Kurt Vonnegut – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 10 Apr 2025 22:05:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra o pace https://www.carmillaonline.com/2023/06/18/guerra-o-pace/ Sun, 18 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77350 di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio al tema della guerra dedicò alcune delle sue opere più importanti fin dai suoi esordi letterari, nei tre testi selezionati da Verdiana Neglia per il volumetto pubblicato da Mattioli, cerca di disvelare le menzogne del patriottismo, del difesismo e del pacifismo “armato” che servono solo e sempre a giustificare l’espansionismo imperiale, il revanscismo nazionalista e l’odio per un “nemico” spesso costruito a tavolino e servito bell’e pronto per l’immaginario collettivo e la sua manipolazione in chiave bellicista.

I tre testi: Ravvedetevi! (1904), Le due guerre (1898) e Patriottismo o pace? (1896) appartengono all’ultimo periodo della vita dello scrittore e si riferiscono a momenti ed episodi diversi. Il primo, che è anche il più recente, scritto in occasione dello scoppio del conflitto russo-giapponese; il secondo in occasione del conflitto ispano-americano che avrebbe portato all’espansione dell’imperialismo americano nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico e, infine, il terzo, in occasione del conflitto che rischiò di esplodere tra Stati Uniti e Regno Unito a proposito dei confini del Venezuela nel 1895.

In tutti e tre i casi Tolstoj, nel manifestare il suo pacifismo integrale di stampo cristiano, rivolge la sua critica sia all’uso delle armi come strumento di risoluzione delle vertenza internazionali, sia, e forse soprattutto, alle mire imperiali ed espansionistiche che tutte quelle chiamate alla armi celavano dietro a roboanti discorsi anelanti alla libertà e alla giustizia oppure ad una pace “più giusta”.

Non fa sconti lo scrittore né all’imperialismo zarista né, tanto meno, a quello delle altre potenze principali dell’epoca, che da lì a poco, dopo la morte di Tolstoj, si sarebbero confrontate nell’immane carneficina della Prima guerra mondiale. Ma soprattutto non fa sconti agli intellettuali, ai pennivendoli, ai politici presunti “illuminati” che diffondono ed esaltano il verbo di una guerra cui loro, però, prendono parte soltanto a parole.

[…] come possono i cosiddetti uomini illuminati predicare la guerra, promuoverla, parteciparvi senza minimamente esporsi ai pericoli (è questa la cosa peggiore), fomentarla e mandarvi incontro i propri fratelli, infelici e ingannati? […] La maggior parte di loro ha scritto o discusso di questo argomento. […] Tutte queste persone illuminate sono consapevoli che l’armamento generale degli Stati l’uno contro l’altro conduce, senza fallo, a guerre interminabili, o alla bancarotta generale, o a entrambe le cose; sanno che, oltre allo spreco sciocco e insensato di miliardi – ossia di una grande quantità di risorse umane – per prepararsi al conflitto, periscono milioni di uomini energici e vigorosi nel momento della loro vita più adatto a svolgere un lavoro produttivo (le guerre del secolo scorso hanno portato a una perdita di quattordici milioni di uomini). […] Tutti sanno – non possono non saperlo – che le guerre suscitano nelle persone le passioni più depravate e animalesche, le corrompono, le brutalizzano. Tutti conoscono la natura poco convincente delle argomentazioni a favore della guerra […] ma all’improvviso scoppia una guerra e dimenticano ogni cosa. Coloro che fino a ieri sottolineavano la crudeltà, l’inutilità, la follia delle guerre, ora pensano, parlano e scrivono solo di come sconfiggere il maggior numero possibile di avversari, rovinare e distruggere le opere dell’ingegno umano e come fomentare il più possibile la misantropia delle persone pacifiche, innocue e laboriose che con il loro lavoro sfamano, vestono e sostengono proprio questi soggetti pseudo-illuminati, gli stessi che le costringono a commettere atti terribili1.

Non c’è una parola, tra quelle riportate, non un esempio che non sia direttamente riferibile alla guerra in corso in Ucraina e all’atteggiamento che governi, media e intellettuali di regime hanno assunto nei suoi confronti, da una parte e dall’altra dei due schieramenti. E questo rivela anche come l’attuale russofobia, sul lato occidentale e nelle istituzioni politiche e culturali nostrane, cerchi di cancellare contributi di una letteratura, quella russa dell’Ottocento e del Novecento, che forse più di tante altre ha ben conosciuto e combattuto l’ipocrisia del potere e la sua intrinseca violenza.

Non a caso, forse, la prefazione al testo è stata affidata a Paolo Nori, docente, traduttore dal russo, scrittore e saggista2 cui subito, all’inizio della guerra, nel marzo del 2022 fu impedito di tenere un corso su Fëdor M. Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano. Eppure, eppure… l’Italia e l’Occidente vantano la superiorità morale del proprio sistema liberal-democratico rispetto al dispotico Putin, che diventa così esempio dell’illiberalità e della violenza di un intero popolo e di un’intera cultura. C’è forse qualcosa che è ancora necessario aggiungere?

Sì, forse proprio la risposta che lo stesso Nori ha dato ad un lettore che accusava Tolstoj di mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti: “Tolstoj lo faceva sempre, era un po’ un disgraziato”. Continuando poi con l’affermare:

E quando sempre in Ravvedetevi!, Tolstoj scrive: «Ieri è arrivata ala notizia dell’affondamento delle corazzate giapponesi e nelle cosiddette sfere altolocate della nobiltà russa, ricca e intelligente, senza alcun rimorso di coscienza, ci si è rallegrati per la fine di migliaia di vite umane» (p.99), a me viene in mente Kurt Vonnegut quando in Mattatoio n. 5 – il romanzo che ha dedicato al bombardamento di Dresda, del quale è stato involontariamente protagonista (era a Dresda, prigioniero dei tedeschi) – scrive: «Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare ad un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia»3.

Come sembra invece accadere, ancora oggi, nei salotti mediatici e politici e sulle prime pagine dei giornali e dei notiziari, dove la conta dei danni arrecati agli avversari sembra rasentare la necrofilia e la pornografia della morte. Continuando invece, ancora una volta da una parte e dall’altra, a trattare le azioni nemiche solo e sempre come specifici atti criminali oppure di terrorismo, nascondendo il “semplice” fatto che proprio la guerra di per sé già li comprende e produce entrambi. Così come pensava il sempre attuale, ammirevole, umanamente testardo e inamovibile Lev Nikolàevič Tolstòj.


  1. L. Tolstoj, Ravvedetevi! Ora in L. Tostoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 17-19  

  2. Tra i suoi titoli: Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori 2021, e I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, UTET, 2019.  

  3. P. Nori, Modernità, testardaggine, semplicità, prefazione a L. Tolstoj, op. cit., pp. 10-11  

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Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

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Mark Twain o della modernità https://www.carmillaonline.com/2014/12/27/mark-twain-modernita/ Fri, 26 Dec 2014 23:01:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19661 di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. [...]]]> di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. Anzi, per un lungo periodo, l’autore americano è stato trattato con la bonomia destinata agli umoristi e agli autori di romanzi per ragazzi. Quando, addirittura, non è stato relegato al rango di semplice rappresentante del populismo americano.

Niente di più sbagliato, naturalmente. Elio Vittorini, nel 1941, ebbe già a scrivere di lui: ”Nato (Samuel Langhorne Clemens per lo stato civile) l’anno 1835, nel Middle West, sul Mississippi, morì l’anno 1910. Fu, nella vita, uno di quelli che aprirono le vie dell’Ovest: un pioniere. Pilota sul grande fiume, cercatore d’oro, agricoltore, uomo d’affari, infine giornalista e romanziere. Ebbe molta popolarità, più che ogni altro scrittore americano di prima e di dopo”.2

La sua biografia lo avvicina infatti ad un percorso simile a quello di scrittori come Jack London o Jack Kerouac, accomunati, pur in periodi diversi, da una scrittura fortemente influenzata dalle esperienze di vita e lavorative precedenti il momento della scrittura. In Twain, però, più che negli altri la ricostruzione del proprio percorso esistenziale diventa motivo centrale e quasi ossessivo di alcune delle sue opere più importanti: Life on the Mississippi 3 e Roughing It4 oltre alla presente Autobiografia.

Della quale erano già stati pubblicati spezzoni in altre opere oppure una versione in cui gli episodi narrati erano stati messi in ordine cronologico nel 1959, dal suo curatore Charles Neider5 che aveva anche provveduto a censurarne i tratti più feroci, o, ancora prima, riordinata nel 1924 da Bigelow Paine, che aveva sovrinteso alla dettatura della stessa da parte di Twain in diversi periodi compresi tra il 1906 e il 1910.

Lo stesso Twain aveva confidato, in uno scritto del 1906, che: ”Il mio sistema si fonda su una completa e deliberata confusione: non ha un punto di partenza, non segue nessuna rotta e forse non raggiungerà una meta finché vivo”, aggiungendo poi che l’opera avrebbe dovuto essere pubblicata postuma, possibilmente a cent’anni dalla sua morte. Ed è proprio questa confusione che l’edizione attuale, condotta seguendo l’ordine dei testi stabilito dall’edizione originale a cura di Harriet Elinor Smith nell’ambito del «Mark Twain Project», presso la Bancroft Library, e pubblicata in accordo con l’Università della California nel 2010, ristabilisce.

Confusione che, a più di cent’anni dalla morte dell’autore, è essenziale per comprenderne l’importanza e la modernità. Non solo all’interno dell’evoluzione della letteratura nord-americana.
Perché se è vero che noi possiamo rintracciare la lezione di Mark Twain in molti dei più importanti autori americani del ‘900 ( da Thomas Pynchon a Kurt Vonnegut e da Ernest Hemingway a Elmore Leonard passando anche per William Faulkner e Raymond Carver), questo è dovuto principalmente al cinismo e alla grande babele linguistica, con utilizzo di registri lontanissimi tra di loro, di cui l’ex-battelliere del Mississippi fu sicuramente maestro.

Cinismo, umorismo e dialoghi tratti spesso non solo dalla quotidianità della nascente nazione, ma anche dalla tradizione orale che ne accompagnava la narrazione e di cui i tall tales, i racconti esagerati, costituivano la manifestazione più tipica ed esilarante. Oralità che sta alla base del ritmo e della narrazione di Twain, ma che si è anche saldamente instaurata nella tradizione dei brillanti, vivaci e realistici dialoghi tipici della narrativa e della cinematografia americana moderna.
Se Tarantino infatti rivendica in Leonard l’ispiratore di suoi dialoghi, è anche vero che lo stesso Leonard fu molto onorato di sentirsi una volta paragonato a Mark Twain. Proprio per l’ironia e vivacità dei suoi dialoghi.

Ma nell’Autobiografia la tradizione orale, che l’autore volle apparentemente salvaguardare dettando e non scrivendo direttamente l’opera, si fa flusso di coscienza ininterrotto, in cui episodi grandi e piccoli, tracce di ricordi e di umori si ricollegano gli uni agli altri in uno stile estremamente moderno che si spinge, per paragone, fino a Marcel Proust e James Joyce oppure all’inglese B.S.Johnson, senza tralasciare la rabbia e l’ipocondri di un Céline nelle invettive. Perché, molto probabilmente, una vita non può essere ridotta a mera sequenza cronologica di avvenimenti.
E fu forse la coscienza della modernità, ancora eccessiva per molti critici attuali, della propria narrazione, in cui il tempo interiore si espandeva voluttuosamente oltre e al di sopra del tempo dei calendari e degli orologi, che spinse l’autore a chiedere che l’opera fosse pubblicata cento anni dopo la sua morte.

Non per viltà, come qualche critico o autore moderno, pavido e insicuro potrebbe pensare, ma proprio per il fatto che lo stesso autore, giunto ormai alla fine dei suoi anni attraverso un percorso dolorosissimo, durante il quale tutte e due le figlie e la moglie vennero a mancare prima di lui, si era reso conto della bigotteria e del tradizionalismo che lo circondavano e dell’incapacità della società americana di realizzare quel sogno di libertà di cui aveva rappresentato soltanto una vaga promessa.

Sogno che, troppo presto, si era tramutato in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, stava rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nell’Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che Twain dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna della fine dell’ottocento. Pagine che trovano il loro termine di paragone soltanto nello scritto aspro e crudele che lo stesso autore aveva dedicato al dominio imperialista belga sul Congo nel “Soliloquio di Re Leopoldo6 o ad altri episodi del dominio imperialista occidentale sul resto del mondo.

Anti-imperialismo e anti-colonialismo che, al contrario di ciò che molti pensavano e tutt’ora pensano del suo populismo, lo aveva sospinto, proprio durante gli ultimi anni della sua vita, a simpatizzare per il socialismo russo. Simpatia di cui troviamo traccia proprio nelle ultime pagine dell’Autobiografia, in un messaggio che l’autore invia ad un rappresentante del socialismo russo, in esilio dopo la fallita rivoluzione del 1905, che stava percorrendo gli Stati Uniti in cerca di fondi a sostegno dei partiti rivoluzionari attivi nell’impero zarista.

Scriveva infatti a Tchaykoffsky: “Alla rivoluzione russa va la mia solidarietà, ovviamente. Non c’è bisogno di dirlo. Spero che abbia successo, e adesso che ho parlato con lei sono certo che così sarà. E’ stato tollerato più che abbastanza, secondo me, un governo che usa false promesse, menzogne, inganni e il coltello dal macellaio a beneficio di una singola famiglia di parassiti e dei suoi oziosi, maligni parenti. E si spera che il sollevamento della nazione, la cui forza cresce, presto vi metterà fine e creerà al suo posto la repubblica. Possano alcuni di noi, perfino chi ha i capelli bianchi, vivere fino a vedere il benedetto giorno in cui fra di voi ci sarà la stessa penuria di Zar e Granduchi come sono certo che ci sia in paradiso” (pp.456-457).

E affinché il militante russo non si illudesse troppo sulla democrazia americana, a fronte dell’entusiasmo dimostrato dallo stesso per una colletta di due milioni di dollari raccolta negli Stati Uniti a favore della Russia rivoluzionaria, in un dialogo riportato ancora nell’Autobiografia, Twain rispondeva: “Quei soldi non sono venuti da americani, sono venuti da ebrei; molti da ebrei ricchi, ma la gran parte da ebrei russi e polacchi dello East Side – vale a dire, dai più poveri” (pag. 455).

Del libro vanno infine sottolineate la bella traduzione e l’introduzione a cura di Salvatore Proietti, curatissime entrambe.

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twain 2Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, 2013, pp. 106, € 9,90

Mark Twain, Visite in Paradiso e istruzioni per l’aldilà, Mattioli 1885, 2014, pp.118, € 9,90

I due libricini, pubblicati nell’ambito della ristampa dell’opera integrale di Mark Twain da parte dell’editore Mattioli 1885, contengono alcuni di quegli scritti che tanto resero famoso l’autore americano presso il grande pubblico già durante la sua vita. Entrambi, però, sono frutto, come l’Autobiografia, della fase finale della vita di Samuel Langhorne Clemens. Il primo pubblicato nel 1906 e il secondo nel 1909, a sei mesi dalla morte.

Pur essendo nati come racconti destinati alla pubblicazione si rivista, i due testi possono essere letti in parallelo con la precedente autobiografia, poiché ritroviamo in essi elementi che li accomunano alla stessa. Ma questo, occorre ribadirlo, è dovuto sicuramente al fatto che, ripresa nel suo insieme, l’opera di Twain si rivela come un gigantesco work in progress in cui l’autore torna e ritorna sempre su temi ed episodi legati alla sua vita e alle sue polemiche. Come un assassino sul luogo del delitto verrebbe quasi da dire.

In particolare nel primo dei due, guarda caso un’altra “autobiografia” anche se di un cavallo, scritto contro i maltrattamenti a cui venivano sottoposti gli animali, e in particolare i tori durante le corride, riprende indirettamente un motivo drammatico della propria recente esistenza: la morte per meningite dell’amatissima figlia Susy, avvenuta mentre l’autore era in viaggio in Europa con las moglie. Tale disgrazia costituisce un motivo ricorrente dell’Autobiografia, dove alle pagine dettate da Twain si alternano brevi note tratte dal diario o dalla biografia della figlia scomparsa, mentre qui egli cesella nel personaggio immaginario della piccola Cathy, destinata a morire tragicamente, un ritratto della figlia scomparso, soprattutto attraverso i comportamenti.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche qui con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

Il toro viene sempre ucciso?
Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso.
Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte.” (pag.86)

Il breve romanzo è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani. Che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni:
Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?
Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato.” (pag.88)

Meno drammatico del precedente, il secondo testo riprende invece il tema del viaggio nell’aldilà con un afflato ironico e visionario che, soprattutto nella descrizione della corsa delle anime attraverso le galassie, ricorda ed anticipa a tratti i romanzi di fantascienza di Olaf Stapledon e le prime space opera. Anche se, ancora una volta, per Twain il motivo centrale è quello di ironizzare sulle convinzioni bigotte e ingenue di coloro che credono in un aldilà di tipo religioso. twain 3

Egli costruisce così un paradiso in cui si incrociano le caratteristiche di tutte le religioni rivelate ed anche di quelle sconosciute, provenienti magari da galassie distanti milioni di anni luce dal nostro pianeta, paragonabile per dimensioni ed importanza “ ad una cacca di mosca sulla mappa degli Stati Uniti”. Dando vita ad un sincretismo religioso cacofonico e divertentissimo, dove basta sbagliare indirizzo o porta di ingresso per non essere riconosciuti e confusi dagli angeli o dai profeti di guardia.

Un paradiso dove ad essere famosi ed importanti sono, però, gli sconosciuti, le persone qualunque: ubriaconi, baristi, piccoli artigiani. Spesso più importanti di Shakespeare e Omero oppure delle figure bibliche. E in cui la cosa più noiosa, da cui prima o poi tutti fuggono, è proprio quella di stare in contemplazione, suonando l’arpa e portando un’aureola intorno al capo.
Un Paradiso molto alla Twain quindi, dove tutto viene capovolto e destrutturato.
Un aldilà di cui l’autore, a sei mesi dalla morte, si prende ancora, irriducibilmente, gioco. Con grandissimo divertimento per chi legge.

In un contesto “fantastico” in cui, però, anche la corsa con le comete affrontata dall’anima del protagonista, il comandante Stormfield, rinvia ancora una volta alla biografia dell’autore, visto che la cometa di Halley accompagnò con il suo passaggio sia la sua nascita nel 1835 che la sua morte nel 1910.


  1. Ernest Hemingway, Verdi colline d’Africa  

  2. Elio Vittorini (a cura di), Americana, Casa Editrice Valentino Bompiani 1941, V edizione 1968, pag.246  

  3. Vita sul Mississippi, Mattioli 1885, 2006  

  4. In cerca di guai, Adelphi 1993  

  5. Autobiografia, Garzanti 1998, precedentemente edito da Neri Pozza  

  6. Mark Twain, Contro l’imperialismo (a cura di Mario Maffi), Mattioli 1885 2009  

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