Lacan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Wagner, la rivoluzione e l’irresistibile sound delle chitarre elettriche https://www.carmillaonline.com/2021/08/09/rocknroll-gods-wagner-e-lirresistibile-sound-delle-chitarre-elettriche/ Mon, 09 Aug 2021 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67339 di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger. I am invulnerable, I see no foe. I’m related to the earliest time, and to the latest. (Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione. Il dio Pan è la Rivoluzione (da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal [...]]]> di Sandro Moiso

When I hear music I fear no danger.
I am invulnerable, I see no foe.
I’m related to the earliest time, and to the latest.

(Henry David Thoreau, cit. in Hear Me Talkin’ to Ya – Nat Hentoff)

E’ il dio Pan che si manifesta nella Rivoluzione.
Il dio Pan è la Rivoluzione

(da un banchetto socialista del 1848)

Per troppo tempo non si è compreso come i movimenti antagonisti giovanili degli anni Sessanta e Settanta siano forse scaturiti più dalla scintilla scatenata dalle chitarre elettriche che non dal libretto rosso di Mao o dai sacri testi di Marx, Engels e Lenin. Anche se quest’ultimo, predicendo che il comunismo sarebbe derivato dall’applicazione dell’uso della corrente elettrica al socialismo, un po’ ci aveva azzeccato.

Ad anticipare l’importanza del sound (che non è soltanto dato dagli strumenti suonati seguendo uno spartito oppure dal suono “naturale” degli stessi o, ancora, dalla voce che canta intonata seguendo una melodia definita) come mezzo o media per far breccia nella corazza, anche inconsapevole, dell’Io, fu, nel XIX secolo, soltanto Richard Wagner (1813-1883), sia attraverso la costruzione delle sue opere musicali che in un suo scritto della metà dell’Ottocento, L’opera d’arte dell’avvenire. Il musicista tedesco è stato infatti il primo a cogliere l’importanza comunicativa del respiro, del sospiro e del fiato, della furia e del brusio delle voci e dell’uso e del ronzio di suoni e strumenti non convenzionali (ad esempio gli incudini destinati a sostituire i timpani in alcune parti orchestrali dell’Anello dei Nibelunghi) oppure difficilmente ammessi dai canoni estetici e musicali che avevano governato la musica e il dramma lirico fino ad allora1, in un contesto musicale considerato “colto”.

Nella concezione wagneriana il sound costituiva un’integrazione della parola cantata, superandola nell’intento di “significare” e coinvolgere gli spettatori/ascoltatori:

Come quando Sigfrido ascolta Brünnhilde o come quando Kundy parla «roca» e «a tratti, come nel tentativo di ritrovare la parola»2, il discorso si riduce alle modalità fisiologiche della voce: rumori appena udibili, svincolati dalla bocca che li emette e dalla volontà di colei che li pronuncia, aumentano fino a «risuonare possenti» o assoluti e viaggiare poi per lo spazio e il tempo sotto forma di sound che «riecheggia lontano».
E’, questo, un effetto acustico che né il Medioevo dei protagonisti dell’opera né il XIX secolo di Wagner avrebbe potuto realizzare, ma che le nostre orecchie conoscono a memoria: notte dopo notte gli impianti di amplificazione della musica rock (amplificatori e delay, equalizzatori e mixer) producono questi suoni stereofonici, tracce di voce e rimbombi. In altre parole, quelle di Jimi Hendrix: la Elsa di Wagner è la prima abitante di Electric Ladyland e ciò che lei descrive con incredibile precisione tramite i termini «risuonare», «aumentare» e «rimbombare» ha poco a che fare con le preghiere e il credo cristiano, ma anticipa semplicemente la teoria del feedback positivo e degli oscillatori.
Non potendo, con i requisiti tecnici dell’epoca, realizzare questo feedback sonoro, Wagner lo compose3.

L’effetto suscitato dal sound wagneriano è quello del superamento della parola (che ricordiamolo sempre era, nei libretti d’opera, “parola scritta” così come “scritta” era anche sempre la partitura), ma anche della norma stabilita dal canto gregoriano che aveva disciplinato l’espressione musicale vocale per i secoli passati. E’ un ritorno alla Natura e ai suoi suoni che i nastri magnetici nel XX secolo permetteranno di inserire direttamente insieme agli strumenti e alle voci nella musica registrata ed incisa. Valga per tutti l’esempio di un brano dei Pink Floyd, Grantchester Meadows, compreso nel doppio album Ummagumma.

Sempre secondo Kittler: «poiché in Wagner testo e partitura si motivano sempre a vicenda, l’oscillare del libretto tra rumore naturale e strumento dell’orchestra, tra random noise (rumore casuale) e segnale di caccia» gli permette di dare vita ad effetti proibiti «fin tanto che la musica è stata dominata dalle partiture e le partiture dalla scrittura. Ma il nuovo medium di Wagner, il sound, fa saltare in aria seicento anni di dominio della lettera, ovvero di letteratura»4. E di dominio del cristianesimo in ambito artistico e morale, andrebbe aggiunto, poiché

ciò che è qui in gioco è la libertà della musica: per la prima volta nella storia della composizione occidentale, il Ring congeda il dio cristiano la cui celebrazione, a partire dal canto gregoriano, ha limitato tutti gli eventi sonori. Il poeta Wagner cessa di […] compiere solenni pellegrinaggi a Roma per invocare invece nuovamente gli antichi dei e dee, mentre il musicista compone il Padre Reno come inizio pre-razionale in cui armonia dei sovratoni e brusio, arte e natura sono indissolubilmente legati5.

Se salta però il dominio della lettera/partitura e della concezione cristiana dell’armonia del mondo diventa evidente che a saltare ben presto sarà, più in generale, l’ordine del mondo, non soltanto artistico e religioso. E non è certo un caso che due delle opere teoriche più importanti di Richard Wagner, Arte e rivoluzione e L’opera d’arte dell’avvenire, siano state scritte nel 1849, quando l’eco della primavera dei popoli che tra il 1848 e il 1849 aveva scosso l’ultima Europa aristocratica e imperiale non si era ancora spento dopo l’apparizione sulla scena del teatro del mondo di un nuovo, titanico protagonista: il proletariato, di fabbrica e non.

Portatore, oltre tutto, di un nuovo immaginario legato alla fabbrica, alle sue lotte, al suo “rumore” che soltanto poco più di sessant’anni dopo il futurista italiano Luigi Russolo avrebbe contribuito a far penetrare nell’estetica musicale e artistica moderna. “Rumore innaturale” (macchine, tram, caos metropolitano e della guerra) che avrebbe affiancato nel nuovo paesaggio urbano e artistico il “rumore naturale” inseguito da Wagner. Rumore di una tragedia annunciata (guerre, inquinamento, sfruttamento delle macchine e del capitale sull’uomo, la specie e la natura) che l’arte degli inizi del XX secolo non avrebbe più potuto ignorare, costretta com’era a copiarne ormai anche gli aspetti più devastanti.

Con buona pace dei “delicati”, su cui avrebbe poi ironizzato Louis Ferdinand Céline, il nuovo paesaggio dello scempio entrava a far parte del mondo letterario, figurativo e sonoro. Paesaggio cui l’avvento dell’elettricità avrebbe dato un contributo devastante e determinante dal punto di vista del suono (registrato o prodotto che fosse). Ecco dove, forse, l’utopia leniniana del socialismo più l’elettricità si sarebbe maggiormente avvicinata all’avverarsi, escludendone la sempre indeterminata e confusa nozione di “comunismo”.

I Greci avevano un dio che abitava nel regno dell’acustica. Quando i pastori sognavano e si rompeva la calma del meriggio, Pan rimbombava improvvisamente nelle orecchie di tutti. [Ora] si dice che il grande Pan sia defunto, ma gli dei delle orecchie non possono morire: ritornano sotto la maschera dei moderni impianti di amplificazione. Ricompaiono in forma di canzone rock6.

Lacan ha affermato che: «Le orecchie sono, nel campo dell’inconscio, il solo orifizio che non possa chiudersi»7, da qui deriverebbe il fatto che gli argini stabiliti dall’ordine, qualunque esso sia, si rompono prima di tutto nella testa ad opera di un suono, di una parola, di un rumore o di un urlo. Come afferma ancora Kittler: «Nessuna parola, nessun muro e nessun argine tra dentro e fuori possono resistere al sound, perché questo costituisce ciò che in musica non si può mettere per iscritto»8.

Il sound è la manifestazione immediata di ciò che si può ottenere dalla tecnologia che la musica ha a disposizione per esprimersi, a seconda delle epoche.

The Dark Side of the Moon, ha venduto otto milioni di dischi dal 1973, anno di uscita, al 1979 e, secondo le ultime stime (2011), ha ormai sfiorato le 45 milioni di copie […] E pensare che tutto era iniziato in modo così semplice. Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre studenti di architettura nell’Inghilterra degli anni Sessanta, si esibivano con le loro chitarre nei teatri di periferia suonando vecchi classici di Chuck Berry. Si chiamavano The Architectural Abdabs, un gruppo che oggi nessuno ricorda più. Un bel giorno di primavera del 1965, si unì a loro un chitarrista e cantante che inventò il marchio Pink Floyd, cioè il nome della band e il sound che la caratterizza: amplificatori sovramodulati, mixer come quinto strumento, suoni vorticanti nello spazio e tecnologia delle basse frequenze combinata con l’optoelettronica fino ai limiti del possibile. Con buchi neri al posto degli occhi, Syd Barrett apre al rock’n’roll il dominio dell’astronomia, Astronomy Domine […] Poi, l’uomo che ha inventato i Pink Floyd sparisce da tutti i palchi e sprofonda in una terra di nessuno medica tra psicosi da LSD e schizofrenia, mentre il suo gruppo trova un altro chitarrista e insieme a lui la formula del successo9.

Anche se è vero che i dati di vendita e i flussi di denaro della macchina discografica capitalistica vengono nutriti dal flusso decodificato dell’alienazione sociale, è pur sempre vero che essa si affida ad una legge non scritta che territorializza la normalità e prescrive ai folli di rimanere su terreni ben definiti e soprattutto extra moenia: è la legge dei grandi architetti della giurisdizione sociale, della salute mentale, delle istituzioni politiche e delle regole del lavoro salariato.
Tutto dovrebbe fondersi in una sorta di circolo virtuoso in cui l’ascolto musicale costituisce soltanto un aspetto importante di un ben congegnato panem et circenses, attraverso cui controllare i flussi dell’immaginario di massa.
Ma, come afferma ancora Kittler (1943-2011) nel suo testo:

I cosiddetti Sessantottini che oggi svolazzano per i media soltanto perché hanno influenzato la mia generazione sono infatti delle chimere ipocrite: non era necessario intonare ruggiti da Vietcong o ricorrere alle armi per battere il ritmo del nostro tempo: c’era […] la musica pop. Ma quest’ultima, una volta tanto, non giunse dai maledetti Usa. Non sarebbe stato possibile altrimenti, nel 1964, quella che gli americani ammirarono e allo stesso tempo temettero: la British Invasion. Di fronte ai Beatles Elvis Presley abdicò alla sua corona. Potenti come lo era stato un tempo il dio Dioniso, giovani voci e chitarre sfondarono il muro del rigido sistema di regole della Federal Communication Commission. A differenza del piccolo sassone Wagner, queste star potevano ergersi in tuttala loro bellezza su un palco illuminato da lampi. Cantavano di amore e di guerra, dai prati intorno a Cambridge, ma soprattutto di musica, perché sapevano bene quel che facevano: per un breve ma storico momento i musicisti pop inglesi spazzarono via tutte le barriere e tutti i muri che l’industria musicale capitalistica (per non dire statunitense) aveva eretto anche solo per vietare l’amore. Non esistevano più l’autore dei testi e il compositore, l’arrangiatore e l’orchestra, la partitura e l’evento sul palcoscenico come sfere separate l’una dall’altra: c’erano solo quattro musicisti che suonavano, cantavano e regolavano da soli i propri microfoni, gli echi e le tracce sul nastro, fino a ripetere l’opera d’arte totale. Così divennero eroi […] persino dei. Il prezzo da pagare per la nuova Grecia l’ha chiamato inequivocabilmente per nome Jim Morrison, la più selvaggia e geniale di quelle stelle:
«Cancel my subscription to the resurrection! / Send my credentials to the house of detention, / I’ve got some friends inside.10»11.

«Speech has become, as it were, immortal.» Queste furono le parole di Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues e i neri che lo cantavano; anche i rumori delle macchine della nave a vapore e il fiume stesso erano udibili.
[…] Cos’, il disco ha prodotto il jazz. Non poter scrivere o leggere le note non era più una ragione di morte per la musica, anche se per il miracolo di nome Swinging London ci voleva qualcosa di più. Prima il Rhythm & Blues nero doveva attraversare l’Atlantico insieme a centinaia di migliaia di soldati yankee e preparare nell’Inghilterra meridionale lo sbarco in Normandia; e dozzine di registratori a nastro della Wermacht dovevano finire, come bottino di guerra, negli studios di Abbey Road a Londra prima che la Seconda guerra mondiale potesse ritornare sotto forma di musica pop.
Invenzione e innovazione avvengono sempre nei punti nevralgici di connessione, sia tecnica che culturale: né il jazz né il rock’n’roll avrebbero mai potuto da soli dare il la alla Swinging London e alla British Invasion degli Stati Uniti. A esplodere tra amplificatori Marshall, chitarre soliste e mormorii di microfoni fu il feedback continuo tra tecnologia europea, armonia musicale romantica e analfabetismo musicale americano. Per scrivere canzoni pop non è necessario imparare da giovani il pentagramma, anche se male non fa; è però fondamentale che l’ingegnere del suono e i registratori siano all’altezza del compito12.

La rivoluzione tecnologica delle pedaliere, dei distorsori, dei wah wah, delle Fender Telecaster e Stratocaster stava avvenendo però, all’insaputa di tutti, nei laboratori in cui tecnici del suono come Dick Dale e altri cercavano nuovi strumenti per ridurre il numero di membri di ogni singolo gruppo (il distorsore e il fuzz uccisero la presenza dei saxofonisti nei gruppi strumentali e surf dei primi anni Sessanta), aumentare il fascino del sound ispirato agli echi e ai flussi delle onde dell’Oceano ed evitare l’uso costoso di studi di registrazione in cui aggiungere artificialmente suoni che non era prima possibile realizzare con gli strumenti normali anche se elettrificati.

Furono i ragazzi delle periferie americane ed europee, a scoprire in quelle nuove apparecchiature gli strumenti di un suono che avrebbe danneggiato cervelli e norme sociali ben più al di là delle parole, delle strofe o degli slogan, pubblicitari e politici. Mentre Barrett inventava il suono cosmico a Londra, dall’altra parte dell’Atlantico e ancora sulla costa del Pacifico un giovane afro-americano di Seattle, Jimi Hendrix, assolutamente privo di educazione musicale, si preparava ed iniziava a stravolgere il suono delle chitarre e il sound del secolo (e di quelli a venire). E così pure iniziavano a fare chitarristi come Pete Townshend, Jeff Beck, Jimmy Page, Jerry Garcia, John Cipollina, Jorma Kaukonen ed infiniti altri, poi ripresi da centinaia di migliaia di ragazzi che suonavano, improvvisavano, distorcevano e storpiavano suoni e parole di canzoni che avrebbero dovuto rimanere innocui inni all’amore, alla gioventù o, al massimo, ai suoi problemi di solitudine affettiva. Il Brain Damage collettivo era stato ormai fatto e il medium era diventato l’autentico messaggio. Come aveva già affermato il sociologo e filosofo canadese Marshall Mc Luhan.

Lo testimoniano cronache come quella dei primi anni Settanta che qui riportiamo, che dimostrano come nelle città industriali l’elettricità avesse portato un nuovo modo di intendere l’arte, la musica, la cultura e, soprattutto, il ruolo sociale dei giovani.

E’ sabato pomeriggio alla Difiore’s House of Music, situata nel West Side di Cleveland, Ohio. Quindici ragazzi delle scuole superiori stanno provando varie chitarre Les Paul, suonando, attraverso gli amplificatori Marshall, Peavey e Fender, ognuno fuori tempo rispetto agli altri, cercando di riprodurre al meglio i riff preferiti rubati a Jimi Hendrix, Jeff Beck e Leslie West. Nel rumore prodotto nulla sembra avere senso. Uno dei ragazzi, che indossa una giacca dell’esercito, sta cercando di suonare uno standard blues, un altro ha appena capito che, se riuscirà a far tirar fuori i soldi al padre per una Les Paul Deluxe, forse riuscirà a suonare correttamente tutti i break di Black Dog dei Led Zeppelin, mentre un altro ancora ha appena fatto conoscenza con un pedale WAH WAH e sta cercando furiosamente un accordo, con il piede destro che pesta sul pedale cercando di ottenere l’effetto più potente possibile come se si trattasse di un martello pneumatico munito di turbo compressore.

Nulla sembra avere più qualsiasi senso. Persone sensibili che hanno portato lì i loro figlioletti di sei anni dopo averli accompagnati alla lezione di tromba stanno artigliando le porte cercando di uscire fuori il più in fretta possibile per trovare sollievo da quel baccano infernale! I tecnici e i commessi stanno buttando giù aspirine come se fossero caramelle e guardano disperati gli orologi. Niente ha più senso. Il suono prodotto dalla brigata di Les Paul continua a crescere sempre più forte e i ragazzi sembrano scoprire ulteriori e ancor più potenti dispositivi da testare per il tramite di banchi di amplificatori dal costo complessivo molto superiore alle loro possibilità economiche, mentre i trasformatori modificano le fasi e i wah wah stanno urlando come bambini affamati e le distorsioni fanno rizzare i peli nell’atmosfera carica di elettricità. Qualcun altro ha scollegato una chitarra e l’ha lasciata sul pavimento a ronzare sulle corde a tutto volume mentre altri ragazzi accorrono sempre più numerosi e iniziano a suonare anche se i commessi cercano di strappare loro di mano le chitarre, urlando “Fuori i soldi prima!”, ma ormai ci sono troppi ragazzi, forse più di cinquanta, e adesso non solo hanno impugnato tutte le Gibson e le Fender disponibili ma anche le loro copie giapponesi di costo molto inferiore. Un tizio ha collegato in serie due amplificatori Peavey e le vetrine iniziano a tremare come per un terremoto, mentre nel locale di servizio assistenza due lavori di riparazione sono stati rovinati poiché le mani dei tecnici tremano troppo forte per poter fare delle saldature accurate e nel negozio vicino il barbiere ha rischiato di tagliare la gola di un cliente per lo stesso motivo e il volume continua a crescere sempre di più, sempre più forte e ancora di più e ancor più ragazzi arrivano fino al momento in cui ogni amplificatore ed ogni chitarra del negozio risulta in uso da parte di qualcuno e anche se LA POLIZIA E’ STATA CHIAMATA, MA NON PUO’ ARRESTARE TUTTO CIO’ CHE STA AVVENENDO, QUALUNQUE COSA SIA!13

Complici la guerra in Vietnam, le proteste studentesche e per i diritti degli afro-americani e di tutte le altre minoranze, la tecnologia del suono si vide stravolta nell’uso e nel senso del suo prodotto. Come le trombe suonate dai sacerdoti davanti alle mura di Gerico avrebbero contribuito a farle crollare, così il sound delle chitarre elettriche contribuì a far crollare ben altri muri, dentro e fuori la psiche dei ragazzi, ricreando quella specie di mente bicamerale, in cui era possibile percepire uditivamente e collettivamente oltre le parole la voce degli dei, di cui avrebbe parlato Julian Jaynes in un suo celebre studio del 197614.

Lo comprese Bob Dylan, in anticipo su tutti, quando abbandonò già a metà degli anni Sessanta il suono acustico per abbracciare, con grande scandalo e disagio dei custodi della tradizione folk di sinistra, quello elettrico, impugnando egli stesso sul palco, come avrebbe fatto per tutti gli anni a venire, una grintosa chitarra elettrica.

Tutto ciò però, sul medio periodo, creò anche alcuni imprevisti e paradossi. Ad esempio, qui nell’italietta di San Remo, un’intera generazione di giovani potenziali rivoluzionari (scazzati da famiglia, lavoro, scuola e festival televisivi) iniziò a scambiare ogni rocker elettrico straniero per un ”compagno”.
Ricordo ancora perfettamente come ad un concerto dei Family, a Milano, il pubblico esplodesse in una salva di slogan e pugni chiusi sollevati quando il cantante, Roger Chapman, si asciugò il viso dal sudore con un asciugamano rosso. Lui stava facendo solo quello, ma il pubblico lo scambiò per ben altro segnale.

E così pure gli scontri del Vigorelli per i Led Zeppelin o a Torino per i Santana o, ancora, quelli per contrastare i concerto organizzati dal “sionista” David Zard, impresario musicale che voleva impossessarsi della “nostra” musica “commercializzandola”. Bufale ideologiche megagalattiche che tendevano a nascondere che quella musica che ci parlava così tanto profondamente era nata dal e per il mercato discografico, anche se gli scontri nascevano spontaneamente dalla furia di migliaia di giovani che non avevano affatto bisogno della provocazione ”fascista” per scatenare la loro rabbia, così come i perbenisti e gli sbirri dell’Unità o del Manifesto invece amavano e amano ancora raccontare (come nel caso dei fatti del G8 di Genova del 2001), per cercare di unire fattivamente sound e vita quotidiana.

Eravamo giovani, potenziali delinquenti e le schitarrate e le distorsioni davano voce a qualcosa che non sapevamo ancora esprimere a parole e che, forse, soltanto i situazionisti avevano saputo già esprimere politicamente, anche se in forme meno spontanee e già pronte per essere ricodificate dalla pubblicità futura. Poiché, alla faccia anche di Guy Debord, solo la vera rivoluzione e la sua forma più spontanea ed immediata, l’insurrezione e l’insorgenza di massa anche priva di parole, will not be televised (come aveva già affermato il grande poeta e musicista afroamericano Gil Scott-Heron nel 1971). Esprimevamo negli atti una sorta di general intellect spontaneo di cui una miriade di maestri, filosofi e professori universitari tentò di impadronirsi, soffocandolo e rinchiudendolo sotto l’ala di improbabili cappelli ideologici.

Per quella generazione, per la mia generazione si può parlare, a proposito di quegli anni, più che di coscienza di classe di una pre-coscienza che superava il limite formale della coscienza di classe per ricollegarci, inconsapevolmente, a richiami più antichi e liberatori provenienti dall’intera storia della specie e dalle sue esigenze primarie più profonde e rimosse dall’ordine giudaico-cristiano e borghese in cui eravamo cresciuti e di cui costituivamo il prodotto “degenerato”. In questo forse si andava delineando un comunismo più concreto e più riconducibile alle esigenze dell’intera specie umana e alle sue esperienze. Come affermò Amadeo Bordiga in quegli stessi anni, ben lontano dall’accettare i capelloni e gli urlatori (come li avrebbe definiti ancora in un pessimo articolo del 1968):

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale15.

Le spoglie mortali di Jim Morrison giacciono oggi sepolte a Parigi, nel cimitero di Père Lachaise. L’ultimo autentico sacerdote del dio Pan, che nel 1969, durante il cosiddetto Miami Incident, invitò gli ascoltatori, mischiandosi poi tra di loro, a spogliarsi e ad amarsi per liberarsi da ogni giogo mentale, sociale, politico e culturale16, ha chiuso idealmente il cerchio ricongiungendosi al ricordo degli ultimi caduti della Comune presso il cosiddetto “muro dei federati” e ai più coraggiosi e visionari insorti dell’Ottocento che avevano brindato allo stesso dio durante i loro banchetti rivoluzionari.


  1. Si legga in proposito: Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei. Wagner e i media senza dimenticare i Pink Floyd, L’orma editore, Roma 2013  

  2. Richard Wagner, Tutti i libretti, UTET, Torino 1996, p. 732  

  3. Friedrich Kittler, Respiro del mondo. Tecnologia dei media in Wagner, ora in F. Kittler, op. cit., pp. 27-28  

  4. F. Kittler, op. cit., pp. 30-31  

  5. F. Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., p. 88  

  6. Friedrich Kittler, Il dio delle orecchie in F. Kittler, op.cit., pp. 47-48  

  7. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003 (prima edizione 1973), p. 190  

  8. Ivi, p. 51  

  9. Ibid., pp. 49-50  

  10. The Doors, When the Music’s Over, 1967  

  11. Friedrich Kittler, Preparare la venuta degli dei, in op. cit., pp. 97-98  

  12. Ivi, pp. 94-95  

  13. Peter Laughner (poi chitarrista dei seminali Pere Ubu di Akron, Ohio), recensione del long playing, di Lou Reed, Rock’n’Roll Animal in “Zeppelin Magazine”, 7 febbraio 1974.  

  14. Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza, Adelphi, Milano 1984  

  15. Amadeo Bordiga, Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965  

  16. «Siete solo una massa di fottuti idioti! Vi fate dire quello che dovete fare. Per quanto tempo volete andare avanti così? Per quanto ancora vi farete calpestare? Forse vi piace, forse vi fate calpestare volentieri. Vi piace, forse, che qualcuno vi ficchi la testa nella merda. Siete tutti una massa dis chiavi che si fa calpestare […] Cosa volete fare per opporvi a questo? Che cosa intendete fare? […] Ah, vorrei vedere un po’ più di nudità qui! Spogliatevi e amatevi!» cit. in R. Kittler, op. cit. p. 110, che continua poi ancora ricordando che il batterista dei Doors, John Densmore, vide subito dopo il cantante balzare giù dal palco tra il pubblico della sala da ballo. «Le danze si fecero sempre più frenetiche, l’abbigliamento sempre meno appropriato. Il giorno dopo quando l’esercito dell’impresa di pulizie entrò nel Dinner Key Auditorium trovò abiti da teenager sparsi dappertutto per la sala concerti e li ammucchiò in un angolo fino a che la pila non raggiunse il metro e mezzo di altezza e i tre metri di diametro, come se l’usanza, per nulla greca, di celebrare vestiti gli dei avesse finalmente trovato la sua giusta fine […] Jim Morrison, il colpevole, dovette comparire di fronte a una giuria di Miami (per l’accusa di atti osceni) che lo condannò a sei mesi di reclusione; il giudice fu più benevolo e commutò la sentenza in un’ammenda di 500 dollari». (Kittler, op. cit., pp. 110-111)  

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Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale https://www.carmillaonline.com/2020/01/20/nemico-e-immaginario-desoggettivazione-ed-immaginario-antisociale/ Mon, 20 Jan 2020 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57527 di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere [...]]]> di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere e contribuire.

Pablo Calzeroni, nel suo recente libro Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza (Mimesis, 2019), segnala come diversi di quegli studiosi – in particolare il “pioniere” Pierre Lévy1 –, isolando la questione dellʼinterazione uomo-macchina dalla complessità dei processi storici, abbiano finito per affrontare la nuova esperienza mediatica attraverso una prospettiva trascendentale e metastorica.

L’eccesso di astrazione che ha caratterizzato gli studi relativi alla nascente era informatica, avrebbe impedito a quegli studiosi ottimisti circa la portata liberatoria dei nuovi media, di cogliere i mutamenti realmente in atto, tanto da condurli disarmati di fronte all’esplosione della “Dot-com bubble” di inizio millennio. Il bagno di realtà, però, è sembrato durare poco e la fiducia nel progresso tecnologico e nella rivoluzione digitale ha prontamente riconquistato vigore con il diffondersi dei social network.

Le speranze riposte nella portata libertaria del web ed in particolare dei social, esaltati anche per la loro capacità nel chiamare a raccolta il dissenso nelle piazze (si pensi a quanto si è insistito su ciò a proposito delle “Primavere arabe”), hanno però dovuto fare i conti con il palesarsi della mercificazione di ogni attività in rete, con il loro prestarsi allo spionaggio e alla diffusione di fake news, oltre che con le tante ristrutturazioni aziendali, spesso risoltesi con licenziamenti, che hanno contraddistinto l’economia gravitante attorno al celebrato mondo del web.

Secondo Calzeroni è possibile leggere il malessere che si agita all’interno della rete come un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web.

Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza. Di fronte a queste miserie lʼintelligenza collettiva si mostra oggi per quel che è: non unʼutopia, ma pura propaganda. Propaganda di un ristretto numero di aziende informatiche che accumula ricchezze gigantesche attraverso il sostegno e il tornaconto politico di altri poteri. La lettura del presente attraverso la lente patinata del progresso tecnologico maschera una cruda realtà: sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto. (pp. 10-11)

L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune, sembra aver perso terreno a beneficio della convinzione che tale trasformazione, in fin dei conti, non faccia che esplicitare ed amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui. Occorre però evitare, avverte lo studioso, di semplificare il tutto accusando tale processo dei mali della contemporaneità.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche non deriva in origine dalle macchine. Appare innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale. (p. 11)

Il sistema tecnologico-mediatico attuale, oltre che esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, pare davvero, come sostenuto da Jonathan Crary2, intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo.

Il centro del problema, secondo Calzeroni, è da cercarsi nella crisi del soggetto inteso come prodotto sociale; una crisi che complica enormemente la possibilità di formare o riconoscere un legame collettivo capace di liberarsi dall’estrema singolarizzazione dell’essere umano contemporaneo.

Secondo lo studioso, i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo. Interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. «Se lo spettatore televisivo, completamente immerso nella simultaneità, tende a sciogliere la propria individualità in un rito-spettacolo collettivo, salvo poi ritrovarla come un perfetto signor nessuno nelle grandi maschere identitarie del conformismo, lʼutente delle tecnologie digitali la mantiene sempre» (p. 19). Pur esprimendosi spesso in maniera del tutto anonima, egli non è il nessuno delle grandi folle otto-novecentesche; è semmai un qualcuno anonimo desideroso di farsi notare, di “mettersi in vetrina”, come direbbe Vanni Codeluppi3.

L’individuo digitale lavora senza sosta alla costruzione della propria immagine passando da una tribù identitaria ad un’altra, prendendo parte a comunità rette da scambi interpersonali fragili in quanto sostenuti da investimenti a rapido esaurimento. In un contesto ove la socializzazione è ridotta ai minimi termini, lo svilupparsi di una progettualità politica appare secondo Calzeroni del tutto fuori portata: «sulla Rete si può accendere una rivolta, legata alla somma elementare di rivendicazioni e sofferenze comuni, ma non c’è modo (e tempo) di costruirvi una prospettiva strategica.» (p. 20)

La cyberpolitica si fonda sulla valorizzazione dell’estensione della partecipazione ai processi decisionali, ed il successo del cyberpopulismo deriva dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità. Il motore della Rete, però, avverte Clazeroni, «non è né il singolo utente né il contenuto, ma l’apparato tecnico che li cattura entrambi, trasformandoli in dati e metadati. Sono gli algoritmi a svolgere il compito più importante: la valorizzazione di tutto ciò che viene prodotto on line.» (p. 23) Altro che “intelligenza collettiva”, sostiene l’autore, occorre prendere atto che si è piuttosto di fronte ad un “sistema intelligente” efficiente nel creare valore e ricchezza ricorrendo ai dati prodotti dagli utenti e dalle macchine.

Gli utenti delle tecnologie digitali non sono affatto i membri di una comunità auto-organizzata che si muove verso il progresso. Sono piuttosto materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare (ad esempio in curve statistiche). Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente e inconsapevolmente. Ciò che è importante non è che cosa le persone si scambino on line. Ciò che è determinante è che la gente, per conto proprio o in gruppo, produca dati in grande quantità. (p. 23)

In sostanza, l’economia dei Big data si fonderebbe su un meccanismo interno al soggetto che l’ha trasformato in una macchina di consumo. Secondo lo studioso, la deriva relazionale che oggi caratterizza i media digitali dipende dall’intrecciarsi di svariati processi di disgregazione della società contemporanea.

Se si osserva questo cambiamento antropologico nella sua scena più intima, nelle dinamiche della soggettivazione, il problema centrale è il godimento consumistico o, per dirla in termini lacaniani, lo strapotere dellʼimmaginario, con i suoi specchi narcisistici e le sue trappole pulsionali. Nel passaggio storico dalla società industriale avanzata alla società dellʼinformatizzazione, la dissoluzione del soggetto sembra sbarrare la strada a qualsiasi negoziazione collettiva del senso dellʼesperienza. Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione. (p. 124)

La prospettiva dell’intelligenza collettiva fondata sul web sembra pertanto davvero infrangersi di fronte alla mancanza del soggetto. Nella società dellʼinformatizzazione l’individuo, sostiene Calzeroni, subisce

due principi prestazionali contrapposti e paradossalmente sovrapposti: un principio di prestazione sregolativo e un principio di prestazione repressivo di tipo francamente marcusiano. La loro combinazione è il riflesso psichico di quel variegato sistema post-disciplinare della tarda modernità che potremmo chiamare società del comando. Un sistema (o meglio, un non-sistema) sociale che ruota attorno al comando del godimento e che esprime un potere economico-sociale-politico, insieme, autoritario, in relazione alla sua carica oppressiva, e sfuggente, in relazione alla sua costitutiva incertezza: agendo in contesti sociali del tutto instabili e su individui dominati dal principio prestazionale sregolativo, il potere oggi si impone ma non può innescare soggettivazione.» (p. 90)

Oltre a contestare l’idea di intelligenza collettiva sostenuta a suo tempo da Lévy, presupponente l’esistenza di una razionalità immanente al divenire dell’esperienza, Calzeroni allarga la sua critica anche a più recenti proposte di liberazione digitale di ispirazione marxista. Gli stessi Michael Hardt ed Antonio Negri4 sono criticati dallo studioso in quanto nel loro ragionamento «lʼattualizzazione del potere costituente della soggettività antagonista» ha come precondizione «lʼesistenza di una dimensione sociale e affettiva già di per sé razionalmente orientata alla cooperazione intersoggettiva» (p. 125).

Secondo Calzeroni occorrerebbe invece prendere atto di come le tecnologie della connettività risultino inadeguate allo sviluppo di esperienze di antagonismo.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, la strada da seguire non potrà essere quella di anti-Edipo né quella di Eros e Civiltà. Qui non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento. Se il corpo è il nostro orizzonte di riferimento, non possiamo certo inseguire la ricerca di un nuovo ordine autoritario-repressivo. Non faremmo altro che restituire centralità a quel discorso del padrone che, come aveva chiarito Lacan nel periodo infuocato della contestazione sessantottina, è espressione di un legame sociale alienante fondato sulla legge della trascendenza e dellʼinterdizione. Quel legame, d’altra parte, solleva inevitabilmente un problema di ordine etico e politico che investe, prima ancora che il rapporto tra noi e il potere, la nostra relazione con il desiderio e con il reale del corpo (pp. 126-127).

Secondo l’auore di Narcisismo digitale, occorrerebbe pertanto rivitalizzare il senso di una comunità puntando sul recupero della dimensione orizzontale della socialità, dovrebbe essere  recuperata una socializzazione piena, capace di creare il senso di una soggettività collettiva al di là dei modelli tecnico-procedurali: «l’obiettivo non è la messa in moto e il funzionamento delle relazioni sociali, ma la qualità delle significazioni immaginarie che si possono innescare. E qui deve entrare in gioco l’affettività, perché solo la complicità solidaristica del legame affettivo può accompagnare il soggetto all’incontro fraterno con l’Altro, sottraendolo alla situazione angosciosa determinata dalla singolarizzazione o da una socializzazione distorta, fondata sull’abuso di sé e degli altri» (p. 132).


  1. P. Lévy, Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica, Mimesis, Milano-Udine, 2008. P. Lévy, Lʼintelligenza collettiva. Per unʼantropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. 

  2. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015. 

  3. V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine, 2015. 

  4. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Bur, Milano, 2001; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2010; M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano, 2012. 

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Pasolini, Volponi e altri sguardi sul Novecento: un’immersione critica fra arte e letteratura https://www.carmillaonline.com/2017/01/26/pasolini-volponi-e-altri-sguardi-sul-novecento-unimmersione-critica-fra-arte-e-letteratura/ Thu, 26 Jan 2017 22:45:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36157 di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza [...]]]> di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza parte, significativamente intitolata Variazioni novecentesche, raccoglie saggi su Pascoli (l’unica ‘incursione’ tra fine Ottocento e inizio Novecento) e su tre artisti contemporanei, due pittori e uno scultore: Renzo Vespignani, Alberto Sughi e Augusto Murer. Lo sguardo dell’autore si focalizza perciò, con lo stessa competenza critica, sull’analisi di romanzi, di raccolte poetiche, di opere pittoriche e di sculture. Questa sicura ‘navigazione’ fra generi diversi rappresenta indubbiamente il più affascinante punto di forza del volume: la scrittura critica e saggistica di Santato prende per mano il lettore e lo guida attraverso autori anche molto diversi tra loro. La ‘navigazione’, soprattutto per quanto riguarda i primi due autori trattati, Pasolini e Volponi, legati da reciproca stima e amicizia, si trasforma in una vera e propria ‘immersione’: i diversi saggi ci conducono infatti all’interno di un’analisi rigorosa, scandita dall’approfondimento di alcune tematiche principali, che non trascura nessuna opera dei due poeti e scrittori.

Numerosi, nel volume, sono i saggi dedicati a Pasolini, autore già ampiamente studiato da Santato: bisogna ricordare, infatti, che lo studioso (il quale già nel 1980 aveva dedicato una monografia al poeta e scrittore bolognese, con il preciso intento di reagire al ‘biografismo’ all’epoca dominante negli studi pasoliniani) ha recentemente pubblicato un’ampia monografia pasoliniana dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, indispensabile strumento per chi voglia comprendere interamente, a trecentosessanta gradi, la variegata opera di Pasolini. Santato è inoltre il fondatore e direttore della rivista internazionale «Studi pasoliniani» che, dal 2007, raccoglie contributi di natura critica e bibliografica dedicati al poeta, scrittore e regista.

Il primo saggio, Pasolini e i Canti del popolo greco di Tommaseo, si concentra sulla presenza di Tommaseo soprattutto nelle prime poesie e nei primi scritti critici di Pasolini, il quale rimase profondamente affascinato dalla lettura dei Canti del popolo greco. Addirittura, Pasolini tradusse in friulano uno dei canti di Tommaseo, Alla Dalmazia, ‘riadattandolo’ all’ambientazione del Friuli e cambiando anche il titolo: A la so Pissula patria. Alcune modalità traduttive messe in atto dal giovane Pasolini – soprattutto modifiche e semplificazioni atte a ‘traghettare’ il testo verso la nuova ambientazione friulana (secondo Foucault, infatti, il traduttore è sempre un «traghettatore notturno») – verranno riproposte successivamente nella traduzione dell’Orestiade di Eschilo realizzata nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman. Anche in questo caso, il traduttore ‘semplifica’ e modifica il testo di Eschilo ‘traghettandolo’ verso lo spettatore di teatro del 1960 (sia la traduzione da Tommaseo che la versione dell’Orestiade si presentano infatti come «ri-creazioni» che producono significative metamorfosi del testo). La presenza dei Canti del popolo greco, all’interno dell’opera pasoliniana, si fa sentire anche ad un livello intertestuale: ad esempio, all’interno della tessitura narrativa del romanzo Amado mio (scritto in Friuli fra 1947 e 1948 e ripreso a Roma intorno al 1950), mentre in alcune poesie degli anni Cinquanta e Sessanta non mancano diversi riferimenti a Tommaseo.

San Lorenzo Il sole del 19 luglio 1943

Renzo Vespignani, San Lorenzo, il sole del 19 luglio 1943

Il secondo saggio proposto nel volume, «L’abisso tra corpo e storia». Mito, storia e Dopostoria, offre un excursus attraverso l’opera pasoliniana dal tempo del «mito», fino alla «storia» e al «Dopostoria». Il tempo del «mito» è collocabile nel periodo friulano: «Nella poesia friulana di Pasolini il tempo è una dimensione, mitica, ideale: è un tempo interiore, una durata del sentimento» (p. 43). Con il trasferimento a Roma, nel 1949, nella poesia pasoliniana (dalle Ceneri di Gramsci, del 1957, in poi) si ha l’incursione della storia, la quale provoca un’«impossibile sincronia fra il tempo vissuto e il tempo storico» (p. 49). L’analisi di Santato prosegue attraverso le successive raccolte di versi, soprattutto La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), La nuova gioventù (1975, una riscrittura ‘in negativo’ delle sue poesie friulane), fino ad abbracciare con lo sguardo critico il tempo della «Dopostoria», una sorta di epoca ‘infernale’ che il poeta preconizzava dopo l’avvento della società dei consumi, come leggiamo nella poesia Io sono una forza del Passato (da Poesia in forma di rosa): «O guardo i crepuscoli, le mattine, / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta». Infatti, «la realtà storica contemporanea è per Pasolini solo inferno. Il solo paradiso è quello del passato, del mito, ed è dunque un paradiso perduto» (p. 59). Tale visione infernale si paleserà nel romanzo postumo Petrolio, pubblicato nel 1992, con la «Visione del Merda», una lunga sezione in cui un personaggio soprannominato «il Merda», un borgataro degli anni Settanta, ormai ‘imbruttito’ e ‘degenerato’, compirà una lunga catabasi infernale ricalcata sul modello dantesco. Alla fine della «Visione», culmine simbolico della nuova società dei consumi del neocapitalismo, la città di Roma viene significativamente rappresenta con la forma di una croce uncinata.

Il terzo saggio – Paesaggio simbolico, paesaggio poetico ed echi provenzali nell’immagine del Friuli – ci riporta al mondo incontaminato friulano, quel lontano tempo del «mito»: «La regressione al dialetto attua linguisticamente la nostalgia di un mondo perduto: il mondo delle origini» (p. 85).

Questo «mondo perduto», legato inesorabilmente al passato, secondo la concezione pasoliniana, si oppone al futuro, il quale si trasforma – ed è questa la tematica affrontata nel saggio successivo del volume – in una sorta di «non tempo». Se nel poemetto delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice, Pasolini scrive: «Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci […]», in diverse poesie di Poesia in forma di rosa, «il futuro viene identificato apertamente come il tempo del Potere, come la programmazione del destino dell’umanità da parte del Nuovo Potere neocapitalistico, assumendo connotati sempre più negativi e apocalittici» (p. 107).

L’analisi critica di Santato si sposta agevolmente dalla poesia alla narrativa, fino al cinema e al teatro. A quest’ultima espressione artistica è dedicato il successivo saggio del libro: una disamina delle tragedie pasoliniane (Pilade, Orgia, Calderόn, Affabulazione, Porcile, Bestia da stile) dal punto di vista del «rifiuto della nuova storia», identificata con il livellamento delle coscienze operato dalla neocapitalistica società dei consumi. Soprattutto nella tragedia Pilade, pubblicata su «Nuovi argomenti» nel 1966, che si pone come una continuazione dell’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini nel 1960, la rivoluzione operata da Atena e dalle Eumenidi (la costruzione di fabbriche e palazzi, la creazione di nuove tecniche produttive), «è una trasparente allegoria della rivoluzione antropologica prodotta dal consumismo e dal neocapitalismo, che costituisce l’oggetto di numerose polemiche sviluppate da Pasolini tra gli anni Sessanta e Settanta e in particolare di alcuni famosi articoli giornalistici raccolti in Scritti corsari» (p. 121). Se «Oreste è il politico cinico che opera in sintonia con la storia che gli dà il potere», «Pilade è l’intellettuale disorganico, anzi il poeta che vive in un proprio mondo irrimediabilmente diviso da quello che si afferma nella storia» (p. 122).

Veri e propri luoghi del «mito» da opporre all’universo devastatore del consumismo e del neocapitalismo sono l’Oriente e l’Africa (all’analisi di essi nell’opera letteraria e cinematografica pasoliniana sono dedicati i saggi che – prima di un ultimo articolo sulla poesia dialettale di Eugenio Ferdinando Palmieri nella raccolta Poesia dialettale del Novecento, curata da Pasolini – chiudono la sezione pasoliniana del volume di Santato). L’Oriente esercita «un’autentica fascinazione» (p. 132) su Pasolini. Ne L’odore dell’India (che raccoglie sei articoli giornalistici scritti durante un viaggio in India, nel 1961, con Alberto Moravia e Elsa Morante), lo scrittore è letteralmente sedotto e affascinato da quel mondo, conosciuto soprattutto tramite la camminata solitaria nei luoghi più poveri delle città – un movimento ‘picaresco’ che permette la conoscenza diretta di quella nuova realtà – come egli aveva fatto, all’inizio degli anni Cinquanta, per scoprire l’universo delle borgate romane. Sempre legati alla scoperta dell’India sono gli Appunti per un film sull’India (1967), dei sopralluoghi svolti in funzione di un «film da farsi» in futuro. Pasolini tornerà in Oriente nel corso della realizzazione del film Decameron (1971), per ambientare nello Yemen l’episodio di Alibech. Quest’ultimo, nel montaggio definitivo del film, verrà escluso: solo di recente, nel 2012, è uscito un audiovisivo curato da Roberto Chiesi (Il corpo perduto di “Alibech”) che, grazie ad alcune foto di scena e immagini di scene di esterni, ci permette di ricostruire la struttura dell’episodio. Mentre si trova nello Yemen, Pasolini gira il cortometraggio Le Mura di Sana’a, concepito come «documento in forma di appello all’UNESCO». La fascinazione per l’Oriente prosegue nella realizzazione del film Il Fiore delle Mille e una notte (tratto dalla celebre raccolta di novelle), il quale «si svolge attraverso una sospesa alternanza fra sogno e realtà: è un film onirico scandito musicalmente dalla melodia dei canti popolari orientali» (p. 137). Verso Oriente si srotola anche il viaggio neopicaresco del solamente progettato film Porno-Teo-Kolossal, del quale conserviamo la sceneggiatura, in cui un Re Mago (Eduardo De Filippo) e il suo servitore (Ninetto Davoli), si muovono alla ricerca dei luoghi dove è nato il Messia attraverso città europee rivestite di connotazioni allegoriche. L’Oriente, infine, è assai presente anche in Petrolio: gli Appunti dal 36 al 40 (il romanzo è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolati gli Argonauti, sono dedicati ad un viaggio in Oriente del protagonista Carlo, ingegnere dell’Eni e, nel progetto definitivo dell’opera, avrebbero dovuto costituire una rilettura in chiave anticolonialista e anticapitalista delle Argonautiche di Apollonio Rodio, dove il Vello d’oro sarebbe stato sostituito dal petrolio, ‘motore’ del neocapitalismo maturo.

Vespignani Il cappotto blu

Renzo Vespignani, Il cappotto blu

Altrettanto rilevante è la presenza dell’Africa (sondata accuratamente anche da Giovanna Trento in una monografia uscita per Mimesis nel 2010) nell’opera pasoliniana. In una delle poesie che chiudono La religione del mio tempo, Frammento alla morte, così Pasolini scrive: «E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa…». L’analisi di Santato, a partire da questi versi in cui l’Africa viene presentata come unica alternativa alla società dei consumi, ci conduce attraverso le opere di Pasolini fino agli Appunti per un’Orestiade africana, un documentario girato fra il 1968 e il 1969 che opera una contaminazione fra il modello classico (quella trilogia eschilea che, come già ricordato, Pasolini aveva tradotto) e una sua reinvenzione nell’Africa moderna, più precisamente in Tanzania. Nel documentario sono coinvolti anche alcuni studenti africani dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con i quali Pasolini avvia una discussione sulle problematiche dell’Africa contemporanea. In Petrolio, nell’Appunto 41, Acquisto di uno schiavo, l’Africa degli anni Sessanta e dei primi Settanta appare come un territorio ‘di conquista’ da parte di qualsiasi ricco turista del sesso occidentale, in cui vengono negati i più elementari diritti umani (nello stesso Appunto di Petrolio, con piglio giornalistico, Pasolini scrive, riguardo al regime del generale Abboud in Sudan: «Tali mercati di schiavi sono al margine della legalità, ma sotto il regime di Abboud sono più o meno tollerati. Insomma, chiunque voglia può riuscire a trovare il modo di arrivare clandestinamente all’asta degli schiavi, e comprarsi una ragazza o un ragazzo per una cifra corrispondente, credo, a tre o quattrocentomila lire»). L’Appunto, sotto la forma di apologo, narra infatti la vicenda di un intellettuale inglese di nome Tristram (con un palese riferimento al Tristram Shandy di Sterne) che, recatosi a Khartoum per comprare una schiava, sulla via del ritorno si converte al marxismo.

Non meno importante della pasoliniana prima parte, nel volume, è la seconda, dedicata ad un altro importante scrittore del Novecento, Paolo Volponi, che considerava Pasolini come «maestro e amico». Il primo saggio è dedicato all’analisi del linguaggio volponiano «tra poesia e romanzo»: nello scrittore urbinate, poesia e narrativa sono strettamente connessi. Nella sua prosa, Volponi, secondo Santato, inserisce «un linguaggio che, nella sua cangiante mobilità e densità, conserva intatte le virtualità figurative e le polivalenze metaforiche del linguaggio poetico» (p. 175). Infatti, la prosa volponiana è caratterizzata da uno «strumento linguistico eminentemente antirealistico» che fa emergere un’ottica radicalmente ‘altra’, venata di un’alterazione lirico visionaria e allucinatoria. Fin da Memoriale (1962), la scrittura di Volponi è «eversiva», poiché «agisce all’interno dei conflitti tra ordine istituzionale e società reale, nelle lacerazioni aperte da questo conflitto dentro e intorno all’uomo» (p. 176).

Nel secondo saggio Santato analizza «follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa» (come suona il titolo). La narrativa di Volponi è infatti caratterizzata dalla drammatica specularità tra patologia individuale e alienazione sociale e dal «rovesciamento di quest’ultima in razionalità altra, antagonistica» (p. 195). Come lo stesso Volponi afferma in un’intervista rilasciata nel 1984 a Peter Pedroni, la sua predilezione è per i personaggi «atipici», «nevrotici», perché «più dolenti, più sensibili registratori della carica d’infelicità che scuote la terra», ma anche per questo, «più ribelli» e «fuori dalla norma». Il primo romanzo di Volponi, Memoriale (1962), infatti, rappresenta la «progressiva emarginazione del ‘diverso’ ad opera dei meccanismi della società industriale» (p. 215). Il protagonista del romanzo, Albino Saluggia, è un operaio che racconta in prima persona la sua condizione di ‘alienazione’ all’interno degli implacabili meccanismi della società industriale. Egli, tuttavia, non agisce passivamente ma si scontra con tali meccanismi difendendo il «suo diritto di esistere, trasformandosi così in un ribelle sociale» (p. 216). Nel secondo romanzo, La macchina mondiale (1965), protagonista è il contadino Anteo Crocioni, «un filosofo utopista che progetta una trasformazione dei sistemi di produzione e dell’intera organizzazione sociale» (p. 216), il quale, considerato come pazzo, reagisce con un suicidio che non rappresenta un gesto di sottomissione ma, anzi, «un gesto liberatorio orgogliosamente lanciato contro la mostruosa normalità che lo circonda» (p. 217). Gerolamo Aspri, protagonista di Corporale (1974), è invece un intellettuale borghese in crisi con alle spalle una travagliata militanza politica. Anche questo personaggio è continuamente in rotta con le strutture sociali e le loro continue imposizioni di regolarità e di ordine; anch’egli è un ‘folle’ ossessionato, in questo caso, dalla paura della morte atomica. Singolare per l’ambientazione, nonché per la scelta dei personaggi, è il romanzo Il pianeta irritabile (1978): le vicende narrate si svolgono infatti nell’anno 2293 in un mondo devastato dalla catastrofe nucleare, solcato dai protagonisti che sono una scimmia, un elefante, un’oca e un nano. In essi, «trasposti in un’iconografia allegorico-grottesca», confluisce «l’intera tradizione dei ‘diversi volponiani» (p. 220). La critica verso la società industriale, si fa particolarmente violenta nell’ultimo romanzo di Volponi, Le mosche del capitale (1989). Al centro del romanzo vi è l’esperimento di «fabbrica comunitaria» avviato da Adriano Olivetti nel 1945. I protagonisti sono il giovane dirigente di formazione umanistica, Bruto Saraccini, che coltiva il sogno olivettiano, e l’operaio Tecraso (anagramma di Socrate) «che dà voce all’altra parte della fabbrica e della città (Bovino, ridenominazione allegorico-grottesca di Torino» (p. 222).

Dopo una rigorosa analisi del romanzo Il lanciatore di giavellotto (1981), in cui protagonista è un’altra figura di ‘emarginato’ volponiano, il giovane Damìn, che vive un processo di formazione al contrario, volto cioè verso la ‘distruzione’, Santato ripropone nel suo volume la pubblicazione di un inedito di Volponi (già uscito nell’ambito di un «omaggio a Volponi» pubblicato dalla rivista «Studi Novecenteschi» nel 1998), L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, un racconto scritto probabilmente nel 1981 in funzione della sceneggiatura di un film poi non realizzato. La storia è ambientata tra 1910 e 1911 sulle colline preappenniniche vicino a Gubbio: protagonista è il venditore ambulante Gigler, così soprannominato a causa della sua passione per i motori e per la meccanica (il gigler è un componente del carburatore). Gigler propone ai contadini il suo progetto di una pompa a motore: il progetto sembra funzionare e viene costruito l’acquedotto. Il padrone dei terreni, successivamente, distrugge il motore e l’acquedotto mentre Gigler, per nulla intimorito, lo ripara. Contemporaneamente, cominciano ad organizzarsi i primi gruppi socialisti e si susseguono le manifestazioni indette dalle leghe bianche e rosse. Le ragioni di questo ritorno a un’estetica ideologica – nota Santato – vanno ricercate «nella volontà di offrire una rappresentazione esemplare delle prime lotte di quell’Appennino contadino che costituisce il primo e fondamentale mondo poetico di Volponi» (p. 254).

Lo scrittore e poeta urbinate, secondo Santato, «più d’ogni altro ha saputo rappresentare la contraddittoria condizione dell’uomo moderno che conduce la sua ansiosa ricerca di un’impossibile felicità all’interno della società industriale» (p. 230).

Le successive «variazioni novecentesche» iniziano con un saggio dedicato a Pascoli (Per una semantica del ‘mio’ pascoliano. Eros e linguaggio nei Primi poemetti), volto ad analizzare le ricorrenze, in funzione di una tipologia semantica, dell’aggettivo «mio» nelle poesie pascoliane. Come l’autore scrive nell’introduzione, si tratta del testo di più antica datazione fra quelli raccolti: «è legato da un lato alla sperimentazione di una metodologia statistica di analisi dei testi, dall’altro all’applicazione di alcuni strumenti dell’ermeneutica psicanalitica alla lettura dei testi stessi. Erano anni in cui ci si poteva muovere disinvoltamente tra Rosiello e Sanguineti da un lato e Lacan e Derrida dall’altro» (p. 8).

Vespignani La borghesia incontra l'orrore

Renzo Vespignani, La borghesia incontra l’orrore

Successivamente, come già osservato, la scrittura critica di Santato si rivolge alle arti figurative. A chiudere il volume sono infatti tre saggi dedicati rispettivamente alla pittura di Renzo Vespignani e Alberto Sughi e alla scultura di Augusto Murer. Di Vespignani, Santato prende in esame soprattutto il ciclo Tra le due guerre, una serie di ottanta dipinti di carattere storico realizzati tra il 1972 e il 1975, al cui centro il pittore «ha posto l’immagine dell’uomo, quella dei protagonisti così come delle folle anonime: compaiono i dominatori e i dominati, i carnefici e le vittime» (p. 302). La pittura storica di Vespignani riesce a rappresentare ciò che rimane inaccessibile alla parola; la pittura rende presente, come nota lo stesso Vespignani, «ciò che la parola allontana»: «una cosa è dire sangue, un’altra vederlo», continua il pittore. Infatti, come nota Santato, «nessuno storico o cronista di guerra avrebbe potuto rappresentare la violenza del bombardamento di Guernica con maggiore efficacia rispetto alla drammatica forza espressiva del grande quadro di Picasso» (p. 305). L’opera, divisa in diverse sezioni, è connotata, non a caso, dalla forza espressiva del sangue, immagine che ricorre in maniera ossessiva all’interno della sua pittura, «una “reliquia” di traumi mai superati né nascosti» (p. 302). La sezione più inquietante e dal maggiore impatto visivo è probabilmente quella finale, dal titolo Mythus, dedicata al dramma vissuto dagli ebrei nei campi di concentramento nazisti. La scrittura critica dell’autore, allora, descrive in modo espressionistico le terribili sofferenze raffigurate dalla pittura di Vespignani, diventando quasi essa stessa reportage pittorico di un dolore e di una profonda ferita impressa nel corso stesso della Storia:

Compare a questo punto una serie impressionante di dieci dipinti, sette dei quali intitolati Carne di ebreo, dedicati alla rappresentazioni di parti del corpo, in particolare gambe e braccia, marchiati dai segni di riconoscimento impressi sulla carne (la stella di Davide e i numeri di matricola che venivano tatuati sull’avambraccio degli ebrei internati). È una sequenza di studi di anatomia dell’umanità offesa, raffigurati con una spietatezza che fa di questi quadri una violentissima denuncia della barbarie nazista. Le cicatrici che spaccano in verticale le gambe deformi sembrano crepe aperte nella carne. Sfumature gialle e verdastre si sovrappongono alla gamma dominante, azzurrognola, violacea, accentuando l’aspetto cadaverico dei corpi (pp. 309-310).

Tonalità diverse, caratterizzate da una non minore finezza interpretativa, vengono utilizzate per descrivere i quadri di Sughi. La sua pittura è una costante meditazione sull’uomo, soprattutto «sull’uomo contemporaneo, sul suo malessere esistenziale, tanto più evidente quanto si affollano intorno a lui i simboli del benessere» (p. 317). Due «autentiche metafore ossessive presiedono all’immaginario dell’autore: l’uomo solo e l’uomo di potere» (ivi). Il ciclo di dipinti intitolato La cena (1975-1976) rappresenta il mondo del potere e i suoi gruppi dirigenti, consegnati all’immagine nella posa di una cena in piedi, una «loro quotidiana abbuffata all’ombra del potere» (p. 319). Secondo lo studioso, i toni figurativi dei dipinti possono trovare un corrispondente in alcuni film contemporanei, come Roma e il Satyricon di Fellini o La grande abbuffata di Ferreri. Alla «nevrosi del mondo borghese» viene contrapposta la dignità del mondo contadino: emblematico, in questo senso, è il ciclo Immaginazione e memoria della famiglia dove, con grande capacità narrativa, viene rappresentata la dignità e la compostezza di un nucleo familiare ancora non toccato dalla civiltà dei consumi.

Il denso e ricco volume di Santato si conclude – dopo questo affascinante viaggio-immersione nell’opera di diversi autori, da Pasolini a Volponi, da Pascoli a Vespignani e Sughi – con uno sguardo critico sulla scultura di Murer: l’uomo, ancora una volta, è al centro dell’attenzione dell’artista. Un uomo saturo di fisicità corporea, rappresentato nelle sue radici profondamente terrene, venate di sacrificio e di vera umanità. L’arte di Murer appare dominata «dall’imperativo morale di lasciare una testimonianza della lotta antifascista e degli orrori della guerra» (p. 328): i monumenti alla Resistenza realizzati dall’artista sono allora la testimonianza di immagini di martirio e di dolore lontane da ogni retorica celebrativa, all’interno di un’opera caratterizzata dal richiamo a valori autenticamente umani.

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La piazza carnevalizzata. Il cinema politico di Elio Petri https://www.carmillaonline.com/2016/12/29/28082/ Wed, 28 Dec 2016 23:01:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28082 di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura [...]]]> di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura pesantemente, a volte, ostile per forzare e chiudere un’azione risarcitoria nei riguardi di Petri. [il suo cinema] concerne oggi la scena critica per il suo lavorare in modo diretto sul problema del Potere e dell’Amore del Potere. Mai, infatti, come negli ultimi anni sono questi i nodi su cui si misura, in tutti gli ambiti del discorso, la cultura militante che non guardi in modo meccanicistico al tema del politico. Ecco perché il cinema di Elio Petri si fa dire oggi: perché lavora, nella sua major phase, in modo analitico attorno alla impossibile rappresentazione del Soggetto nel Politico se non in termini psicotici» (p. 27).

Elio Petri è sicuramente un autore dalla fortuna critica alterna. Tanti tra coloro che avevano supportato, seppur problematicamente, il cinema del “primo Petri”, hanno finito col contestarne, spesso drasticamente, l’ultima fase, segnata da un mutamento profondo; alcuni, secondo l’autore, «erano impossibilitati “per natura” a capire una nuova pratica della scrittura e della politica che troverà il momento più alto in Todo modo», altri, quelli che Rossi definisce «i rappresentanti del “terrorismo critico”, dell’avanguardia critica, “Cinema&Film” e “Ombre Rosse”», risultarono incapaci di «superare gli effetti di una supposta distanza politica, vittime loro malgrado delle proprie petizioni di principio e di lotta ideologica» (p. 21). Già all’uscita del film La classe operaia va in paradiso (1971) si alzarono pesanti critiche nei confronti dell’opera, accusata apertamente di essere reazionaria sia da parte dell’estrema sinistra che da parte degli esponenti dall’avanguardia del cinema militante, come il regista Jean Marie Straub.

la-classe-operaia-24Agli attacchi ed alle accuse Petri non mancò mai di rispondere con tono altrettanto polemico, a testimonianza di ciò si possono leggere alcuni passi, riportati dal saggio, tratti da Parla il cinema italiano vol. 2 (Il Formichiere, 1979 – p. 252-256), in cui il regista non risparmia stilettate sia alla critica marxista tradizionale che alla critica militante più recente, legata alle nuove riviste di cinema sorte negli anni ’60: «I marxisti dopo la scomparsa di Barbaro e Della Volpe, si sono ansiosamente ancorati ad un loro storicismo buono per tutte le occasioni. Marxisti, cattolici e idealisti si sono tutti trovati d’accordo in ciò, che la lettura di un testo è essenzialmente contenutistica […] Dal sessanta in poi vi sono state, inoltre, molte frettolose traduzioni dal francese di idee spesso tradotte dal tedesco e dal russo. Battaglioni di avventizi si sono gettati su queste idee, sbranandole, divorandole, in una gran confusione di fini. Molti si sono improvvisati formalisti, stilisti, semiologi, strutturalisti, lacaniani, o un po’ dell’uno un po’ dell’altro…» (p. 21-22). La polemica nei confronti di “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse” è palese, come è certo che tali riviste, sostiene Rossi, abbiano mantenuto un atteggiamento di «chiusura nei suoi riguardi in quella fase di passaggio radicale, gli anni settanta, vera sua fase di mutazione ideologica e stilistica da un cinema di narrazione, esistenzialista, ad un cinema volto al simbolico» (p.23).

Relativamente alla trasformazione imposta dal cineasta alle ultime opere, Rossi propone oggi una lettura differente da quella sostenuta a suo tempo, quando i film uscirono in un contesto culturale, politico e sociale diverso, in un periodo contraddistinto da ben altre urgenze: «Petri è un marxista e un materialista, lo psicologismo individualistico gli è estraneo o, nel tempo lo ha totalmente capovolto e ciò risulta chiarissimo nelle esperienze evolutive degli ultimi anni. È l’analisi della struttura capitalistica e psicotica che muove la sua riflessione sui fatti: gli attanti dei suoi film ultimi sono soggetti giocati dal reale e non individui – esistenze. L’oggetto del suo cinema sono soggetti equivocanti sul proprio supposto sé razionale, sociale e politico, sono maschere di una rappresentazione carnascialesca dominata dalla pulsione di morte. Elio legge con lenti marxiste e freudiane il mondo. Elabora all’interno della rappresentazione il gioco della pulsione di morte nelle dinamiche del reale della politica: è questa la genialità della sua scrittura. […] Il concetto di morte al lavoro è il rovello continuo della loro elaborazione: morte come processo di degrado del costume civile, decadimento dell’essere come insensatezza di soggetto lavorato dalla perdita identitaria. Pasolini parlava di corruttibilità della specie, delle facies, Elio la rappresentava, con genio registico a mio avviso assai superiore, radicalizzando la sua messa in scena grazie al gioco di maschere carnascialesche del potere, in una sfera di teatralità vicina al kabuki. È Elio il vero autore d’avanguardia del cinema italiano degli anni settanta, (assieme, come già detto al diversissimo Carmelo Bene e a qualche film di Ferreri, regista che amava) il vero padroneggiatore di un discorso sovversivo sul soggetto nel politico» (p. 26)

Nel corso degli anni ’60 si è sviluppata una profonda frattura tra i registi italiani “impegnati”, coinvolti nelle strutture produttive dell’industria del cinema, e la componente più radicale della critica cinematografica. Da allora, registi quali Petri, Rosi, Pontecorvo, Damiani e Montaldo rappresentano, secondo il saggio, «l’impensato della critica militante», tanto che ancora oggi risulta difficile «oltrepassare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione per puntare all’analisi della rappresentazione del politico» (p. 40). Se si capiscono i motivi per cui i film di tali cineasti venivano, all’epoca, spesso attaccati da parte della critica politica (cinematografica e non) più radicale, oggi «tutto fa pensare che siano l’oggetto perturbante anche secondo i modesti criteri della comune pratica critica odierna che sono quelli della valorizzazione del cinema in quanto tale, come cosa cinematografica e prescindono da approcci analitici complessi. Oggi il massimo che ci si può attendere è l’assunzione impensata dei registi del cinema politico nell’empireo già affollatissimo del cinema italiano, quali esperti in un generone, come l’horror, il comico, la commedia, il peplum, il dramma popolare» (p. 40).

petri-cinema-politicoAlcune letture riducono il cinema politico italiano dell’epoca ad uno stereotipato catalogo di situazioni: «Le sceneggiature ruotano sempre infatti attorno a temi civili, variando esclusivamente l’economia della loro distribuzione. La polizia… italiana, la giustizia… italiana, la gestione… italiana del potere pubblico: si potrebbe dire che quel che è in questione è sempre l’apparato del Potere in Italia, distorto, mafioso, intrigato ed intrigante» (p. 42). Rossi evidenzia come gli ultimi due aggettivi non siano utilizzati casualmente; «poiché la politicità di tali film consiste nel contestare una realtà di potere, oggi, nel nostro Paese, inscenandola come “intrigo di potere” e, sottolineerei, intrigo “italiano” […] in quanto riconduce a modalità del dire, dell’immaginare, del rappresentare il Potere radicatesi nella notte della teatralità italiana. È dunque attraverso la griglia della doppia connotazione di “intrigo” ed “italianità” che il cinema italiano trova, a livello extracritico soprattutto, una sua riconoscibilità di massima che fa distinguere i film di registi quali Rosi, Montaldo, Pontecorvo, Petri da un altro cinema che pur esso si appella alle categorie del politico, quello dei Taviani, Bertolucci, Pasolini» (p. 42).

Se abbiamo un “intrigo”, continua lo studioso, «vi è qualcosa che va svelato, da parte di qualcuno di una certa “scena”» e si deve credere che esista una soluzione all’enigma, «ovvero che la Scena ricopra, celi, una Verità svelabile, dicibile. E che sussista la funzione catartica di strappare il velo della scena del “reale” in modo che esso possa dirsi nella sua verità» (p. 43). Il cinema politico italiano, secondo Rossi, intende mettere in scena l’enigma del sociale capitalista, sotto forma di intrigo politico al fine di denunciarne la natura di classe.

Circa la seconda connotazione, quella di “italianità”, il cinema politico italiano ha inevitabili rapporti con la commedia all’italiana (registi, attori, sceneggiatori, tecnici, produttori…) e tale legame ha la sua incidenza. Rossi indica come commedia all’italiana, commedia dell’arte e delle maschere borghesi siano segnate dell’immaginario politico di cui il cinema politico non ha di certo l’esclusiva. Nel saggio si sostiene che proprio a Petri si deve la più importante scoperta linguistica del cinema politico italiano, cioè «l’invenzione della necessità scritturale di attribuire all’ordine del politico la maschera di Gian Maria Volonté. Il che vuol dire strappare all’ordine simbolico della commedia all’italiana, tipicamente borghese, la pregnanza immaginaria della maschera spostandola sulla scena dell’agone del desiderio politico e restituendo alla maschera asservita e mercantile tutta la sua significanza» (p. 45). Non è dunque un caso che Petri si sia servito di un attore estraneo al firmamento del grottesco della commedia all’italiana. Il saggio evidenzia come esista una distanza netta tra le maschere degli attori della commedia all’italiana e la maschera di Volonté; in quest’ultimo caso l’attore riesce a «raggiungere la perfezione della maschera, la totalità della mimèsi e, di conseguenza, l’assoluta indifferenza rispetto al modello» (p. 46). Nel cinema di Petri prevale un’oscillazione permanente in un’alternanza di sublime/comico e ciò è dovuto alle capacità di alternanza della maschera di Volonté.

È nella ricostruzione del ruolo politico della maschera nella scena teatrale italiana che Rossi individua ciò che accomuna e ciò che differenzia la commedia all’italiana ed il cinema politico italiano, giungendo alla conclusione che, al fine di comprendere la peculiarità del cinema politico di Petri, si debba riflettere sulla maschera di Volonté e da qui sul ruolo della “festa” quale «avventura immaginaria del suddito ma anche la sua tragedia, il suo scacco radicale, la sua mancanza ad essere che si inscena nello stesso recinto spaziotemporale» (p. 48).

Ricorrendo ad una chiave di lettura psicanalitica, di matrice lacaniana, Rossi giunge alla conclusione che «anche il problema della maschera concerne il sintomo discorsivo dell’allegoria. Re Carnevale ne è la cifra, doppiamente, in quanto rappresenta il tentativo di incarnarsi nel tutto del desiderio facente capo al soggetto in ordine al Politico. E questo nella prefigurazione di natura isterica che quella totalità, quella assolutizzata verità sia inscenabile. Qui, precisamente, si situa il paradosso dell’allegoria: per dire il tutto, la verità del Potere, non si dice nulla del potere-reale. La scena festiva, quindi, dal punto di vista della politica-reale non è un fatto trasgressivo, o, peggio, rivoluzionario. Ché, anzi, è il gesto confermativo di una dipendenza fantasmatica. […] La dinamica pulsionale del soggetto e del collettivo disdicono il reale-politico rappresentandone il simulacro. Come tale l’allegoria festiva, dell’enunciato politico, ha per effetto di introdurre, nella scena, il Politico come fantasma del politico-reale. Ma quest’ultimo ricompare come effetto di ritorno nella rappresentazione. E il suo “effetto di ritorno”, o après coup, consiste precisamente nell’impraticabilità dell’allegoria, ovvero nell’impossibilità per Re Carnevale di trattenere le fattezze di maschera» (pp. 49-50). A Carnevale succede Quaresima, al desiderio subentra la sua negazione, alla festa che tenta di fare a meno del principio di realtà si sostituisce la cancellazione del principio di piacere.

La lunga disamina circa il ruolo della festa è ritenuta indispensabile al fine di affrontare il cinema politico italiano che, nella lettura proposta da Rossi, «rappresenta l’agone del collettivo, attuato, per il tramite dello spettacolo cinematografico, al fine di specchiarsi (“specchio” e “spettacolo” hanno lo stesso etimo) come Potere, di raffigurarsi tale al centro di un palcoscenico immaginario che ha per quinte le nostre città, i nostri palazzi del potere» (p. 51). Il cinema politico italiano sarebbe dunque caratterizzato dal conflitto che si instaura nella rappresentazione tra la festa carnevalesca ed il contraccolpo quaresimale, il «gioco di maschera che esso propone è sempre destinato alla tragedia, alla Quaresima, alla conferma fantasmatica del “sistema” contro cui si rivolta» (p. 53), così facendo l’enigma della società politica italiana tende a riconfermarsi come tale visto che l’assunto di credenza non è messo in questione. «Questa dialettica non risolvibile è invece il centro stesso del meccanismo scenico dei film di Petri. Laddove, in tutta la produzione che esaminiamo, permane come sintomo, come discorso in perdita. E di perdita» (p. 53).

Rossi ripropone, più di una volta, nel saggio una celebre citazione lacaniana: «L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, p 259). Tale citazione sintetizza bene la griglia di lettura attraverso cui Rossi analizza il cinema di Petri.

Nel cineasta la scena carnevalesca si fonda sull’attualità della politica-reale, il film affronta l’attualità del paese. «La messa in scena dell’impossibilità del desiderio, di dire il Politico-reale, il Potere-reale, fa si che Petri, in questa prospettiva, analizzi una fenomenologia del bisogno-politico quale si è prefigurata a partire dalla “festa sessantottesca”. Il ’68 come spazio festivo: le piazze le strade d’Italia battute da un’onda delirante, conclamatesi Potere» (p. 55). Secondo la lettura proposta dal saggio, mentre molti autori italiani del cinema politico «hanno letto l’invocazione ribellistica in termini di risposta, Petri l’ha letta in termini di domanda, quale disagio e pulsione di morte, di cui è intessuta» (p.55).

indagine su un cittadinoSecondo Rossi, nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), Petri inserisce la rappresentazione della politica italiana all’interno di canoni discorsivi carnevaleschi attraverso la maschera di Volonté. Dell’attore il cineasta esalta le qualità mimetico giocose della sua recitazione senza mai farle scivolare in quel che lo studioso definisce “mascherone”, tipico della cinematografia italiana del dopoguerra che, facilmente, avrebbe trasformato il personaggio dell’ispettore di polizia in semplice caricatura del funzionario dell’amministrazione centralistica e gerarchica dello Stato. Il film di Petri, sostiene Rossi, «persegue invece un altro effetto: il lazzo, il comico, il grottesco che alimentano la sua finzione hanno una significanza differente nel testo, avente a che vedere con il desiderio del Cittadino piuttosto che dell’“ispettore”» (pp. 101-102).

«L’ispettore-Volontè risucchia la scena, la dissangua, la riduce ad ossessivo rumore di fondo per lanciare alta la sua invocazione isterica d’amore del Potere» e, continua lo studioso, quegli studenti che fronteggia, oggi si ritroverebbero nei panni di «funzionari dello Stato assistenziale, che con gesto amoroso li ha raccolti dalle piazze d’Italia e li ha “incardinati” nell’Amministrazione. Oggi essi fanno cardine: un po’ dovunque desidereranno esser ricevuti e amati dai capuffici, dai capi sezione, dai direttori generali, oppure sono già loro il Potere» (p. 102). La festa carnevalesca del ’68 si conclude, lacaniamente, verrebbe da dire, in maniera quaresimalistica.

«Per l’ispettore compiere l’assassinio dell’amante significa portare una sfida al centro del meccanismo fideistico che fonda l’Autorità, e al suo effetto di credenza. Non è un caso che nel corso del film, parlando dell’“interrogatorio” e della sua metodologia così lui lo definisca: “È una messa in scena per toccare corde profonde, sentimenti segreti. Di fronte a me che rappresento il Potere l’indiziato diventa un po’ bambino ed io divento il Padre, il modello inattaccabile; la mia faccia diventa quella di Dio, della Coscienza”. Ecco Re Carnevale […] Ma il dirsi Dio è anche una bestemmia: è nel contempo la incoronazione e la scoronizzazione del Potere e del suo effetto di credenza nell’ambito del Collettivo […] Proprio l’imputarsi, il farsi vittima sacrificale è il movimento stesso della colpevolizzazione per la pronunzia della bestemmia. È qui che s’annida il tarlo comico che mina la sublimità, l’eroicità dell’agire. Questa altalenanza è propria di ogni enunciato attorno al Politico, traversato come esso è dal sintomo isterico, in questo senso l’ispettore è anzitutto Cittadino, membro del Collettivo desiderante attorno al Potere. Di questa desideranza sessantottesca, nella sua continua pronunzia della bestemmia, nel godimento precluso, il Cittadino è il fantoccio, la maschera sublime e comica» (p. 102).

Con riferimento alla tarda produzione di Petri, secondo l’analisi proposta dal saggio, non si può parlare propriamente di “ritorno al privato”, di “riflusso dal politico” e di “disinganno”. Di certo gli ultimi film, a partire da La proprietà non è più un furto (1973) sono caratterizzati da una gestazione contorta, contraddittorietà e sofferta, ben testimoniata da una mole di scritti del regista in cui si alternano momenti di eccitazione ed altri di delusione. L’impressione, suggerisce il saggio, è che da un certo punto in avanti il cineasta abbia preferito lavorare per dare immagine ai propri fantasmi che a lungo erano stati “coperti” dal fragore della piazza. Nel film Le buone notizie (1979), al posto di Giancarlo Giannini, avrebbe dovuto recitare Marcello Mastroianni, attore che rappresenta per certi versi l’altra faccia di Volonté: «se quest’ultimo è la maschera del politico, Mastroianni lo è del privato. Ma un privato legato a doppio filo con il politico: un privato appartenente al dominio del conflitto attorno ad un’idea di morale possibile nel reale e di chiusura del Soggetto nel reale. Dunque nulla a che fare con modelli di introversione piccolo borghese, ma un privato giocato dalle contraddizioni tra il principio di realtà e le istanze anarchiche, violente e luttuose, di cui Elio è attraversato» (pp. 58-59).

La ri-lettura di Petri proposta da Rossi, che, come tiene a sottolineare, non vuole venga intesa come risarcitoria sconfessione di una precedente lettura ostile, sicuramente risente di come sono andate le cose dopo la sbornia sessantottesca e, se anche non vuol essere risarcitoria nei confronti di Petri, sembra riconoscergli doti di preveggenza. Una visione tragica, quella di Petri, in cui, oggi, in contesto fortemente mutato, forse, tra le righe, pare riconoscersi lo stesso Alfredo Rossi.


Il saggio contiene lettere e scritti di Elio Petri ed interventi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste de Fornari

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Questa musica non è normale https://www.carmillaonline.com/2016/09/28/questa-musica-non-normale/ Wed, 28 Sep 2016 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33511 di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, [...]]]> di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, ma siamo bravi a muovere il culo a tempo” (Poison Ivy)

Erick Lee Purkhiser (1947 – 2009) in arte Lux Interior, nome ispirato dalla grossolana pubblicità dei lussuosi interni di un’automobile, e Kristy Marlan Wallace (classe 1953) in arte Poison Ivy, nome ispirato sia da una delle più velenose nemiche di Batman che dal titolo di uno dei più celebri brani del quintetto doo-wop dei Coasters, hanno costituito una delle coppie più selvagge del rock’n’roll. Sulla scena e nella vita.

cramps_1 Al comando di uno sgangherato vascello che prendeva il nome dai dolori mestruali, Cramps, nonostante i numerosi cambiamenti tra i membri dell’equipaggio, ne hanno saldamente retto il timone per più di trent’anni, dai primi difficili esordi newyorchesi alla metà degli anni ’70 fino alla morte, per dissezione aortica, di Lux il 4 febbraio 2009. Su un oceano tempestoso fatto di mode passeggere, synth-pop, case discografiche interessate soltanto a trasformare l’oro della selvaggia violenza del primo rock’n’roll e del primissimo punk nella merda più adatta ad essere trasmessa con successo dalle radio del mainstream culturale e musicale, i due compagni di vita, di avventure e di suoni distorti hanno continuato intransigentemente a perseguire il loro scopo: portare il verbo del blues delle origini e del rockabilly del Sud degli Stati Uniti alle orecchie e attraverso la pelle di tutti i giovani ribelli che ancora non ne conoscevano l’esistenza.

Decisi a cantare la vitalità, l’energia e l’eccesso e ispirati dai B movie horror, sexploitation e di fantascienza non si sono arrestati davanti a nulla e non si sono lasciati intimorire mai, né dal conservatorismo musicale delle major, né tanto meno da quello delle presunte avanguardie art-rock e post-punk che li deridevano, né, ancor meno, da qualsiasi tipo di moralismo religioso, culturale o pseudo-politico.

Ha affermato Poison Ivy: “Suonando rock’n’roll noi siamo in qualche modo anche una blues band.Un sacco di gente dice che noi siamo troppo ossessionati dal sesso, come se questa fosse una tendenza anomala, ma non ho mai sentito dire che Muddy Waters fosse un maniaco sessuale per aver cantato «Little Red Rooster». O Willie Dixon, o Howlin’ Wolf, non sono mai stati definiti ossessionati dal sesso per via di ciò di cui cantavano, eppure l’argomento era sempre quello1

Riscoprire le radici autentiche del blues, non il presunto piagnisteo derivato dal canto nero cristianizzato e indirizzato a forza nei gospel e negli spiritual, ma l’esplosione di energia vitale e sessuale che aveva fatto sì che i bianchi benpensanti e puritani finissero col definirlo Musica del Diavolo. Quella eccitazione elettrizzante, sensuale e conturbante che gli accordi delle chitarre nere avevano trasferito a quei giovani bianche del Sud che, stufi di chiese metodiste e citazioni bibliche, avevano iniziato a portare giacche di cuoio, a truccarsi gli occhi col mascara come Elvis e a suscitare problemi di ordine pubblico nelle piccole comunità rurali e in quelle più grandi urbane.

cramps-nagasaki Juvenile delinquent, così li avrebbe definiti un sociologo americano degli anni ’50 che avrebbe così contribuito a scatenare una caccia alle streghe degna di Cotton Mather nei confronti di fumetti, libri tascabili, film, dischi e comportamenti che potessero offendere la buona morale cristiana, disturbare, anche solo con il rumore prodotto, la pace borghese e infrangere le norme patriarcali sociali e famigliari che avevano sempre e solo saputo produrre niente altro che noia, sfruttamento, diseguaglianza, morte e distruzione.

Dick Porter, in un magnifico libro che ricostruisce intelligentemente il ruolo avuto dal rock’n’roll nel modificare la società americana degli anni ’50 e ’60 e che si legge come un fumetto, accende l’animo di chi legge di insane passioni musicali e non solo e trasporta i lettori in un tornado di storie, avventure, delusioni, sconfitte e trionfi i cui eroi e protagonisti portano i nomi di Little Richard, Elvis Presley, Hasil Adkins, Link Wray, Duane Eddy, Gene Vincent, Charlie Feathers, The Phantom, Screamin’Jay Hawkins, Sonics, Shadows of Knight, Stooges, New York Dolls e molti altri ancora fino a Lux Interior e Poison Ivy. Tutti pericolosi in un modo o nell’altro. Tutti selvaggiamente vorticanti in un rito voodoo di suoni elettrici, frasi sconnesse ma urticanti e tutti ugualmente urlanti la loro rabbia o la loro gioia di vivere contro un mondo bigotto e falso.

cramps-3A proposito dei testi di molte di quelle effervescenti canzoni, Lux ebbe modo di sentenziare: “Penso che sia rischioso per i ragazzini non venire a contatto con questo genere di brani…crescono, vanno a scuola, trovano un lavoro e poi muoiono senza mai essersi divertiti davvero. Fate molta attenzione.2 E parlando di un grave incidente in cui era incorso uno dei suoi idoli, The Phantom, avrebbe poi in seguito aggiunto: “Una notte era ubriaco e volò giù da un dirupo con la macchina. Disse «Quando mi accorsi di essere paralizzato, mi sono incazzato davvero di brutto». E’ proprio un fuori di testa – tutti i vecchi rockabilly erano come lui, ed ecco come stavano le cose all’epoca. Erano troppo selvatici per darsi una calmata, quindi finivano nei burroni – questo è il rockabilly3

E fu proprio quella follia, quell’energia che i Cramps portarono prima sul palco del CBGB, nella Bowery in cui mossero i primi passi, e poi in tour per tutto il pianeta. A proposito delle esibizioni in Gran Bretagna, l’allora secondo chitarrista del gruppo, Kid Congo Powers, avrebbe in seguito ricordato: “Quegli show furono pazzi, magici, pervasi di voodoo e Lux fece cose incredibili sul palco, pericolose e folli, come saltar giù da una pila di casse o roteare il microfono con un cavo talmente lungo che pensavo che prima o poi mi avrebbe decapitato […] Legava le mie gambe con il filo del microfono e mi trascinava in giro per il palco mentre suonavo – di solito durante «Surfin’ Bird»4

cramps-2 Gli show dei Cramps corrispondevano allo spirito degli antenati che Lux e Ivy riportavano in vita con le loro esibizioni e i loro dischi: ”Tutti i musicisti rockabilly delle origini erano individui davvero pericolosi, aggressivi, passionali. Che avevano solo una cosa in testa – o forse due, o tre al massimo […] Ho sempre pensato che gli artisti che hanno suonato questa musica per primi fossero dei veri pazzi, gente davvero fuori di testa, molto più avanti di chiunque altro5 avrebbe ancora sottolineato in più di un’occasione Lux.

Tant’è che uno dei concerti più famosi del quartetto, show che rientra a tutto titolo nella mitologia del rock’n’roll, si tenne al California State Mental Hospital di Napa, un istituto californiano per malattie mentali: “Dal momento che non eravamo mai soddisfatti dei nostri spettatori, abbiamo sempre desiderato suonare in un istituto per malattie mentali – fu la spiegazione di Lux – Credevamo che se avessimo suonato in un manicomio, il pubblico avrebbe collaborato ed è andata così! C’erano pazienti, uomini e donne, che cercavano di accoppiarsi sul pavimento. E’ stato lo show più assurdo che abbiamo fatto […] C’era chi leccava le pareti, chi giaceva disteso su qualcun altro e balzava su all’improvviso per dirci qualcosa mentre suonavamo, ma soprattutto c’erano persone che ballavano le danze più strane che io abbia mai visto […] Continuavano a gridare ‘Reparto T! Reparto T!’ e solo dopo abbiamo scoperto che il Reparto T è il padiglione da cui nessuno ritorna […] Dicevano che noi provenivamo da quel reparto. Molti di loro non erano poi così strani. Semplicemente ignoravano che ragazzi e ragazze non dovrebbero accoppiarsi sul pavimento, tutto qui6

Con costumi che andavano dal pesante trucco trash agli abiti neri della famiglia Addams e dal burlesque al latex e ai tacchi a spillo (per uomini e donne del gruppo) ispirati ai giochi sado-maso, i Cramps con ironia e sincerità portavano in scena e nella loro musica una joie de vivre che materializzava per il pubblico ciò che andrebbe autenticamente inteso quando si parla di macchine desideranti, ovvero tutto ciò che già Lacan aveva individuato nel godimento (jouissance) al di là del principio del piacere.

Lux/Erick era originario dell’Ohio. Nato nella cittadina operaia di Stow, nelle vicinanze di Akron, la capitale mondiale della gomma, aveva usufruito di quel genio che avrebbe animato le più importanti uscite dall’aria inquinata di quella città: Devo, Pere Ubu, Electric Eels.

Ivy/Kristy era nata in California, a San Bernardino, e dalle onde dell’Oceano Pacifico avrebbe portato per sempre le stimmate delle Fender usate dai gruppi surf dei primi anni sessanta, diventando un’autentica sacerdotessa di quel dio senza nome del riverbero e del twang che Link Wray, soprattutto, e Duane Eddy le avrebbero rivelato con i loro dischi. E che poi altri, come lei e dopo di lei, sulla scia anche di Dick Dale, avrebbero riconosciuto come loro autentico e unico Dio: da Bill Frisell a Eyal Maoz (solo per citare alcuni dei migliori).

Negli album ufficiali (otto in studio e due live), nel numero infinito di sette pollici e di bootleg tratti dai loro concerti, Ivy fin dall’inizio avrebbe infiammato ogni passaggio vocale di Lux con autentiche sciabolate elettriche, sospese tra il suono cupo e drammatico che Link Wray aveva usato in “Rumble” e l’autentico caos sonoro provocato da un muro di feedback, distorsioni e dissonanze che affondavano le loro radici nel chitarrismo spezzato e disarticolato dei primi dischi di Gene Vincent e i suoi Blue Caps. E la stessa Ivy a confermarci le sue influenze musicali: “Buona parte della mia tecnica viene dall’ascolto di vecchi dischi. C’è una produzione talmente strana dietro molti di loro, cose che le persone non fanno più7

link-wray E più oltre avrebbe aggiunto: “Link Wray è il mio più grande eroe e penso sia davvero sottovalutato. Possedeva il suono più monumentale e apocalittico che avessi mai sentito – davvero emozionante, così schietto e allo steso tempo violento. E’ la perfetta rappresentazione del rock’n’roll, che dovrebbe essere violento e pericoloso e avere un suono pericoloso. Lui è stato dall’inizio la mia principale fonte di ispirazione, e lo è ancora […] Lui è…è una chitarra che suona mentre il mondo sta finendo. Così austera. E così drammatica. La cosa sicura è che Link riesce a ottenere il meglio con il minimo possibile8

Nel corso di una polemica sul presunto sessismo dei testi e degli atteggiamenti dei Cramps, suscitata da alcune testate musicali inglesi, ebbe occasione di affermare: “E’ un po’ strano, noi saremo anche sessisti, ma loro non si sono mai soffermati sul mio stile particolare nel suonare la chitarra, non lo hanno mai commentato, ed è questo che io considero davvero sessista. La cosa più carina che siano riusciti a dire è che riesco a suonare come un uomo. Questa è un’affermazione molto sessista. Il mio stile è inconfondibile, innovativo, originale. Io produco questa band, io faccio da manager a questa band e chiunque dica che siamo sessisti è ottuso e bigotto9

cramps-5 E Lux avrebbe aggiunto: “Ci piacerebbe portare un po’ più di umorismo vizioso nel rock’n’roll, che al giorno d’oggi è fin troppo sano. E’ orribile, intollerabile – tutte queste rock star che fanno del bene in giro per il mondo, eccetera – cristo, quando è troppo è troppo!10

Ispiratori di gruppi come i Gun Club o i White Stripes oppure ancora dei dischi di Holly Golightly e Billy Childish, Ivy e Lux ci hanno lasciato un patrimonio enorme di magnifiche cover e brani originali dai titoli indimenticabili: “Kizmiaz”, “Can Your Pussy Do the Dog?”, ”Hypno Sex Ray”, “Like a Bad Girl Should” solo per citarne alcuni a caso. E soprattutto un messaggio di anticonformismo e ribellione contro la morale corrente e il perbenismo musicale che il libro di Porter, arricchito anche da una ricca documentazione iconografica e da una vastissima discografia del gruppo, traduce e trasmette magnificamente con le sue pagine.


  1. pag. 14  

  2. pag.59  

  3. pag. 165  

  4. pag.180  

  5. pp. 182 – 183  

  6. pp.121 – 122  

  7. pag.212  

  8. pp.28-29  

  9. pag.215  

  10. idem  

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Nemico (e) immaginario. Il postumano tra soggettivazione emancipatoria e nuove forme di dominio https://www.carmillaonline.com/2016/08/30/nemico-immaginario-postumano-soggettivazione-emancipatoria-nuove-forme-dominio/ Tue, 30 Aug 2016 21:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32596 di Gioacchino Toni

mondi-altri-coverIn precedenza abbiamo affrontato il rapporto tra la figura del nemico e l’immaginario fantascientifico spaziando tra zombie, alieni e mostri vari [su Carmilla]. Abbiamo visto come il terrore umano nei confronti dell’altro e dell’ignoto messo in scena dalla finzione riprenda tanto paure ataviche quanto storiche, tanto autonome quanto eteronome e come tali paure possano anche rivelare un timore di sé. Ogni volta che, nella difficile sopravvivenza quotidiana, viene messa in discussione una qualche forma di lenitivo e consolatorio “stato di stabilità”, l’essere umano sembra patire una crisi d’identità [...]]]> di Gioacchino Toni

mondi-altri-coverIn precedenza abbiamo affrontato il rapporto tra la figura del nemico e l’immaginario fantascientifico spaziando tra zombie, alieni e mostri vari [su Carmilla]. Abbiamo visto come il terrore umano nei confronti dell’altro e dell’ignoto messo in scena dalla finzione riprenda tanto paure ataviche quanto storiche, tanto autonome quanto eteronome e come tali paure possano anche rivelare un timore di sé. Ogni volta che, nella difficile sopravvivenza quotidiana, viene messa in discussione una qualche forma di lenitivo e consolatorio “stato di stabilità”, l’essere umano sembra patire una crisi d’identità che lo conduce, non di rado, a provare l’esigenza di un nemico espiatorio. Ora, pensando ai processi di trasformazione/destabilizzazione dell’individuo e del pianeta, vale la pena soffermarsi sul dibattito sviluppatosi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta attorno alle trasformazioni che hanno toccato l’essere umano relativamente ai processi di ibridazione che lo modificano attraverso protesi chimiche, meccaniche, elettroniche… e via dicendo fino alle tecnologie più recenti. Tale dibattito, come vedremo, si pone in maniera problematica la questione del “postumano”: stato di fatto od entità a venire? Processo di liberazione o nuova forma di dominio? Sol dell’avvenire o buia minaccia? Linea di fuga da imboccare o deriva di dominio a cui resistere? E, se nel postumano si individua un nemico dell’umanità, si tratta di un nemico reale o immaginario? Il cyborg è un nemico dell’umanità o l’umanità è già composta da cyborg?

Al fine di affrontare alcuni di questi interrogativi sulla realtà e sullo stato dell’umanità contemporanea, vale la pena ricorrere al denso saggio curato da Amos Bianchi e Giovanni Leghissa, Mondi altri. Processi di soggettivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia (Mimesis 2016). «In primo luogo, si tratta di esplorare il potenziale dell’utopia oggi, il significato che ha la facoltà di immaginare un mondo diverso in relazione al desiderio di vivere in un mondo più giusto ed equo. Il riferimento alla fantascienza resta centrale, ma si tratta anche di cogliere, là dove siano presenti, tutti quegli ambiti di riflessione che nascono dal bisogno se non di negare, almeno di mettere radicalmente in questione la realtà esistente […] In relazione a quali forme di assoggettamento oggi si diventa soggetti? Quali percorsi di libertà sono possibili entro la cornice del neoliberalismo? Come funziona un regime totalitario che, anziché imporre e reprimere, costruisce le architetture della scelta che spingono gentilmente gli individui verso percorsi di vita predeterminati?» (pp. 9-11).

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 anche in Italia, grazie a studiosi come il compianto Antonio Caronia, si apre un serrato dibattito sulle trasformazioni tecnologiche che stanno investendo tanto il sistema produttivo che il soggetto stesso. A tal proposito Giuliano Spagnul (“Distruggere l’utopia”) sottolinea come Caronia non parli di mutazione antropologica come conseguenza di una tecnologia intesa come agente autonomo; essendo la tecnologia figlia dell’attività umana, essa non può essere causa ma sintomo della trasformazione che avvolge l’essere umano. Ne consegue che non è possibile concepire l’ibridazione uomo-macchina o solo come minaccia o solo come promessa esaltante e ciò vale a maggior ragione per una contemporaneità che ha notevolmente ridotto la distanza tra naturale ed artificiale, tanto che quest’ultimo appare sempre più inglobato all’interno dell’uomo. «Caronia non rinnega l’interesse e la necessità di affrontare il nuovo e di accettare la sfida di un mondo in cui reale e immaginario sempre più sembrano fondersi; semplicemente, in una radicale scelta anti-utopica, ancora il proprio interesse a un presente che possa contenere in sé il futuro come possibilità e non come programma» (p. 24).

Per meglio comprendere la questione del postumano, vale la pena indagare quell’ambito che, meglio di ogni altro, da tempo si è posto tanto il problema del rapporto tra l’uomo e la tecnologia, quanto la proiezione del presente nel futuro: la fantascienza. Lo scritto di Domenico Gallo (“Una solitudine inespugnabile. Critica del presente ed elaborazione del futuro nella fantascienza statunitense”) si focalizza proprio sull’uso della fantascienza come strumento di elaborazione politica e sull’impatto delle scienze e della tecnica sull’organizzazione sociale. Lo studioso ricorda come a partire da fine Ottocento la tradizione dell’utopia come luogo isolato subisca una netta trasformazione. «Dalla critica all’utopia nasce il desiderio di costruire una società migliore combattendo all’interno dei luoghi dello sfruttamento occidentale […] È un passaggio importante quello che dall’idealizzazione letteraria conduce all’utopia come pratica, perché dimostra che anche le classi che erano state escluse dalla cultura e dalla lotta per il potere, e i cui desideri di pace e prosperità erano stati esclusivamente declinati dalla religione, potevano essere realizzati nella vita reale» (pp. 25-26). Dunque, contro l’idea tradizionale di utopia come luogo separato di molta letteratura americana «si schiera una cultura collettiva e urbana che, attraverso il sindacalismo, si sposta progressivamente dall’utopia al miglioramento quotidiano delle condizioni di vita e di lavoro. L’altra linea proviene dall’Illuminismo e dal mito del progresso scientifico e tecnologico, che ha supportato negli Stati Uniti la creazione di un ceto di tecnici sempre più numeroso e che ha giocato un ruolo ambivalente all’interno dei rapporti [di] classe» (pp. 26-27).

Negli Stati Uniti tecnologia ed utopia sembrano intrecciarsi decisamente e le riflessioni di David Noble (La religione della tecnologia) evidenziano come lo sviluppo tecnologico occidentale si leghi ad aspirazioni spirituali che ritroviamo in un immaginario americano fortemente plasmato dalla componente profetica dell’esperienza puritana. Gallo ripercorre le tappe principali dello sviluppo della fantascienza a partire dal 1926, quando «nasce come fenomeno sociale, codificandosi come letteratura autonoma, attraverso la pubblicizzazione del proprio nome (all’inizio “scientifiction”) e un’editoria dedicata (Amazing Stories)» (p. 30). Fin dalla sua nascita la fantascienza contribuisce alla creazione di un immaginario in cui si fondono tecnologia ed eredità utopica ed al tempo stesso si palesa una sua vocazione politica in quanto critica nei confronti del presente. Il ruolo della tecnologia nell’idea di trasformazione della realtà risulta centrale negli Stati Uniti e ricorda Gallo come secondo le idee del Tecnology Movement – in cui si intrecciano populismo americano, visioni elitarie ed elementi socialisti -, non solo la complessità moderna dovrebbe essere governata da esperti di tecnologie e scienziati, ma è l’intera società a doversi trasformare in una società di tecnici. «Nell’ideale tecnocratico il capitalismo è parzialmente messo in discussione, separando un uso positivo, se impegnato in ricerca e sviluppo, produttore di innovazione e progresso, da uno negativo che crea ricchezza per pochi attraverso la speculazione, accentrando il benessere e sfruttando il lavoro altrui» (p. 33). È interessante notare come anche la sinistra americana confidi nel ruolo positivo delle tecnologie nonostante l’introduzione delle macchine nei processi produttivi fosse stata letta da Marx come strumento di sfruttamento e di riduzione della forza lavoro.

«Nella visione tecnocratica la narrativa aveva lo scopo di collegare il lettore ai temi della ricerca scientifica e di orientarlo al lavoro tecnico, e di conseguenza il contenuto delle riviste pulp non era a predominante letterario, ma esprimeva un progetto di trasformazione politica e sociale. Ne consegue che, a differenza di altri generi letterari, si è instaurata un’interazione tra lettori, scrittori ed editori, che, attraverso rubriche, editoriali e lettere, tendono a condividere il progetto e a praticare un’intensa collaborazione. Nasce così quella figura un po’ strana del cultore della fantascienza, a metà tra l’appassionato e l’attivista» (p. 34). Si costituisce dunque un immaginario in cui la fantascienza celebra la modernità e propaganda un ruolo privilegiato per i cultori di tecnologia almeno fino a quando la Grande depressione non incrina l’ottimismo nella tecnologia e nella scienza ormai percepite come strumenti di sfruttamento. Se il Communist Party of the United States of America propaganda una visione positiva per la scienza, John B. Michel, Robert W. Lowndes, Frederik Pohl e Donald A. Wollheim, quattro giovani attivisti appassionati di fantascienza, contrastano tale impostazione e «Criticando dall’interno la tecnocrazia e l’elitarismo degli scrittori e delle riviste, osservando anche che la comunità degli appassionati, che si erano riuniti nella Science Fiction League, escludeva di fatto la working class, le persone di colore, le donne e gli immigrati più recenti, elaborano una teoria della fantascienza come una combinazione tra immaginazione, marxismo e cultura popolare» (p. 35).

Secondo Wollheim, abbandonato il positivismo tecnologico, il compito della fantascienza dovrebbe essere quello di recuperare e proiettare l’originale spirito utopista verso la costruzione di un immaginario antagonista di liberazione. Wollheim, sostiene Gallo, teorizza una “fantascienza sociale” attenta tanto alle relazioni tra esseri umani e tecnologie, quanto all’uso di queste da parte del potere. «In questo senso il gruppo di Michel, Lowndes, Pohl e Wollheim supera la visione strumentale e propagandista del realismo proletario, non limitandosi a una mera rappresentazione del comunismo futuro, ma incamminandosi verso modelli di speculazione sociale molto sofisticati. Nel mondo degli appassionati di fantascienza questo progetto estetico e contemporaneamente politico inizia a diffondersi sotto il termine di Michelism, riconoscendo a John Michel il maggior contributo elaborativo. Nell’idea di Michel, la comunità della fantascienza, modificando il proprio giudizio sulla scienza e accettandone la visione sociologica e critica, avrebbe costituito una avanguardia politica che lavorava all’interno della rete culturale comunista» (p. 36).

Sul finire degli anni ’30 nasce il Committee for the Political Advancement of Science Fiction, organizzazione comunista intenta a smascherare il fascismo presente all’interno del genere e ad indirizzare gli appassionati su posizioni di sinistra. A tale organizzazione succede, poco dopo, la Futurian Society of New York a cui si legano Isaac Asimov, Damon Knight, Cyril Kornbluth, Judith Merril e James Blish. Lo scoppio della guerra e le carriere individuali limitano l’azione dei Futurians e, nel dopoguerra, conclude Gallo, in un panorama totalmente cambiato, alla fantascienza tecnocratica inizia a sostituirsi una fantascienza più attenta ai temi sociali volti a criticare il processo liberticida in atto nel paese sull’onda della guerra al comunismo.

stelarc0099Tornando alla contemporaneità, Giovanni Leghissa (“Uscire dal Neolitico. Per un uso politico della nozione di postumano”) nel suo intervento intende verificare la nozione di “postumano” alla luce di una critica del presente e dei rapporti di potere che lo caratterizzano. Tale nozione, sostiene lo studioso, viene introdotta per «liberare la teoria sull’umano dalle ipoteche, pesantissime, di un veteroumanismo che pone i membri della specie umana in una posizione di superiorità rispetto a tutte le specie di animali non parlanti» (p. 44). Secondo la logica umanistica, proprio attraverso il “privilegio della parola”, l’essere umano conquista la possibilità di pensiero, dunque di liberarsi dalla bassa materialità del segno scritto, accedendo così alla dimensione dello spirito. Nella presunta liberazione dell’uomo dalla sua animalità è possibile leggere anche l’azzeramento delle differenze sessuali.
Caronia (Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale), a metà degli anni ’80, sviluppa il tema del cyborg conferendogli una doppia valenza: da una parte la spinta verso l’ibridazione uomo-macchina può essere letta come parte di un processo di soggettivazione emancipatorio e, dall’altra, nell’ibridazione con i mondi digitali si possono riscontrare nuove forma di dominio. Nel primo caso divenire cyborg può significare sottrarsi al potere abbandonando modelli di soggettivazione imposti dalla tradizione, nel secondo caso, invece, si può scorgere l’abilità del capitale nello sfruttare produttivamente le competenze acquisite dall’essere umano durante la sua immersione nel mondo virtuale durante il “tempo libero”. Comunicare, condividere pensieri e proposte in rete significa, infatti, non solo interagire con amici ma anche fornire informazioni al capitale consentendogli di affinare le strategie di consumo. «In stretta correlazione a ciò, va poi considerato il fatto che nello spazio digitale in cui sperimentiamo nuove identità virtuali apprendiamo a trasformare noi stessi in imprenditori della nostra identità, e in tal modo accogliamo il principale imperativo del dominio neoliberale» (p. 46).

Leghissa si sofferma, inoltre, su un paio di altri aspetti della retorica del cyborg che «impediscono di rendere il discorso postumanista un punto di partenza efficace in vista di una critica del presente» (p. 47). Il primo aspetto riguarda l’enfasi “futurista” di chi invita a considerare il futuro abitato dai cyborg come già attuale. Se «l’obiettivo è diventare in qualche modo immortali grazie alla trasformazione dell’uomo in cyborg, allora vuol dire che siamo in presenza di una mitologia e di una forma di spiritualità di tipo veteroumanistico, in quanto tutte le forme dell’umanesimo tradizionali proprio nella mortalità dell’animale uomo vedevano – e vedono – il limite da superare, la pietra d’inciampo che impedisce un pieno sviluppo dell’umano» (p. 47). Il secondo aspetto da cui distanziarsi, a parere di Leghissa, riguarda l’enfasi con cui ci si riferisce al superamento della dicotomia natura-cultura grazie alle tecnologie. Per certi versi il cyborg compare quando l’essere umano inizia a manipolare oggetti ed a trasmettere alla discendenza le abilità necessarie per gestire tali manipolazioni. «Risulta dunque assai poco persuasivo ritenere che la capacità tecnica, intesa quale capacità di produrre artefatti atti a modificare il mondo, sia sorta nel momento in cui è finita l’evoluzione biologica; quest’ultima, invece, in quanto interazione di homo (non solo sapiens) con il suo ambiente, comporta da sempre sia la produzione e l’uso di artefatti, sia la comunicabilità delle capacità necessarie per tale produzione e per tale uso […] essere postumani non significa dunque concepirsi come quei viventi che inventano la tecnica per aggiungere ciò che manca al bios, bensì significa comprendersi come quei viventi che da sempre inventano la propria posizione nel mondo sfruttando la propria capacità di interagire con la plasmabilità sia di se stessi che del mondo materiale» (p. 49).

Dunque, come definire l’essere umano contemporaneo? Ubaldo Fadini (“Post. A proposito di una discussione sul postumano”) prende spunto da alcune riflessioni di Pietro Barcellona (L’epoca del postumano) che mettono in luce la difficoltà di definire la specificità umana da quando l’integrazione uomo-macchina ha determinato una sorta di salto nell’evoluzione della specie. Il filosofo siciliano individua nel post-umano i caratteri propri del moderno, della sua aspirazione di potenza e di potere senza limiti; il «post-human si presenta quindi come prodotto tardo dell’ideologia moderna dell’“onnipotenza dell’autocostituzione della prassi e dell’immutabilità dell’essere”, un ennesimo discorso, in breve, sull’immortalità, su un destino di resa all’infinito dell’immagine dell’uomo soggetto di bisogni e del modo di produzione che meglio lo raffigura/ripresenta. [Dunque] si può insistere sul post-human nei termini di (espressione di) una radicalizzazione parossistica dell’immanenza del codice vivente al processo dell’evoluzione che taglia fuori qualsiasi rinvio a una trascendenza, a un fondamento, esaltando così una coincidenza di norma e fatto nell’ibridazione di vita e intelligenza artificiale, di uomo e tecnologia di rete» (p. 62).

Secondo Fadini è «rispetto a quella antropologia fondata sulla trascendenza, vale a dire: sul rapporto costitutivo dell’umano con l’extra-umano […] che si può cogliere l’importanza della rottura rappresentata dall’affermazione dell’antropologia dell’autocostituzione dell’umano come soggetto svincolato e assegnato completamente alla sfera del mondano […] in definitiva, si delinea un processo di derealizzazione del mondo, di disconferma della sua autonomia strutturale, che si traduce anche nella negazione dell’altro […] e nel trionfo di una onnipotenza di carattere narcisista. L’effetto più significativo di tale deriva consiste appunto, agli occhi di Barcellona, nel rigetto dell’essenziale “opacità” dell’essere altro, con la sua valenza di limitazione, di possibilità di rilevazione – ancora – del senso della misura, del limite, di un qualche principio di realtà che ridimensioni le presunzioni soggettive. Contrapporsi a tutto questo vuol dire riaffermare la finitezza e la parzialità singolare dell’essere nel mondo, una sorta di “mancanza” […] che si presenta però anche come “eccedenza”, capacità cioè di andare oltre l’“io”, nella sua veste attuale di presuntuoso soggetto assoluto» (pp. 62-63).

Secondo Barcellona, la visione postumanistica del mondo finisce col consegnare il futuro dell’essere umano alle dinamiche di ibridazione di macchine e corpo umano mentre quest’ultimo tenterebbe di resistere alla finale coincidenza di artificio e natura, di tecnica e cultura, e tutto ciò si deve al fatto che il corpo resta in grado di provare emozioni e di mettere in opera mutamenti. Confrontandosi con le tesi di Barcellona, Caronia ritiene che il filosofo siciliano resti convinto dell’esistenza di «processi “autenticamente umani” in grado comunque di “trascendere” il dato naturale/biologico, raffigurato appunto ideologicamente dalla pseudo-“naturalità” del nostro modo di vivere (“borghese”) e di produrre (“capitalista”). Ciò conduce all’affermazione di una sorta di “naturalismo” che pretende di identificare – tra l’altro – il soggetto (in effetti contingente, storicamente determinato) con una presunta “natura umana”, al fine di mantenere aperta una dimensione “antropocentricamente” postbiologica» (p. 65).

mano33Da parte sua Caronia manifesta contrarietà alla nostalgia umanistica contro l’avanzata postumana innanzitutto perché l’ibridazione dell’umano con l’artificiale è ineludibile ed è su questa realtà che si è strutturato l’immaginario del cyborg. «L’ibridazione con determinate tecnologie è infatti concretamente percepibile come una delle modalità di articolazione di pratiche di assoggettamento della vita degli esseri umani alle logiche della globalizzazione economica. Il “cyborg postfordista” rappresenta al meglio […] un processo di ricombinazione/ ricomposizione di una forza lavoro contraddistinta da frammentazione e da una esistenza divisa e dispersa ma comunque poi connessa e resa comunicabile anche e soprattutto sul piano della “virtualità”, ricollocata, sotto tale veste, all’interno dell’odierno processo di valorizzazione capitalista» (p. 67).
Secondo Fadini occorre pertanto insistere sulla base materiale del discorso del postumano alla luce del suo legame con le trasformazioni delle relazioni sociali.

Amos Bianchi (“Chi sono io? Soggettività nella società dell’accountability”) si sofferma sui social media individuati come elemento costitutivo del mondo occidentale e sulla nozione di “quantified self”, definita da Melanie Swan (The Quantified Self) come «individuo proattivamente impegnato in ogni quantificazione possibile di se stesso» (p. 74). Il quantified self, tuttavia, segnala Bianchi, è da intendersi come passaggio verso la costruzione del “self futuro”. Gli “entusiasti digitali” si esaltano di fronte alla prospettiva che «alla base sia dei social media sia del quantified self, vi è un soggetto contemporaneo impegnato a offrire se stesso alla macchina digitale, in forma di parametri numerici, immagini, testi o qualsivoglia altra modalità di espressione» (p. 75). Bianchi intende, invece, definire con “accountability digitale” quel processo di soggettivazione contemporaneo che diffonde se stesso nelle reti, mostrandone il potere e la pervasività di delineare «una nuova descrizione della società, alternativa alle società disciplinari e di controllo, che si intende definire società dell’accountability» (pp. 75-76). Dunque, lo studioso analizza le differenze tra “accountability tradizionale” ed “accountability digitale”, evidenziando come in questo ultimo caso, riprendendo Foucault, sia possibile delineare un’analisi critica che mostri come «essa trovi la propria genealogia nella confluenza, non dialettica ma semplicemente storica, di due processi immanenti al mondo occidentale: il discorso del padrone e il potere pastorale» (p. 78).

Alle trasformazioni del sistema educativo è dedicato l’intervento di Patrizia Moschella (“Genealogia e università. Profezie, scenario e utopie”) che mette al centro della sua analisi l’università. A partire da Nietzsche e Foucault, la studiosa adotta un approccio gnoseologico alla ricerca di una «“griglia di intelligibilità” applicabile alla lettura del contemporaneo e, in particolare, dell’università europea: nuovo soggetto nato con la riforma, assai controversa, nota come Bologna Declaration che sanciva nel 1999 la creazione della EHEA – European Higher Education Area» (p. 87). Moschella riflette su come il sistema educativo sia ormai divenuto parte integrante del mondo delle imprese e l’importanza di tale trasformazione è evidenziata sin dalla prefazione che apre il volume: «Entro una dimensione capitalista tradizionale, educare – almeno le élite – alla creatività e alla libertà serviva a generare quella mobilità dell’intelligenza senza la quale la distruzione creativa di cui parla Schumpeter non può aver luogo. In un contesto neoliberale, ove vige l’estensione generalizzata dell’accountability, si assiste invece all’estensione di una forma di dominio che passa attraverso un modellamento dell’immaginario la cui funzione precipua consiste nel rendere impossibile l’insorgenza di un pensiero critico» (p. 10).

L’integrazione dell’individuo nelle reti tenco-sociali è al centro delle riflessioni di Siegfried Zielinski (“Essere offline ed esistere online”). Lo studioso ricorda come la maggior parte dei dati personali custoditi nei device computerizzati siano a disposizione dei possessori di quei device e come tali applicazioni organizzino le vite degli individui. Secondo Zielinski le persone integrate nelle reti tecno-sociali sono individui solitari e connessi, individui alla ricerca di legami più forti rispetto a quelli di rete che il sistema definisce “amici”. Ma, sostiene lo studioso, quando «l’amicizia inizia a essere descritta come un dato statistico, i campanelli d’allarme dovrebbero ben attivarsi» (p. 101). Ragionando su tali questioni, lo Zielinski elabora un Manifesto “Contro la psychopathia medialis” ancora in via di definizione. Riportiamo di seguito i punti 18 e 19 che, nel dicembre 2010, chiudevano il Manifesto. «18. Essere permanentemente connessi e perpetuamente collegati affatica con rapidità la mente e il corpo […] Questo stato può essere paragonato a un paradiso artificiale prolungato, l’estensione del tempo che le droghe sole possono indurre ma le macchine solo simulare. “Il lungo ora” è un progetto osceno che è stato sviluppato da ingegneri e programmatori che vogliono giocare a essere dio» (p. 105). «19. Per evitare un’esistenza che è troppo alla ricerca del tempo e quindi paranoica, e per evitare all’opposto di non tener conto del tempo pensando di essere a casa sugli anelli di Saturno, in compagnia della malinconia e dell’amarezza, è principio utile praticare una divisione consapevole. Lavoriamo, organizziamo, pubblichiamo e divertiamoci nelle reti. Entusiasmiamoci, meditiamo, godiamo, crediamo, e coltiviamo la fiducia in situazioni separate, autonome, ciascuno per sé e talvolta con altri individui. Questo equivale a un equilibrismo: in una singola vita dobbiamo imparare a esistere online ed essere offline. Se non riusciamo in questo, diverremo mere appendici del mondo che abbiamo creato, le sue mere funzioni tecniche. Non dovremmo consentire che la cibernetica, la scienza del controllo e predicibilità ottimali, ottenga questo trionfo» (p. 105).

L’intervento del gruppo Ippolita (“Junkie cyborg”) ricorda come nonostante i cyborg popolino da tempo l’immaginario fantascientifico, la loro nascita si sia data in ambito medicale. Nel lontano 1960, in piena “urgenza spaziale”, M. E. Clynes e N. S. Kline (Cyborgs and Space) sostengono che «Alterare le funzioni del corpo umano per adattarlo all’ambiente extraterrestre sarebbe più logico che fornirgli un ambiente terrestre nello spazio» (p. 109). Si pensa pertanto di ricorrere a sostanze chimiche per superare la paura dello spazio profondo, per lenire l’angoscia della solitudine, per regolare il battito cardiaco e la temperatura corporea ecc. Gli anni ’60 e ’70 sono segnati dalla chimica tanto nell’ambito della psichedelia e dell’espansione delle coscienze, quanto nell’invasione farmacologica della vita quotidiana. Nello stesso periodo la tecnologia elettromeccanica invade l’ambito civile e di fronte a tali cambiamenti al cyborg chimico non resta che ritagliarsi qualche spazio di nicchia. Caronia sostiene che il sopravvento del cyborg elettromeccanico sul cyborg chimico si deve al fatto che l’idea «di una collaborazione intima, di una combinazione fra organico e inorganico è per certi versi figlia della prossimità con la macchina che si realizza nell’industria capitalistica, con la subordinazione del lavoratore ai ritmi e alle esigenze del macchinario introdotta dalla nuova organizzazione tayloristica del lavoro» (p. 111). L’ibridazione uomo-macchina, secondo Caronia, diviene però possibile con la comparsa delle tecnologie informatiche e digitali in quanto decisamente più duttili rispetto a quelle elettromeccaniche.

«Ed eccoci tornati ai giorni nostri. Il richiamo a una rinnovata attenzione per il corpo ci trova d’accordo. Ma quale corpo? Chi lo gestisce, questo corpo meticcio, e come? Non possiamo accontentarci di riflessioni profonde ma tutto sommato astratte, e un poco nostalgiche dell’epoca in cui tutto era più chiaro, chi erano gli sfruttati e chi gli sfruttatori. Soprattutto, il tecnoentusiasmo di fondo nei confronti delle “leggere” tecnologie informatiche rappresenta per noi una resa di fronte ai nuovi Padroni Digitali, una sorta di servitù volontaria. Vogliamo andare a scoprire dove stanno questi nostri corpi cyborg, come si costruiscono, come si relazionano fra loro. Ci piace pensare che l’informatica del dominio non sia l’unica via: è possibile un’informatica conviviale, ma teoria e pratica non si possono scindere, come se esistessero separatamente. L’autonomia nei confronti degli strumenti comincia dalla conoscenza degli strumenti stessi, mettendoci le mani sopra, e non solo quelle» (p. 111).

Rispetto ai decenni precedenti, negli ultimi tempi l’immaginario cyborg sembra essersi affievolito e ciò, secondo Federica Timeto (“Uno è troppo poco, ma due sono troppi. Ovvero il cyborg come non rappresentazione”), pare in buona parte dovuto al fatto che i media digitali sembrano proporre la virtualità come dimensione del reale. Secondo la studiosa, l’ambiente mediale contemporaneo è talmente ubiquo da mettere seriamente in discussione l’autonomia dei soggetti agenti ed il sistema di rappresentazione che li descrive. «Nei tecnospazi, sia la visione organicistica che quella meccanicistica del corpo si rivelano inadeguate, e soltanto un approccio performativo può adeguatamente rendere conto delle continue riconversioni, e dunque dell’apertura e del dinamismo, di corpi la cui forma attuale non esaurisce il loro divenire, la loro capacità di essere sempre altrimenti» (p. 121). L’informazione contemporanea modulata attraverso reti sia materiali che cognitive, impone, secondo Timeto, il recupero della teoria del cyborg come configurazione che incarna le condizioni di esistenza contemporanee nell’ambiente mediale e la costruzione ibrida della realtà tecnosociale.

La prima idea di cyborg si sviluppa attorno al paradigma cognitivista-rappresentazionale che immagina la mente come essenza racchiusa dentro un corpo, dunque, il cyborg come cervello racchiuso in un ambiente. «In questo tipo di immaginazione, l’intelligenza artificiale è una precondizione del funzionamento delle componenti della macchina. Pertanto, essa può esistere in un vuoto, disincarnata e inscatolata: l’idea di replicazione dell’essere umano, della sua intelligenza, nella macchina presuppone infatti un’umanità “purificata”, e vede l’ibrido solo come mistione di due realtà pure, ognuna astratta dai suoi posizionamenti multipli» (p. 125). Non è “tecnologizzando la biologia” o “biologizzando la tecnologia” che si supera il dualismo tra vita artificiale e biologica; «l’interfaccia non è ciò che separa, ma esattamente ciò che fa accadere, liberando delle “capacità” piuttosto che mettendole in pericolo» (pp. 125-126).

Videodrome-Gun«Laddove Caronia distingue ancora fra l’interrogativo epistemologico posto dall’androide, riguardante la conoscenza delle differenze fra due esseri di natura diversa, e quello ontologico del cyborg, che invece ci costringe a ripensare la natura stessa e la definizione dell’uomo a partire dal suo rapporto con la macchina, la mediazione radicale del cyborg, la sua realtà sempre situata, mostra come l’ontologia cyborg non possa essere scissa da un’epistemologia – e dalle implicazioni etiche di una simile epistemologia – che, avendo fatto a meno della totalità del soggetto e dell’oggetto della conoscenza, riparta dall’assunzione responsabile dei propri modi di essere e di vedere. Come scrive Kember, il cyborg contamina “la nozione di autonomia come ontologia, epistemologia ed etica del sé nella cultura tecnoscientifica” inserendosi in una sorta di “controtradizione” teorica in cui l’epistemologia si riconosce come già ontologica e viceversa. I corpi cyborg, però, vivono una condizione paradossale: quanto più eccedono ogni stabile identificazione, tanto più le dinamiche di produzione e riproduzione del tecnobiopotere li sottopongono a forme di controllo e contenimento che ne regolano i confini, capitalizzandone e codificandone le “capacità”. Per la genealogia “mostruosa” che lo lega allo spettacolo, all’esibizione, a una prodigiosità spaventosa e visibile, il cyborg è stato spesso oggetto di identificazione da parte di potenti macchine rappresentazionali, come gli apparati informatici o biotecnologici. Ma come il mostro, “processo senza un oggetto stabile” che letteralmente non può “togliersi di mezzo”, il cyborg non sta fermo, non è “forma”: informe, amorfo, non conforme, difforme, sia linguisticamente che visivamente, il cyborg non è confinabile dentro precise linee di contorno, anzi, è esattamente ciò che emerge dal loro cedimento. Né cosa né rappresentazione, dunque, il cyborg è piuttosto una figurazione, termine che nella teoria harawaiana indica “un’immagine performativa che può essere abitata”, e che pur non rifiutando la visualità, trasforma le relazioni di corrispondenza (rappresentazionali) in relazioni di coimplicazione (performative), mostrando come le configurazioni del mondo siano modi di vedere e conoscere mai innocenti o trasparenti, ma sempre materialmente situati» (pp. 130-131).

Secondo Marina Naestrutti e Claudio Tondo (“Tra umano e postumano. Cyborg e forme di vita emergenti”), nonostante la tecnologia venga spesso percepita come rischio da controllare o come destino inevitabile per un’umanità obsoleta, esiste anche un approccio teorico, pur vario e contraddittorio, che considera la tecnica come elemento connaturato all’attività umana ed animale. Secondo tale impostazione è proprio grazie alla tecnica che la specie umana si evolve dal punto di vista fisico, cognitivo e morale. Il «divenire-cyborg dell’umano, se da un lato si pone in continuità […] con la specie umana che si modifica da millenni attraverso l’educazione, l’acquisizione di nuovi tratti culturali e le pratiche corporee estetiche, sportive, religiose, simboliche, dall’altro pone il problema degli esiti del processo di ibridazione» (p. 136).
Un approccio al postumano che lo vede come risultato di una transizione che sostituisce l’evoluzione artificiale alla evoluzione naturale, si fonda su una visione basata sulla semplice sostituzione del corpo con la macchina, dunque si pone in continuità con un approccio antropocentrico disinteressato all’ibridazione. «Se negli ultimi decenni del Novecento il cyborg si configurava – almeno nella lettura fornita da Caronia – come “cyborg postfordista”, e dunque come simbolo di nuove forme di asservimento che infrangevano le barriere tra tempo di lavoro e tempo di vita, ora, all’inizio del nuovo millennio, è la vitalità stessa nella sua dimensione somatica e molecolare a essere oggetto di interventi biotecnolgici e, più in generale, a essere incorporata nelle dinamiche bioeconomiche. Il corpo e le sue parti (organi, tessuti, cellule, sequenze di DNA) sono – e non in senso metaforico – un’essenziale fonte per l’estrazione “del valore latente nei processi biologici, un valore che è contemporaneamente quello della salute e quello della crescita economica”» (p. 138).

Donna Haraway scrive, a metà anni ’80, nel suo A Cyborg Manifesto, che i cyborg possono scardinare quelle categorie tradizionali antropocentriche che hanno legittimato diverse forme di dominio: «la fascinazione per il cyborg deriva dalla sua ontologia mista, multipla, dinamica e nomade, dalla possibilità di definire, nelle pratiche materiali di liberazione così come nel lavoro della fantasia, identità e processi di soggettivazione mobili, irrobustiti dalle contaminazioni a diversi livelli con ogni forma di alterità animale e macchinica. La soggettività postumana richiede, contro Descartes, il superamento dell’antropocentrismo e una rivalutazione del pensiero spinoziano come sfondo filosofico di riferimento. Saranno forme di vita ispirate al cyborg e alla relazionalità con altri “compagni di specie”, sostiene Haraway, a indicare all’umano “una via di uscita dal labirinto di dualismi” in cui si è perso» (pp. 139-140).

Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline, nel loro Cyborg and Space del 1960, segnalano come da sempre l’evoluzione dell’umanità si basi sull’adattamento graduale del corpo umano alle condizioni ambientali, dunque, ricorrendo ad alterazioni biochimiche, fisiologiche ed elettroniche, è possibile accelerare il processo di adattamento del corpo umano: «si tratta di completare l’essere umano per consentirgli di esistere come uomo, senza cambiare “la sua natura umana che si è evoluta fino a qui”» (p. 142). Al di là dei viaggi spaziali, l’umanità si è sempre data l’obiettivo di rendere più ospitale la vita sulla terra; «il cyborg scientifico non è solo un’ipotesi futura per astronauti, è una realtà concreta che già abita il nostro presente. Fino a ora, le tecnologie hanno avuto lo scopo primario di trasformare l’ambiente, di costruire sfere di abitabilità. Con il cyborg, tuttavia, ciò che richiede attività di trasformazione e miglioramento è l’umano stesso, nella sua dimensione somatica così come in quella psichica» (pp. 143-144). Secondo Naestrutti e Tondo, il fatto che l’immaginario cyborg sia modellato su figure fantascientifiche contribuisce ad impedire di riconoscere il “processo di cyborgizzazione diffuso” (si pensi all’ottimizzazione e potenziamento sportivo o alla gestione della malattia). Secondo alcuni studiosi «il cyborg non rappresenterebbe il “marchio” della postumanità presente e futura, non incarnerebbe una discontinuità forte che reinventa radicalmente l’umano conducendolo oltre la sua attuale condizione; al contrario, il cyborg ci collocherebbe in una prospettiva dalla quale osservare le forme di vita emergenti (inimmaginabili senza la presenza di pratiche tecnologiche) alla luce di un’originale riscrittura della nostra storia profonda» (pp. 148-149).

Se quella attuale può dirsi un’epoca in cui l’immaginario si sostituisce al reale (immagini di esperienze al posto di esperienze), allora secondo Antonio Lucci (“Corpi postumani, mondi postumi. Le distopie morbide di Michel Houellebecq”) le opere letterarie di Michel Houellebecq si pongono del tutto in linea con i tempi contemporanei; i turisti che popolano il romanzo Piattaforma (2001), ad esempio, sembrano più interessati a provare cose diverse che a conoscerle. Preso atto che nelle diverse opere dello scrittore si ravvisano alcune costanti come una concezione materialistica del piacere e nichilista dell’esistenza, l’analisi delle patologie della società e l’ossessione per il tempo che passa, Lucci si concentra soprattutto sul romanzo Sottomissione (2015). L’opera descrive la cronistoria politica in una società “post-storica”, ovvero in una società per certi versi postumana, in quanto avrebbe abdicato a «tutte quelle passioni “costruttive di avvenire” che in precedenza avevano portato alle grandi conquiste dell’umanità sul piano sovraindividuale, politico e sociale» (p. 160). Il romanziere, continua Lucci, rovesciando per certi versi l’aspirazione di Kojève, di metà anni ‘40, alla creazione di un “impero latino” basato su basi culturali, religiose, storiche e sociali comuni, immagina che, una volta morte le passioni politiche, la società si trovi in balia di forze conservatrici legate al fondamentalismo religioso. In un Occidente immobilizzato nella sua incapacità di “costruire futuro”, «è solo la violenza di una religione storica che può cambiare le sorti della politica» (p. 161). Al posto dell’impero latino di Kojève, Houellebecq prospetta «un impero islamico, su basi latine e con strutture politiche e impianto burocratico ereditato dalla modernità occidentale» (p. 161). La “post-storia” diviene “post-politica” messa in scena da «il ritratto di una società che si è sottomessa volontariamente a chi le indica una direzione qualsiasi, piuttosto che continuare a vagare nell’anomia e nel nichilismo in cui è sboccato il cammino storico dell’umanità occidentale» (p. 162). L’essere prospettato dal romanziere è davvero lontano parente di quello che è stato definito “umano” lungo il corso di tutta la storia della cultura e per certi versi può dirsi davvero “postumano”.

t77uiAnalizzando invece le peculiarità della cultura telematica che vede l’utente potenzialmente sempre collegato alla rete globale, Roy Ascott (“C’è amore nell’abbraccio telematico”) si chiede quale sia il suo contenuto. L’odierna facilità di passaggio dal reale al virtuale genera confusione culturale, valoriale ed identitaria. «La questione del contenuto nell’arte planetaria di questa cultura telematica emergente è quindi la questione dei valori, espressi come ipotesi transitorie, piuttosto che come finalità, testati nell’immateriale […] Il processo telematico, come la tecnologia che esso incarna, è il prodotto di un desiderio umano profondo di trascendenza: essere fuori dal corpo, dalla mente, oltre il linguaggio. Lo spazio virtuale e lo spazio di dati costituiscono il dominio, in precedenza fornito dal mito e dalla religione, ove la fantasia, il desiderio e la volontà sono in grado di riattivare le forze dello spazio, del tempo, e della materia nella battaglia per una nuova realtà» (pp. 177-178).

Pierluigi Cappucci (“La specie dei simboli”), nell’indicare nella capacità simbolica la ragione principale dell’evoluzione della specie umana, sottolinea come ciò rappresenti tanto un orizzonte a cui gli umani tendono, quanto una sorta di limitazione. La capacità simbolica ha permesso agli umani di conoscere e gestire l’ambiente ed allo stesso tempo di stabilire una sorta di “distanza di sicurezza” dal mondo fisico. Sempre grazie al simbolico gli esseri umani hanno «creato una conoscenza condivisa separata dalla sostanza della realtà fenomenica. Hanno creato un laboratorio in cui, attraverso l’elaborazione di modelli simbolici, è possibile sperimentare delle ipotesi e simulare il loro impatto sul mondo, dando origine a una progettualità in grado di produrre artefatti e dispositivi di crescente complessità. Sul simbolico si fondano l’astrazione, le ipotesi, la coscienza, l’immaginazione, lo scambio e la condivisione delle conoscenze, grazie al simbolico le dimensioni del passato e del futuro nascono e divengono oggetto di narrazione. Mediante i simboli le conoscenze, le esperienze e i valori vengono raccolti, discussi e trasmessi» (pp. 182-183).
Dunque, sul simbolico si fonda la capacità cooperativa della specie umana e l’incremento della velocità dell’evoluzione culturale e dell’informazione. Analoga accelerazione, sottolinea Cappucci, si è data nella diffusione dei media e delle immagini. Oggi tutti sono «raccoglitori, modificatori, divulgatori e condivisori di informazioni» (p. 186).

La comunicazione interattiva non è, continua lo studioso, una conquista contemporanea ma è una costante umana e, più in generale, degli organismi viventi, visto che ogni essere vivente interagisce, da sempre, con l’ambiente in cui vive. «Prima delle immagini e della scrittura la comunicazione simbolica, fondata sull’indicalità e sull’oralità, è stata principalmente diretta e interattiva. Con la comparsa delle immagini, circa 40 mila anni fa, e con l’invenzione della scrittura, 5 mila anni fa, gli umani hanno sistematicamente registrato, in forme non interattive e mediate, le loro conoscenze al di fuori del corpo. Dunque, l’eccezione è la comunicazione non interattiva e mediata, comparsa molto più tardi nell’evoluzione umana» (p. 186). La comunicazione mediata non interattiva espande il potere dei simboli al di là della presenza fisica, tanto che la conoscenza umana in buona parte si fonda su essa (libri, foto, tv, cinema…) ma, visto che la comunicazione interattiva risulta fondamentale, sono stati creati sia surrogati di interattività (come la presenza del pubblico nelle trasmissioni televisive) che tecnologie che permettono l’interattività.

Attraverso l’acquisizione simbolica, continua Cappucci, gli esseri umani «hanno sviluppato l’interiorità, l’introspezione, la consapevolezza di sé, creando le condizioni per superare i vincoli fisici dell’hic et nunc, generando dei mondi paralleli e inventandosi delle narrazioni da cui sono originati i riti, le mitologie e le religioni […] Di fatto viviamo nel futuro, una parte rilevante dei nostri pensieri, progetti, delle nostre azioni, attività, idee, è rivolta al futuro» (p. 187). Ciò dimostra come gli esseri umani siano consapevoli del tempo e di come tentino di governarlo. Oltre a tentare di agire sul tempo, dunque sul futuro, gli esseri umani hanno esteso la loro esistenza ad una Seconda Vita. «Attraverso i media e i new media questa vita simbolica è passata da una ristretta dimensione sociale locale a un habitat planetario, facendosi mondo: una Natura Seconda a cui dedichiamo sempre più tempo. Proviamo a sommare il tempo che in un giorno passiamo a parlare, a telefonare, a scrivere, a usare il computer, a essere sui social network, a leggere, ad andare al cinema, a spettacoli teatrali, a mostre d’arte, a eventi culturali, a presentazioni e concerti, a guardare la televisione, i graffiti, i segnali, le indicazioni, le insegne luminose, gli striscioni, i cruscotti, gli schermi, i supporti…» (p. 188). Il futuro potrebbe rendere più naturale l’interazione del corpo e dei sensi con simulazioni più sofisticate. «È sempre più dentro a questa Natura Seconda, estesa e complessa, scaturita dal simbolico e potenziata dai media, dentro a questi habitat simbolici capaci di allontanare i malanni, le delusioni, la noia, il dolore, le asprezze del reale e persino la morte, che noi oggi viviamo e vivremo in futuro. Da quando l’umanità utilizza la comunicazione simbolica l’ambiente è divenuto un ibrido in cui il reale e il virtuale si compenetrano e convivono, uno spazio che può essere vissuto sia fisicamente che simbolicamente» (p. 189).

La dimensione simbolica, continua Cappucci, «è un universo in continua espansione e ristrutturazione. Questo universo della simulazione può confondersi col mondo reale fino a sostituirlo del tutto. Gli artefatti e le macchine che gli umani hanno inventato scaturiscono dall’impiego dell’intelligenza simbolica e spesso, come nel caso dell’Intelligenza Artificiale, derivano dal tentativo di simularla o di emularla. Ciò che gli umani chiamano “tecnologia” è il loro destino, la loro peculiarità, la loro attitudine» (pp. 190-191). Le tecnologie ormai fanno parte della biologia umana e sembra si sia ormai prossimi ad «assistere a un’estensione del concetto di vita anche oltre l’organico. Non è una cosa nuova, fin dall’antichità l’umanità ha cercato di simulare o emulare il vivente e ricreare la vita, costruendo entità similviventi, simulacri della vita umana e animale, per partecipare al mito della creazione: dal Talos greco al Golem ebraico, agli automi medievali, rinascimentali e settecenteschi, al Frankenstein ottocentesco, fino ai robot novecenteschi, agli androidi, ai Cyborg e ai replicanti di molta letteratura, ai sofisticati robot sociali e industriali contemporanei, alle macchine che sono su Marte» (p. 191). Ci si avvia così alla Terza Vita, cioè a forme di vita derivate dagli organismi creati dalla cultura umana. «Grazie alla dimensione simbolica gli umani hanno sviluppato un’ampia varietà di estensioni della mente, dei sensi e del corpo, che si sono evoluti in organismi/entità, organici, inorganici e ibridi sempre più complessi e autonomi, che potrebbero essere definiti in una certa misura come viventi» (p. 192).

Se l’evoluzione naturale è priva di finalità e si fonda sul presente, l’essere umano ha la tendenza a proiettarsi sul futuro. «L’ipertrofia della dimensione simbolica ha dato origine a un enorme numero di varianti, appartenenze, religioni, credenze, valori, a delle pseudospecie che perseguono finalità diverse e contrastanti. L’evoluzione culturale rende la specie umana un membro anomalo del Pianeta, l’ultimo ramo rimasto del genere Homo, conquistatore di ogni ambiente, oggi sfruttatore di un’unica immensa nicchia ecologica di cui sta dissipando, intensivamente, le risorse. Non sarà così per sempre» (p. 192). Potrebbe essere che tale ipertrofia simbolica porti alla fine della specie umana: «la sua magnificenza culturale la causa della sua estinzione. La sua biologia e buona parte dei suoi oggetti, dispositivi e artefatti nel volgere delle ere geologiche saranno riassorbite in fretta dalla biologia del Pianeta. Alla breve parabola umana sopravviverà, forse, una parte della sua cultura: le forme di vita che ha creato da sé, la sua vera eredità, il suo genio» (192-193).

Gabriela Galati (“Significante fluttuante, inconscio tecnologico e soggetto digitale”) delinea il rapporto tra il digitale ed il materiale, tra quello che viene definito “significato fluttuante” e l’“inconscio tecnologico”. Riprendendo Charles S. Peirce, la studiosa parte dall’idea che vi sia una componente del segno che non significa ed una dimensione non simbolica del mondo intraducibile in linguaggio. È dunque a coprire questa assenza che viene in aiuto il “significato fluttuante”.
Walter Benjamin, riprendendo Freud nell’intendere le innovazioni tecnologiche come protesi sviluppate dall’umanità, sostiene che la fotografia “allargando il potere della vista”, crea un “inconscio ottico” del tutto simile all’inconscio del soggetto «perché evidenzia un nucleo, in questo caso nelle capacità dell’occhio, che non è accessibile al soggetto» (p. 196). Se la teorizzazione di Freud dell’inconscio può essere vista come avvio del processo di sgretolamento del “soggetto umano liberale”, analogamente l’inconscio ottico può rappresentare quella parte della vista sconosciuta all’occhio nudo. È su tale linea che Caronia introduce l’idea di “inconscio digitale”.
Galati ricorda anche come lo studioso John Johnston (The Allure of the Machinic) dimostri il ruolo fondamentale della teoria cibernetica nella teorizzazione di Jacques Lacan relativa ai tre registri dell’Io (simbolico, immaginario, reale). «Così le basi per la teorizzazione, da un lato, di un inconscio ottico, e più tardi di un inconscio tecnologico, erano già state stabilite nel 1925 da Freud e nel 1955 da Lacan. Inoltre, come è stato dimostrato, anche Derrida aveva già scritto nel 1967 circa la concettualizzazione dell’apparato psichico come macchina in termini di metafora: una metafora non necessaria, ma comunque una metafora. Così, in un certo modo, tutta la confusione e la successiva discussione su l’attribuzione di “human agency” alle macchine avrebbe potuto essere evitata, come dimostra Katherine Hayles. Hayles illustra che non solo Lacan, ma anche in seguito Deleuze e Guattari, hanno concepito la cognizione umana e la psicologia come intrecciate con processi macchinici» (p. 198).

5555Galati, con l’avvento dei nuovi media, giunge ad ipotizzare la nascita di un “soggetto digitale”, un soggetto “incarnato nel digitale”. «In questo senso, se si accetta seguendo Deleuze che il soggetto è costituito dal “punto di vista” e dalla costruzione della sua dimora e considerando che nel cyberspazio non esiste un punto di vista, perché non c’è un vero spazio, allora l’inconscio tecnologico può essere assimilato a un campo di immanenza in cui il senso circola attraverso il significante fluttuante: il significante fluttuante è il sito, il luogo, che costituisce ogni volta un diverso punto di vista per la configurazione del soggetto digitale» (p. 205).

Lo stesso termine “cyberspazio” può essere inteso come esempio di “significato fluttuante”; Galati ricorda come la stessa definizione proposta in un primo tempo da William Gibson (Neuromante) sia poi stata svuotata di significato dallo stesso scrittore, giunto a confessare di aver scelto il termine soltanto in quanto suggestivo. «Naturalmente, Gibson intende che ciò che gli piaceva era come suonava la parola non essendo sicuro di cosa significasse; tuttavia […] il cyberspazio è strettamente legato al significante fluttuante» (p. 207). Anche se lo spazio del computer viene percepito come omogeneo e continuo, è in realtà dato da un aggregato di oggetti nel “vuoto”. Il computer è privo di uno spazio nel senso di medium. Galati propone di sostituire il termine cyberspazio con “spazio elettronico” al fine di indicare «una sorta di luogo, di spazio pubblico in cui la prossimità è spesso concettuale, o psicologica, sempre mediata, e non necessariamente, anzi di rado, fisica. Ci sono luoghi digitali che sono rappresentativi, come i videogiochi, come l’agonizzante Second Life, come gli ambienti di realtà virtuale; ci sono altri, non meno simbolicamente carichi, dove interazione, incontro, dimensioni sociali si evolvono, e tuttavia non possono essere riconosciuti come rappresentazioni di qualsiasi realtà “fisica”» (p. 208).

Si hanno luoghi digitali rappresentativi (es. i videogiochi) ed altri luoghi digitali ove «interazione, incontro, dimensioni sociali si evolvono, e tuttavia non possono essere riconosciuti come rappresentazioni di qualsiasi realtà “fisica”. Tra questi, si possono trovare, naturalmente, tutti i social network, chat, molte applicazioni, e simili. Questi spazi elettronici funzionano infatti come luoghi di agency e di generazione di senso nella stessa misura di una agorà fisica. In questo senso, si propone che l’inconscio tecnologico funziona come un piano d’immanenza in cui il significato è generato e diffuso» (p. 208). «Se l’inconscio tecnologico è il piano di immanenza, qual è quindi il legame tra l’inconscio tecnologico come piano di immanenza e il significante fluttuante? Nel piano d’immanenza, il significante fluttuante ha il ruolo di costruire un punto di vista […] Il punto di vista è un punto di vista in una variazione, in un cambiamento, in una metamorfosi, ma non cambia con il soggetto: è il soggetto che deve venire al punto di vista. Questo è il fondamento del prospettivismo, e più in particolare della prospettiva barocca» (p. 209). Nell’inconscio tecnologico «il punto di vista deve essere costruito dal significante fluttuante per la costituzione di un soggetto (digitale)» (p. 210). Dunque, secondo la studiosa, occorre chiedersi quale tipo di soggettività, di soggetto digitale, possa derivare da tali tipi di interazioni. «È attraverso la generazione di questi diversi punti di vista che il senso può essere generato, può circolare, nell’inconscio tecnologico/piano d’immanenza, che, è importante non dimenticare, funziona indipendentemente dalla volontà del soggetto, proprio come la dimensione simbolica dell’inconscio lacaniano. In questo caso, il significante fluttuante non deve essere erroneamente considerato come immagine, o come una sorta di miraggio. Il soggetto non sta proiettando in esso alcun desiderio, ma egli effettivamente vi abita, occupandolo, perché solo un soggetto può fare del punto di vista la sua dimora» (p. 212).

Simone Guidi (“Virtuale, téchne, natura. Da Aristotele a Lévy, con Antonio Caronia”) inizia col sottolineare che se il digitale è virtuale, quest’ultimo non si esaurisce di certo nel digitale ma riguarda un campo ben più ampio. Thomas Maldonado (Reale e virtuale) contrappone il virtuale al reale ed al naturale, lo indica come sua rappresentazione illusoria. Si tratta di una realtà ma di carattere artificiale, illusorio. Caronia (Archeologia del virtuale) contesta tale opposizione tra reale e virtuale ed insiste sulla realtà del virtuale, proponendo un’estensione del concetto di realtà anche ai mondi sintetici ed artificiali parimenti in grado di provocare attività sensoriale e percettiva nell’essere umano.

Gli studiosi come Maldonado procedono partendo dall’identificazione del virtuale con l’illusorio ed identificano quest’ultimo con un reale di “secondo ordine”. La natura viene intesa con Aristotele «come una macchina dal funzionamento assolutamente chiuso, in cui una realtà attuale “emana” logicamente una molteplicità di potenze, di cui una parte viene riassorbita nell’attualità, e un’altra parte resta rinchiusa nell’inconsistenza ontologica. Il che permette una riduzione della mimesi tecnica a operazione pressoché meccanica, una riattualizzazione contingente di un quid astratto, preso solo nella sua possibilità determinata» (pp. 220-221). Dunque, si chiede Guidi, «come pensare il mondo, la téchne e la virtualità fuori da questa categoria di possibilità, fuori dallo schema che oppone reale e illusorio?» (p. 221). Una possibile risposta viene dalla rielaborazione proposta da Pierre Lévy (Il virtuale) del concetto di “virtuel” di Gilles Deleuze (Le bergsonisme) che vuole il virtuale non contrapposto al reale ma all’attuale «di cui la virtualità è non l’ennesima configurazione ma la dischiusura, la deterritorializzazione, la problematizzazione che lo apre, trasformandolo in un territorio nuovamente percorribile e articolabile» (p. 221). Così inteso il virtuale «dichiara del reale (e, diremo, del naturale) il carattere non esclusivamente attuale, in un’esperienza di continuo passaggio dall’interno all’esterno degli oggetti che Lévy definisce “effetto Mœbius”» (p. 221).

Il digitale come forma tecnologica predominante della contemporaneità è stato concepito come attuazione di un “secondo mondo”, di una “seconda natura” e di una “seconda vita”, e da questo punto di vista può essere collocato tra le forme di tecnologie dell’illusorio. Il predominio di Facebook ed Instagram rispetto a Second Life, sostiene Guidi, deriva probabilmente dalla capacità di connettere nella rete le vite reali «offrendo, come risvolto di un processo ancora attualizzante, quella virtualizzazione dell’identità di cui si discute ogni giorno di più» (p. 223). Dunque il digitale «apre il reale per tradurlo in dato, per riattualizzarlo nuovamente in una forma unificante e ordinante che è tipica della metafisica aristotelica e che, nel fenomeno dei Big Data, trova la sua espressione massima. Ma nella dischiusura tecnica − ben più offensiva di quella, autolimitante giacché auto-tecnologica, di una Second Life − essa dà luogo a una realtà frammentaria e proteiforme, di cui ci sembra si possa individuare una struttura-base» (p. 224).

Secondo Caronia «l’esito dell’odierna tecnologia è la contraddizione sempre in termini di una realtà aumentata, intesa questa non come una realtà statica a cui viene aggiunto, quasi algebricamente, l’artificiale, ma come realtà estesa, frammentazione continua e irrimediabile di ciò che attualmente è in una miriade di microdispositivi che aprono, interconnettono, virtualizzano e problematizzano il corpo stesso della natura. È dunque quel cyborg − quel corpo virtuale, appunto, nel senso di una sua realtà inattuale − che Caronia aveva così profondamente tematizzato, a catalizzare lentamente, ogni giorno di più, un processo di tecnologizzazione la cui fase di apertura siamo ora legittimati a pensare come processo ontologicamente parallelo a quella di chiusura» (p. 225). In conclusione, sostiene Guidi, occorre concepire il virtuale come un aspetto strutturale del reale e la dimensione tecnologica come parte di quell’animale virtuale che è l’essere umano.

Massimo Viel (“Quello che riconosciamo”) si sofferma su come nella cultura della globalizzazione l’essere umano sia tendenzialmente docile ai cambiamenti e ciò, secondo lo studioso, in quanto il soggetto fatica ad accorgersi di essi preso com’è dal concentrarsi sulla figura e non sullo sfondo che muta con gli individui. «Siamo pronti ad abbracciare abitudini che mai avremmo accolto se avessimo avuto la possibilità di scegliere, perché costretti dalla deriva dei riconoscimenti, ben pilotata da chi controlla la statistica di ciò a cui siamo esposti» (p. 236). Viel sostiene che le strategie di liberazione si trovano a dover seguire il percorso dei riconoscimenti opponendosi a quelle identità; non è sufficiente essere disponibili all’altro, è necessario neutralizzare «la potenza oggettivante dei processi coercitivi di formazione identitaria e di soggettivazione […] Bisogna dunque recuperare la responsabilità verso le nostre operazioni di distinzione guidandole verso obiettivi che siamo alternativi a quanto ci propongono i media e, se possibile, attuare strategie di sovversione percettiva» (p. 237).

Simonetta Fadda (“Egemonia del cinematico”) si occupa del regime visivo governante l’ambiente percettivo e culturale dello spazio sociale contemporaneo delle immagini di provenienza analogica, digitale e sintetica. Nel riferirsi a tutti i tipi di immagine accessibili attraverso uno schermo, la studiosa ricorre al termine “cinematico”, evidentemente derivato dalle teorie del film anglosassoni, ove “cinematic” indica ciò che riguarda il cinema (film, attori, generi…), a differenza di “cinematographic” che invece si riferisce alle tecniche. Il termine “cinematico” a cui ricorre Fadda designa pertanto un ambito ben più allargato rispetto all’originale anglosassone, indicando con esso immagini eterogenee che danno accesso agli spazi mediali. «Sono proprio queste diverse forme ibride d’intelligenza con cui ci misuriamo costantemente, capaci di costruire ambienti e fare azioni indipendentemente da noi, ad aver portato chiunque di noi a introiettare la logica cinematica, la sola capace di attivare il rapporto col medium, rendendola operativa» (p. 241). Attraverso il cinematico è divenuto possibile parlare di espropriazione dell’esperienza umana del visivo, dal momento che la visione umana pare sussunta dalla visione tecnologica che «diventa l’unico orizzonte visivo del mondo. La visione diventa “evento visivo”, il risultato di un’interazione multipla che vede agire contemporaneamente segnale visivo, tecnologia che supporta quel segnale e osservatore» (p. 242).

Se i media hanno sempre inciso profondamente sui contenuti culturali ed artistici, a maggior ragione ciò avviene con i nuovi media. A tal proposito Emanuela Patti (“L’ibridazione tra le arti nella prospettiva postmediale ”) parte dall’assunto che le arti nascono come estensione del medium artistico che le ha precedute per poi svilupparsi attraverso la relazione con le “arti sorelle”. Da sempre nelle produzioni artistiche convivono linguaggi artistici diversi ma è grazie alla diffusione del “meta-medium” internet che l’ibridazione delle arti ha avuto un fortissimo sviluppo. Inoltre, sottolinea Patti, è bene ricordare come il digitale abbia contribuito a moltiplicare la contaminazione tra le arti ed i media. A partire da tali considerazioni, diversi studiosi, recuperando McLuhan, hanno enfatizzato quanto i nuovi media agiscano sui contenuti culturali. «In quest’ottica, ciò che è emerso con forza è la natura mediale, dunque tecnologica, di tutta l’arte, che ha spinto a riconsiderare che ogni medium artistico è un assemblamento di diverse tecnologie» (p. 253). Nell’età di internet ogni arte viene a trovarsi in una “fase postuma” rispetto alle sue originali specificità. Negli ultimi decenni è stata presa coscienza del rapporto che lega ogni arte al suo medium e la studiosa propone di parlare di “medium artistico”.

Sean Cubitt e Paul Thomas (Relive. Media Art Histories) sostengono che ogni medium deriva da evoluzioni scientifiche, estetiche e politiche connesse tra di loro. «Se questo tipo di metodologia è del tutto compatibile con uno studio delle ibridazioni tra le arti in una prospettiva storico-tecnologica, va tuttavia precisato che il concetto di “media art”, dando per scontata la convergenza tra arti e media, rende implicito il concetto di ibrididazione, tendendo quasi a farlo scomparire. Sembra invece importante capire in che modo una tale consapevolezza sui media artistici ci permette di rileggere la storia delle arti come una storia di confini e trasgressioni» (p. 255).
Per molti secoli, sostiene Patti, il rapporto tra un’arte ed un’altra è stato affrontato in termini di competenze o di comparazione (somiglianza/distinzione) e se in alcuni momenti storici è stata valorizzata la contaminazione tra le arti, è col Novecento che l’ibridazione tra esse ha avuto il massimo impulso. Secondo la studiosa le trasgressioni dei limiti imposti dai canoni istituzionali dei movimenti d’avanguardia hanno ormai totalmente perso la loro vocazione estetica e politica originaria e lo sperimentalismo si è trasformato in esibizione dei meccanismi e dei codici che producono le arti e le relative teorie.

ibridazioni particolariEsaurita anche l’epopea del postmoderno, sostiene Patti, non solo servono nuove definizioni per le pratiche artistiche ibride più recenti basate sulle tecnologie digitali, ma occorre interrogarsi anche a proposito del senso dell’operazione artistica: come e cosa esprime l’arte oggi? Le aspirazioni postmoderne che volevano la morte dell’autore, la non linearità e l’apertura del testo sembrano ormai essersi date. «L’arte di oggi dunque esplora i legami tra testo e immagine, tempo e spazio, il tessuto tra queste dimensioni. In questo senso, il concetto di interart/intermedia, facendo leva sul nuovo paradigma testuale dell’interazione tra arti e media, indica anche un potenziale percorso di significato nell’interconnessione dei linguaggi, identità, soggettività come discorsi alternativi sul presente» (p. 261).

Francesco Monico (“L’eterodossia accademica come pratica controambientale della libertà dell’essere al condizionamento tecnico. Una postfazione su Antonio Caronia”) chiude il volume passando in rassegna il pensiero di Caronia e segnalando come nella sua opera al soggetto si sostituisce il processo, l’ibridazione della specie che porta a «desoggetivizzare ogni essere e ogni cosa, perché venendo meno i confini dell’uomo con l’altro da sé, il soggetto precipita in balia del capitale e dell’automazione del codice. Così l’unica difesa possibile del soggetto postumano non può che coincidere con una strategia di consapevolezza, che rende urgente un recupero delle complessità della teoria del cyborg come una delle figurazioni più riuscite» (p. 265).

Dunque, secondo Monico, la proposta di Caronia diviene il “cyborg del codice”, «essere che vive un corpo aperto che attraversa i cedimenti di confine – uomo/animale, organismo/macchina, fisico/non fisico – e si pone nel mezzo, incarnando l’attraversamento stesso. Con l’avvento dell’informatica distribuita, il corpo del “cyborg del codice” è diventato uno spazio indeterminato che, trascina fuori di sé il soggetto e pone in primo piano la questione dell’interfaccia. Secondo la visione cibernetica una interfaccia in grado di interagire con l’ambiente circostante è garanzia del buon funzionamento di un sistema. L’unione con la tecnica è quindi fondativo e teleologico. Il cyborg diventa così “modello operativo” perché il problema sono le nuove pratiche e accettare la versione cibernetica, vuol dire abbracciare un principio di similitudine, secondo il quale il rimedio appropriato per l’impossibilità di conoscere sarebbe la stessa impossibilità del conoscere. Tale “conoscenza”, funziona come “principio omeopatico”, ovvero una volta individuata l’impossibilità del conoscere, l’ermeneutica del soggetto produce un processo di conoscenza negativa/omeopatica: non si può infatti essere consci della propria ignoranza senza avere già parzialmente intravisto cos’è che non si sa. In quest’ottica l’episteme non è basato su una forma di razionalità bensì su una forma di legame tra il corpo, e oggi con il corpo di questo cyborg distribuito. Così gli esseri umani possono essere visti come dei cyborg naturali perché sono dotati di un’architettura ormonale che li predispone a rappresentare e ad accogliere materiali non biologici per l’esecuzione di performance comportamentali e cognitive. In ultima analisi il cyborg non rappresenta il “marchio” della postumanità, non rappresenta una discontinuità e una reinvenzione radicale dell’umano; al contrario, il cyborg ci lascia un’originale riscrittura della nostra storia profonda» (pp. 265-266).

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