che all’epoca si erano schierati apertamente a favore di Lincoln e della causa dell’Unione, proprio in nome della battaglia contro l’imperialismo inglese e dell’emancipazione della classe operaia, in un contesto in cui il sistema schiavista rappresentava ancora un impedimento al suo allargamento. Non a caso Joseph Weydemeyer, tedesco della Westfalia e aderente alla Lega dei Comunisti fin dal 1846 e che dopo essersi trasferito nel 1851 negli Stati Uniti avrebbe continuato a collaborare a stretto contato con Marx ed Engels, si arruolò in qualità di ufficiale nell’esercito dell’Unione dove combatté per quattro anni nel Missouri.

E’ importante, però, citare anche la voce di un altro collaboratore dei due comunisti tedeschi, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1852: Friedrich Adolph Sorge. Nel 1890-91, ripercorrendo le vicende del movimento operaio americano, scriveva infatti sulla Neue Zeit2:

L’agitazione per la questione della schiavitù aveva portato nel 1854 alla fondazione del Partito repubblicano che, nonostante la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1856, avrà molta influenza negli anni successivi. Senza un chiaro programma, senza un attacco diretto all’istituto della schiavitù, questo partito voleva solo impedire al Sud schiavista di espandersi in nuovi territori e ostacolare l’ingresso di nuovi Stati schiavisti nell’Unione […] nel 1860, dopo una combattiva campagna elettorale, i repubblicani ottennero la maggioranza in tutto il Nord e il loro candidato, Abramo Lincoln, fu eletto presidente degli Stati Uniti[…]
L’influsso di queste lotte sul movimento operaio degli Stati Uniti è indiscutibile, tanto per gli svantaggi che per i vantaggi arrecati. Sia queste lotte che la guerra influirono negativamente sul movimento operaio perché allontanarono l’interesse del popolo, nel senso stretto del termine, dalle questioni economiche e, inoltre, diedero ai politici, sempre pronti a pescare nel torbido, l’atteso pretesto di opporsi alle richieste degli operai richiamandoli a “più alti interessi”. Un altro effetto negativo fu costituito dal forte mutamento della composizione della popolazione operaia, in quanto i lavoratori americani, che si erano arruolati come volontari o che erano stati chiamati alle armi3, furono rimpiazzati dagli immigrati, i quali avevano naturalmente bisogno di più tempo per conoscere la situazione ed iniziare ad avanzare le prime rivendicazioni. Altro svantaggio fu costituito dal peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della forte svalutazione della cartamoneta, che non fu affatto bilanciata dagli aumenti salariali ottenuti dagli operai. Per contro, non ci fu disoccupazione durante gli anni della guerra.
Vediamo i vantaggi. L’enorme e crescente domanda di materiale e di equipaggiamenti bellici, di generi alimentari e di stivali e uniformi rese la forza lavoro una merce molto richiesta. Gli operai poterono così imporre con una certa facilità al padronato migliori condizioni di lavoro. Contemporaneamente furono adottate tariffe protezionistiche. Un grande vantaggio fu dato infine dal fatto che la guerra, risolvendo la questione della schiavitù, spianò la strada alla questione operaia4.

La lunga citazione è importante perché contiene al suo interno sia la visione del movimento operaio tipica della Seconda Internazionale che gli elementi tipici che hanno governato le scelte di buona parte degli operai americani e dei gestori politici della Nazione fino ad oggi. Guai a dimenticarsene!

Gli Stati federati nell’unione furono all’epoca 20, compresi quelli che vi entrarono nel corso del conflitto: Distretto di Columbia-Washington, California, Connecticut, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas5, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York-Stato di New York, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, Wisconsin e Nevada (solo dal 1864).

All’epoca gli stati del Nord vedevano impiegati nei propri opifici 801.000 operai contro i 79.000 del Sud, con un capitale investito di 858 milioni di dollari (di cui 445 nell’industria con un valore prodotto di 861 milioni di dollari) contro i 237 (di cui 55 nell’industria con un valore prodotto di 79 milioni) investiti negli 11 stati del Sud: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia oltre al Territorio Indiano e il Territorio confederato dell’Arizona.

A tutti questi andavano ancora aggiunti cinque stati cuscinetto formalmente sospesi tra l’una e l’altra fazione: Delaware, Kentucky (il maggior Stato schiavista dell’Unione), Maryland (schiavista), Missouri (schiavista), Virginia Occidentale (separatosi dalla Virginia in quanto filo-unionista seppur schiavista, ammesso ufficialmente a far parte dell’Unione nel 1863). A conferma della presenza della schiavitù anche in diversi stati dell’Unione o simpatizzanti occorre precisare che in quegli stati e in quelli cuscinetto erano presenti circa 443.000 schiavi contro i 3milioni e 522mila detenuti dagli stati confederati. Fine della cavalcata storica e ritorno al presente (più o meno).

Sembra abbastanza chiaro che il conflitto ottocentesco fu sostanzialmente non solo di carattere economico, ma anche di modo di produrre. Altrettanto, occorre dirlo qui ed ora, lo è ancora quello attuale. La vulgata del fascismo e del razzismo contro la democrazia e la libertà possiamo lasciarla ai vuoti chiacchiericci televisivi e giornalistici, se vogliamo davvero comprendere la profondità della faglia che attraversa, come quella californiana, e forse più, di Sant’Andrea, la società americana. Pronta a mettere in moto un terremoto di cui da tempo si possono avvertire le scosse di preavviso.

Nonostante la sconfitta Trump ha visto aumentare di 6 milioni i suoi voti rispetto alle elezioni del 2016 in cui era risultato vincitore, conservando di fatto il predominio in 25 Stati su 50. Joe Biden in compenso non ha ottenuto la valanga di voti afro-americani che tutti si attendevano, ma anzi ha conseguito una perdita importante di appeal presso quella fascia di popolazione. Ottenendo il 75% del voto afro-americano contro l’81% della Clinton e l’87% di Barak Obama. E’ il motivo per cui molti commentatori hanno parlato di rivolo blu piuttosto che di ondata. Mentre Donald Trump ha migliorato la sua posizione tra gli elettori non bianchi. E non solo tra i Latinos anti-castristi di origine cubana della Florida (dove non a caso è tornato a vincere).
Possiamo pensare che il Covid-19 abbia comunque portato una ventata di follia in buona parte dell’elettorato americano ledendone irreparabilmente il cervello (come vorrebbero forse i soliti intellettuali da salotto e da strapazzo di casa nostra) oppure cercare di capire. Materialisticamente e per antica abitudine si sceglie qui di seguire la seconda strada.

Se la mappa degli Stati Uniti durante la guerra civile indicava con il blu gli stati dell’Unione e con il rosso quelli confederati (lasciando in azzurro o grigio gli stati cuscinetto), oggi gli stati rossi e blu, come abbiamo imparato, indicano la maggiore influenza di Trump e del Partito repubblicano (rossi) oppure di Biden e del Partito democratico (blu). Se per la guerra ottocentesca la faglia del colore separava distintamente due tipi di economia (ad esempio i 96.000 stabilimenti industriali del Nord contro i 17.000 del Sud), oggi i due colori separano altrettanto due prospettive economiche diverse.
Una, quella blu, al momento attuale vincente e l’altra, probabilmente e non soltanto elettoralmente, destinata ad essere sconfitta.

Questo non vuol affatto dire che le aree blu siano quelle in cui si sta meglio, considerato che il “New York Times” in un articolo del 30 ottobre scorso sottolineava come fossero state le aree blu ad essere state più gravemente colpite dal punto di vista economico che non quelle rosse6. Secondo il giornale infatti, la recessione seguita alla pandemia è stata più severa in stati come la California o il Massachusetts, che hanno avuto una maggior perdita di posti di lavoro e di conseguenza una più vasta disoccupazione, che non altri come lo Utah o il Missouri. E questo viene fatto discendere da un diverso mix di lavori tra gli stati “democratici” e quelli “repubblicani”. Nei primi l’occupazione è scesa maggiormente nei primi due mesi della pandemia, per poi mantenere un significativo calo dei posti di lavoro fin da giugno (2020).

Non vi sarebbe nemmeno un legame diretto tra diffusione del virus e perdita dei posti di lavoro, poiché se inizialmente il numero di contagi e decessi è stato maggiore in aree blu come, ad esempio, quella di New York, a partire da giugno nelle aree rosse sono aumentati i contagi e da luglio anche i decessi. Così, sostanzialmente, la perdita di posti di lavoro sarebbe correlata a fondamentali differenze tra i tipi di lavoro svolti. Con il record di perdita di posti nei settori del divertimento, dell’ospitalità alberghiere e in quello dei viaggi e della ricreazione. Soprattutto in luoghi come Honolulu, Las Vegas e New Orleans (l’ultima , però, appartenente ad uno stato in cui hanno vinto ancora i repubblicani).

E sono state soprattutto le aree metropolitane a subire il maggior calo occupazionale, mediamente del 10% o più, come Springfield (Mass.) con il -12,9%, Las Vegas -12,4%, New York -11,4%, San Francisco -11,2%, New Orleans -11%, Los Angeles – 10,5%, Detroit -10,5% e Boston -10,1% (anche se la lista potrebbe allungarsi ancora). Tra i settori più colpiti dalla crisi pandemica il 59% dei lavoratori impiegati nell’accoglienza e nella ristorazione, il 63% di quelli dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento, il 66% di quelli impiegati nell’informazione come la pubblicità, il cinema e telecomunicazioni vivono in aree in cui i democratici si sono già affermati nelle elezioni del 2016. Mentre la maggior parte dei settori economici meno colpiti dalla pandemia “economica”, come ad esempio quello manifatturiero e delle costruzioni, cui vorrei aggiungere quello agricolo, si trovano dislocati nelle aree in cui Trump già vinse nel 2016 ( e nei quali si è affermato ancora oggi).

Sostanzialmente la maggior perdita di posti si è avuta in aree metropolitane oppure hub tecnologici dove un certo e non indifferente numero di persone può lavorare da casa. In questo settore, e in particolare per quello finanziario oppure dei servizi professionali, il calo dell’occupazione è stato maggiormente rallentato, ma proprio il fatto dovuto all’elevato numero di lavoratori impiegati in tali settori ha fatto sì che altri settori, nelle stesse aree, come New York o San Francisco, fossero i più colpiti. Ad esempio quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, in cui il numero degli occupati è drammaticamente precipitato.

Soltanto un anno prima, però, lo stesso autore citato in precedenza, sullo stesso giornale, scriveva che nelle aree metropolitane blu, più residenti hanno titoli di studio universitari: le 10 grandi metropolitane con il livello di istruzione più elevato hanno votato ciascuna per Hillary Clinton con un margine di almeno 10 punti. I redditi familiari medi sono più alti nelle aree metropolitane blu anche se il costo della vita è più alto in quelle aree. Le aree metropolitane “democratiche” avrebbero avuto infatti un mix di posti di lavoro più favorevole per il futuro, con meno posti di lavoro nel settore manifatturiero, una quota maggiore di lavori “non di routine” più difficili da automatizzare e una quota maggiore di posti di lavoro in settori che si prevedeva sarebbero cresciuti più rapidamente.
Queste misure – istruzione, reddito familiare, costo della vita, lavori straordinari e crescita dell’occupazione prevista – sono fortemente correlate tra loro e con il voto democratico.
Inoltre le medesime aree metropolitane avrebbero avuto una minore volatilità della crescita dell’occupazione. In parte perché i settori legati ai beni come la produzione e l’estrazione mineraria sarebbero più volatili e raggruppati in aree di tendenza repubblicana. Ma, mentre i redditi familiari comparati al costo della vita sarebbero più alti nelle aree metropolitane più blu, i salari confrontati con il costo della vita per una data occupazione sarebbero stati più alti nelle aree metropolitane più rosse7.

Fermiamoci per ora qui, anche se è evidente che qualcosa nella narrazione democratica è andato storto. Sembra pertanto che la differenza di colori sulla mappa delle presidenziali, al di là del radicato repubblicanesimo di diversi stati del Midwest e del West, segua sostanzialmente una linea di faglia tra Nuova e Vecchia economia.
La prima coinvolge la finanza globalizzata e globalizzante, l’high tech, l’information technology, la digitalizzazione di ogni ambito lavorativo e della distribuzione dei servizi e delle merci, dello smart working e dell’atomizzazione di ogni ambito lavorativo con conseguente perdita di qualsiasi dimensione comunitaria o identitaria di classe. Oltre che quella delle produzioni cinematografiche, ma sempre più rivolte alle produzioni seriali destinate ai canali digitali oppure ai videogiochi. Un’economia virtuale in cui anche la maggior parte dei lavori diventa virtuale e precaria. All’interno della quale, però, lo sviluppo della ricerca più di profitti finanziari che scientifica di Big Pharma8 e delle tecnologie rivolte alla diffusione del Green Capitalism svolgeranno una funzione sempre più importante.

L’altra è quella delle industrie manifatturiere, dell’estrattivismo, delle costruzioni tradizionali e dell’agricoltura (anche se una parte significativa del settore dei piccoli farmer degli Stati del West è destinata ad entrare sempre più in conflitto con quello estrattivo a causa dei danni causati dalla pratica del fracking). Settori tradizionali in cui il posto di lavoro è (o era) maggiormente garantito e il reddito medio anche. Un’economia dagli alti costi e scarsi profitti per il capitale finanziario, perché ormai scarsamente competitiva con quella di altre nazioni, più giovani ed aggressive, ma dai salari molto più bassi, che operano negli stessi settori.

Se gli Stati Uniti, secondo questa ipotesi, vogliono mantenere o almeno sfidare la Cina per mantenere il predominio mondiale, non soltanto militare, dovranno sicuramente spostare il loro centro economico sempre più verso la new economy. Trump è stato fautore di dazi, muri e ritiri militari (che nei prossimi giorni saranno portati a termine in Afghanista e in Iraq) per salvare il prodotto nazionale e abbattere i costi e scaricare sugli alleati/competitors i costi di tali operazioni di salvataggio di un’economia in crisi. Ma se questo piace ai suoi sostenitori, non basta alla fame di nuovi profitti del capitale, inteso come macchina implacabile, anche nei confronti dei suoi servitori di più alto grado. Così come agli industriali del Nord del 1860 non bastavano gli 87 milioni di dollari di esportazioni dei loro prodotti contro i 229 milioni delle esportazioni del Sud e della sua economia schiavista.

Ecco allora che sembrano diventare più chiare le linee di faglia e dei colori: e sono tutt’altro che ideali o prodotte dall’ignoranza. Una gran parte dell’elettorato americano, anche in quegli Stati dove i centri urbani hanno contribuito alla vittoria di Biden mentre le aree periferiche hanno continuato a rimanere rosse, non ha nessuna intenzione di entrare nel ciclo del lavoro precarizzato e sottopagato.
Mi vengono in mente, in proposito, le parole spese da Chicco Galmozzi per spiegare le motivazioni degli operai che scelsero l’organizzazione armata negli anni ’70.

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua9 avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. […] Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia. ( da Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, p.136)

Per alcuni lettori questo paragone potrà sembrare scandaloso, eppure, eppure…
La resistenza del mondo del lavoro “tradizionale” all’avanzare delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche produttive e delle ristrutturazioni socio-economiche che ne conseguono è una costante della storia fin dall’avvento del capitalismo. Dal tumulto dei Ciompi all’azione disperata di Captain Swing e dei Luddisti contro la meccanizzazione dell’agricoltura, fino al gran numero di piccoli proprietari terrieri del Sud accorsi a difendere gli interessi dei proprietari delle grandi piantagioni di tabacco e cotone, versando il proprio sangue. Oppure quella delle maggiori tribù di nativi americani che nel Territorio indiano si schierarono con la causa confederata. Battaglie quasi tutte perse già in partenza.

Per questo dovremmo forse, da buoni progressisti, felicitarci con il nuovo che avanza ed appoggiarlo?
Quel che è certo è che se non avevamo nulla a che spartire con la vecchia fabbrica-mondo, altrettanto non lo possiamo avere con la trasformazione antropologica, oltre che economica e sociale in atto. Piuttosto, dovremo sempre più essere capaci di osservare, comprendere, denunciare e, dove si potrà, organizzare le contraddizioni che tale potente trasformazione ha già da tempo iniziato a sviluppare. E’ un terreno scivoloso in cui il melting pot tra classi, mezze classi e diverse identità razziali, tutte in via di crescente proletarizzazione, è ancora tutto da realizzare, soprattutto sul piano della visione politica oltre che economica e sociale.

Un territorio in cui, a livello propagandistico e di immaginario soprattutto, gioca molto la questione dei diritti.
La vecchia economia americana privilegia sicuramente i bianchi, anche se rimane ancora il problema di chiedersi perché un gran numero di latinos e il 25% dell’elettorato afro-americano abbiano potuto votare per Trump (ma la risposta è implicita nella domanda stessa).
D’altra parte il trionfo della borghesia e del capitalismo industriale si affermò grazie alla promessa dei diritti per tutti: Libertè, Egalitè, Fraternitè ovvero libertà per la maggioranza di farsi sfruttare una volta sciolti i vincoli della comunità, eguaglianza tra i poveri di accettare le leggi del comando capitalistico e di farsi concorrenza tra di loro e fratellanza degli oppressi nella miseria oppure dei padroni nel processo di accumulazione.
Benvenuti ancora una volta nel mondo libero!

Liberi oggi i lavoratori di cercare un lavoro on line come fattorini e spedizionieri, di accontentarsi della comunicazione digitale sui social e di consumare ciò che le grandi catene di distribuzione, come Amazon (il cui valore azionario è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno così come quello dei canali televisivi come Netflix), ci procurano da ogni parte del mondo globalizzato.
Paradossalmente un nuovo mondo in cui il modello cinese ha già vinto e che l’Occidente, Stati Uniti in testa, è costretto a rincorrere10.

[…] perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan […] sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica)11.

Come afferma ancora Giovanni Iozzoli, in un suo saggio di prossima pubblicazione:

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga12

Eccola lì la trappola della modernità, dei diritti e della new economy che avanza: tutti uguali davanti al capitale, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati e tutti (per ora) divisi davanti alla sua presenza sempre più invisibile e alla sua forza sempre più organizzata, ma con la promessa per tutti, parafrasando Andy Warhol, di aver la possibilità di realizzarsi in una carriera di quindici minuti.
Le linee di faglia e di colore americane sono dunque anche le nostre e lo sforzo comune per superare l’orrore quotidiano di un’esistenza che non è più altro che nuda vita, pur sapendo già fin da ora che il nostro posto è altrove, non potrà essere altro che quello di riunire ciò che oggi è ancora diviso e confuso. Ed enormemente incazzato


  1. Secondo una stima la guerra causò la morte del 10% di tutti i maschi degli Stati del nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del sud tra i diciotto e i quarant’anni, su una popolazione complessiva di circa trenta milioni di abitanti; mentre i due eserciti contarono 2.100.000 soldati per gli stati dell’Unione e 1.064.000 per quelli della Confederazione. Da questo punto di vista, infine, occorre ricordare che nel 1860, un anno prima dell’inizio del conflitto gli Stati del Nord contavano 22.100.000 abitanti contro i 9.100.000 degli stati del Sud  

  2. Die Neue Zeit (Il nuovo tempo) fu una rivista politica tedesca di orientamento socialista e marxista pubblicata in Germania dal 1883 al 1923, fondata e diretta da Karl Kautsky, che accolse nel tempo i contributi di Rosa Luxemburg, Trockij e Wilhelm Liebknecht, solo per citare alcuni dei collaboratori  

  3. Occorre qui ricordare i New York riot del 1863, magnificamente ricostruiti nel film Gang of New York di Martin Scorsese nel 2002, durante i quali la parte proletaria e sottoproletaria della grande città si ribellò all’arruolamento forzato cui, invece, i figli delle classi agiate potevano sfuggire pagando una tassa di circa 300 dollari. Cosa evidentemente impossibile per gli strati più poveri della popolazione  

  4. F. A. Sorge, La guerra di secessione ora in F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1793-1882. Corrispondenze dal Nord America, PantaRei, Milano 2002, pp. 99-100  

  5. Che fu per lungo tempo, insieme al Missouri, teatro di una crudele guerriglia tra schiavisti e anti-schiavisti. Famoso il massacro della città di Lawrence, avvenuto il 21 agosto 1863 ad opera delle bande filo-schiaviste di William Clarke Quantrill. Si veda in proposito: T.J.Stiles, Jesse James. Storia del bandito ribelle, il Saggiatore, Milano 2006  

  6. Jed Kolko, Why Blue Places Have Been Hit Harder Economically Than Red Ones, The New York Times, 30/10/2020  

  7. J. Kolko, Red and Blue Economies Are Heading In Sharply Different Directions, The New York Times, 13 /11 /2019  

  8. Come ben dimostra ormai la paradossale ricerca/affermazione del mezzo punto di efficacia in più tra Pfizer e Moderna per i propri vaccini, a cui stiamo assistendo con le vertiginose salite e altrettanto rapide cadute dei rispettivi titoli azionari  

  9. Per la storia di Senza tregua. Giornale degli operai comunisti si veda qui  

  10. Ipotesi tutt’altro che peregrina se si considera che la guerra vera con la Cina, per ora, riguarda la tecnologia 5G di Huawei oppure le piattaforme social come TikTok  

  11. Dalla presentazione dell’editore a Leslie T. Chang, Operaie, Adelphi, Milano 2010  

  12. Tratto da G. Iozzoli, Islam, modernità e guerra alla guerra, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale, Il Galeone, Roma  

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Una guerra civile mondiale https://www.carmillaonline.com/2019/10/23/una-guerra-civile-mondiale-gia-in-atto/ Wed, 23 Oct 2019 21:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55526 di Sandro Moiso

“Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita” (Franco Battiato, Un’altra vita, 1983)

“Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno come potranno compier tale missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali e spreca in guerre di rapina il sangue e i tesori dei popoli? Non la saggezza della classe dominante ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua follia criminale fu ciò che salvò l’Occidente europeo dal gettarsi a corpo morto in un’infame crociata per propagare la [...]]]> di Sandro Moiso

“Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita”
(Franco Battiato, Un’altra vita, 1983)

“Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno come potranno compier tale missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali e spreca in guerre di rapina il sangue e i tesori dei popoli? Non la saggezza della classe dominante ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua follia criminale fu ciò che salvò l’Occidente europeo dal gettarsi a corpo morto in un’infame crociata per propagare la schiavitù sull’altra riva dell’Atlantico. L’approvazione vergognosa, la simpatia ipocrita o l’indifferenza idiota con cui le classi superiori dell’Europa hanno visto la Russia prender la fortezza montuosa del Caucaso e annientar l’eroica Polonia; gli attacchi incontrastati di tale potenza barbarica, la cui testa è a Pietroburgo e le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali europei, hanno imposto alle classi operaie il dovere di iniziarsi ai misteri della politica internazionale, vegliare sugli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi all’occorrenza con tutti i mezzi in loro potere, e, se non possono prevenirli, coalizzarsi e denunciarli simultaneamente e rivendicar le semplici leggi della morale e della giustizia che dovrebbero regolare sia i rapporti superiori fra i popoli che le relazioni tra gli individui. La lotta per una tale politica estera fa parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia. Proletari di tutti i paesi, unitevi!” (Karl Marx, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai, fine ottobre 1864)

Due citazioni in apertura potrebbero sembrare davvero troppe per molti lettori.
Soprattutto due citazioni tratte da autori e contesti così lontani tra di loro.
Eppure, eppure…
L’attuale situazione internazionale, in cui non passa giorno senza che nuove proteste esplodano in ogni parte del mondo, a Est come a Ovest e a Sud come a Nord, ci deve far riflettere sull’enorme scontento sociale che agita milioni di persone in ogni angolo del globo.

Un malessere che non può trovare risposta nelle politiche messe in atto da governi apparentemente così diversi tra di loro per forme istituzionali e rappresentanze politiche, ma uniti sostanzialmente dalla necessità di salvaguardare gli interessi del capitale finanziario internazionale.
Governi disposti, in ogni area del pianeta, a distruggere la vita della specie e devastare l’ambiente con cui essa dovrebbe convivere pur di continuare a far vivere ciò che è già morto, per sua stessa essenza.

Infatti ci vuole un’altra vita, inteso come slogan, potrebbe sintetizzare benissimo il contenuto delle proteste attuali: dalle marce dei giovani in difesa della giustizia climatica ed ambientale alle manifestazioni in difesa dell’esperienza rivoluzionaria del Rojava, dalle proteste di Hong Kong a quelle dei giovani iracheni, dalle rivolte cilene ed ecuadoriane a quelle catalane fino ai gilets jaunes e ai movimenti NoTav e NoTap ai quali, nel corso degli ultimi giorni si sono aggiunte anche le proteste in Libano (qui).

Nessuna di queste cause può rappresentare in sé e per sé un assoluto, ma il loro insieme, la simultaneità sempre più frequente delle lotte e il richiamo che intercorre spesso tra l’una e l’altra (la solidarietà del movimento NoTav nei confronti dei combattenti del Rojava, gli studenti di Hong Kong che indossano gilet gialli, manifestanti catalani con gli ombrelli, la diffusione a macchia d’olio della maschera eversiva del Joker nelle rivolte, solo per fare alcuni esempi) ci aiutano a ricostruire un mosaico politico e sociale accomunato da un disegno che, pur non essendo ancora stabilmente delineato, inizia a manifestare una sua intrinseca organicità. Probabilmente dovuta proprio alle risposte messe in campo dai governi in maniera pressoché univoca.

In tutti i casi le proteste nascono da un malessere più generale che affonda le proprie radici in un modo di produzione in cui l’accumulo di lavoro morto trasformato in valore-denaro sta soffocando la vita e il lavoro vivo della specie, sia sul piano meramente fisico che su quello psichico.
In nome di un profitto sempre più effimero, soprattutto se si osserva come ormai un 20% dei titoli di Stato complessivi e almeno il 40% del debito aziendale a rischio default conservato nelle casseforti delle otto principali economie mondiali consista in titoli a tasso negativo (qui).

Le differenze che caratterizzano tutti i movimenti elencati prima possono nascondere soltanto ad un occhio spento o accecato dall’ideologia il fatto che gli stessi derivano tutti dalla necessità di interrompere un rapporto di sottomissione in cui, come affermava uno slogan di successo di qualche anno or sono, Siamo il 99%!, la maggioranza dell’umanità (donne, lavoratori salariati, disoccupati, giovani privi di futuro sia dal punto di vista climatico che economico, classi medie in rovina, popoli indigeni e piccoli contadini) è costretta a ridurre sempre più le proprie esigenze minime in favore del rilancio di un profitto che si accumula quasi esclusivamente nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di investitori e compagnie multi e sovranazionali. Oppure di imperialismi, vecchi e nuovi, che vedono ridursi sempre più gli spazi per la loro espansione finanziaria ed estrattivista, se non a rischio di nuove e sempre più devastanti guerre.

Dai curdi del Rojava che non vogliono vedere distrutto il loro esperimento di autogoverno che ha messo al centro di ogni iniziativa politica e militare la questione femminile, quella ambientale e quella di nuove forme di democrazia non basate sullo Stato e sulla nazionalità, ai giovani e ai rivoltosi di ogni genere e età di Hong Kong, assillati da una situazione economica disastrosa per la maggioranza degli abitanti della ex-colonia britannica1; dai milioni di Catalani scesi in piazza per le durissime condanne inflitte ai promotori del referendum indipendentista del 2017 e per ribadire la propria voglia di indipendenza ed organizzazione repubblicana nei confronti di uno Stato che fonda ancora le proprie radici nel fascismo franchista e in una monarchia ormai fuori dalla Storia, ai giovani iracheni scesi in piazza contro l’aumento del costo della vita e la mancanza di lavoro o altre fonti di reddito; dai popoli indigeni amazzonici in Ecuador e Brasile all’esplosione sociale di Santiago del Cile, fino alle proteste ambientali e territoriali di movimenti come quelli italiani NoTav e NoTap, sembra levarsi dal pianeta un unico urlo di rivolta che invita a farla finita con un sistema di sfruttamento della vita, nostra e delle altre specie, ormai insopportabile.

L’elenco delle proteste e delle lotte potrebbe ancora continuare a lungo, così come quello delle forme di organizzazione e delle richieste immediate messe in campo dai rivoltosi di ogni dove, ma ciò che qui occorre sottolineare è il fatto che tutte queste lotte si trovano davanti a uno spazio di manovra e trattativa istituzionale sempre più ristretto, a dire il vero quasi nullo.
Dai carri armati messi in campo da Erdogan nel Nord-est curdo-siriaco quanto da Pinera in Cile, alle parole sprezzanti del rappresentante del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez Pérez-Castejón, nei confronti degli indipendentisti condannati in Spagna; dai carri armati e le truppe minacciosamente ammassate dal governo cinese ai confini con Hong Kong fino alla condanna definitiva per i militanti NoTav accusati per il blocco di un casello stradale nel 2012 oppure fino alle decine di denunce per i militanti del Movimento NoTap per atti assolutamente risibili, la risposta dei governi non è altra che quella legata alla intimidazione, alla repressione e al silenziamento, se non al massacro, dei movimenti e dei militanti che negli stessi sono coinvolti.

Silenziamento e repressione che si avvalgono, a seconda della situazione, di armi, ipocriti appelli alla condivisione di obiettivi comuni (tipo il Green New Deal o le raccolte firme online a favore dei Curdi da parte di personaggi come Roberto Saviano ed Enrico Mentana) mentre la polizia reprime le manifestazioni di piazza a favore del Rojava (come a Firenze), la magistratura inquisisce chi è andato a combattere per quella causa (come a Torino) e sono oscurati i profili Fb delle testate che più si sono impegnate a difendere il Rojava, insieme a quelli individuali dei militanti che maggiormente si sono dati da fare per diffondere in rete iniziative e messaggi in tale direzione (come a Brescia, ma non soltanto).

Tutto questo sembra aver fatto perdere la bussola anche a molti di coloro che avrebbero dovuto prendere una posizione univoca e solidale a favore di tutti questi movimenti, a prescindere da ciò che affermano in prima istanza nelle parole delle loro organizzazioni o dei loro rappresentanti.
Dimenticando la lezione di Karl Marx e dell’Associazione Internazionale dei lavoratori del 1864, troppi hanno iniziato a disquisire sulla validità o meno dei singoli obiettivi o sugli appoggi che tali movimenti potrebbero ricevere da forze altre, facendo in modo che la cultura del sospetto di staliniana memoria tornasse sotto forma di apparenti dotte analisi geo-politiche oppure politiche, ma in realtà soltanto prossime al disfattismo.

Insomma, alcuni fingendo di rappresentare un’autentica ortodossia marxista hanno finito col tradire lo spirito che ha sempre contraddistinto l’azione e la riflessione del Moro di Treviri, sempre ed esclusivamente rivolto a trovare e denunciare i gangli vitali del modo di produzione capitalistico, da un lato, e ad individuare i suoi reali antagonisti insieme alle lotte destinate a superarlo, dall’altro.

E’ vero che oggi l’appello all’unità non può più passare soltanto attraverso quello rivolto alla classe operaia, ma è anche vero che l’appello del 1864 si concludeva con quel proletari di tutto il mondo unitevi! che superava la soglia ristretta dei semplici operai salariati per rivolgersi a tutti gli espropriati d’Europa e del mondo intero. A quell’immenso proletariato in cui, i processi di espropriazione ed impoverimento della maggioranza della popolazione, stanno precipitando tanto i milioni di rifugiati e profughi che migrano da un angolo all’altro del pianeta, in cerca di una sicurezza esistenziale ed economica che nessun governo intende realmente garantire loro, quanto le classi medie impaurite dell’Occidente, che nello slogan dei gilets jaunes, Fine del mondo – fine del mese stessa cosa possono riconoscere un perfetta sintesi della loro situazione.

Una gigantesca ricomposizione di classe in cui, al momento attuale e soprattutto sul versante occidentale del pianeta, proletariato e proletariato marginale, sottoproletariato e lavoratori salariati si confondono in continuazione grazie alla diffusione del lavoro precario, delle agenzia del lavoro e, soprattutto, del venir meno di qualsiasi garanzia del e sul posto di lavoro. Non comprendere ciò significherebbe ridurre la “classe operaia” ad un mero feticcio da sventolare in occasione delle celebrazioni del 1° maggio, rendendola oltretutto schiava di una visione lavorista che la relegherebbe ad essere una semplice appendice dell’apparato produttivo senza più alcuna reale autonomia di classe.

Marx aveva inoltre ben chiaro che “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale […] cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, ma cresce anche la ribellione”.2 Affermazione cui andrebbe aggiunta quella di Friedrich Engels, là dove scriveva: “Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento.”3

Probabilmente non tutti coloro che scendono in piazza in Catalogna condividono le stesse finalità (tra l’indipendentismo di Carles Puigdemont i Casamajó e quello dei CDR, i comitati di difesa della repubblica, oppure dei comitati di quartiere corrono diversi lunghezze di distanza in termini di obiettivi e modalità di lotta e organizzazione dal basso), così come ad Hong Kong gli interessi coinvolti nelle agitazioni possono essere tanti quanti quelli presenti tra i governi che hanno parzialmente appoggiato, e poi tradito, i curdi del Rojava nelle loro lotta, obbligata dalla necessità della sopravvivenza, contro l’Isis, ma ciò non vuol dire che non sia assolutamente necessario appoggiare e condividere tutte queste lotte, in nome di un comune e necessario superamento non solo delle ingiustizie consumate a livello planetario, ma anche del modello sociale e del modo di produzione che le rendono plausibili.

Occorre infine considerare che molti movimenti indipendentisti nascono proprio dalla crisi degli stati nazionali, ormai troppo spesso ridotti ad una mera funzione repressiva, e della scarsa, o nulla, autonomia decisionale dei propri governi. Senza tali considerazioni, che andrebbero certamente approfondite, non si riesce però nemmeno a cogliere la sempre più evidente insignificanza dei governanti e dei loro partiti: da Di Maio a Trump, passando da Salvini, il PD, Boris Johnson e tutte quelle forze che, fingendosi di volta in volta, sovraniste, populiste, democratiche o liberali, non possono far altro che riscaldare la solita vecchia minestra e portare avanti lo stesso progetto predatorio e repressivo.

Ancora negli anni Sessanta dell’Ottocento, Marx invitava gli operai inglesi, avversi alla presunta concorrenza lavorativa dei lavoratori immigrati irlandesi, a difendere quei lavoratori più deboli e meno garantiti invece di combatterli poiché chi non sa difendere gli altrui diritti, non sa difendere neppure i propri. Tutto ciò vale ancora, e forse di più, per noi oggi. Guai a tradirne il mandato.

Anche perché oggi, a livello internazionale, è diventato necessario parlare di guerra civile, poiché l’obiettivo ultimo di questo scontro globale si potrà completare non tanto e soltanto con la vittoria di uno dei due attori principali (operai e borghesi per semplificare secondo un mal digerito marxismo) ma, piuttosto, con la negazione di entrambi attraverso una negazione e un superamento dell’attuale modo di produzione, anche attraverso la distruzione immediata dello Stato nazionale, proprio come Marx aveva affermato sull’onda dell’esperienza della Comune di Parigi. Guerra civile che, tra l’altro, i difensori più feroci del dis/ordine esistente non esitano più a dichiarare apertamente, così come ha fatto in questi giorni il presidente cileno Pinera (qui).

Carcere, lager, morte, tortura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato e dei regimi totalitari, ma sempre più lo saranno nel presente, in ogni angolo d’Europa e del mondo. Miseria y represion come sta scritto su uno striscione dei manifestanti cileni. Ma tutto questo non costituisce soltanto una momentanea deviazione dalla normalità quotidiana politica e democratica, così come tutti i media vorrebbero ancora farci credere; piuttosto deve essere appropriatamente riconosciuto e chiamato col nome più adatto: guerra civile, aperta o strisciante che sia4, dichiarata dai governi e dalle élite dell’economia mondiale in nome dei “sacri diritti” del profitto e dello sfruttamento. Ma che dovrà essere rovesciata nel suo contrario.

Una violenta e tutt’altro che sotterranea guerra civile che si è aperta tra sfruttatori, sia della specie umana che dell’ambiente, e sfruttati che si risolverà soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di produzione. Forme che non possono ancora essere del tutto date, ma che potrebbero esserlo nel corso degli eventi oppure definirsi completamente soltanto al loro termine; certo è che dobbiamo, con intelligenza e lucidità di pensiero, renderci conto che dalla Comune in avanti tutte le lotte fino a quelle attuali, fanno tutte parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile (non solo di classe, poiché spesso gli attori sono stati più numerosi delle due classi canonizzate dall’ideologia) destinata a ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre l’ispirazione e le giuste motivazioni.

Lasciando agli odierni manutentori del dis/ordine imperiale mondiale attuale il ruolo che già toccò alle peggiori forze conservatrici, liberali, fasciste o fintamente socialiste che fossero, del passato. Ovvero quello di negare, con ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente.

***

N.B.

In occasione della manifestazione Logos-Festa della Parola che si terrà a Roma dal 23 al 27 ottobre presso il CSOA EX SNIA si svolgeranno incontri, dibattitti e presentazioni di libri direttamente collegati ad alcuni dei temi qui trattati (qui il programma).


  1. Si veda H. Dieter, Poveri e senza casa: le radici sociali della protesta in Hong Kong: una Cina in Bilico, Limes n° 9/2019, pp. 117-120  

  2. K. Marx, Il capitale, Libro primo,cit. in A.Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli 1974, p. 87  

  3. F. Engels, Antidühring, in A. Heller, op. cit. p. 87  

  4. cfr. https://www.carmillaonline.com/2019/03/07/tre-secoli-di-guerra-civile/  

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E IO GLI FACCIO CAUSA. Cronache dal mondo del lavoro https://www.carmillaonline.com/2014/03/18/e-io-gli-faccio-causa-cronache-dal-mondo-del-lavoro/ Mon, 17 Mar 2014 23:30:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13455 di Matteo Di Giulio

lavoro_carmillaIl lavoro non è un diritto” Elsa Fornero

Quando ero bambino, ripetevo spesso la frase: «e io gli faccio causa». I miei genitori ridevano di fronte a quella sparata. Avevo otto o nove anni. Mio padre, convinto che tanto ardore nascondesse delle velleità, mi avrebbe convinto a iscrivermi, una decina di anni più tardi, alla facoltà di laurea in giurisprudenza. Una carriera destinata al fallimento per una generazione destinata al tracollo. Sono figlio di un impiegato statale. Trentotto anni sotto lo stesso datore di lavoro. Quarantatré di contributi. Da sommare agli anni del servizio militare. Lette [...]]]> di Matteo Di Giulio

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Il lavoro non è un diritto
Elsa Fornero

Quando ero bambino, ripetevo spesso la frase: «e io gli faccio causa». I miei genitori ridevano di fronte a quella sparata. Avevo otto o nove anni. Mio padre, convinto che tanto ardore nascondesse delle velleità, mi avrebbe convinto a iscrivermi, una decina di anni più tardi, alla facoltà di laurea in giurisprudenza.
Una carriera destinata al fallimento per una generazione destinata al tracollo.
Sono figlio di un impiegato statale. Trentotto anni sotto lo stesso datore di lavoro. Quarantatré di contributi. Da sommare agli anni del servizio militare.
Lette oggi, sono cifre impossibili. Da sommare a esperienze obsolete, come la naja.
Ho iniziato a lavorare regolarmente a ventitré anni. Prima: impieghi saltuari, incarichi in nero, collaborazioni non retribuite. Raggiungerò i contributi di mio padre all’età di sessantasei anni. Anzi, no. Non ci arriverò mai. Perché nel frattempo ho conosciuto il precariato, il part time verticale, gli straordinari non retribuiti, il co.co.co e il co.co.pro, i corsi FormaTemp, la partita IVA, gli stage culturali, i pagamenti in ritenuta d’acconto; e soprattutto lunghi periodi di disoccupazione.
Non ho nemmeno il militare o una laurea da riscattare. Né, li avessi, potrei permettermelo, perché oggi mi costerebbero troppo.
Quando – se? – andrò in pensione, non avrò una liquidazione: mi è servita per sopravvivere quando non avevo un lavoro. Né una rendita o un capitale per invecchiare serenamente.
Però, rispetto alla generazione che mi ha preceduto, posso vantare un record. In quindici anni della mia storia lavorativa, ho fatto causa già sei volte ai miei datori di lavoro, tenendo fede a quei presagi che manifestavo, inconsciamente, sin da bambino.
«Non va bene fare causa al tuo datore di lavoro», mi ha ripetuto diverse volte mio padre. Anche dopo che quelle cause le ho vinte. Tutte. Nemmeno le sentenze nero su bianco gli avrebbero fatto cambiare idea.
«Sarà il mio datore di lavoro», gli ho risposto, «ma sta calpestando i miei diritti. Devo rimanere zitto?»
Mio padre, di fronte ad affermazioni così piene di livore, si limita di solito a scuotere la testa. Mi fa sentire di nuovo bambino. Per lui le mie asserzioni non sono diverse da quelle che esclamavo, impettito, a otto anni. Oggi non ride più. Almeno quello l’ho ottenuto.
«E tu fai causa, allora», mi ripete sempre per chiudere la discussione prima che ci mettiamo a litigare, «però non va bene, non è una cosa giusta.»
Io rifletto sulle sue parole e mi rendo conto che sta cercando di trasmettermi un messaggio. Ai suoi tempi era sbagliato intentare una vertenza, mi domando, perché tanti di quei datori di lavoro, a modo loro, avevano una considerazione differente, forse addirittura migliore, dei propri dipendenti?
«Come siamo arrivati a questa frattura?», ho chiesto al primo avvocato che ha curato il mio ricorso contro una multinazionale informatica che, dopo due contratti da 18 mesi l’uno, mesi in cui i miei responsabili hanno sempre elogiato la qualità del mio apporto alla mission aziendale, nel 2006 decide di darmi il benservito e di chiudere unilateralmente il nostro rapporto professionale.
La legge sancisce che non potrebbero farlo, che al secondo rinnovo il contratto a tempo determinato deve essere trasformato in tempo indeterminato: ma loro lo fanno lo stesso. E senza vergognarsene. Senza dare spiegazioni. Oggi quella legge è cambiata e io non posso che ripensare a una canzone di De André: “una volta un giudice come me / giudicò chi gli aveva dettato la legge: / prima cambiarono il giudice / e subito dopo / la legge“.
L’album è “Storia di un impiegato”, la canzone parla di sogni. Ma noi siamo una generazione a pezzi, che sta perdendo i propri sogni per strada.
L’avvocato ha assaporato la mia domanda e mi ha fissato sorpreso: «Il problema è che la maggior parte dei lavoratori è disinformata. Non conosce i propri diritti. Non sa che può impugnare un licenziamento ingiusto. Che se agisce attraverso i sindacati il più delle volte può farlo gratuitamente e senza rischi».
Io non ci ho pensato su troppo. Avevo ventisei anni.
Lui mi ha sorriso e mi ha offerto la mano. Mi ci sono aggrappato, a quella stretta.
«E io gli faccio causa», gli ho risposto.

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