La guerra dei sogni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Linee di fuga. La clown-poiesi come pratica di affrancamento dalle strutture dominanti capitaliste https://www.carmillaonline.com/2016/11/03/31591/ Wed, 02 Nov 2016 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31591 di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di [...]]]> di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di individuare nella figura del clown la possibilità di evadere dal “senso unico” su cui è costruita l’attuale società capitalista evitando però di scivolare nel “non senso”. Se diamo per assodato che il riconoscimento dell’arbitrarietà del senso è il primo passo da compiere, resta da capire come e da dove possono giungere all’individuo stimoli utili all’abbandono del senso unico. Il saggio indica nella clown-poiesi una tra le possibili vie d’uscita, linee di fuga, dall’antropo-poiesi capitalista neoliberale.

Nella prima parte del volume – Movimento I – l’autore si propone di analizzare l’antropo-poiesi capitalista neoliberale, i riti di trasformazione ed il concetto di liminalità, soffermandosi anche sulle modalità con cui il capitalismo ha appiattito il panorama culturale italiano ricorrendo, a tal proposito, a riflessioni di Antonio Gramsci, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini.
Entrando nel merito dell’antropo-poiesi, essa può essere indicata come costruzione degli esseri umani e deriva dall’idea che all’uomo non basti, per sopravvivere, il solo bagaglio biologico ma che a questo debba aggiungersene uno culturale. In altre parole, l’uomo, dopo una prima genesi biologica, si completerebbe attraverso una seconda genesi culturale. Studiosi come Johann Gottfried Herder, Clifford Geertz e Francesco Remotti condividono l’idea che «la cultura interviene per rendere possibile l’umanità stessa, in maniera tanto incisiva e determinante che spesso i modelli culturali appresi appaiono naturali. Invero sin dalla nascita un soggetto è assediato da informazioni culturali che passano attraverso il suo rapporto con coloro che si prendono cura di lui e che vanno a sedimentarsi nel suo corpo, plasmandolo. In queste relazioni vengono comunicate numerose istruzioni riguardanti il modo culturalmente più appropriato di stare al mondo, di gestire le relazioni sociali, di utilizzare il linguaggio, di camminare e di comportarsi» (p. 22).

Secondo Herder questa seconda nascita può essere concepita in due modi: o si intende la genesi come un processo che dura per l’intera vita dell’essere umano, o la si pensa come un passaggio non graduale (rituale d’iniziazione) che segna la nascita culturale. In entrambi i casi si possono rintracciare differenze di intensità sia nella percezione del senso delle possibilità (dal credere esista un solo modello di umanità alla consapevolezza che la propria forma di umanità è una tra le possibili) che nella consapevolezza antropo-poietica (dall’esserne totalmente inconsapevoli alla piena coscienza del processo e dell’arbitrarietà del modello proposto). «L’antropo-poiesi della società occidentale contemporanea possiede un minimo grado sia di consapevolezza, sia di senso delle possibilità ed è basata sul modello di umanità seriale inventato dalla civiltà capitalista neoliberale, erede di quel pensiero che si definisce moderno» (p. 23).

Secondo l’antropologo Remotti la modernità apre la strada ad un percorso che, proponendosi di raggiungere “uno stato di verità universale”, si impone sulle altre culture rivendicandosi come qualcosa di nuovo e diverso rispetto al passato. La modernità si impone dunque come rottura col passato, come nuovo inizio basato su principi del tutto nuovi. In questo senso, secondo Kristian Kumar (Le nuove teorie del mondo contemporaneo), «la conformazione caratteristica della modernità e l’acquisizione di consapevolezza del pensiero moderno sono rintracciabili nella rivoluzione francese, momento storico in cui fu annunciato ufficialmente “lo scopo dell’epoca moderna: la realizzazione della libertà sotto la guida della ragione” […] Il passo successivo, ovvero l’acquisizione di una sostanza materiale da parte della modernità, fu la rivoluzione industriale. Da questo momento storico in poi il pensiero moderno sposò le teorie economiche liberali: la contrapposizione tradizionale/moderno, divenne la contrapposizione tra “civiltà pre-industriale e civiltà industriale” e l’idea di progresso della scienza mutò in quella di progresso industriale e tecnologico» (pp. 24-25). Così facendo, sottolinea Marc Augé (La guerra dei sogni) [su Carmilla], il discorso della modernità ha finito con l’inserirsi nell’immaginario collettivo cancellando il passato ed imponendosi come “nuova civiltà globale”.

Studiosi come Fredric Jameson ritengono si possa parlare di continuità tra il pensiero moderno, caratterizzato dall’accoppiata capitalismo-liberalismo, ed il pensiero post-moderno, caratterizzato, secondo lo studioso, dalla nuova coppia capitalismo cognitivo-neoliberalismo. Jameson sostiene che «il post-modernismo è “la dominante culturale della logica del tardo capitalismo” in cui coesistono caratteristiche eterogenee, ma subordinate ad una società del simulacro che trasforma il passato in immagini televisive, avvalorando la logica tardo capitalista» (p. 26). Tale concezione del passato preclude l’idea stessa di futuro. «Jameson qualifica il postmodernismo come un fenomeno storico in cui si è creato uno “spazio postmoderno” che corrisponde alla terza fase di espansione del capitalismo nel mondo e in cui sovrastruttura e struttura, ovvero cultura ed economia, si sovrappongono affermando la stessa cosa» (p. 26). “Il mercato è nella natura dell’uomo” diviene un mantra ripetuto all’unisono. «Assunta come premessa l’esistenza di una natura umana universale in epoca moderna, il passo di descriverla come il mercato per i sostenitori del capitalismo è stato rapido e in discesa» (p. 27).

Il capitalismo, scaricando il passato, dunque negando il futuro, è riuscito a presentarsi come fatto compiuto, come un’utopia che fa del presente il suo baluardo, inoltre è riuscito ad identificare il marxismo come un’utopia irrealizzabile. Tali manovre ideologiche, secondo Jacques Derrida (Spettri di Marx) si sono dispiegate ricorrendo a tre dispositivi: la “cultura politica”, la “cultura massmediatica” e la “cultura scientifica o accademica”. Al fine di spiegare il funzionamento della prima “forza antropo-poietica”, la politica, Nivolo ricorre alle teorie illustrate da Michel Foucault nel suo Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), ove viene analizzato il passaggio dal liberalismo nel neoliberalismo nel corso del Ventesimo secolo.

La seconda “forza antropo-poietica”, i mass media, rappresenta oggi la principale fonte di quel completamento culturale che si aggiunge al portato biologico dell’uomo e tale fonte, secondo Kumar, ha soprattutto mirato a consolidare e rafforzare il modello politico-economico esistente. Studiosi come Frank Webster e Kevin Robins indicano nella società dell’informazione una deriva del taylorismo: «una filosofia sociale che, nata all’interno delle fabbriche, si è successivamente diffusa per l’intero globo […] Gli autori di Tecnocoltura. Dalla società dell’informazione alla vita virtuale mettono in luce che “l’obiettivo [del taylorismo] era la direzione scientifica del bisogno, del desiderio e della fantasia, e la loro ricostruzione in forma di merci” e che codesto obiettivo è stato perseguito in buona parte mediante i mezzi di comunicazione di massa attraverso cui il taylorismo è riuscito a produrre dei soggetti-consumatori, nello stesso modo in cui nelle fabbriche si producevano auto o abiti […] Questa catena di montaggio mediatica è stata programmata e messa in pratica da “ingegneri del consumo” – pubblicitari, agenzie multinazionali, professionisti delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione, intermediari delle informazioni, giornalisti e così via. Questi ingegneri hanno regolato le operazioni commerciali e i comportamenti dei consumatori grazie ad uno “sfruttamento ‘razionale’ e ‘scientifico’ delle informazioni” da cui è sorta la politica dell’informazione che si è radicata a partire dagli anni Ottanta su scala globale» (p. 37).

clown2La “terza forza antropo-poietica”, come detto, è data dal sistema di istruzione statale e per affrontare il ruolo di tale agenzia formativa Nivolo ricorre ad Ivan Illich (Descolarizzare la società), autore che evidenzia come, a suo avviso, la scolarizzazione obbligatoria abbia legato gli ambienti più poveri della popolazione al potere statale, tanto che l’accesso al mondo del lavoro e la collocazione al suo interno, è regolata attraverso il livello di scolarizzazione conseguito. Illich sostiene che la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e che dispensa promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Dunque, attraverso la scolarizzazione «viene prodotta in serie una fanciullezza ben addestrata a fare tutto ciò che è in suo potere per aumentare le proprie competenze al fine di guadagnare un reddito maggiore, il quale […] permetterà di soddisfare i desideri indotti dal sistema, che non essendo autentici lasceranno un perenne senso di insoddisfazione. La religione-scuola, nella prospettiva di Illich, è depositaria del “mito della società” ed è la sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze presenti tra “i principi sociali e la realtà sociale del mondo contemporaneo”. La scuola, diventata la nuova chiesa universale d’occidente, oggi possiede un suo rito di iniziazione che consiste nell’introdurre il neofita alla corsa sacra del consumo progressivo: “è un rituale di propiziazione i cui sacerdoti accademici fanno da mediatori tra i fedeli e gli dèi del privilegio e del potere”. In questo rito, attraverso il sacrificio dei disertori, considerati i capri espiatori del sottosviluppo, vengono espiate le colpe del capitalismo e i partecipanti vengono modellati sulla rigida organizzazione del lavoro con l’obiettivo di “celebrare il mito di un paradiso terrestre di consumi illimitati, unica speranza per i dannati e i diseredati” […] La scuola è diventata un rito antropo-poietico istituzionalizzato e irrigidito che, a differenza di quanto avviene nei rituali antropo-poietici presenti in altre società, nel foggiare gli esseri umani non li invita a riflettere sul fatto che ciò che stanno realizzando non è nient’altro che uno tra i tanti modelli di umanità possibili» (pp. 43-46).

Una volta passate in rassegna le modalità di funzionamento delle principali “forze antropo-poietiche” che concorrono a plasmare i soggetti nella società occidentale contemporanea, Nivolo si sofferma su alcuni degli effetti provocati da tali forze. A tal proposito viene ripreso il pensiero di Marc Augé che sottolinea come nella società dei consumi i soggetti si trovino a dover scegliere tra un consumo passivo e conformista o un rifiuto radicale anche se, in quest’ultimo caso, secondo l’antropologo francese, manca una riflessione sui fini. «I mezzi di comunicazione di massa, sotto il falso obiettivo di informare il pubblico, in realtà lo inducono “a consumare passivamente le notizie del mondo”, diminuendone quindi la capacità critica e contribuendo a uniformare informazione, orientamenti e gusti delle persone» (p. 47)

Il saggio si sofferma anche sul disciplinamento del corpo ottentuto nella società capitalista da quel processo che Deleuze e Gauttarì definiscono di “viseità”, di produzione di viso. Per opporsi a ciò, sostiene Nivolo, non si devono riproporre le semiotiche primitive ma occorre «mettere in atto una prassi deterritorializzante e farsi un corpo senza organi, attivando una pratica anti-produttiva» (pp. 49-50). Vendo invece al rito, si ricorda come questo abbia come funzioni principali quelle di attribuire un senso alla realtà e di provocare una riflessione sulla comunità d’appartenenza. Riprendendo gli studi di Francesco Remotti e di Adam Seligman, Nivolo sostiene che nel rituale gli individui possono far propri i criteri ed i principi che definiscono un certo tipo di umanità grazie alla costruzione di “un mondo soggiuntivo” che consente agli individui di pensare alla realtà non nei termini in cui è ma in quelli in cui “potrebbe essere”. Dunque, il rito può essere definito «una dimensione spazio-temporale nella quale i partecipanti vengono indotti a soppesare criticamente il modello di umanità propostogli dal potere egemone e ad abbandonare, per tutta la sua durata, le strutture di pensiero fino a quel momento adottate. La critica viene indirizzata spesso al carattere fittizio di tali modelli affinché i novizi comprendano la natura arbitraria dei segni di cui la civiltà che stanno assimilando è composta» (p.51).

L’antropologo inglese Victor W. Turner ritiene che proprio questo spazio-tempo in cui il soggetto può investigare sulle alternative al sistema dominante, può portare all’elaborazione di una nuova configurazione sociale. Secondo Remotti «in alcune culture sono presenti ampie finestre di meditazione sull’arbitrarietà degli elementi culturali che permettono di compiere scelte, decisioni e tagli con maggior consapevolezza e, talvolta, di mettere in discussione codeste scelte e di aderirvi con maggior distacco. Una delle dimensioni principali del rito, accanto a quella di sancire pubblicamente le transizioni sociali, è quella di plasmare la soggettività degli esseri: nella maggior parte dei riti di iniziazione i soggetti vengono spinti a deporre il loro habitus e a vagliare criticamente la loro società. Questi atti meditativi sono indirizzati ad incentivare la formazione di uno spirito critico relativo alla società e all’ambiente e permettono ai soggetti di prendere coscienza della finzione che sta dietro ogni modello di umanità» (p. 52).

Antropologia dei clown si concentra poi su quella che Turner definisce la “fase liminale” del rito. Secondo l’antropologo inglese è in questa fase che i novizi hanno la maggiore possibilità di manipolare i fattori dell’esistenza: «lo spazio-tempo liminale può essere inteso come una dimensione in cui si potrebbe verificare la nascita di nuovi modelli culturali; esso rappresenta il “vivaio della creatività” di ogni civiltà poiché la sua attività principale consiste nella «scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile» (pp. 52-53).
Turner (Dal rito al teatro) sostiene che prima della rivoluzione industriale, in diverse culture, il termine “lavoro” veniva utilizzato anche per definire l’attività rituale pur mantenendo una certa distinzione tra lavoro sacro e lavoro profano. In entrambi i casi era presente una componente ludica poi negata dalla separazione tra tempo di lavoro e tempo ludico prodotta dall’avvento dell’industrializzazione. «Questa divisione è stata determinata dalla razionalizzazione del lavoro messa in atto dal capitalismo che lo ha distinto dal resto delle azioni umane, successivamente relegate nella sfera del tempo libero. […] La mercificazione dello svago ha causato delle serie ripercussioni sugli spazi ludici e rituali: quando i mondi soggiuntivi, un tempo creati direttamente dai lavoratori nei momenti di svago, iniziano ad essere ideati dal sistema stesso in una versione leziosa e posticcia – di cui Disneyland è uno tra i tanti esempi – l’adesione al sistema egemone sarà totale e scomparirà qualsiasi chance di cambiamento» (p. 61) A questo punto Nivolo, riprendendo in particolare le teorie di Donald Woods Winnicot (Gioco e realtà), propone di ampliare il nesso tra rito e gioco che si ha nell’ingresso in un mondo soggiuntivo, al fine di introdurre la figura del pagliaccio indagata in questo suo saggio.

Nella seconda parte del testo – Movimento II – l’autore ricostruisce dapprima la figura del clown nelle sue variabili diacroniche e diatopiche, poi colloca detta figura all’interno dello spazio liminale descritto nella prima parte del volume ed, infine, presenta un’ipotesi di clown-poiesi. La ricostruzione della storia del clown è in buona parte basata sugli studi dello storico Tristan Rémy (I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata) ampliando però tale analisi ai progenitori dei clown contemporanei non contemplati dallo studioso francese. Prima di ripercorrerla, seppur sommariamente, occorre segnalare le due tipologie di clown prese in considerazione: il “clown bianco” ed il “clown rosso”, (“l’augusto”). Se il clown bianco «è una figura che si lascia maggiormente agire dal sistema culturale egemone, incarnando le caratteristiche della struttura sociale: è serio, arrogante, repressivo ed autoritario, tanto da perdere, in certe circostanze, i tratti della comicità che lo caratterizzano […] il clown rosso impersona il contrario di tutte le caratteristiche del clown bianco» (p. 96). Paul Bouissac (Circo e cultura) sostiene che il clown bianco ha maniere che indicano l’agiatezza sociale e un linguaggio che evidenzia il potere ed il sapere, il clown rosso, l’augusto, mostra invece la sua mancanza di maniere e la sua incompetenza linguista.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nei circhi iniziano ad apparire i primi clown che propongono al pubblico numeri acrobatici eseguiti in maniera maldestra. A partire da metà Ottocento, dapprima in Inghilterra, poi in Francia, compaiono i clown bianchi che miscelano le caratteristiche del pierrot francese, del “clown scespiriano” inglese, del “grottesco” tedesco ed alcuni elementi della commedia dell’arte italiana. Verso la fine dell’Ottocento la comicità del clown bianco inizia ad entrare in crisi; «la pantomima acrobatica prese il posto delle performance clownesche poiché più consona alle intransigenze politiche: essa era infatti unicamente appoggiata ai “funambolismi del corpo” ed era “caratterizzata dal triplo sigillo della forza, dell’agilità e dell’esattezza” a cui si univano la fantasia, l’artificio e l’inganno […] Dopo questo intervallo di transizione comico-acrobatico in cui il clown bianco perse parte delle sue doti umoristiche, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, fece la sua prima apparizione la figura dell’augusto, detto anche clown rosso» (pp. 83-84). Ben presto i clown bianchi iniziarono a dotarsi di un augusto che facesse loro da spalla ma, col tempo, la figura dell’augusto, grazie anche alla sua maggiore versatilità, si emancipa dal clown bianco ed intraprende una carriera solista fino ad abbandonare il circo per dirigersi verso il teatro ed il cinema. «La comicità del clown bianco era una sorta di parodia della nobiltà settecentesca, che, con il lento scomparire di quest’ultima, si affievolì fino a lasciare il posto a dispotismo e arroganza borghesi. Il clown rosso, invece, nacque come parodia della nuova borghesia nascente e si trovò a fare i conti con il potere repressivo del clown bianco da cui riuscì a liberarsi creandosi solide vie di fuga dal tendone» (p. 100).

«Charlie Chaplin, Buster Keaton, W.C Fields, Roscoe Arbuckle, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy furono tra i primi a intercettare questo nuovo tipo di clown al circo e ad esportarlo con i dovuti arrangiamenti nel mondo nascente del cinema» (p. 92). E proprio il cinema, oltre a sganciare la comicità dal “fallimento acrobatico”, secondo lo studioso Matthias Christen, dà alla luce anche la figura del “dark clown”, personaggio che si è sviluppato nel genere horror e che fa leva su paure comuni per spaventare il pubblico. «La ricerca di una tale reazione emotiva ha cancellato dai clown le loro caratteristiche picaresche, lasciando emergere tutta la violenza del secolo che li ha portati alla luce» (p. 93).

Tornando all’augusto, Nivolo sottolinea come questo essere marginalizzato all’interno del circo, possa «essere paragonato ad uno schizofrenico, egli rappresenta quella parte del limite esterno del capitalismo che riesce a mediare il fuori e il suo limite interno in costante spostamento. Il clown, occupando una posizione liminale, vive in stretto contatto con il disordine extraculturale e ciò gli consente, indossato il naso rosso, di far riemergere la schizofrenia del fuori laddove viene rinchiusa nei manicomi, il caos laddove regna l’ordine culturale. In questo modo l’augusto svolge una funzione terapeutica nei confronti dell’audience della società capitalista, simile a quella di clown rituali, tricksters, fools e sciamani» (p. 105).

clown1Il divenire-clown presuppone innanzitutto l’infrazione della gabbia mentale che si è sedimentata nella mente dell’individuo, così da rendere possibile la riconquista dei movimenti del corpo e la loro decostruzione al fine di dar vita ad una nuova fisionomia da mettere in relazione col mondo esterno. Nel saggio si segnala come lo stesso clown Leo Bassi abbia sottolineato l’importanza del corpo e come, in molti paesi europei, esso sia identificato come simbolo di resistenza al potere industriale. «Nel circo gli artisti potevano e possono usare il loro fisico a proprio piacimento, diversamente da quanto accade nelle fabbriche, dove il corpo degli operai è limitato ad una serie di movimenti ripetitivi e funzionali alla produzione. La libertà di utilizzo del corpo da parte dei clown in contrapposizione alla taylorizzazione di quest’ultimo messa in atto dalla società industriale appare con estrema chiarezza nel film Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin» (p. 143). Dunque, sostiene Nivolo, «la clown-poiesi risulta potenzialmente in grado di far approdare al corpo senza organi: a ben vedere trovare il proprio pagliaccio equivale, almeno in parte, a liberare il desiderio dalla macchina sociale […] Il clown […] è in grado di spogliarsi dell’armatura comportamentale, della pelle dell’abitudine, dubitando delle proprie regole d’azione più radicate tanto da riappropriarsi del corpo, contrastando in questa maniera i dispositivi del biopotere […] Il corpo del pagliaccio è predisposto al rovesciamento di ogni scontata logica di reazione agli eventi ed esprime il primo segno dell’anti-strutturalità del suo discorso» (pp. 143-144). Le azioni del pagliaccio possono ingenerare nel pubblico una semiosi in grado di attribuire nuovi significati alla realtà.

Nella terza parte del libro – Movimento III -, dopo una riflessione di carattere metodologico relativa al procedimento di ricerca utilizzato per la realizzazione della cartografia, lo studioso porta il lettore alla Scuola Teatro Dimitri di Verscio in Ticino e mette a confronto le diverse forme di clown-poiesi esaminate nel libro.
Il saggio di Nivolo si conclude – Finale – con alcune riflessioni sull’antropologia del clown volte a fornire un’interpretazione della figura del pagliaccio in grado di sviluppare una lettura critica dell’antropologia stessa. Lungo l’intero libro l’autore ha mostrato come anche all’interno del percorso antropo-poietico capitalista neoliberale, con la sua pretesa di unicità, siano presenti modalità di “costruzione degli esseri umani” capaci di costituire linee di fuga dal sistema egemonico.
Nei suoi studi l’antropologo Remotti ha mostrato come esistano culture contraddistinte dal dubbio circa le modalità con cui si debba plasmare l’essere umano, dunque, a partire da ciò, Nivolo ha inteso individuare alcuni spiragli da cui fare “penetrare la luce del dubbio” anche nell’attuale società contemporanea occidentale così da individuare una linea di fuga dalla gabbia capitalista. A tal proposito il saggio ha evidenziato come «mediante un passaggio per un mondo anti-strutturale e soggiuntivo, caratteristico della fase liminale di molti rituali di trasformazione, si può assimilare il senso delle possibilità e stimolare una serie di meditazioni in grado di scuotere le certezze sistemiche» (p. 214). Nonostante il capitalismo tenda ad inglobare tali spazi sovversivi proponendosi come realizzazione di un’utopia ed imponendo agli individui di non immaginare altro mondo all’infuori di questo, «rimangono in vita alcune importanti brecce sulla liminalità, alternative ai riti, come il gioco e l’arte» (p. 214). Tra le varie forme possibili Nivolo ha scelto la figura del clown al fine di mostrare come questa abbia “il senso della possibilità” e cerchi di restituirlo al pubblico con una messa in scena di “un mondo alla rovescia” «in cui vigono l’arbitrarietà delle norme culturali e una “logica irrazionale” molto simile a quella surrealistica» p. 214).

È a partire da tali premesse che lo studioso ha poi indagato il processo del divenire clown mostrando come questo si incentri «sul dubbio che scaturisce dal fallimento: si deve fallire qualcosa per far ridere» (p. 214). Il fiasco dei pagliacci è potenzialmente in grado di stimolare nel pubblico una riflessione sulla vulnerabilità. La clown-poiesi appare tanto incentivo al fallimento quanto prassi di riappropriazione del corpo. «Il pagliaccio, in questa prospettiva, può essere descritto come colui che, passando per “la vita marginalizzata dell’escluso”, persegue una linea di fuga che lo porta a raggiungere IL piano di consistenza, il fuori di ogni pensiero, regno delle possibilità impossibili. Lì, sul piano di immanenza del desiderio, sul corpo senza organi, il clown mette in atto quella che Deleuze, riprendendo il pensiero di Michel Foucault, definisce “la lotta per una soggettività moderna”, rivendicando il diritto alla differenza, alla metamorfosi e alla variazione […] In questo modo il clown resiste “alle due forme attuali di assoggettamento, l’una che consiste nell’individuarci in base alle esigenze del potere, l’altra che consiste nel fissare ogni individuo a una identità saputa e conosciuta, determinata una volta per tutte” […] Esiste dunque un divenire pagliaccio che consiste nel tracciare delle linee di fuga tali da raggiungere il fuori del pensiero, luogo da cui poter attingere nuove forme, nuovi colori, nuovi significati al fine di ricreare il dentro. Le linee di fuga possono essere intese come “il bordo estremo di un dispositivo”, come linee che segnano “il passaggio da un dispositivo all’altro, preparando così le linee di frattura” […] ovvero come linee che transitano per uno spazio liminale […] In questa prospettiva la clown-poiesi può essere vista come una deterritorializzazione che intraprende una linea di fuga dal territorio del pensiero capitalista neoliberale» (pp. 217-218)

Sia gli esiti dell’uscita dai costumi di cui parla Remotti (“uscire dal solco”, liberarsi dalla parete delle significazioni dominanti e dal buco nero dell’Io) che quelli deleuziani derivati dalla creazione di linee di fuga, risultano potenzialmente rivoluzionari nei confronti dell’ordine costituito. Queste due prospettive, secondo Nivolo, hanno in comune la questione del “nomadismo” e per approfondire il concetto di nomadismo nel clown, il saggio riprende gli studi di Paul Bouissac (Semiotics at the Circus) che ricordano come la nascita del circo abbia a che fare con esigenze di sopravvivenza delle minoranze etniche escluse dai commerci urbani e, nonostante il processo di “istituzionalizzazione” a cui è sottoposto il circo, esistono ancora famiglie circensi nomadi che, grazie a ciò, sono in grado di accumulare un sapere antropologico sulle diverse culture con cui vengono di volta in volta a contatto. La questione del nomadismo consente così di mettere a confronto le due principali prospettive teoretiche utilizzate in questo saggio per analizzare la figura del clown al fine di proporre un’antropologia rizomatica. Attraverso Remotti il clown è stato descritto «come colui che esce dai propri confini culturali ed attinge al senso delle possibilità lì presente proponendosi, di conseguenza, come mediatore tra ordine e disordine, tra dentro e fuori» ed attraverso Deleuze e Guattari, il pagliaccio è stato definito come «un soggetto in grado di crearsi una linea di fuga che gli consente di mantenersi in un costante stato di deterritorializzazione» (p. 222). Si sono così avvicinate «l’antropologia trasversale elaborata da Remotti con i suoi concetti reticolari e le somiglianze di famiglia e la schizoanalisi ideata da Deleuze e Guattari, caratterizzata dal concetto di rizoma» (p. 222). È attraverso questo confronto che Nivolo giunge a proporre la sua idea di antropologia rizomatica.


Linee di fuga: serie completa

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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Il reale delle/nelle immagini. Esibizionismo, selfie, mercificazione e costruzione identitaria https://www.carmillaonline.com/2016/04/18/il-reale-dellenelle-immagini-esibizionismo-selfie-mercificazione-e-costruzione-identitaria/ Mon, 18 Apr 2016 21:30:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28952 di Gioacchino Toni

smartphone12«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi)

«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini)

Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche [...]]]> di Gioacchino Toni

smartphone12«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi)

«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini)

Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche in visitatori che rinunciano a godersi la visione diretta di ciò che hanno di fronte per riprenderlo col proprio telefonino, ossessionati dal dover registrare quanto hanno davanti agli occhi. Qualcosa di simile accade anche al pubblico degli eventi sportivi e dei concerti. Tanti affrontano l’esperienza del concerto impugnando e puntando verso il palco altrettanti smartphone al fine di catturare qualche memoria digitale dell’evento da poter poi condividere sul web. Probabilmente pochi si riguarderanno veramente le riprese effettuate, nel migliore dei casi i più finiranno per caricarne qualche frammento sul web condividendolo con schiere di conoscenti, più o meno virtuali, che, a loro volta, daranno un’occhiata fugace e magari contribuiranno a far girare, a vuoto, in rete il tutto. Nei concerti molti smartphone più che essere puntati verso il palco sono in realtà indirizzati verso i mega-schermi che, a loro volta, diffondono le immagini del palco registrate dall’organizzazione. Sicuramente un primo motivo di tale comportamento può essere individuato nel fatto che, soprattutto negli eventi di grandi dimensioni, il palco è molto lontano e la folla presente intralcia la visione e la ripresa ma, probabilmente, tale pratica è dovuta anche al fatto che il pubblico si è talmente abituato a fruire immagini che trova più interessante osservare, dunque registrare, le riprese elaborate e trasmesse dagli schermi che non “accontentarsi” della piatta visione del palcoscenico. Per quanto la band sia abile nel tenere il palco, non c’è paragone, per chi è cresciuto a riproduzioni di realtà, l’elaborazione offerta degli schermi è molto più accattivante.

Anche in diversi eventi sportivi si è avuta una vera e propria proliferazione di mega screen che trasmettono, in definitiva, ciò che lo spettatore visionerebbe in ambito domestico dal televisore. Alla visione diretta dell’evento si sostituisce la visione della sua spettacolarizzazione televisiva, quasi si fosse alla ricerca di una tele-visione del reale. La realtà sembra dunque essere fruita tele-visivamente in un gioco di specchi in cui ci si allontana sempre più dal reale: riprese di riprese a loro volta caricate sul web che le darà a vedere attraverso monitor.
Risultano davvero tanti gli schermi che si frappongono tra la realtà e la fruizione finale a partire dal monitor del primo apparecchio digitale di registrazione, passando per il grande schermo che diffonde le immagini e via via attraverso il monitor dello smartphone che riprende tale schermo… fino al monitor del computer che le darà a vedere. Sono davvero numerosi i filtri e le inevitabili modificazioni subite da quel frammento di realtà iniziale determinate dai diversi media e dalle scelte dei diversi operatori. Risulta difficile dire quale percezione di realtà sia possibile avere in un contesto di tale tipo.
Descrivendo questo fenomeno per cui le immagini sembrano via via sostituirsi al reale, Marc Augé, (La guerra dei sogni) sul finire degli anni Novanta, per spiegare la frustrazione provata nel percepire chiaramente tale deriva nel disinteresse collettivo, ricorre ad un efficace parallelismo con The Invaders (ABC, 1967/68), la serie televisiva statunitense ideata da Larry Cohen che mette in scena lo sbarco di extraterrestri intenzionati a conquistare il globo sostituendosi pian piano agli esseri umani. Augé, nel denunciare la crescente “messa in finzione” della realtà, afferma di sentirsi un po’ come il protagonista della serie che scopre il segreto della sostituzione ma fatica a convincere di ciò gli altri esseri umani.

Questa reticenza ad affrontare la realtà direttamente senza ricorrere a mediazioni (ri)produttive, aprirebbe numerose questioni su cui varrebbe la pena riflettere. Se, ad esempio, alla “messa in finzione della realtà” abbiamo dedicato spazio [su Carmilla], così come alle difficoltà di realizzare immagini documentarie capaci di fronteggiare la spinta contemporanea tesa alla «progressiva trasformazione dell’immagine in surrogato della realtà e della realtà in surrogato dell’immagine» (I. Perniola, L’era postdocumentaria, p. 98) [su Carmilla], in questo scritto vale la pena soffermarsi sul fenomeno dell’esibizionismo contemporaneo e sulla costruzione identitaria entro cui si colloca la pratica dei selfie.

eterotopie-11x17-codeluppi-metto-vetrina-1A tal proposito, riflessioni interessanti si trovano nel saggio di Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano – Udine, 2015, 118 pagine, € 10,00. Tale testo parte dalla presa d’atto di come i nuovi strumenti di comunicazione abbiano moltiplicato le possibilità di produrre e diffondere messaggi ed in particolare quelli che ogni individuo produce su se stesso.
Codeluppi sostiene che tutto ciò può essere fatto risalire alla diffusione settecentesca delle vetrine nelle grandi città e da allora gli individui hanno mutuato tale sistema comunicativo, basato sulla spettacolarizzazione e sull’esibizione dalle merci, applicandolo su se stessi, al fine di comunicare efficacemente a proposito della propria persona.
È vero che gli esseri umani hanno sempre tentato di valorizzare la propria immagine nei confronti degli altri ma ultimamente tale esigenza sembrerebbe essersi resa sempre più impellente, tanto che lo studioso, al fine di definirla, ricorre al termine “vetrinizzazione”, proprio per sottolineare come, nelle competitive società massificate ed urbanizzate, gli individui sentano sempre più urgente il bisogno di costruirsi identità distintive tese alla propria valorizzazione.

Codeluppi individua le radici del selfie nelle pratiche fotografiche ma nel caso del selfie non serve nemmeno un mediatore (il fotografo). Mentre l’antenato “autoscatto” tendeva ad essere essenzialmente privato, come le fotografie prima della diffusione dei nuovi media, il selfie tende ad essere eseguito per essere condiviso. La diffusione degli smartphone, dotati di obiettivo frontale, permette a tutti di aver sempre “a portata di mano” uno strumento in grado di fotografare e condividere tali scatti sul web istantaneamente. Secondo i dati riportati da M. Smargiassi (“La Repubblica”, 09/12/12), su Facebook ogni ora vengono caricati circa dieci milioni d’immagini.
La tendenza alla vetrinizzazione, secondo Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società. Attraverso la pubblicazione del selfie in internet si cerca una certificazione pubblica della propria esistenza all’interno del web. In riferimento a ciò, da qualche tempo si è diffuso il termine “selfbranding” indicando con esso l’allestimento del proprio sé, la presentazione sociale, la trasformazione della propria soggettività in una realtà d’interesse pubblico.

Avendo a che fare con la fotografia, anche il selfie, sostiene l’autore, ha in qualche modo a che fare con l’immortalità. Le comunità tradizionali tendevano ad attribuire un senso di immortalità a tutti coloro che ne facevano parte; si viveva nella, ci si identifica in e si sopravviveva attraverso la comunità. I processi di modernizzazione e di urbanizzazione hanno frantumato le comunità ed hanno condannato gli individui ad una sorta di atomizzazione di massa. La fotografia, nel corso dell’Ottocento, ha permesso di “immortalare” la propria immagine, dunque ha offerto a tutti la possibilità di costruirsi un monumento. Secondo l’autore il selfie sviluppa le capacità della fotografia di conferire durata e diffusione sociale agli eventi personali, attraverso la fotografia ci si sentirebbe meno effimeri.
Nel selfie risultano importanti le azioni compiute dal soggetto che scatta la foto; davanti all’obiettivo frontale, si compiono movimenti tesi a valorizzare l’individuo e ciò risulta possibile grazie allo schermo che funziona da specchio per la performance messa in atto dal fotografo/fotografato. Nella pratica del selfie lo smartphone è a contatto col corpo ed è normalmente sempre a disposizione dell’individuo. Il selfie concentra l’attenzione su un’inquadratura limitata al volto o alla parte superiore del corpo di chi lo esegue, cioè a quanto è permesso dal porre l’obiettivo ad una distanza “di un braccio” (protesi telescopiche turistiche a parte). L’ambiente perde d’importanza, di esso interessa solo qualche indicazione relativa al luogo in cui si trova il soggetto che è il vero attore principale della “messa in scena”; l’obiettivo è fissare la presenza del soggetto all’interno di un evento. Se il selfie può ricordare la pratica del diario personale che testimonia la quotidianità di chi lo tiene, da esso si differenzia per il fatto che mentre il diario ha solitamente un carattere privato, il selfie per sua natura tende ad associarsi alla condivisione, all’esibizione pubblica.

Se da un lato il selfie può sembrare una risposta all’esigenza di dare consistenza a se stessi, di non essere fantasmi, dall’altro queste immagini contribuiscono a rendere l’individuo sempre più fantasmatico. Nella società contemporanea tutti cercano un pubblico e, spesso, si tende a parlare a proposito del selfie come di una pratica narcisistica. Secondo Codeluppi, però, non sono tanto i selfie, le fotografie o i media stessi a generare narcisismo, è piuttosto il tipo di società contemporanea a determinare il narcisismo in quanto impone condotte individualistiche che richiedono di prestare attenzione a come si è percepiti dagli altri.

Nel testo è riservato uno spazio al mito della trasparenza che sembra guidare la società contemporanea. Se nelle piccole società tradizionali tutti si conoscevano, nelle società di massa urbanizzate si ha a che fare con sconosciuti e per potersi fidare di chi non si consce si è alla ricerca di trasparenza. Negli ultimi tempi sono diversi i luoghi e gli spazi abitativi e di lavoro che si sono smaterializzati esaltando così da un lato l’idea che non si ha nulla da nascondere e, dall’altro, il fatto che sentirsi esposti può contribuire a generare l’idea di non essere soli, di poter sempre contare su una rete di conoscenze che trasmette sicurezza anche se, in realtà, tale rete di relazioni è talmente effimera e debole che difficilmente si può contare realmente su di essa. Il bisogno di trasparenza sembra essersi trasformato in “ossessione sociale” tanto che si è venuta a creare una società di “schiavi della visibilità”. La trasparenza si è, infatti, presto trasformata in vero e proprio “controllo sociale”, in un sistema di coercizione dell’individuo che pare sempre più impegnato a fornire e ad a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali.

lifestyleIl senso di solitudine ed isolamento sembrerebbe indurre l’individuo a cercare una platea per rafforzare l’identità e la strategia di vetrinizzazione pare tesa a magnificare e valorizzare se stessi. Però, mette in guardia Codeluppi, «più si celebra online la propria vita, più aumenta la propria insoddisfazione nei confronti di essa» (p. 41) perché si è costretti a rapportare la propria vita reale, non sempre idilliaca, con quella conformista ideologia della positività imperante nei social network che insistono col mostrare vite felici, divertimento, vacanze ecc. Tutti tentano di costruire un’immagine della propria esistenza conforme a quelle comunicate dai network, dunque i profili personali finiscono per assomigliarsi tutti essendo costruiti da un bricolage degli stessi materiali assemblati soltanto in maniera leggermente diversa.
Per quanto riguarda gli usi dei corpi sul web, Codeluppi nota la tendenza a superare le norme morali stabilite e l’indirizzo prevalente sembra essere quello di rinunciare al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità, il più delle volte costruita e gestita in maniera da renderla accattivante come richiesto dall’omologazione imperante sulla falsariga di quanto avviene nei reality show composti da (fino a quel momento) sconosciuti. «Rinunciando alla privacy, così, le persone pensano di poter operare come quei personaggi di successo che sono oggetto della loro venerazione» (p. 47).
Anche coloro che diventano celebrità su You Tube, sembrano sempre più votati ad incarnare un modello culturale conformista, il più delle volte “virato al positivo” ove «non è previsto uno spazio per i lamenti e le critiche e tutto dev’essere allegro e spensierato» (p. 47). Inoltre, sottolinea Codeluppi, quello degli youtuber «si presenta come un mondo decisamente consumistico. Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità per poter firmare dei vantaggiosi contratti con le aziende al fine di promuovere i loro prodotti» (pp. 47-48). Come affermano G. Arduino e L. Lipperini: «devi diventare merce per poter propagandare altra merce, essere sempre connesso, sempre sulla scena, non distrarti mai» (Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web, 2013, p. 47). Codeluppi conclude pertanto che, in base a tale logica, diventa necessario «accettare l’idea che tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. Ed è ciò che oggi sta avvenendo, grazie soprattutto a una progressiva digitalizzazione di ogni cosa. I “like”di apprezzamento o altri indicatori simili sono infatti delle unità di misura del successo davanti al suo pubblico. E, proprio per questo, ciascuno tende a credere che il suo valore come essere umano sia strettamente dipendente da tali indicatori» (p. 48).

In effetti, seguendo il ragionamento di Codeluppi, non stupisce l’ansia da prestazione, la mania di controllare il numero di condivisioni e apprezzamenti che si ottengono con una pubblicazione di immagini o scritti sul web. Alla mania di controllare, magari con una certa frequenza, “il risultato” che si sta ottenendo, andrebbe forse sostituito un ragionamento circa la pratica stessa della condivisione e del giudizio nei social network. A proposito della fruizione della fotografia, Ilaria Schiaffini mette in luce come ultimamente la fruizione sia divenuta «sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (R. Perna, I. Schiaffini, Etica e fotografia p. 12) [su Carmilla]. Probabilmente tale riflessione può essere estesa a tutto ciò che viene caricato sul web, dunque, quando si va alla ricerca spasmodica dei “risultati ottenuti”, occorrerebbe tener presente che, soprattutto sul web, la condivisione sembra essere spesso un modo per rafforzare la convinzione di essere inseriti nel network, più che il risultato dell’analisi di un contenuto e ciò sembra valere tanto per colui che invia materiale, quanto per chi lo riceve e che a sua volta inoltra. Allo stesso modo i commenti non di rado vengono emessi senza che il materiale a cui si fa riferimento sia stato realmente analizzato. Facilmente il commento è “a pelle”, superficiale, non argomentato, così come spesso il materiale caricato è assemblato distrattamente. L’ossessione per il consenso tende, inevitabilmente, a spronare gli individui a caricare ed inoltrare materiali graditi ai più, in un gioco teso all’omologazione più deprimente. Non importa l’ampiezza del network di cui si desidera essere parte riconosciuta. Se è il consenso che si cerca, lo si ottiene più facilmente grazie alla condivisione di ciò che “piace a tutti”, come aveva ben compreso il re della mercificazione Andy Wharol. In altri casi la condivisione ed il giudizio positivo si riferiscono all’autore più che al contenuto da esso pubblicato o trasmesso. Alla celebrità è permesso trasmettere qualsiasi cosa, pochi “perderanno tempo” ad analizzare in profondità il contenuto di ciò che viene trasmesso; i giudizi si riferiranno facilmente a colui che ha emesso il messaggio. Questo lo avevano capito bene tanto Marcel Duchamp, con i suoi palloncini gonfi di “fiato d’artista”, quanto Piero Manzoni, con la sua “merda d’artista” venduta letteralmente a peso d’oro. Da questo punto di vista, per certi versi, ad essere condiviso e giudicato non è il materiale presentato ma l’autore stesso e ciò finisce con l’aumentare il panico in quest’ultimo che si vede così costantemente sotto esame.

Vale la pena riprendere la riflessione di Wu Ming 1 quando, giustamente, mette in luce come sia sterile porsi la questione nei termini di stare dentro o fuori dai social media. «Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali. Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante vite) il capitale stia rubando anche e soprattutto di nascosto (perché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare pezzi di vita» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

 

 

 

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