Larry McMurtry – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Storie e fantasmi tra le crepe del tempo https://www.carmillaonline.com/2019/09/25/storie-e-fantasmi-tra-le-crepe-del-tempo/ Wed, 25 Sep 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54656 di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne [...]]]> di Sandro Moiso

Alessia Turri, Everland. Morti e rinascite nel sud-ovest americano, Cierre edizioni, Verona 2019, pp. 176, 14,00 euro

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Elio Vittorini – Americana)

Quando Elio Vittorini affermava, nel 1942, quanto riportato in esergo, il suo pensiero correva sicuramente all’enorme varietà di storie e vicende che lui e gli altri giovani autori italiani dell’epoca potevano scoprire oppure ritrovare nella letteratura nord-americana. Una letteratura che sembrava riportare e rileggere al suo interno, e nei vasti spazi che ne circondavano spesso le narrazioni, ogni possibile vicenda umana, ogni possibile storia. Antica e moderna.

All’epoca, naturalmente, l’introduzione che conteneva tale affermazione fu espunta, più dalla censura letteraria che da quella politica, dalla vasta raccolta di racconti ed estratti da romanzi statunitensi che l’autore aveva curato per l’editore Bompiani, destinata a tornare alla luce soltanto nella nuova edizione uncensored dell’opera ripubblicata nel 1968 dallo stesso editore.

Oggi chi si chiedesse dove e come gli autori e sceneggiatori americani oppure i folk singers traggano ispirazione per le innumerevoli storie di vita o di sventura che letteratura, cinema e canzoni provenienti da quel continente possono continuare a proporre, con un senso che è contemporaneamente di realismo e meraviglia, popolare e profondo allo stesso tempo, potrebbe trovare in questo piccolo e interessante libro una parziale risposta.

Alessia Turri, classe 1992, fotografa e scrittrice di viaggi, da tempo percorre le strade secondarie del continente nord-americano, alla ricerca di comunità scomparse, storie rimaste vive nella memoria di alcuni oppure semplicemente testimoniate dalle rovine di cittadine che non esistono più.
Mentre il testo attuale ci accompagna attraverso l’Arizona, il Nevada e il New Mexico, in uno precedente1 l’autrice aveva accompagnato il lettore in un viaggio simile tra le città fantasma e i deserti della California.

Ed è proprio lì, in quel vuoto, in quei luoghi spesso dimenticati da Dio e dalla cartografia stradale che l’autrice riscopre vicende umane, solitarie o collettive, che potrebbero riempire innumerevoli romanzi, racconti o trame cinematografiche e di serie televisive.
Storie di tribù Apache fantasma, di solitari eremiti di origini lombarde, di città cresciute e scomparse nel giro di cinquant’anni intorno a una miniera di carbone, di regolamenti di conti feroci dimenticati ormai sotto le sabbie del tempo, ma che un sogno, una testimonianza diretta, una traccia quasi impercettibile possono riportare alla memoria.

Storie di città illuminate dalla frenesia del gioco d’azzardo e di pompe di benzina abbandonate in mezzo al nulla. Storie di aree “sensibili” per l’attività degli extra terrestri, o almeno spacciate per tali per essere rese più appetibili per l’industria del turismo, e di altre devastate dai primi esperimenti nucleari, ancor oggi poco appetibili. Storie di natura selvaggia e di vita che si accompagnano costantemente alla morte, facendoci tornare in mente le pagine migliori di Hemingway, Melville e di tutta la grande letteratura americana fino a Cormac McCarthy e Larry McMurtry. Oppure le canzoni più belle di Johnny Cash.

Una memoria spesso soggettiva, il più delle volte legata a testimonianza orali in cui il passato e il presente sembrano tornare a ricongiungersi tra le curve del tempo. In cui la fisica moderna sembra sposare credenze e culture più antiche, apparentemente rimosse dall’istante che chiamiamo modernità, ma destinate a perdurare nella coscienza umana molto più a lungo di quanto ciò che è, solo apparentemente, attuale vorrebbe farci credere a suo esclusivo vantaggio.

Una memoria spesso trasmessa più per via orale che attraverso le pergamene della Storia ufficiale, destinate a rimuovere tutto ciò che non appare essenziale per la storia dello sviluppo della Nazione.
Una memoria “dal basso” che si rivela spesso più profonda e inclusiva di quella registrata dalla storiografia ufficiale che, per sua intima essenza, deve soprattutto rimuovere e cancellare i “documenti inutili” per riportare ordine là dove proprio non può esistere, se non nella finzione della ricostruzione documentaria e monumentale.

Un viaggio tra storie momentaneamente perdute che il soffio di un ricordo, una parola o uno sguardo più attento possono rivitalizzare e richiamare in vita. Facendoci altresì comprendere, come è capitato all’autrice stessa, come la morte sia soltanto uno degli aspetti momentanei dell’esistente.
Esistente colto anche dalle belle immagini fotografiche che accompagnano il testo ad opera della stessa Turri.

Credo, in chiusura, che possano essere le parole stesse dell’autrice a illustrare meglio di qualsiasi ulteriore commento l’esperienza che il lettore potrà provare nel leggere il suo bel libro.

[…] la mia percezione della morte è cambiata, e con lei la mia idea d’America. Quei luoghi desolati, abbandonati e malconci che continuo a incontrare durante i viaggi, si sono illuminati di vita nuova. La stessa vita che vedo risplendere nei cimiteri. Quelli più piccoli, semplici e modesti. Quelli nascosti tra le praterie, protetti da steccati e foreste d’abeti. La stessa vita che anima i deserti, pittura le steppe, satura i cieli. Quella vita che è anche morte, quel passato che è anche futuro. Quella serena commistione di generi, fasi e destini, che nell’Ovest americano prende forma. Leggende indiane, le lapidi del vecchio West. I miti alieni, le città fantasma. I culti messicani e le scienze cosmiche. Riti, storie, miti e utopie. Un ritmico ripetersi di eventi scomposti, un continuo alternarsi di alti e bassi, in una terra che è allo stesso tempo magia e sacrilegio. Quella terra che da per togliere, in un vivace fermento di stadi e condizioni. Quella terra che è sabbia mobile, in perenne mutazione. Quella terra che è idillio e dissidio, contrasto e armonia. […] Da qui l’idea di raccontare un Ovest diverso, misterioso, contraddittorio. Al tempo stesso patria di cimiteri e foresta di luci, monocromie d’asfalti e vortici di colore, profumi di spezie frasche e odori di antiche muffe. Terra di pasticcieri e nativi, scienziati ed extraterrestri, Babbi Natale e veterani, viaggiatori e artigiani. Terra di favole e dottrine, bombe atomiche e cactus. Terra di vita, come un folle mosaico di tinte ed emozioni. Terra di morte, percepita come limpida eternità, tutta da scrivere.2


  1. A. Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, Cierre edizioni 2017  

  2. A. Turri, Everland, p. 18  

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Voci, suoni e protesta dell’America profonda https://www.carmillaonline.com/2019/05/23/voci-suoni-e-protesta-dellamerica-profonda/ Wed, 22 May 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52633 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono infatti 92 brani registrati, nel corso degli ultimi cinquant’anni, sia durante concerti che manifestazioni oppure “sul campo” ovvero direttamente là dove erano eseguiti (abitazioni private, luoghi di lavoro, campagne, chiese o piazze) da esecutori spesso poco conosciuti oppure anonimi, da New York alla California, dal Kentucky all’Oklahoma, cominciando con le voci dei manifestanti contro Nixon nel 1969 e finendo con quelle dei ragazzi che scendono in piazza contro l’uso indiscriminato delle armi e le stragi nelle scuole, passando per i minatori in sciopero in Virginia e gli studenti nativi americani che rivendicano terra e scuola in Colorado.

E proprio questa caratteristica rivela la grande vitalità e diffusione di una musica popolare che è spesso multietnica, tradizionale e moderna allo stesso tempo. Ovvero proprio ciò che l’autore, ispirato sia dall’opera di raccolta che sia Gianni Bosio in Italia che Alan Lomax negli Stati Uniti e in giro per il mondo hanno impostato (il primo seguendo le indicazioni del secondo durante la permanenza italiana di Lomax negli anni Cinquanta), intende fare con questo lavoro che non esiterei a definire monumentale.

Già docente di Letteratura americana presso l’università “La Sapienza” di Roma, Portelli è presidente del Circolo Gianni Bosio, un’organizzazione indipendente di ricerca, studio e proposta della musica popolare nata a Roma nel 1972. Oltre a ciò l’autore può essere ritenuto uno dei maggiori esponenti della ricerca sulla storia orale a livello internazionale e, sicuramente, uno dei massimi esperti e studiosi della canzone popolare americana. E’ stato collaboratore dell’Istituto Ernesto De Martino e proprio in tale veste ha curato diverse registrazioni e pubblicazioni per I Dischi del Sole.

Proprio dal primo disco curato per quelle edizioni musicali insieme a Ferdinando Pellegrini nel 1969, L’America della Contestazione, provengono le prime 19 tracce del quarto cd, a testimonianza di un interesse e di una passione che hanno accompagnato cinquant’anni della vita dell’autore e della cultura americana, dal folk a Dylan e Springsteen e dal blues rurale e urbano al bluegrass e ai canti di protesta di Occupy Wall Street.

Il testo di Portelli costituisce il quinto capitolo, se così vogliamo chiamarlo, della collana I giorni cantati curata proprio dal Circolo Gianni Bosio e che riprende il suo titolo dalla gloriosa rivista trimestrale di cultura popolare e cultura di massa già pubblicata almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Suddiviso in quattro parti, quanti sono appunto i cd che lo accompagnano, il libro analizza nella prima (intitolata We Shall Not Be Moved, dal titolo di una delle più famose canzoni di protesta e di resistenza dal basso della tradizione folk americana:  non ci sposteremo, non cederemo, come un albero piantato sulla riva del fiume) canzoni di lotta e di carattere sindacale, politico e di rivendicazione delle minranze etniche. Nella seconda (Lonesome Dove. Blues, old time e worksongs), il cui titolo è ispirato sia da una delle canzoni in esso contenute che dal romanzo western più famoso di Larry Mc Murtry (qui la sua recensione su Carmilla), sono esplorate la tradizione della canzone popolare americana e la sua trasmissione, fino ai nostri giorni, attraverso voci singole o corali, quasi sempre poco note o sconosciute del tutto.

Nella terza parte (Amazing Grace. Gospel bianco e nero), intitolata ad una delle canzoni più famose e belle della musica religiosa tradizionale degli Stati Uniti (di cui vengono qui riportate diverse versioni), si analizza la presenza della religione e dei temi biblici nella canzone popolare americana; cosa spesso poco considerata, e ancor meno compresa dalla cultura italiana, nei suoi risvolti sociali sia per la cultura afro-americana che per quella dei lavoratori e dei poveri bianchi.
Nella quarta e ultima parte, infine, (L’America della contestazione. Un viaggio nel 1969 e un ritorno) si ricollegano le esperienze personali dell’autore e quelle dei movimenti contestativi americani, di ieri e di oggi.

Le canzoni raccolte nei cd, commentate una per una nelle pagine del libro e accompagnate dalla riproduzione tipografica del testo di ogni singolo brano, sono sia frutto della composizione di autori conosciuti quanto della rielaborazione o dell’inventiva di autori anonimi o collettivi e costituiscono un mosaico sonoro e culturale di grandissimo impatto.
La qualità del suono varia a seconda delle occasioni e delle situazioni in cui i brani sono stati registrati (dallo studio discografico alla piazza o nelle abitazioni private) e l’umore degli interpreti è importantissimo nel definire l’interpretazione (dall’entusiasmo della lotta al feeling che si crea tra reverendi e presenti alle funzioni religiose fino a Barbara Dane che conclude un brano sbattendo la chitarra sul tavolo avendo dimenticato alcune parole del testo).
Come afferma lo stesso Portelli nella Premessa:

Questi quattro CD rappresentano quasi cinquanta anni di registrazioni americane, da gennaio 1969 ad aprile 2018. Sono registrazioni di qualità variabile perché provengono da contesti diversi (in strada, in casa, in chiesa, nelle manifestazioni, nei concerti…) e ne recano il segno, compresi i disturbi e le incertezze […] E sono state realizzate con gli strumenti disponibili di volta in volta, a seconda delle situazioni e delle tecnologie, dal gelosino domestico, rimediato in casa di Ernie Marrs, agli apparati professionali della sessione con Barbara Dane e Mable Hillary a New York, e tutto quello che c’è stato di mezzo.
Il testo che accompagna i CD è un racconto che ripercorre soprattutto il rapporto più con le persone che con i suoni, ed esplora retroterra e ramificazioni. Molly McSweeney ha fatto un incredibile lavoro di trascrizione dei testi, qualche volta ingarbugliati e biascicati al limite dell’incomprensibilità. Le traduzioni sono funzionali alla comprensione del testo, non parola per parola (specie quando le parole si ripetono, come avviene soprattutto nei brani gospel o di derivazione gospel).

Siamo però, in tutti i casi, all’interno di un’autentica fucina della musica popolare americana e tutta l’opera ce ne restituisce la grandiosa e commovente immediatezza.
Il tutto accompagnato da un corredo fotografico dovuto sia agli scatti dello stesso autore che a quelli di  Giovanni e Vilma Grilli che, come afferma ancora Portelli, si sono sempre rivelati

appassionati viaggiatori per le strade e i suoni di un’America vicina alle “radici d’erba” della vita di tutti i giorni e della marginalità sociale, sempre animata da una creatività irreprimibile che si manifesta nelle piccole cose, nei dettagli, come nei capolavori. La loro America è uno spazio di strade, insegne, finestre, murali, edifici, e soprattutto persone, dove lo straordinario sta nel quotidiano e dove individui ordinari e comuni, con le mani su uno strumento, ci fanno intuire quanta meraviglia può esserci in un essere umano. Si tratta solo di essere, come loro, straordinarie persone normali, o almeno di avere come loro occhi per vederlo e cuore per riconoscerlo.

Un’opera unica nel suo genere, almeno in Italia, e assolutamente irrinunciabile per chiunque si interessi, sia per motivi di studio che per piacere personale, al vasto, complesso e polifonico universo di cui è espressione.

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Soltanto la morte danzava sulle grandi pianure https://www.carmillaonline.com/2017/12/07/la-morte-danzava-sulle-grandi-pianure/ Wed, 06 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41690 di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima [...]]]> di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima scelta per un paese in cui l’attenzione della critica letteraria per la letteratura americana sembra, negli ultimi anni, essersi concentrata principalmente su autori come David Foster Wallace o Don DeLillo. Scelta utile anche per contrastare un’idea di cultura e letteratura che incoraggia una certa critica, tutt’altro che competente, a recensire positivamente un film noioso e inutilmente ripetitivo come “Revenant” di Alejandro González Iñárritu, dimenticando o, peggio ancora ignorando, che alla base dello stesso possa esserci invece un ottimo ed essenziale romanzo come “Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” di Michael Punke, edito anch’esso da Einaudi nel 2014. Critici superficiali che finiscono col ridurre le vicende drammatiche dell’espansione wasp verso l’Occidente americano, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una storiella degna del grande Blek. Ignorando così sia la storia che la tradizione letteraria degli Stati Uniti.

Nel 1986 il romanzo di Larry McMurtry, che aveva appena vinto il premio Pulitzer, era stato infatti edito da Arnoldo Mondadori con il titolo, poco accattivante per l’epoca, Un volo di colombe nella traduzione di Roberta Rambelli. Titolo che tradiva non solo il titolo originale,1 ma l’intero senso della storia narrata.
Devo infatti dire che, all’epoca, se non mi fosse stato regalato da un carissimo amico, non avrei mai preso in considerazione un libro che, a differenza dell’attuale riedizione, mostrava in copertina un’immagine e un titolo degni di un romanzo di Barbara Cartland: una giovane e avvenente donna bionda che salutava romanticamente un cowboy in sella e già pronto a partire per chissà quali avventure.

E proprio in tale suggerimento sta la questione, poiché se l’editore attuale si ostina ad inserirne ancora la trama nell’epopea della grande avventura del West, in realtà questo non è un romanzo di avventure. O, meglio, un romanzo in cui l’avventura costituisce il centro delle vicende. Larry McMurtry, nei romanzi che compongono la quadrilogia da cui è tratto Lonesome Dove,2 ma non solo in quelli, non è uno scrittore d’avventure. Cosa che lo metterebbe sul piano di Zane Grey, Louis L’Amour o altri autori seriali del genere western-avventuroso.

In realtà McMurtry ha suddiviso la sua esperienza di scrittore in almeno in tre settori: un settore mainstream in cui ha pubblicato romanzi come Voglia di tenerezza (da cui, nel 1983, fu tratto un film di Jame L. Brooks con Jack Nicholosn e Shirley McLaine, vincitore di 5 premi Oscar); un settore western (numerosi romanzi e racconti) e, infine, uno dedicato alla ricostruzione storica di personaggi e vicende dell’Ovest americano dell’Ottocento.3

Sono in particolare queste ultime opere a rivelare che per lo scrittore di Wichita Falls l’interesse per la storia e le vicende della conquista dei territori dell’Ovest non è né superficiale né tanto meno casuale. La conoscenza della materia è infatti approfondita e l’attenzione per tutto il sangue che ha intriso la terra delle grandi pianure su cui un tempo pascolavano i bisonti non ha una funzione soltanto narrativa. Come le vicende del romanzo in questione dimostrano ad ogni pagina.

In uno paese al confine fra Texas e Messico, ben dopo la fine della guerra civile, Augustus McCrae e Woodrow Call, due ex-ranger, ammazzano il tempo bevendo e giocando a carte oppure lavorando sodo dall’alba al tramonto, allevando uno smagrito bestiame, mentre nei dintorni si aggirano solo armadilli e capre spelacchiate. Un giorno però torna un vecchio amico che descrive i pascoli lussureggianti del Montana. Radunata una mandria di bovini e messa insieme una nuova squadra di autentici proletari a cavallo i due soci partiranno per essere i primi a fondare un ranch oltre lo Yellowstone.

E’ il tipico inizio di una miriade di trame western classiche: da Red River-Il Fiume Rosso di Howard Hawks (1948) a Open Range – Terra di confine di Kevin Costner (2003). Ma qui, fin dall’inizio non vi è altro che la morte ad attendere gran parte dei personaggi durante il lunghissimo viaggio oppure alla sua fine. Morti banali legate alla presenza nei fiumi dei velenosi mocassini d’acqua oppure violente dovute allo scontro tra bianchi, avidi di guadagno, e tribù che non intendono cedere i propri territori e gli animali selvatici che li popolano, anche se ancora per poco.

Morti di donne che sognano una vita che non sia quella in una monotona cittadina di frontiera e di bambini, che non hanno altra colpa di essere lì, da qualche parte nello sperduto nulla del West, nel momento peggiore e ultimo della loro vita. Morti che concludono vite qualsiasi oppure apparentemente già entrate nel mito e vite di rinnegati, bianchi o nativi americani, che cercano nella violenza un’ingiustificata vendetta oppure una sorta di impossibile riscatto.

Morte per i cacciatori di bisonti e per chi si accompagna a loro in cerca di fortuna; morte per chi immaginava una vecchiaia tranquilla tra pascoli verdi e acque ancora chiare. Morti istantanee e morti atroci, magari tra gli spasmi di una cancrena o di un veleno che divora il corpo. In terra non esiste che l’inferno e nel cielo si aggirano soltanto nubi di tempesta. Il sogno americano muore in ogni riga e in ogni capitolo del romanzo.

La banalizzante e inveterata abitudine, specialmente legata alla critica di cui si parlava all’inizio, di considerare la narrazione western come il caposaldo della difesa del mito fondativo americano non tiene conto del fatto che, molto spesso, proprio in quella narrativa, sia essa cinematografica o letteraria, si trovano gli argomenti più forti per comprendere come gli Stati Uniti siano nati da un grosso equivoco, da un’altrettanto grande menzogna e da una ancor più grande violenza che ha distrutto spesso insieme l’opera dell’uomo e l’ambiente che la circondava.

Basti pensare ad alcuni altri grandi romanzi della letteratura americana del dopoguerra come Il grande cielo di A. B. Guthrie (1947) oppure Butcher’s Crossing di John Williams (1960), oltre a quelli di Cormac McCarthy, 4 oppure ancora alla cinematografia recente di Tommy Lee Jones e in particolare al suo The Homesman (2014), tratto dall’omonimo romanzo di Glendon Swarthout del 1988,5 per non citare sempre e soltanto i classici di Sam Peckinpah, Dick Richards (The Culpepper Cattle Company,1972 – Fango, sudore e polvere da sparo) e Robert Aldrich (Ulzana’s Raid, 1972 – Nessuna pietà per Ulzana). Quelle appena citate non appartengono comunque ad una letteratura e una cinematografia buonista e non sono neppure troppo politically correct,6 ma appartengono tutte ad una visione più antica e profonda dei drammi che hanno fondato la storia e la nazione americana.

Una visione drammatica che, se ancor non rivolta alle grandi pianure, ha inizio proprio con Moby Dick di Melville, in cui desiderio di guadagno e sete di vendetta non possono portare ad altro che ad un’inutile e sanguinosa distruzione di uomo e natura insieme. Intendendo qui come natura anche le comunità ancora non sottomesse alla successiva regola capitalistica travestita da civiltà universale. Un’ombra che si allunga già sul primo romanzo della Frontiera, Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, attraverso la figura tragica di Magua e la sua feroce e inutile ribellione contro una Storia già scritta da ben altre forze. Un senso di sconfitta e di irrealizzabilità di qualsiasi umano desiderio che sta agli antipodi del sogno americano, sia esso promesso da Donald the Duck Trump oppure da Mickey Mouse Obama, e che di conseguenza rivela anche la menzogna contenuta nella leggenda del melting pot.
Quasi a conferma di ciò che affermava William Burroughs nel suo Pasto nudo (1959):

L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta.

Una fine che giunge ancor prima che il sogno abbia inizio, all’interno di una morale puritana in cui il senso della predestinazione raggiunge, fin dai tempi di Cotton Mather, i suoi vertici letterari e culturali. Il cui senso ultimo è sempre lo stesso: nessuno è destinato a salvarsi e i predestinati della tradizione luterana forse neppure esistono. Poiché alle spalle tutti hanno un peccato originale così grave, la distruzione della Natura e delle comunità umane preesistenti, che neppure Dio può cancellare.
Animando così quel cupo senso di morte, quell’autentico memento mori che sembra caratterizzare quasi tutta la letteratura americana da Melville a Poe, da Twain a Hemingway, da Cormac McCarthy a Burroughs.

Nell’opera di McMurtry decine di piccole storie s’intrecciano tra loro ed escono dall’ombra della Storia per un attimo. Fantasmi dimenticati di una vicenda di conquista e indebita appropriazione che ha segnato l’immaginario di un secolo. Non solo americano. E se per caso qualcuno dubitasse di questa interpretazione basterebbe rileggere oppure riguardare un altro romanzo dell’autore americano: The Last Picture Show del 1966,7 da cui Peter Bogdanovich trasse, nel 1971, uno dei suoi film migliori.

Un’autentica elegia sulla fine del West e della sua leggenda, vista attraverso le vicende di un’amicizia tra due giovani, il loro rapporto con l’unica sala cinematografica in cui si proiettano ancora e soltanto film western, con l’ultimo dei cowboy e l’amore per la stessa ragazza.
La guerra di Corea costringerà uno dei due ad allontanarsi da tutto ciò e al suo ritorno tutto sarà svanito: l’amore, la sala cinematografica ormai chiusa e il vecchio cowboy ormai morto.
Segnando una cesura definitiva con un prima che probabilmente poteva essere soltanto immaginato dai giovani protagonisti a causa dell’età.

Anche Lonesome Dove nasce da un’idea di collaborazione tra lo scrittore texano e il regista Bogdanovich, quando all’inizio degli anni Settanta, Peter Bogdanovich avrebbe voluto girare un film in omaggio al suo maestro John Ford.8 Nasce così il primo abbozzo di Lonesome Dove, sebbene con un altro titolo. Successivamente, nel 1989, Lonesome Dove verrà adattato in una mini-serie televisiva, con Robert Duvall e Tommy Lee Jones.

La collaborazione con il cinema continuerà nel tempo per McMurtry, anche attraverso l’adattamento cinematografico di una storia tratta dall’opera di un’altra grandissima autrice statunitense, di origini canadesi, di storie western: Annie Proulx. Il film sarà quel Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain), diretto da Ang Lee9 che nel 2005 proporrà una visione assolutamente diversa della vita e della sessualità dei cowboy. Contribuendo a distruggere uno degli ultimi miti della Frontiera: il machismo sciupafemmine e la virilità incontaminata degli uomini delle grandi praterie.


  1. Lonesome Dove, colomba solitaria, è il nome del ranch da cui prende inizio la vicenda  

  2. Gli altri sono: Streets of Laredo (1993), Dead Man’s Walk (1995) e Comanche Moon (1997). Tutti ancora non tradotti in Italia  

  3. Crazy Horse: A Life, 1999 pubblicato in Italia come Cavallo Pazzo. Storia del capo Sioux che vinse a Little Bighorn, Mondadori 2003; Oh What A Slaughter! : Massacres in the American West: 1846—1890, 2005 e, solo per citarne uno dei più recenti, Custer, 2012  

  4. In particolare Blood Meridian, or The Evening Redness in the West (1985), traduzione italiana Meridiano di sangue, Einaudi 1996; All the Pretty Horses (1992), Cavalli selvaggi, Einaudi,1996; The Crossing (1994), Oltre il confine, Einaudi, 1995 e Cities of the Plain (1998), Città della pianura, Einaudi, 1999  

  5. In assoluto la migliore descrizione delle reali condizioni di vita delle donne sulle grandi pianure del West e del Midwest  

  6. A differenza di film come Little Big Man (Il piccolo grande uomo) diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger (1964) oppure Soldier Blue (Soldato blu) diretto nel 1970 da Ralph Nelson e ispirato al romanzo dello stesso anno Arrow in the Sun di Theodore V. Olsen, che risentivano, soprattutto il secondo, del clima intellettuale e culturale creato dalle proteste contro la guerra in Vietnam.  

  7. Traduzione italiana: L’ultimo spettacolo, Mattioli 1885, 2006  

  8. Cui aveva dedicato, nel 1971, il documentario-intervista Directed by John Ford  

  9. Regista di origine cinese che già aveva diretto un altro film western dedicato ai guerriglieri sudisti dopo la Guerra Civile: Ride with the Devil (Cavalcando con il diavolo) nel 1999  

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Sotto il cielo del West https://www.carmillaonline.com/2014/11/28/grande-cielo-west/ Thu, 27 Nov 2014 23:01:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18888 di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per [...]]]> di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Mondadori nella collana Medusa nel 1950; in seguito ricomparve, ad opera della Rizzoli, nel 1978 per poi sparire definitivamente nel dimenticatoio.

Probabilmente ciò fu dovuto allo scarso interesse che la letteratura e il cinema di carattere western esercitarono in Italia a partire dalla fine degli anni settanta e per i decenni successivi. Dal libro era stato infatti tratto nel 1952 anche un film dall’omonimo titolo, diretto da Howard Hawks ed interpretato da Kirk Douglas, che, però, ne stravolgeva completamente storia e significato. Assolutamente lontano dai modelli di cinismo, violenza e ribellione che avrebbero caratterizzato il cinema western di Sergio Leone e di Sam Peckinpah negli anni sessanta.

Peccato, perché in realtà il romanzo di Guthrie anticipava di decenni il revisionismo western di cui sarebbero, poi, stati protagonisti i due registi ed autori come Cormac McCarthy, Larry Mc Murtry, Annie Proulx e, anche se per un solo romanzo,1 John Williams. Lontano dall’epica della Frontiera come creazione di un mondo nuovo e migliore, Guthrie mostrava, in quello che è stato unanimemente considerato il suo romanzo migliore, il peccato d’origine degli Stati Uniti: la distruzione dei nativi, delle specie animali, del territorio e di qualsiasi rapporto sociale che non fosse immediatamente basato sulle logiche dello scambio mercantile e del profitto individuale o delle grandi compagnie commerciali.

Un’America che nasce tutt’altro che vergine e che porta con se un peccato originale non di carattere religioso, come avrebbero voluto i Padri Pellegrini, ma di stampo capitalistico e mercantile; dando vita, come risultato inevitabile, ad una società spietata in cui tutte le contraddizioni del sistema si sarebbero manifestate senza alcuna remora. Una società in cui la presenza della morte avrebbe dominato non come conseguenza del puritanesimo importato col Mayflower, ma come risultato delle logiche distruttive messe in atto.

A.B. Guthrie Jr. (1901 – 1991), come ci rivela nelle preziose note poste a chiusura del testo il curatore e traduttore, aveva deciso preventivamente di narrare il West e i suoi avventurieri come mai nessuno li aveva narrati prima. Ci riuscì e nel corso della sua vita, in cui scrisse molti altri romanzi e racconti di ambiente western, si spostò sempre più su posizioni radicali a difesa dei nativi americani e dell’ambiente. Praticamente fino al termine dei suoi giorni.

Già negli anni successivi al college l’autore si dichiarava “agnostico, liberale e ribelle” e tutto ciò traspare fin dalle prime pagine del romanzo, in cui il protagonista Boone Caudill rompe violentemente con il padre e fugge, ancora diciassettenne, verso l’Ovest e verso l’ignoto; scontrandosi immediatamente con l’avidità degli uomini e la falsità della Legge e dei suoi tutori. Ma la sua odissea di formazione, come in seguito per tanti personaggi di Cormac McCarthy, non assumerà le forme né della liberazione né, tanto meno, della redenzione dai peccati della civiltà.

Scandita in cinque parti (1830, ancora 1830, 1837, 1842-1843 e 1843), la narrazione accompagna Boone attraverso le grandi pianure del bacino del Missouri e le Montagne Rocciose, fino al suo trentesimo anno e al suo, inutile, ritorno all’Est. Un Odisseo senza Itaca, perché quello che ritorna non è un Boone migliore o più maturo o più saggio. No, è soltanto un uomo indurito, con la nostalgia per un mondo che ha contribuito a conquistare e distruggere e in cui ha dimostrato di non sapere davvero amare. E che non potrà nemmeno portare a termine la vendetta che aveva meditato per così lungo tempo.

Un mondo di violenza e di sospetto, in cui il mito dell’amicizia virile non è altro che una leggenda come quella delle valli ancora piene di castori; che, invece, a loro volta sono già stati distrutti per soddisfare, con le loro pellicce rivendute anche a bassissimo costo, l’industria e il mercato dei cappelli a cilindro per i benestanti delle grani città. Un mondo duro e spietato dove un minimo errore può significare la morte e la vita scorre fino a quando non incontra un coltello, una freccia o una pallottola. Magari sparata da un amico.

Domina su tutto il grande cielo del West, infinito e imperturbabile; sia sulle vicende degli uomini bianchi che su quelle degli uomini rossi. I primi destinati a morire per gli agguati e le ferite oppure a soffrire la fame, la sete, il freddo o per le conseguenze di malattie veneree; i secondi destinati ad essere spazzati via per effetto delle devastazioni e delle violenze portate dalla civiltà e dalle epidemie diffuse ad arte. Vittime del primo grande genocidio moderno. Il tutto in uno scenario in cui domina una natura solo potenzialmente ancora incontaminata, ma, in realtà, già cartografata, divisa e contesa dalle grandi compagnie per il commercio delle pellicce.

Lewis e Clark sono passati da lì pochi anni prima, ma il danno è stato già fatto e non si potrà più tornare indietro. Esattamente come per Boone Caudill.
Mentre rimangono sullo sfondo le donne. Bianche e rosse. Le prime eterne Penelopi dalla vita passata in attesa di un ritorno che magari non avverrà mai oppure di un amore che non si rivelerà altro che violenza, anche sessuale, oppure, ancora, destinate a morire di fatica nelle povere case costruite in prossimità della Frontiera. Le altre destinate ad essere, nel rapporto con l’uomo bianco, null’altro che una merce di scambio o inconsapevoli oggetti e schiave sessuali.

Leggendo questo romanzo, durissimo e bellissimo, ci si rende conto che il cinema western tradizionale ha davvero fatto un cattivo servizio alla storia degli Stati Uniti e della Frontiera. Probabilmente lo sapevamo già tutti da tempo, ma Guthrie, che con il successivo “Il sentiero del West” avrebbe vinto il Premio Pulitzer, lo ha rivelato ben prima di tutti gli altri autori che abbiamo poi imparato a conoscere ed amare.

Non vi è traccia in Guthrie della visione pastorale di una America bucolica in cui potersi rifugiare e dove solo l’avvento della macchina a vapore, oppure del macchinismo tout court, avrebbe segnato l’inizio del declino e della rovina, così come Henry David Thoreau nel “Walden” aveva teorizzato fin dall’Ottocento.2 Non vi è romanticismo, ma una visione, che rasenta il naturalismo espressivo, ben lontana da qualsiasi forma di epica o di epopea.

Non resta così che augurarsi che l’editore continui nella riedizione dei romanzi e delle novelle dell’autore americano, sia di quelli già pubblicati in Italia sia di quelli ancora inediti. Un autentico Omero di una frontiera priva di qualunque funzione mitopoietica, le cui vicende non sono determinate dalla volontà di divinità sregolate e volubili, ma dal raziocinio del calcolo della profittabilità delle imprese e delle conquiste.


  1. Butcher’s Crossing, Fazi Editore 2013, edizione originale americana 1960  

  2. Si veda in proposito Leo Marx, The Machine in the Garden. Technology and the pastoral ideal in America, Oxford University Press 1964 – 2000  

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Memento mori https://www.carmillaonline.com/2014/02/12/memento-mori/ Tue, 11 Feb 2014 23:20:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12612 di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna. Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra [...]]]> di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.

Così come non avrebbe senso quel senso di ottimismo, quasi infantile, che traspare spesso in alcuni autori, e che ha spesso infastidito i critici e letterati europei più restii ad accettarla, se accanto ad esso non fosse possibile intuire, quasi sempre, la presenza del male. Di solito assoluto e privo di qualsiasi luce.
“Barbara” fu definita questa letteratura dai critici che le si opponevano, qui in Italia, negli anni in cui Cesare Pavese, Elio Vittorini e Beppe Fenoglio cercavano di rinnovare la letteratura nazionale alla luce dell’esperienza americana.

Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.

Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di “Pulp” alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di “Un brav’uomo è difficile da trovare”.

Se questi sono i due caratteri dominanti nella letteratura d’oltre oceano, anche se mischiati in maniera diversa da autore ad autore e da opera ad opera, certo Cormac McCarthy ne costituisce attualmente la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva.
Con buona pace di quel critico letterario di “Libero” che salutò “La strada”, alla sua uscita in edizione italiana nel 2007, come un nuovo e rovente maccartismo anti-islamico e anti-comunista. Naturalmente non aveva capito un cazzo.

Se nella seconda di copertina di “American Tabloid”, James Ellroy ci avvertiva che “L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio”, McCarthy ha semplicemente tracciato, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana. Che naturalmente non è solo qualità di una nazione o di una società, ma dell’umanità suo insieme.

Sì, ho scritto “morte” e non “vita”, soprattutto degli ultimi centosessanta anni. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream.
Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttiva e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti.
Vendicarsi, sopravvivere, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di essere giusti: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di “Non è un paese per vecchi”, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo “La strada”; da “Meridiano di sangue“, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

The Counselor1, l’ultima fatica dello scrittore ottantenne, è una sceneggiatura appositamente scritta per il cinema che porta alle estreme conseguenze la weltanschauung dell’autore.
Un giovane avvocato, avido di denaro, sesso e normalità si imbarca in un traffico di droga con il cartello dei narcos messicani. Pensa di avere le conoscenze giuste, di essere abbastanza furbo e, soprattutto, di poter controllare tutto. Forse fin troppo facilmente abituato, la storia è ambientata ai nostri giorni, alle rapide risalite in borsa di titoli spazzatura già precedentemente crollati. La fortuna degli scemi. O dei raccomandati, il che potrebbe essere lo stesso. “L’avidità non ti spinge. L’avidità è il limite” (pag. 71).

Soprattutto non capisce nemmeno lontanamente a cosa può andare incontro, in termini di dolore. E di male. “Il punto è che uno potrebbe dirsi che ci sono cose che questa gente non è in grado di fare. Non è così” (pag. 69). E anche se tutto è destinato a finire con la morte, che non ha alcun significato e che non è possibile esorcizzare con alcun trattato del “buon morire“, la strada per arrivarci può essere molto, troppo, indicibilmente dolorosa. Anche per le persone che si amano e che pur non dovrebbero essere coinvolte.

Come le ragazze che continuano a scomparire lungo il confine tra Texas e Messico. Vite senza speranza, senza significato ma, sicuramente piene di dolore negli istanti finali.
Ma il male non ha riguardi neanche per la classe sociale di appartenenza, per le lauree o per i sogni da yuppie. E della paura della crisi che anche i fortunati hanno. Mentre solo chi non ha nulla ha imparato quanta sofferenza può esserci al mondo, che soltanto chi viene dal nulla può sfidare, aumentandone il dosaggio.

I riferimenti alla crisi attuale del capitalismo finanziario, alle atrocità commesse nei pressi di Ciudad Juarez e all’inutilità di una classe “dirigente” sempre più inconsapevole ed inutile sono tanti e continui. La morte, il male e il dolore sono portati alle estreme conseguenze e solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. “Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni” (pag. 51) può affermare Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda, mentre cerca di confessare provocatoriamente i suoi impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito.

E tocca a lei trarre le conclusioni di quanto accade nel corso della narrazione, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini: ”Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione” (pp. 114 – 115).

Un film

Il film di Ridley Scott, basato sulla sceneggiatura originale, rispetta la stessa nelle parole (le battute sono quasi sempre identiche a quelle del testo), ma non nello spirito. Troppi volti famosi: Cameron Diaz, Brad Pitt (che ormai sembra esser diventato il prezzemolo del cinema americano contemporaneo), Penélope Cruz, Michael Fassbender, Javier Bardem e anche, in due ruoli minori, Bruno Ganz e Dean Norris. Troppo patinata la fotografia, fino a farla assomigliare più a quella di un film del fratello Tony, recentemente scomparso, che a quella delle opere migliori di Ridley. Eliminando, a tratti, dal dialogo i passaggi più crudi e provocatori, il film sembra voler nascondere l’abisso che la trama nasconde.

Come se il regista e la produzione avessero voluto evitare di inquietare troppo il pubblico. Come se avessero voluto riposarne lo sguardo, invece di renderlo più acuto. Sostanzialmente, nonostante alcuni momenti pregevoli, un’occasione mancata. Peccato.
Forse John McNaughton, regista di “Henry pioggia di sangue”, sarebbe stato più adatto e avrebbe saputo far di meglio, ma il problema reale sta tutto in una società che dopo aver artificialmente rimosso il “Ricordati che devi morire” della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare.


  1. Cormac McCarthy, The Counselor. Il Procuratore, Einaudi 2013, pp. 116, euro 14,50  

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