La metamorfosi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

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Secondo vademecum per scrittori professionisti https://www.carmillaonline.com/2016/10/25/secondo-vademecum-scrittori-professionisti/ Mon, 24 Oct 2016 22:03:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34090 di Jack Baldrus

L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, di Elias Canetti, Guanda 2015, pp 168 € 14

kafka“Ci si ribella sempre” L’usciere, Il processo di Franz Kafka

(Qui il primo vademecum) E’ possibile, per l’iscrizione alla congregazione degli scrittori professionisti, scegliere come materia d’esame un altro scrittore immortale, di pari importanza e statura, oltre a Marcel Proust. Questo autore non può essere che Franz Kafka. Per quanto diversi, come tematiche e stile, hanno in comune più di quanto sembri. Esistono altri immortali nella storia della letteratura. Certamente si potrebbero [...]]]> di Jack Baldrus

L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, di Elias Canetti, Guanda 2015, pp 168 € 14

kafka“Ci si ribella sempre”
L’usciere, Il processo di Franz Kafka

(Qui il primo vademecum) E’ possibile, per l’iscrizione alla congregazione degli scrittori professionisti, scegliere come materia d’esame un altro scrittore immortale, di pari importanza e statura, oltre a Marcel Proust. Questo autore non può essere che Franz Kafka. Per quanto diversi, come tematiche e stile, hanno in comune più di quanto sembri. Esistono altri immortali nella storia della letteratura. Certamente si potrebbero studiare le opere di Flaubert, di Tolstoj, di Dostoevskj, ma Proust-Kafka sono i più conformi all’enunciato di base della Congregazione: scrivi per te stesso, non per il pubblico, non per i critici, non per gli editori. E’ in te stesso che devi cercare la verità. Quando riuscirai – se riuscirai – in questo progetto, allora la tua opera potrà essere comunicata, e quindi pubblicata.

Marcel Proust e Franz Kafka sembrano la personificazione di questa sorta di statuto. Il primo non era affatto estraneo all’ambiente editoriale, scriveva sui giornali, pubblicava saggi e prefazioni, aveva già pubblicato due romanzi. Ma tutto era collegato alla Recherche, forse erano versioni primordiali della stessa, o studi propedeutici. E il primo volume era così in controtendenza che fu rifiutato, tanto che fu costretto a pubblicarlo a proprie spese. Poi si rinchiuse nella sua stanza di malato e scrisse, scrisse, senza pensare ad altro che al suo scritto. Al suo grande, unico romanzo. Il romanzo di una vita. Forse della vita.
Il secondo invece era pervaso da un’urgenza che lo spingeva a scrivere con una sorta di precisione animalesca, spesso non terminava le opere e prima di morire chiese addirittura all’amico Max Brod di bruciare i manoscritti. Entrambi avevano i testi che dovevano uscire, come le sculture di Michelangelo, per il quale le figure erano già nel blocco di marmo, lui doveva solo liberarle dalle scorie.

Proprio come nel caso di Proust, un libro utile per una introduzione a Kafka può essere questo saggio di un altro grande scrittore, Elias Canetti, che ha indagato con pazienza e tenacia nella sterminata corrispondenza di Franz Kafka, un grafomane come Proust. In particolare ha analizzato le lettere a Felice Bauer, traendone interessanti e arditi collegamenti con la sua opera. E con la sua vita, perché c’è un altro aspetto importante che unisce i due scrittori: l’intreccio strettissimo tra letteratura e vita. Non si tratta di utilizzare il cosiddetto metodo Sainte-Beuve, del quale lo stesso Marcel Proust era un fiero avversario. Non si vuole frugare tra gli effetti privati di un autore, scandagliare le amicizie, gli interessi, gli amori, per “capire” meglio la sua opera. Non si è alla ricerca delle contraddizioni, per sostenere una critica. Il fatto è che i due, come hanno sostenuto Gilles Deleuze e Felix Guattari in un leggendario pamphlet su Kafka, sono macchine di scrittura totali, assolute, perfette, per le quali la letteratura è parte stessa della vita, e viceversa. Kafka addirittura dice: “Io sono letteratura”. Sembra che i sentimenti, le emozioni, vengano trattate chimicamente, raffinate, filtrate, per trasferirle nei testi, spesso assemblate con altre emozioni. Il che è quanto sono chiamati a fare gli scrittori iscritti alla Comi. E quale procedimento più adatto dello studio dei maestri?

Elias Canetti ha messo in contatto certe lettere, le ha “estratte” dalle vicende esistenziali che le hanno generate, e ha scoperto rapporti interessanti coi testi di Kafka. Lo statuto del celibe, per esempio, ha sicuramente fornito una sorta di plot operativo a Deleuze e Guattari per il già citato saggio, quando lo definiscono “rivoluzionario”. Forse lo pensava anche Kafka. Infatti quando, per qualche tempo, si sentì minacciato dal fidanzamento cui sarebbe seguito il matrimonio, sprofondò in una crisi psicologica gravissima. Utile per noi lettori, va detto cinicamente, perché sancì la genesi di uno dei più grandi capolavori della storia. Anzi, due. Ma procediamo con ordine.

kafka_felice_bauerKafka incontra Felice Bauer a casa dell’amico Max Brod, il 13 agosto 1912. Ha già fatto dei viaggi mentali importanti su una bella ragazza di Weimar, la figlia del custode della casa di Goethe, anche se, si rende conto, le è “indifferente come una pentola” (lettera a Max Brod). Però ha scattato delle foto di quel viaggio, che mostra a Felice la sera del 13. Le foto sono degli elementi importanti nell’immaginario di Kafka. Le troviamo qua e là nel Processo, nel Castello, spesso con particolari del soggetto che, secondo Deleuze, sono sempre esemplari: il mento abbassato significa sconfitta, sottomissione, il mento alzato fierezza, coraggio. Rimane colpito da quella ragazza. Appena si siede a tavola e le lancia un’occhiata ha già “un giudizio incrollabile”. Lei guardava attentamente le foto e non alzava lo sguardo se non quando lui le forniva una spiegazione oppure le passava un’altra foto. Ogni gesto, ogni minima sfumatura dei gesti e degli sguardi di Felice vengono accuratamente notati, archiviati in quella mente velocissima, nitida, in un certo senso feroce. Una mente rapida quanto il suo possessore era lento, insicuro, debole. Ed è ciò che cerca nella ragazza: la velocità, la concretezza, lui che si sente inabile a qualsiasi cosa Cerca la decisione, lui che è continuamente tormentato da dubbi centripedi che lo bloccano anche nelle scelte minimali. Si vedono poco, anche perché lei vive a Berlino. Eppure questa situazione sembra ideale per lui, perché gli interessano soprattutto le parole, la comunicazione, i racconti di lei, come un vampiro che succhia il sangue a distanza. E qui Elias Canetti, come un investigatore dell’immaginario, scava nei testi, nelle date, trova contatti invisibili. Per esempio, due notti dopo averle scritto stende La condanna, in una sola notte. Poi, nel giro di due mesi scrive cinque capitoli di America e infine, dopo otto settimane, nelle quali le scrive ogni notte, sgorga di getto, come da una sorgente, il capolavoro: La Metamorfosi, così definita da Canetti: “Non esiste nulla che possa superare in validità La Metamorfosi, una delle poche grandi e perfette creazioni di questo secolo”. E anche del prossimo, diciamo noi, e di quello dopo, e dopo ancora.

Abbiamo quindi un Kafka in grande attività creativa, impegnato in un furore letterario che gli permette di realizzare i suoi testi già perfetti (correggeva pochissimo, a differenza di Proust), attingendo dalla corrispondenza con Felice, o meglio, dalle emozioni e dai pensieri che quelle lettere gli evocavano. E dalle sofferenze, dalle paure, dalle minacce che sentiva quando la sua libertà di celibe rivoluzionario (secondo Deleuze) sembrava compromessa.

E qui arriviamo alla storia più “forte”, che lo ha coinvolto fino al delirio, fino alla malattia, e gli ha permesso di donarci l’altro grande capolavoro: il fidanzamento. Felice è decisa ad arrivarci, e lo stesso Kafka, in una fase iniziale, ne sembra convinto. Ma qualcosa di contrario si agita in lui: deve scrivere, è questa la sua vita. E’ la sua missione. Come potrebbe farlo con una donna accanto? Cosa potrebbe offrirle? Inoltre lei si rende conto di che mostro vorrebbe fidanzare, e poi sposare? Canetti individua le lettere più emblematiche, nelle quali Kafka non fa che denigrare se stesso: non lo vedi come sono introverso, taciturno, freddo, insensibile, egoista? Non vedi come sono magro? (“Sono l’uomo più magro che io conosca”, le scrive il 1° novembre 1912). Sono lettere piene di lamenti, di autoaccuse, di minacce: sta’ lontana da me, io ti trascinerei all’inferno. Perché io sono letteratura, e null’altro. La desidera, la cerca, ha bisogno di lei, ma fa di tutto per farla fuggire.

Eppure, il momento (tragico), arriva. Non esiste pietà. Non esiste deroga. Felice non si scoraggia (non è questo che Kafka cercava, la concretezza, la tenacia?). Tanto più che invia una cara amica a Praga, Grete, per una missione diplomatica pro-fidanzamento. Il risultato sarà duplice: Kafka ha una storia anche con lei (si tratta sempre di incontri brevi e isolati, i rapporti sono soprattutto epistolari), e inizia una corrispondenza parallela, esaminata da Canetti, nella quale sembra cercare un’alleata contro il fidanzamento. Ma tutto si complica, si confonde, i sentimenti si mescolano, si contraddicono.

kafka_canettiE infine arriva. Spietato, orribile. Kafka non è spaventato, è terrorizzato. Eppure è lui stesso ad averlo chiamato in causa. Deve essere solo, perché la sua unica missione è scrivere, ma ha anche paura della solitudine. Secondo Canetti Kafka non ama Felice, ma cerca la sua energia, la sua decisione. Cerca la sua forza, lui che si crede l’uomo più debole del mondo. Così, dopo un lungo silenzio, nel quale Felice, probabilmente esasperata dai suoi lamenti e dal suo comportamento passivo durante i rarissimi incontri, smette di scrivergli, il 16/3/1913 le invia una lunga lettera che contiene la proposta di matrimonio. “E’ la più strana proposta di matrimonio che vi sia” scrive Canetti. “Vi accumula le difficoltà, dice sul proprio conto innumerevoli cose che rendono impossibile una comune vita matrimoniale. Nelle lettere che fanno seguito a questa aggiunge altre difficoltà”. Scrive Kafka: “Ho una paura folle del nostro avvenire e dell’infelicità che può derivare, a causa del mio carattere e per mia colpa, dalla nostra convivenza, infelicità che prima di tutto e per intero dovrà colpire te.” Insomma, lamenti e autodenigrazione a parte, sembra che per un attimo, solo un attimo, il celibe rivoluzionario soccomba sotto il peso del proprio ruolo e cerchi un minimo di stabilità, di comunanza con una donna. Il fidanzamento-horror avviene a Berlino a casa di Felice il primo giugno 1914. “Legato come un delinquente. Se con catene vere mi avessero messo in un angolo con davanti i gendarmi e mi avessero lasciato a guardare soltanto così, non sarebbe stato peggio.” Va anche, in compagnia di Felice, a scegliere i mobili, ed è come salire sul patibolo. “Mobili pesanti che una volta collocati non era forse neanche possibile rimuovere. Un monumento alla vita impiegatizia di Praga.”

Ma dura poco. Dopo un tormento che probabilmente per noi non è possibile immaginare in quanto a intensità, il 12 luglio rompe gli indugi, butta all’aria il tavolo. Rompe il fidanzamento e si sottopone al tremendo processo, in un albergo di Berlino, dove di fronte al tribunale (la famiglia di Felice schierata), subisce la condanna. Viene ridotto in poltiglia, si sente morire, smembrare, schiacciare. Non dice una parola, sta con lo sguardo basso, le braccia a penzoloni, mentre vengono pronunciate le arringhe e la sentenza. E’ il condannato. A vita. Il tribunale che incombe, che incomberà sempre. Ma non tace per paura. Non per viltà né debolezza. Tace perché non riconosce il tribunale che lo giudica. Il celibe rivoluzionario, il debole guerriero della letteratura è in realtà coraggioso, incrollabile. Non riconosce il Potere.

E qui inizia la parte più interessante dello straordinario libro di Elias Canetti. Indagando, interpretando, collega gli eventi del fidanzamento e del processo berlinese con la nascita del capolavoro assoluto di Kafka, forse il più grande romanzo mai scritto: Il processo. Da pag. 89 in poi scopre come il fidanzamento transita nel primo capitolo, e il processo con la condanna nell’ultimo. Trova segni, personaggi, i particolari di cui Kafka era un attentissimo osservatore. Inizia la stesura del Processo in Agosto, neanche un mese dopo il processo berlinese. Lo porta avanti con una tenacia a una genialità che fanno dell’uomo più magro e più debole del mondo lo scrittore più potente e originale della storia. Antilirismo puro. La lingua “maggiore” minata dall’interno, disseccata. La vita trasformata in pura energia creativa, gioiosa e dirompente. Le ferite e il tormento personale collettivizzati, universalizzati. E’ il romanzo totale.

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