Laura Grimaldi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 11: Dr. Westlake & Mr. Stark https://www.carmillaonline.com/2023/12/04/esperienze-estetiche-fondamentali-11-donald-e-westlake-richard-stark/ Mon, 04 Dec 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79988 di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico). Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della [...]]]> di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico).
Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della vita, di quelle che da sole giustificherebbero, se solo riguardassero opere insigni e si sapessero in giro, una duratura nomea letteraria. Questa: qualche anno prima che l’arcanum venisse svelato dallo stesso interessato, o che a chiunque altro venisse in mente che c’era lì un arcanum da svelare, capii che Donald E. Westlake, l’inventore del giallo umoristico, e Richard Stark, l’inventore del nero criminale, l’uno Jerome K. Jerome redivivo, l’altro imperturbabile fantasma di François Villon, erano la stessa persona. (Aritanga Jekyll e Hyde).

Non fu un’intuizione da poco, fu scoccare la freccia nel centro esatto del bersaglio, roba da destare non diciamo l’invidia ma almeno l’ammirazione di Cesare Garboli o (piuttosto che niente) del mio amico Roberto Barbolini, tant’è che ancora me ne vanto. Una volta, a colazione, lo raccontai a Laura Grimaldi, direttrice all’epoca del Giallo Mondadori, che di Westlake-Stark era una grande fan, oltre che la traduttrice ufficiale, ma temo che non mi abbia creduto. Io stesso, mentre mi facevo bello, stentavo a credermi. Un’altra volta avrei potuto raccontarlo allo stesso Westlake-Stark, che intervistai per “il Giorno” in anni lontani (fine ottanta, primissimi novanta) al Grand Hotel et de Milan. Era un’intervista organizzata dalle edizioni Interno Giallo, nel frattempo scomparse, o meglio riconfluite in Mondadori, di cui erano un’ala ribelle. Intervistai contemporaneamente lui e il grande Ed McBain, convocati entrambi a Milano in occasione dell’uscita contemporanea di due loro libri: Mostro sacro (oppure Un buco nell’acqua) Westlake, Misfatti (o Conversazioni criminali) McBain, che li firmò entrambi col suo vero nome, Evan Hunter.

Si presentarono insieme nella hall dell’albergo, due anziani newyorchesi purosangue dall’aria sgamata. Westlake, ormai un umorista a tempo pieno che da anni non scriveva più storie firmate Stark, aveva pochissima voglia di ridere e non reagiva alle battute, mentre il suo collega McBain, autore di sobri melò criminali, rise e scherzò tutto il tempo.

Oltre alle storie dell’87mo Distretto, l’immaginario distretto di polizia d’una città immaginaria («Isola») molto simile a New York, McBain aveva scritto la sceneggiatura degli Uccelli di Hitchcock (1963) e ispirato ad Akira Kurosava Anatomia di un rapimento (di nuovo 1963). Quanto alle storie di Westlake erano stato portate sullo schermo da Jean-Luc Godard, John Boorman, Peter Yates, Costa-Gavras. Erano due monumenti alla cultura pop, e in quel momento erano entrambi seduti con me nella hall d’un albergo milanese. Mica male, no? Stavano lì, sorseggiando succhi di frutta e caffè, parlando di cinema, di romanzi, di serie televisive (entrerei nei particolari se la mia memoria si spingesse così lontano, o ritrovassi l’intervista tra le vecchie cartacce, purché non mi si chieda di cercarla adesso).

Erano in due. In tre con Richard Stark.
Autori di thriller e mistery, dovevano sapere (lo sapevo persino io) che qualcosa non tornava. C’era lì un mysterium: l’assenza di Richard Stark. «Un terzo», come nella Terra desolata di Eliot, ci camminava accanto.

Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo solo io e te
ma quando guardo la strada bianca davanti
c’è sempre un altro che ti cammina accanto
scivola avvolto in un manto marrone, incappucciato
non so dire se sia un uomo o una donna
– ma chi è che ti sta accanto dall’altra parte?

Personalmente, prima dell’illuminazione, in anni non lontani ma lontanissimi, avevo incontrato il terzo (con me il quarto) che ora sedeva con noi, ospite invisibile del Grand Hotel et de Milan, in un campeggio delle Cinque Terre. Era l’estate del 1964. Ero finito a Monterosso, o Porto Venere che fosse, con mio fratello, che aveva preso da poco la patente e che, con la sua 600 nuova di zecca, voleva mettersi alla prova come autista su lunghi percorsi. Fu lì, seduto nella posizione del loto su una spiaggia sassosa, con gli occhiali scuri e un’aranciata tiepida, cosparso d’olio solare, che lessi Anonima carogne, in originale The Hunter, uscito in America l’anno prima. Era la prima avventura di Parker, il rapinatore (che non aveva un nome ma soltanto un cognome) protagonista delle storie di Richard Stark. Anonima carogne, negli anni a venire, sarebbe stato portato molte volte sullo schermo. Avrebbero interpretato il ruolo di Parker, in un putiferio di film tratti quasi tutti da quella sua prima avventura, Lee Marvin e Mel Gibson, Jason Statham, Robert Duvall, Peter Coyote e persino Jim Brown, un attore nero. Al momento, mentre leggevo Anonima carogne nelle Cinque Terre, non si era ancora visto un solo film, naturalmente, ma era evidente che ce ne sarebbero stati. Dr. Westlake e Mr. Stark: lo strano caso del libro che non sembrava di leggere ma di vedere.

Anonima carogne era una storia incredibile. Mai letta una storia così. Parker, sua moglie e un altro criminale, revolver alla mano, sul viso una calza di seta, svaligiavano una banca, o forse assaltavano un furgone postale. Moglie e socio se la intendevano e Parker (come i mariti becchi nelle pochade francesi, e come Suchanov a Pietrogrado) era l’ultimo a sapere. Scopriva la tresca solo quando i due gli sparavano, lasciandolo per morto, e fuggivano col bottino. Parker finiva in carcere per un altro reato. Ne usciva dopo qualche mese, deciso a rintracciare i due felloni. Direte: cercava vendetta. No, Parker cercava i suoi soldi. Efficiente, gelido, nemmeno l’ombra d’uno scrupolo, un killer nato, ma soprattutto nessuna voglia di ridere, come Westlake a Milano, Parker rintracciava la moglie fedigrafa, quindi anche il socio fellone, ma i soldi della rapina erano spariti: il socio spiegava d’averli usati per saldare un debito con la mafia, qui detta l’Organizzazione, che altrimenti il conto l’avrebbe saldato a lui. Parker accoppava l’ex socio, che aveva tentato (un povero illuso) di sparargli di nuovo, ma soltanto dopo avere ottenuto da lui il nome del mafioso che aveva preso materialmente i soldi. Gli si presentava, non invitato, in casa: hai un tot di dollari miei, bello, provvedi a girarmeli o qui finisce male. Quello rideva, incredulo, così Parker gli diceva di chiamare al telefono il suo superiore gerarchico nell’Organizzazione. Puntando la Smith & Wesson alla tempia del sottoposto, spiegava al secondo boss la natura del problema: i miei soldi, o prima ammazzo questo qua, quindi vengo a cercare te. All’altro capo del telefono risuonava la solita risata, così Parker sparava, poi si presentava di persona a casa dello spiritoso, dove si ripeteva la stessa scena, caccia i soldi, non li ho, bang-bang, e via così, un superiore gerarchico dopo l’altro. Mentre Parker avanzava da un capitolo all’altro di Anonima carogne, la scia di cadaveri s’allungava, tutti stecchiti, un mafioso dopo l’altro, ciascuno insieme ai suoi gorilla, finché l’Organizzazione non ne aveva abbastanza e restituiva i soldi al ladro legittimo, che incassava tranquillo e impassibile. Da quel giorno Parker, grande stratega di rapine, mente napoleonica, avrebbe rapinato di tutto, casinò, treni, vagoni postali, banche, gioiellerie, una volta persino una città intera. Con lui, reclutati di volta in volta per questo o quel colpo, altri rapinatori di rango, lo affiancavano nelle rapine: Stan Devers, Dan Wycza, Handy McKay, Frank Elkins, Ralph Wiss. In primissima fila, tra loro, c’era Alan Grofield, attore dilettante e re del rififì. Protagonista in proprio di quattro romanzi, Grofield fu una delle scintille che avrebbero alimentato la mia illuminazione critica.

Dice una leggenda che Stark, negli anni sessanta, era l’autore più letto nelle carceri americane, dove Parker, un malvivente spietato e asociale, faceva da modello e ideale dell’Io a ogni fior di galeotto. Piaceva, immagino, anche alla bella gioventù dell’epoca, che aveva decretato il successo di Bonnie and Clyde (da noi Gangster Story, Arthur Penn, 1967) e che presto avrebbe tifato per i Vietcong, per Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah e per le belle imprese di Che Guevara in Bolivia. Banditi esistenzialisti, fidanzatini di Peynet armati di mitragliatore, Bonnie e il suo ragazzo non somigliavano granché al sinistro eroe di Richard Stark, ma occupavano lo stesso spazio culturale: Parker i penitenziari, B&C le sale cinematografiche. E i jukebox: «Bonnie e Clyde sono due tipi strani. / Invece di dire buongiorno, dicon su le mani» cantava Gianni Pettenati, uno scialbo gorgheggiatore dell’epoca, a Bandiera Gialla, trasmissione cult del radiolitico.

Cinque Terre, in ogni modo. 1964. Passò qualche anno, e a Natale del 1970 ero ricoverato all’ospedale militare di Milano (sotto le feste, chi passava le carte da finto malato, anche solo per un paio di settimane negli uffici del segretariato ospedaliero, otteneva due mesi due di licenza per malattia… è una storia lunga). Si lavorava dalle otto-nove del mattino fin verso l’una, poi non restava che ammazzare il tempo. Alcuni leggevano, molti chiacchieravano, qualcuno giocava a poker come in Cincinnati Kid (il film di Norman Jewison con Ann-Margret e Steve McQueen, tratto da un grande romanzo omonimo di Richard Jessup, Garzanti 1967, con una bella copertina di Guido Crepax).

Qualche volta giocavo anch’io, e in un’occasione mi capitò persino di vincere, benché sia negato per qualsiasi gioco, dal calciobalilla a Tetris, figurarsi il poker. Vinsi una somma per l’epoca enorme, circa 300.00o lire, che divisi a metà (non sembravano soldi veri ma soldi del Monopoli) con un hippie sfigato e piagnucolone che doveva mandare al più presto del denaro ad Amsterdam, dove la sua ragazza era nei guai, o così frignava lui. Giocavo, ma soprattutto leggevo, naturalmente. Di notte, all’ora delle galline, venivano spente per decreto burocratico tutte le luci e così mi toccava leggere sotto le lenzuola alla luce d’una torcia elettrica. Lessi, tra gli altri, uno dei migliori romanzi di Donald E. Westlake, Un bidone di guai, in originale God Save the Mark, cioè «Dio salvi il ghiozzo», dove ghiozzo sta per vittima predestinata dei bidonisti. Romanzo straordinario, mi rimase impresso non soltanto perché bello. M’impressionò, credo, anche per via dell’hippie. E se fossi stato un ghiozzo anch’io? Forse l’hippie mi aveva bidonato con una storiella strappacore (quando lo incontrai per caso, mesi dopo, in una via di Firenze, o di Bologna, non ricordo, finse di non riconoscermi, vedi mai che gli chiedessi, come Parker ai mafiosi, di restituirmi i soldi, o qui finisce male, bello).

Ma veniamo a Fred Fitch, protagonista d’Un bidone di guai, e diciamo subito che, benché indubitabilmente fesso, non era «un fesso qualsiasi» ma – per citare il soffietto dell’ultima edizione del romanzo (2013, I classici del Giallo Mondadori n. 1314) – «il re dei fessi». Gigante tra i fessi, Fitch è eternamente in balia di «truffatori e imbroglioni pronti a profittarsi della sua buona fede». Salta fuori in apertura del romanzo che, come lui è il re dei fessi, suo zio era il re dei bidonisti. Scomparso di recente, lo zio gli ha lasciato in eredità tutto quel che possedeva, compresa una bellissima ragazza, sua complice nei bidoni più complicati, e forse anche un tesoro in denaro o gioielli. Comincia una farsa slapstick, congestionata e fracassona, di bidoni e controbidoni, per metà comica finale e per metà Neil Simon (di nuovo lui). Anche qui, come con Anonima carogne, una storia incredibile. Mai letto niente di simile prima.

Durante la licenza, che si trasformò (altra storia lunga) in congedo definitivo, mi procurai sulle bancarelle ogni altro Westlake uscito negli anni. Non erano moltissimi, più o meno una decina, alcuni apertamente umoristici, altri soltanto brillanti e per così dire «giallo-rosa», o «romantic suspence», stile Claudia Cardinale e David Niven nel primo La pantera rosa (Blake Edwards, 1963) o Cary Grant e Audrey Hepburn in Sciarada (Stanley Donen, sempre 1963). C’erano Veleno nel sangue, I mercenari, Qualcuno mi deve del grano, Prendetelo morto, Ma chi ha rapito Sassi Manoon, 25: morto che scappa: quasi tutti Gialli Mondadori. Pochi mesi dopo sarebbero usciti da Feltrinelli Addio, Shéhérazade e su “Segretissimo” una spy story umoristica intitolata … e così spia.

Addio, Shéhérazade non era un giallo ma la storia delle disgrazie tutt’altro che a luci rosse (anzi) che capitano a un romanziere porno cacciato di casa, mentre … e così spia era la storia d’un pacifista compulsivo, con le dita sempre sporche d’inchiostro per il ciclostile, e della sua ragazza, un’ereditiera bella e svampita, che l’Fbi infiltra in un gruppo terroristico da vaudeville. Sempre di lì a poco (be’, diciamo di lì a due o tre anni) sarebbe stato tradotto Brother’s Keepers (Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca, Editoriale Corno 1975): Fratel Benedetto, trappista dell’Ordine di San Crispino, deve salvare il convento, situato a Park Avenue, New York, dall’essere abbattuto per fare posto a un grattacielo. Ma soprattutto, in piena licenza per malattia, quando mancava meno d’un mese al congedo, uscì Il Giallo Mondadori n. 1150 del 14 febbrai0 1971: Gli ineffabili cinque, in originale The Hot Rock, o La pietra che scotta, come il grande film (oggi purtroppo semidimenticato) con George Segal e Robert Redford che ne avrebbe tratto Peter Yates nel 1972. Era la prima avventura di John Archibald Dortmunder, brillante organizzatore di furti e ruberie, ladro provetto ma iellato, versione giallo-rosa di Parker.

Dortmunder faceva lo stesso mestiere di Parker (rubava ai ricchi e teneva il maltolto per sé) ed era bravo quanto lui: piani perfettamente congegnati, che infatti funzionavano con precisione e puntualità, salvo (ogni volta) qualche intoppo imprevedibile, tutti però del genere slapstick: l’equivalente thriller dell’ubriaco che sbaglia porta di casa e si mette a dormire in un letto altrui (per giunta già occupato) e del grassone che, inseguendo un bambino sberflone, scivola su una buccia di banana, o del gagà che lascia cadere il monocolo nel generoso decolté d’una signora. Diversamente da Parker, Dortmunder non portava armi, rifuggiva la violenza, amava la quiete e non frequentava il milieu, salvo un cognato pazzo e pasticcione. Sempre a differenza di da Parker, che frequentava tipi loschi ed era più losco e pericoloso di loro, Dortmunder viveva nell’universo di Berto Wooster, l’eroe di P.G. Wodehouse, sotto un’eterna pioggia di torte in faccia.

Fu a quel punto che feci due più due.
Dortmunder era Parker (ci risiamo) come Jekyll era Hyde. Non c’era margine d’errore: l’uno era il riflesso dell’altro in uno specchio deformante. Entrambi rapinatori, i soli due rapinatori diventati eroi seriali dei pulp dai tempi di A.J. Raffles e Arsène Lupin, ed entrambi alle prese, ogni volta, con la pianificazione d’un colpo, poi con la sua esecuzione, quindi con gl’inciampi (buffi, drammatici) che immancabilmente ne seguivano. Parker risolveva i problemi a revolverate, Dortmunder rinunciando al bottino, facendosi deriubare o tornandosene a casa con la coda tra le gambe. C’era poi Alan Grofield, il socio di Parker, guitto e ganimede, che nelle sue avventure da protagonista e prim’attore stingeva sempre più nel «giallo-rosa». Finanziava la sua stravagante compagnia teatrale con furti con scasso e aveva conosciuto Mary, sua moglie, durante una rapina (era una delle telefoniste prese in ostaggio nella piccola città che Parker e la sua «posse» di loffi saccheggiavano per lungo e per largo in un romanzo del 1967, The Rare Coin Score, da noi Parker: rapina a sangue freddo, “il Giallo Mondadori” n. 1021). Indizio risolutore (e qui, lo ammetto, non ci volevano né Sherlock Holmes né Giorgio Manganelli per venire a capo del mysterium): uno dei personaggi degl’Ineffabili cinque si chiamava Alan Greenwood, era un attore e meditava di cambiarsi il nome in Alan Garfield. Altro indizio risolutore (e di nuovo, lo riammetto, non è meccanica quantistica): in Jimmy the Kid, da noi Come ti rapisco il pupo, Dortmunder s’ispirava a un romanzo di Richard Stark nel progettare il suo kidnappimg (rapisce un bambino cinefilo dal Q.I. einsteiniano, che finisce per dirigere il rapimento e che alla fine s’intasca il riscatto, coglionando i criminali).

Più avanti, anni dopo, quando saltò fuori che Westlake e Stark erano effettivamente le due personalità multiple d’uno stesso romanziere, circolò la leggenda che a Westlake, mentre stava raccontando ad alcuni amici la trama d’una storia di Parker, fosse venuto da ridere. Di qui, con un testa-coda e una brusca ripartenza da pilota di Formula 1, la trasformazione di quella trama nella prima storia di Dortmunder. Qui ci fu un fattaccio. Parker, invece di coesistere col suo doppio comico, perse d’un tratto consistenza e cominciò a svanire, come un cattivo pensiero. Westlake, convertito a Dortumunder, ne aveva evidentemente abbastanza dell’aplomb, della mancanza di scrupoli, della pistola facile di Parker.

Molto prima che John Archibald Dortmunder prendesse il sopravvento, Parker cedette per un po’ il passo a Grofield che, a conclusione del colpo al Casinò di un’isola chiamata Cockaigne, cuccagna, in un romanzo intitolato The Handie, da noi Parker: a ferro e fuoco, “Il Giallo Mondador”i n. 944, restava in un hotel messicano, ferito e dolente, mentre Parker se la batteva dopo avergli lasciato in una valigetta la sua parte di bottino. Cominciavano le avventure di Grofield, da Carrera messicana (The Damsel, 1967) a Tocca ferro, Grofield (Lemons Never Lie, 1971), che apparvero da noi sia sul “Giallo” che su “Segretissimo”. Erano roba un po’ à la James Bond, ma in tono molto leggero, non ancora comico, ma già rilassato e piacevole, o meglio «piacione», cosa che tra gli ergastolani, fan delle maniere e delle emozioni forti, immagino abbia destato scandalo. Grofield non era un modello per gli ospiti di Sing Sing, proprio come non lo sarebbe stato John Dortmunder, ladro buono e morbido, troppo letterario e frizzante, senza neppure una traccia di sana brutalità. Ma presto anche Grofield seguì Parker nell’oblio. Comparve ancora in Slayground, o Luna-Parker, “Il Giallo Mondadori” n. 1234 del 1972, e nel suo seguito, Butcher’s Moon, o Parker: luna nuova, buio pesto, “Il Giallo Mondadori” n. 1366 del 1974: nel primo romanzo Parker e Grofield, dopo una rapina, sono costretti a nascondere il bottino in un luna-park, dove torneranno anni dopo, in un nuovo romanzo, per recuperarlo, ma una ghenga di teppisti locali cercherà di soffiarglielo.

Parker tornerà per un ultimo giro di giostra, resuscitato insieme Richard Stark, in una serie di nuove storie più di tre decenni più tardi: la prima è del 2000 (Flashfire, da noi Flashfire: fuoco a volontà, Sonzogno) e l’ultima (Ask the Parrot, da noi Parker: ultima corsa, Alacran) è del 2008, l’anno della morte di Westlake. Nessuna di queste storie è memorabile o anche soltanto intrigante come una volta, nei remoti sixties. Sarà che i tempi sono cambiati, che Parker non è più una novità né uno scandalo, che il crimine ha perso il suo appeal. Parker è ormai un personaggio invecchiato, tuttavia immagino che i galeotti d’America abbiano festeggiato la sua réentré, e quanto a me, naturalmente, raccomando l’ultimo Stark, che primo o poi rileggerò, anche a chi è libero come l’aria.

Nei primi settanta, con la gente che frequentavo, non è che potessi seriamente vantare con qualcuno il mio satori critico a proposito di Donald E. Westlake e del suo doppio. Dortmunder, Parker, Grofield erano maschere d’un carnevale che sapevo solo io. Niente di che, intendiamoci. Avevo capito – e me ne davo atto ogni volta che usciva un nuovo libro dell’uno o dell’altro, oggi Stark, domani Westlake – che la lettera rubata era nascosta in piena vista.

A lungo, per forza di cose, tenni per me sia l’enigma che la soluzione dell’enigma. Quando ne parlai con qualcuno, per esempio con Laura Grimaldi a colazione, era un mysterium ormai risolto da tempo, e intanto la fama di Dortmunder, di Parker, di Grofield andava impallidendo, fin quasi a sparire del tutto (al cinema Dortmunder era stato non soltanto Robert Redford, ma anche George C. Scott, Christopher Lambert, Martin Lawrence, Herbert Knaup, persino Teo Teocoli, e poi più nulla, finis). Oggi, diciamocelo, chi ne sa più niente? E in fondo, a chi importa?

Allo Strand Bookstore della 12th, all’angolo con Broadway, c’è un’intera sezione dedicata ai libri su New York, ma non vi troverete un solo titolo di Westlake, che di New York è stato uno dei cantori (trovate, in compenso, tutto Westlake e tutto Stark al Mysterious Book Shop di Warren Street, giù nel distretto finanziario). Westlake scriveva romanzi così «newyorkcentrici» che quando uno dei suoi personaggi passava il ponte di Brooklyn diceva d’essere diretto «in America». Ma la magnifica libreria della 12ma strada fa spallucce.

Ignora o non tiene conto che nei romanzi di Westlake ci sono pagine straordinarie su New York. Tipo questa:
«A New York tutti cercano qualcosa», scrive Westlake in apertura di Dancing Aztecs (La danza degli aztechi, “Giallo Mondadri” n. 1500, ottobre 1977).

«Gli uomini cercano le donne e le donne cercano gli uomini. Giù al bar degli invertiti, gli uomini cercano gli uomini, e al «Barbara» e al Movimento di liberazione della donna, le donne cercano le donne. Le mogli degli avvocati, davanti a Lord & Taylor, cercano un tassi, e i mariti delle mogli degli avvocati, in Pine Street, cercano il rotto della cuffia. Le passeggiatrici davanti all’Americana Hotel cercano un gabinetto, e i ragazzini che aprono le portiere dei tassi davanti al terminal di Port Authority cercano mance. Così come cercano mance i tassisti, i fattorini, i camerieri e gli agenti della Squadra Narcotici- I neolaureati cercano lavoro. Gli uomini che portano la cravatta cercano un lavoro migliore. Gli uomini che portano i giubbotti di pelle cercano invece migliori opportunità. Le donne in tailleur di linea severa cercano opportunità uguali a quelle degli uomini. Gli uomini con la cintura di coccodrillo cercano una roulette alla quale si possa barare. Gli uomini con i polsini lisi cercano dieci dollari fino a mercoledì. Gli imprenditori cercano profitti più alti e una bella villa in New Hyde Park. I bravi ragazzi di Fordham cercano una ragazza da portare al cinema. I cattivi ragazzi di St. Louis ne cercano una da portare a letto. I giovani dirigenti aziendali della Terza Avenue cercano una relazione sentimentale significativa. I neri del Bronx che stazionano in Washington Square Park cercano carne bianca. I bevitori di birra che stazionano nei bar di Columbus Avenue cercano guai. Il Dipartimento Parchi e Foreste cerca alberi da abbattere e da trasformare in legni da ardere a beneficio dei politicanti locali. Gli abitanti dei vari quartieri cercano dei politicanti che impediscano al Dipartimento Parchi e Foreste di abbattere tutti quegli alberi. Campa cavallo. I mendicanti del Bowery, con in mano uno straccio sporco, cercano un parabrezza da pulire. Le macchine con la targa della Florida cercano la West Side Highway. Le macchine con il contrassegno dei medici cercano un posteggio. I furgoni delle consegne a domicilio cercano un posteggio anche in doppia fila. I drogati cercano un’automobile con il contrassegno della Stampa, perché spesso i giornalisti lasciano la macchina fotografica nello scompartimento del cruscotto. Le massaggiatrici cercano un pollo da venti dollari. Le signore residenti in periferia cercano un buon cinema per passarci il mercoledì pomeriggio, per poi concedersi una cenetta a base di formaggio e lattuga. I turisti cercano un posto dove sedersi, i pataccari cercano i turisti, i poliziotti cercano i pataccari. I vecchi seduti sulle panchine di Broadway cercano un po’ di sole. Le vecchie in stivaloni militari cercano chissà che cosa nelle pattumiere della Sesta Avenue. Le coppie che passeggiano mano nella mano per Central Park cercano un’esperienza guidata da madre natura. Le bande di ragazzini di Harlem cercano biciclette in Central Park. Le signore dei centri assistenziali battono la Cinquantacinquesima Strada Ovest in cerca di Rockefeller, ma lui non c’è mai. Alle Nazioni Unite cercano traduzioni simultanee. A Broadway cercano un grosso successo. Al Lincoln Center cercano rispettabilità artistica. Quasi tutti, nella metropolitana, cercano una rissa. Quasi tutti, sul treno delle cinque e nove per Speonk, cercano la carrozza bar. Quasi tutti, nell’East Side, cercano una posizione di rilievo e quasi tutti, nel West Side, cercano una dieta che funzioni davvero».

Un pulp in grande spolvero. Eppure niente. Di Westlake (scandalo) non parla più nessuno. Gli ultimi Stark, che un tempo uscivano dignitosamente da Mondadori, a inizio del millennio erano pubblicati da editori improbabili. Molte storie di Dortmunder («one of us» uno di noi, come diceva Conrad dei marinai) non sono state mai nemmeno tradotte. È andata meglio a McBain, scomparso quasi ottantenne nel 2005, una prece anche per lui, che almeno esce da Einaudi, in edizioni non particolarmente prestigiose ma almeno rispettose.

Westlake e Stark hanno avuto per nemico il tempo, che notoriamente non fa prigionieri. Vale per tutti, per gli autori come per i lettori. Cosa sarà di tutti gli altri autori, compresi quelli che passano, a buon titolo, per immortali? Faranno la stessa fine? Cosa sarà, mi viene in mente adesso, mentre ripongo negli scaffali (o meglio rificco, strizzandole) tutte le storie di Parker, Grofield e Dortmunder, degli autori che affollano gli scaffali più sotto: Fëdor Dostoevskij e Aleksandr Solženicyn? Spariranno anche loro? Già sono quasi del tutto scomparsi i loro lettori. Un tempo tutti «leggevano i russi». Oggi non si legge neanche più Westlake, che pure s’è guadagnato, almeno nella mia libreria, uno scaffale più in alto di quello assegnato a Dostoevskij (uno scaffale sotto Destoevskij: Solženicyn). So che non è una gara, ma più in alto di tutti, due scaffali sopra Westlake, c’è Rex Stout. Tra i due: uno scaffale doppio di robe su Bob Dylan.

Ma restiamo ai «russi». Lessi Delitto e castigo con tre maglioni addosso accanto a una stufa accesa, poi tutti gli altri Dostoevskij a ruota, ma senza più stufa e maglioni. Lessi via l’uno l’altro, senza prendere fiato. Quanto a Solženicyn, lessi Nel primo cerchio, Arcipelago Gulag, Lenin a Zurigo, La quercia e il vitello nei giorni del rapimento Moro insieme a pochi assaggi di nouvelle philosophie. Solženicyn e Dostoevskij tifavano entrambi, senza che me ne accorgessi leggendoli, per il dispotismo asiatico, rovina del mondo, tempesta che infuria nei secoli. Sembrava che «i russi» fossero la soluzione d’ogni problema morale. Invece erano loro la rogna.

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Esperienze estetiche fondamentali / 10: Tex Willer, Pecos Bill. https://www.carmillaonline.com/2023/11/12/esperienze-estetiche-fondamentali-10-tex-willer-pecos-bill/ Sun, 12 Nov 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79435 di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione [...]]]> di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione della metro nella 42th strada, di ritorno da Coney Island, mi comprai delle calze pesanti e un maglione nell’H&M di Times Square.

Affittavamo un appartamento nella 98th. Era una casa d’arenaria all’angolo con Riverside Drive, un isolato da Broadway e a pochi passi dalle panchine dell’Hudson River Park, una lunga striscia d’alberi, stradine e aiuole che s’allunga, costeggiando il fiume, per tutto il West Side. Al mattino, in pochi minuti, dopo una breve sosta per un cappuccino medium allo Starbuck della 96th, eravamo a Central Park, e anche lì, nell’ombra degli alberi, le panchine non si contavano. Giù al Village ci piaceva sedere a Washington Square, vicino all’Arco di Trionfo e alla statua di Peppino Garibaldi. Era lì, dicevo io, che Jane Fonda e Robert Redford avevano girato la scena del marito sbronzo e senza scarpe di A piedi nudi nel parco, Gene Saks, 1967, un altro grande film tratto da Neil Simon. Mia moglie annuiva, meno impressionata di me. Ma insomma ti sedevi e leggevi, ed era un bel leggere, e un bel sedersi.

Ormai si viaggiava leggeri.
Non c’era più bisogno, come nella preistoria di Airbnb e dei voli low cost, in epoche già allora più remote della guerra fredda e dei Duran Duran, d’imbarcare sull’aereo una valigia di libri, meglio se massicci e di volume contenuto, come i Meridiani Mondadori, oppure i cofanetti Adelphi, collana «La Nave di Argo». Adesso libri (e fumetti) stavano tutti nel cloud: un iperspazio spropositato, dove li avevamo ammassati a migliaia, e da dove potevamo richiamarli in qualsiasi momento con tablet e smartphone, strumenti così tecnologicamente avanzati da non essere stati «anticipati» o previsti in alcun modo né dal Capitano Kirk dell’astronave Enterprise né dal Capitano Nemo del Nautilus. A un bibliomane, come a un fumettomane, sempre che esista (e non dovrebbe, è orribile) una simile parola, sembrava di vivere nella Paris au XXe siècle di Jules Verne, o tra Le meraviglie del Duemila d’Emilio Salgari.

Quell’anno, senza entrare in particolari che potrebbero incriminarmi, avevo caricato sul cloud l’intera collezione di Tex (il fumetto Bonelli, più di 600 volumetti, ciascuno di 120 o 130 pagine) e i 65 magnifici albi di Pecos Bill prima serie, usciti nei primi anni cinquanta, ristampati nei primi sessanta e poi più niente, svaniti. Sceneggiato da Guido Martina, disegnato da signori illustratori come Raffaele Paparella, Dino Battaglia e Gino d’Antonio, di Pecos Bill avevo trovato su eBay, tempo prima, anche gli albi «cartacei» che avevo comprato ma non conservato molto tempo fa («cartaceo» è un aggettivo, fateci caso, che prima degli eBook capitava raramente d’usare, e quando lo si utilizzava era per lo più in senso figurato, per biasimare la burocrazia, e adesso a significare editoria passatista). Dal cloud, in ogni modo, avevo copiato sull’iPad Pecos Bill e tutto quanto Tex prima di lasciare l’Italia con un volo per il Kennedy via Istanbul. Mi ripromettevo di leggerli tutti prima di tornare a casa, quarantacinque giorni più tardi.

Era una promessa avventata perché non ero in vacanza. Stavo lì, spaparanzato, Starbuck, il Central Park, l’Apple Store della Quinta Strada, Neil Simon, Coney Island, ma mi toccava lavorare. Avevo da scrivere corsivi e recensioni, dunque c’erano libri da leggere e giornali da sfogliare, e-mail da scambiare, ogni tanto una telefonata. E poi c’era Manhattan da esplorare, benché dopo tutte quelle primavere tiepide (più un’estate gelida) passate nella 98th, mia moglie e io la conoscessimo a memoria, in ogni pertugio, dal molo dei traghetti per Long Island su su fino al Bronx, ma vai a stancarti di bighellonare. C’era tuttavia anche questa gran montagna di fumetti da scalare. Sparatorie, risse, cavalcate; le carovane dei pionieri, i Ranger del Texas. Kit Carson, Mefisto, Davy Crockett, Calamity Jane. «Corna di satanasso!» esclamava Tex Willer. Gli faceva eco Kit Carson: «Sangue di mille bisonti!» «Big Tex!» esclamava Davy Crockett nelle storie di Pecos Bill. C’era un bel po’ di roba da leggere. Ma erano soltanto fumetti, dopotutto: più le figure che i testi. Quanti ne avevo letti nella mia vita? Una marea, un subisso. Non sembrava, a occhio, un’impresa impossibile. E dunque «grimpon, grimpon, grimpon, grimpon», come cantava Maurice Chevalier, arrancando in groppa a un asino su per le Ande peruviane, nei Figli del Capitano Grant, un film di Robert Stevenson, hit disneyano del 1963.

Cominciai da Tex, saltando i primi 20-30 titoli, i soli che avessi letto quand’erano usciti per la prima volta (non si contano, da quel dì, le ristampe). Come a tutti, mi era capitato, naturalmente, di leggiucchiare un Tex ogni tanto, ma erano letture svogliate, un po’ altezzose, da lettore di Linus, di Jeff Hawke e dei Peanuts, di Pecos Bill, di Johnny Hazard. Adesso non saprei nemmeno dire perché Tex mi piacesse così poco. Vedevo, naturalmente, che era molto (ma molto) ben fatto, e per divertirmi mi divertiva, eppure lo prendevo sottogamba, era più forte di me. Aveva soprattutto il difetto, lo capisco adesso, di piacere a persone, soprattutto diffusori di volantini politici, per le quali non provavo rispetto, colpa loro, mica di Tex, ma ogni volta che me ne parlavano, io me la prendevo con Tex, così imparavano. È il lato peggiore del mio (e di qualunque) carattere: lo snobismo, già in sé censurabile, ma qui calcolato, uno snobismo di carambola, che colpisce Tizio tramite Caio e Sempronio, tok-tok-e-tok.

A differenza dei fan di Ingmar Bergman, per dire, o di Michelangelo Antonioni – che deprecavo proprio in quanto fan di film peggio che orripilanti: involontariamente comici – io non disapprovavo Tex fumetto e tanto meno i lettori di Tex presi all’ingrosso, ma questi ridicoli coglioni che leggevano Tex, le gazzette progressiste, quelle sportive, e pensavano invariabilmente col posteriore. Questi qua apprezzavano, di Tex e soci, o meglio «pard», prima di tutto il côté zuccherino, politically correct.

Ranger del Texas, dunque uomo delle istituzioni, Tex è anche capo navajo col nome di «Aquila della Notte», nonché fratello di sangue di Cochise. Amico e protettore degli indiani, con un figlio mezzosangue, Tex combatte esclusivamente buone battaglie contro agenti indiani corrotti, sceriffi gaglioffi, mercanti d’armi, bandidos spietati, feroci negrieri, generali felloni. Paternalista e condiscendente, sta sempre lì a umiliare l’indiano ribelle, e ogni volta è la stessa scena: lui che risparmia la vita al tanghero, questi che lo ricambia con un attacco alle spalle, lui che a questo punto in genere lo uccide, ma che talvolta lo grazia di nuovo. Tutti i pellerossa, ribelli o remissivi non importa, la comunità pellerossa tutta quanta lo dovrebbe detestare, e invece no, gli sono grati, come a un babbo severo ma giusto.

Era l’idea che questi babbani, futuri elettori leghisti o (peggio) pentastellari, avevano di se stessi: figli della luce – scarsamente dotati sotto il profilo umano, letture poche e sciagurate, un’enorme opinione di se stessi – contro i nemici del popolo. Di Tex, oltre al côté social-palloccoloso, quello che ammiravano di più e che scambiavano nella loro miseria intellettuale per «profondità», costoro apprezzavano anche il lato per così dire «squadristico» (sia detto senza offesa, ma dirlo bisogna): cioè la sua radicata abitudine di caricare di botte i villain.

Con Tex e i suoi pard poche balle. Non si scherza. Alla prima provocazione, uno sguardo storto, una parola di troppo, una minima protesta, ma anche senza provocazione, solo per ottenere delle informazioni o per soddisfazione personale, Tex malmena i villain di brutto, sberle da paura, giù dal tetto con un pestone, fuori dalla finestra con un cazzotto. Quando poi il malvagio è proprietario d’un saloon, o d’un emporio dove si traffica in winchester e whisky destinati a qualche banda isolata d’indiani buontemponi, allora emporio e saloon vanno invariabilmente a fuoco. D’appetito robusto, Tex e Carson, vuoi soli, vuoi in compagnia di Kit Willer e Tiger Jack, rispettivamente figlio di Tex e membro navajo della squadra, siedono in un ristorante, dove ordinano «bistecche alte due dite», «una montagna di patatine fritte», «una torta di mele» a testa e birra fresca senza avarizia, ma è raro che arrivino all’ammazzacaffè senza che qualche mascalzone si faccia sotto per sfidarli. Se la sfida è a chiacchiere, l’incauto se la cava con poco: un occhio nero, il naso pesto. Va peggio al villain che cerca d’estrarre la pistola perché Tex e pard, in questo caso, mettono mano ai «clarinetti» (o alle «spingarde», chiamatele un po’ come volete) e poi bang-bang, la vignetta si riempie di cadaveri. Sono oggetto di continue imboscate, due o tre per volumetto, e mai che ci caschino, bang-bang anche qui e ogni volta l’uno o l’altro della squadra commenta, reinforando il piffero: «C’è lavoro per i becchini». Gli altri annuiscono, impassibili.

Lì a New York, intanto che andavo avanti a leggere, provai a contare i morti ammazzati da Tex e compagni. Be’, erano centinaia, anzi migliaia. Roba da Gruppo Wagner, da mettere i brividi anche al più selvaggio dei mucchi selvaggi. Ebbene, tutto questo carnevale di risse, pestaggi, agguati e accoppamenti (e senza un vero movente, salvo che i morti e i mazziati «se l’erano cercata») era esattamente quel che i lettori delle avventure di Tex a me noti avrebbero voluto fare ai «ricchi». Ai ricchi, agli eretici e, avanzando tempo, agl’infedeli (e se i ricchi sono pochi, eretici o infedeli siamo tutti, nessuno escluso, quindi regolatevi).

Be’, che dire? Pecos Bill non porta nemmeno la pistola, niente, e non uccide mai nessuno. Pecos Bill ha soltanto un lazo, un cavallo (Turbine, «figlio del vento») al quale manca soltanto la parola, un socio pellerossa (Penna Bianca) e delle brache sfrangiate (e un po’ ridicole) da cowboy.

Pecos Bill non spara e non impreca mai. Rotea il lazo nell’aria e lo fa ricadere con un sibilo dritto intorno al girovita dei suoi nemici. Bloccati a metà d’un gesto, questi cadono, nel caso peggiore, da cavallo o dalle rocce giù nel fiume, e non si fanno mai troppo male. Bill è biondo, con una striscia di capelli neri che va dalla fronte al coppino, e in una sequenza onirica che appare nel primo albo, ha dei sottili baffi neri, e i capelli gli ricadono sulle spalle. Sembra un hippie (sono i primi cinquanta) in grande anticipo sui tempi o un poeta tedesco in ritardo sullo Zeitgeist. Puntategli contro una pistola, e subito l’abbasserete, incapaci di sostenere il suo sguardo fermo e sincero. Bill ama Sue, bionda anche lei, e non meno santerellina. Ogni tanto, tra un’avventura e l’altra, siedono in silenzio sotto le stelle del Texas, mano nella mano, e ascoltano i coyote ululare in lontananza.

Bill aveva strani amici e nemici, dai nomi e costumi bizzari: Hidalgo Sanchez, Pablo Mexie il desperado e il suo socio Jo-La-Terreur, l’avventuriero Du Tisné, Snake il bandito, Veasy la Regina bianca degli Osages con un cappello di pelliccia sulle ventitré, Pedrito il pistolero e il perfido Rodriguez, il gaucho Vasquez Cinnibar, l’ispettore di polizia Teague Spade, Koe-Mae l’assassino cinese. C’erano Miguel Chico, un giovane vaccaro, e lo schiavista Mister Ho. C’era il capo dei «seminoli» Falco Reale. C’erano Manula la Matadora, Colorado John e il Sergente Barton. C’erano Malone Cordell il taciturno e cowboy e Lojs Rojo, con un gran sombrero e baffi à la Dalí. Era una festa, o meglio una Merenda del Cappellaio Matto, con ospiti e invitati indimenticabili, e quasi tutti messicani, salvo un paio di yankees e un argentino o due, come nei film trucidi di Sam Peckinpah, ma qui senza neppure un sospetto di estetica «druga»: Rossini, Beethoven e ultraviolenza. C’era, in ogni albo, un ritratto a figura intera di ciascuno di questi personaggi. Per vedere acquarelli altrettanto belli e fascinosi avremmo dovuto aspettare le prove grafiche di Milo Manara e Hugo Pratt.

Avevo un debole per Pecos Bill. Disegni perfetti, personaggi che nelle tavole si muovevano con la sinuosità di ballerini, dialoghi romantici, storie che sarebbero piaciute a un librettista verdiano. Ma via via che andavo avanti a leggere Tex Willer cominciavo a capire perché questo sganassatore e incendiario piacesse a tutti, mica soltanto ai pisquani di cui parlavo prima, ma proprio a tutti, praticamente senza eccezioni – e da più anni di quanti ne fossero trascorsi (un bel po’) da quand’ero nato io. Anzi, penso adesso, passati i bollori, che in fondo anche i pisquani avessero le loro ragioni per tifare Tex Willer, ragioni estetiche, diverse da quelle assurde e ridicole che io attribuivo loro. Leggere e apprezzare le avventure di Tex Willer, di Kit Carson, del giovane Kit Willer e di Tiger Jack, il pard navajo impennacchiato, era forse la loro sola virtù, ma era una virtù. Alcune storie di Tex si leggevano, bisogna dirlo, con fatica e scarso vantaggio, erano fiacche e meccaniche, non finivano mai, ma alcune erano bellissime. Dialoghi, scenografie, uso sapiente dei campi lunghi e dei primi piani da fare invidia a Hollywood. Comunque io, prima di New York, non le leggevo, e da allora, convertito alle risse e alle cataste di cadaveri, le leggo ogni mese. Continuo a detestare le storie magico-occultistiche, con Mefisto e gli altri diabolisti, ma quelle classicamente western sono sempre leggibili, e qualche volta perfette.

Ancora non l’ho detto, me ne ricordo anzi solo adesso, ma una volta, moltissimi anni prima di New York, avevo intervistato Gianluigi Bonelli, lui in persona, il padre di Tex Willer. E per lui, se non per i suoi personaggi, sviluppai subito un’ammirazione sconfinata.

Fu verso la metà degli anni ottanta, ad Alassio, mi sembra, o a Diano Marina, dove Bonelli aveva ancorato il suo yacht, il Tex Willer. Duccio Tessari, un ottimo regista, autore di cult come Tony Arzenta e Arrivano i Titani, s’apprestava a girare il suo film peggiore, e forse il peggior spaghetti-western mai girato: Tex e il signore degli abissi, roba orrenda, che non sono mai riuscito a vedere per intero (né ho mai conosciuto nessuno che l’abbia visto o che abbia voglia di parlarne). Tutti gli attori erano fuori parte, a partire da Giuliano Gemma, un Tex Willer di frutta candita. Mai sceneggiatura di film fu più scombiccherata, né le location più inadeguate, o i costumi più tirati via. Chissà cos’era girato a Tessari (una volta parlai anche con lui: s’apprestava a girare un Mandrake con Alain Delon, suo grande amico, ma l’idea abortì subito, vai a capire). Quando parlai con Bonelli, a Bordighera o Spotorno che fosse, Tex e il signore degli abissi era in lavorazione da qualche parte, in Calabria o in Spagna. Era per via del film che lo intervistavo, ma quasi non ne parlammo, e parlammo poco, se ricordo bene, anche di Tex. Con Bonelli, persona cordiale, l’aria vissuta à la Jean Gabin, parlammo del più e del meno e della sua vita di romanziere, pugile fumettista. Era estate, o primavera, e mangiammo in un ristorante sul mare. C’era anche Giorgio, uno dei suoi figli, che quel giorno indossava una giacca di pelle con le frange, come Tex quando è a casa, nella riserva navajo, o come Bob Dylan nei suoi ultimi concerti. Mi aspettavo che ordinassero una bistecca alta due dita e una montagna di patatine fritte. E invece no. Mangiammo una frittura di pesce. E niente birra: vino rosso, se non ricordo male.

A New York, in ogni modo, leggevo Tex e Pecos Bill un po’ dappertutto. Devo confessare che non lessi tutti i 600 volumetti di Tex ma solo trecento-trecentocinquanta, roba così. Pecos Bill, invece, lo lessi da capo a fondo ben due volte, e con molta attenzione. Ne feci una scorpacciata, un giorno, a Herald Square, seduto in una panchina, davanti a Macy’s, dopo aver comprato qualcosa da mangiare in un vicino delicatessen: patate arrosto, uova sode, salmone rosolato, acqua gassata. C’erano tavolini sui quali posare i vassoi.

Avevo scoperto Herald Square, qualche anno prima, leggendo Nero Wolfe e il caso dei mirtilli di Rex Stout, dove Archie Goodwin scrive: «Il posto del mondo che prediligo si trova a soli sette minuti di cammino da dove vivo, nella casa di Nero Wolfe sulla 35ma Strada Ovest: Herald Square, dove nel giro di dieci minuti si può vedere la più gran varietà di persone che in qualunque altro punto del globo. Un giorno ho visto il capo della mafia di New York cedere il passo a una maestra dell’Iowa perché potesse entrare per prima nei più famosi grandi magazzini della città. Se mi chiedete come ho fatto a sapere chi erano, vi risponderò che avevano semplicemente l’aria uno d’essere il capo-mafia e l’altra un’insegnante dell’Iowa».

A Herald Square si stava da papi. Ci capitava spesso di leggere e mangiare lì. C’era anche un chiosco che preparava un ottimo espresso. E un bagno pubblico che era una benedizione per chi ha problemi di prostata. Alzavi gli occhi ed erano tutti lì, chi seduto a piluccare da un contenitore di plastica trasparente ragionando tra sé, chi in coda per la pipì. Aveva ragione Archie Goodwin: a Herald Square potevi incontrare chiunque. Barboni dall’espressione stralunata, giovani e sottili mangiatrici d’insalata scondita con l’aria di modelle, manager incravattati che addentavano un panino e intanto scrutavano negli abissi del MacBook, commesse di Macy’s in pausa pranzo, turisti estasiati, taxisti inquieti, cinesi imperscrutabili.

Adesso ci potevi incontrare anche lettori di Tex e del Pecos Bill prima serie di Guido Martina, Dino Battaglia e Raffaele Paparella (nell’ingresso di casa, a proposito, ho una sua tavola incorniciata). Non ho mai conosciuto, neanche da bambino, un altro lettore di Pecos Bill, ma se c’è un posto al mondo, pensavo, in cui potrei incontrarne uno è Herald Square. Mi guardai intorno. Individuai un tale. Anche lui si guardava intorno. Sembrava nervoso. Non aveva l’aria d’un lettore di Pecos Bill. In compenso somigliava sputato a John Archibald Dortmunder, «l’archetipo del criminale manqué», come lo definì una volta Laura Grimaldi, direttrice negli anni d’oro del Giallo Mondadori, traduttrice di Donald D. Westlake.

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