Kurt Russell – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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The Hateful Height, di Quentin Tarantino – rien ne va plus https://www.carmillaonline.com/2016/02/10/the-hateful-height-di-quentin-tarantino-rien-ne-va-plus/ Tue, 09 Feb 2016 23:09:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28513 di Mauro Baldrati

Tarantino_HatefulDunque venerdì 6 febbraio decidiamo di andare al cinema. C’è Tarantino, finalmente. In tempi di siccità, di carestia, di cavallette, l’uscita del n. 8 di Quentin rischia di essere un evento. Ci sono sentimenti contrastanti comunque. Come una predisposizione negativa.

Primo problema preventivo: la sala. E’ uscito da un giorno, per cui immagino una lunga fila alla cassa, e il cinema gremito, con la peste bubbonica degli adolescenti. Non stanno mai zitti, e accendono di continuo i cellulari. A nulla serve dirglielo educatamente: l’interpellato la smette per un po’, ma [...]]]> di Mauro Baldrati

Tarantino_HatefulDunque venerdì 6 febbraio decidiamo di andare al cinema. C’è Tarantino, finalmente. In tempi di siccità, di carestia, di cavallette, l’uscita del n. 8 di Quentin rischia di essere un evento.
Ci sono sentimenti contrastanti comunque. Come una predisposizione negativa.

Primo problema preventivo: la sala. E’ uscito da un giorno, per cui immagino una lunga fila alla cassa, e il cinema gremito, con la peste bubbonica degli adolescenti. Non stanno mai zitti, e accendono di continuo i cellulari. A nulla serve dirglielo educatamente: l’interpellato la smette per un po’, ma ce ne sono altri cinqunta.

E poi il secondo, preoccupante quasi quanto il primo: il coro. Ho già verificato con assoluta certezza che quando i media si mettono a gridare al capolavoro, con un abuso imbarazzante di aggettivi superlativi, c’è qualcosa che non va. C’è sotto il trucco. E con The Hateful Eight non ci sono andati leggeri. Il film più nichilista, più politico di Tarantino. Ma com’è possibile? O è nichilista o è politico. Cinefilia allo stato puro, con almeno cinque modelli, spaghetti western a gogo, De Palma e il sommo La Cosa di Carpenter. E lo splendore del 70 millimetri, che pochissimi vedranno, non essendo le sale italiane attrezzate coi proiettori giusti. Tra l’altro qui a Bologna c’è una delle 3 sale nazionali che lo proiettano con quel formato, ma chi è riuscito a trovare i biglietti ha riferito che si vede male. E poi l’unione della politica con Hollywood, un concetto assai impegnativo, buttato li senza tanti complimenti. E infine il trailer, non so perché poco appetibile, con l’ennesimo doppiaggio di Francesco Pannofino, uno bravo, niente da dire, ma onnipresente, secondo la sindrome incurabile italiana dell’omologazione ossessiva.

Insomma, sentimenti contrastanti: Quentin, ormai sei rimasto solo tu, tutti gli altri sono morti, o vecchi, o dimenticati. Se anche tu deludi, cosa resterà? E’ una enorme responsabilità, lo so, ma sei uno degli ultimi eroi, non tirarti indietro. Soffri, per essere creativo. E’ così che deve essere. E’ dalle ferite che sgorga il coraggio. Non dal mestiere. Soffri per tutti noi.

Beh, come forse si sarà capito da questa introduzione le previsioni negative non si sono avverate. Talvolta succede. Il segreto sta anche nel non crederci veramente. Se ci credi, le chiami. E questo, dicono, vale anche per quelle positive. Se ci credi, andrà bene.

Per cui, non si sono avverate.
Almeno per quanto riguarda la sala.

Non era particolarmente affollata. Ci siamo piazzati in penultima, perché l’ultima era parzialmente occupata da coppie di mezza età, meravigseliosamente posate, e addirittura alcuni single. Tutta gente tranquilla, che non divora enormi secchi di pop corn. E il resto non era occupata solo da barbari. Studenti, magari del DAMS, ragazzi e ragazze in gamba.

Finalmente, dopo un delirio di pubblicità e trailer di film inverosimili, roba urlata istericamente che uno si chiede: ma com’è possibile che ci siano degli italiani che escono di casa per andare a vedere questa roba? il nostro film è iniziato.

E qui mi si permetta di saltare direttamente alla fine. Vale a dire non al finale, perché in realtà il film non ha finale, ma alla sintesi. Si è detto dei riferimenti cinefili a questo e a quello, ma la questione è molto più semplice. Tarantino ha rifatte Le Jene in chiave western. Certo, La Cosa viene in mente, con quella situazione asfittica di tutti contro tutti, ma il copione sembra davvero una riscrittura del suo primo film. Per dire, dopo un inizio che lo spettatore ben disposto ritiene di buon auspicio (perché in definitiva, dopo la sofferenza della pubblicità, la speranza regna sovrana e spazza via le previsioni negative), un paesaggio del Wyoming innevato, una diligenza che arranca, inseguita dalla bufera, appaiono i primi personaggi. Parte una sequenza di dialoghi serrati, di pura chimica tarantiniana, con Pannofino (Kurt Russell) che imperversa, una mitragliata di parole, domande e battute, che si protrae per un’ora a mezza, senza che accada nient’altro. Cioè, dopo qualche passaggio per sentieri innevati, la vicenda si rinchiude subito in un emporio isolato, dove arrivano anche gli altri personaggi. Sono tutti uomini a parte una donna (e una comparsa che spunta fuori verso la fine, la proprietaria dell’emporio), prigioniera di Kurt Russel, un bounty killer detto “Il Boia” che deve condurla a Red Rock, dove sarà impiccata per rapine e omicidio.

Qui Tarantino ci mette tutto il mestiere, e gli attori pure, ma Le Jene era una novità assoluta, non si era mai visto nulla di simile; oggi, 24 anni dopo, la cosa diventa abbastanza pesante. E i riferimenti dei personaggi ai loro interlocutori, la messa in dubbio continua della loro identità, il sospetto che dovrebbe serpeggiare, si perdono nella massa densa del parlato, fino a fare sprofondare lo spettatore in uno stato semi-catatonico. Quando le luci si accendono per l’intervallo ci chiediamo: Cristo, ma non sarà tutto così?

La ripresa si movimenta, per fortuna, esplode quella violenza di cui si è tanto parlato, con qualche incursione nello splatter, e lo spettatore appassionato di cinematografia nera, di horror, viene in parte risarcito. Ma quando finisce, o meglio, non finisce, resta un senso di insoddisfazione, come di inutilità, di violenza compiaciuta, una sottile linea d’ombra che Tarantino aveva sempre evitato di oltrepassare. Django era violento, ma era la violenza “santa” del bambino assetato di giustizia che punisce i cattivi senza pietà, perché il bambino è spietato, nei suoi giochi, e vede tutto nitido, bianco, nero, bene e male. Qui invece non ci sono scelte, non c’è gioco. Quando i due, gli ultimi, assistono a una impiccagione e ridono soddisfatti, nel contemplare la vita che lascia lentamente la vittima, ripresa in primo piano, non vi è alcun riscatto né politico né estetico, ma solo una forma di voyeurismo macabro.

Ma c’è un altro aspetto che lascia stupiti: la donna. In Tarantino, come nel suo amico Rodriguez, la donna è una eroina, rappresentata con toni persino fumettistici, epici, una combattente per la liberta’. Ricordiamo la donna di Kill Bill: una guerriera samurai, ammantata di sacro. Qui l’unica donna, per quanto sia una criminale, è oggetto di ogni genere di vessazione: massacrata a pugni e calci dal Boia, umiliata dallo stufato lanciato in faccia, apostrofata da tutti unicamente con gli epiteti “puttana” e “bagascia”. Non si vuole giudicare il film con criteri trinariciuti o moralisti, ma davvero sembra di assistere a una involuzione, a una caduta di stile e di contenuti.

In conclusione, mettiamo pure che i riferimenti cinefili ci siano tutti, ma in fondo chi se ne frega? Sembra di essere nell’era del vinyle, quando certi fissati ascoltavano il loro impianto stereo, e si beavano dei bassi, dell’effetto presenza, della potenza delle casse.

Ma l’impianto non era che un mezzo, uno strumento.
Era la musica che contava.
Solo la musica.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 67 https://www.carmillaonline.com/2015/02/12/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-67/ Thu, 12 Feb 2015 22:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20555 di Dziga Cacace

Sbrighiamoci, prima che torni a tutti il buonsenso! (Re Julien, Madagascar 2)

ddv6701742 – Lo spietato capolavoro Old Boy di Chan wook Park, Corea del Sud, 2005 Certo, lo so: sono come un carcerato che, al momento della liberazione, troverebbe sollievo carnale anche in una bambola di plastica dura, quella coi bordi taglienti. Però, oh, ve lo giuro: questo Old Boy è un capolavoro, un film di rara bellezza e intensità. E ha tutto per farmi bene oggi che il cinismo televisivo è ormai diventato un mio sinistro tratto costitutivo accompagnato alla spocchia di chi non vuole misurarsi [...]]]> di Dziga Cacace

Sbrighiamoci, prima che torni a tutti il buonsenso! (Re Julien, Madagascar 2)

ddv6701742 – Lo spietato capolavoro Old Boy di Chan wook Park, Corea del Sud, 2005
Certo, lo so: sono come un carcerato che, al momento della liberazione, troverebbe sollievo carnale anche in una bambola di plastica dura, quella coi bordi taglienti. Però, oh, ve lo giuro: questo Old Boy è un capolavoro, un film di rara bellezza e intensità. E ha tutto per farmi bene oggi che il cinismo televisivo è ormai diventato un mio sinistro tratto costitutivo accompagnato alla spocchia di chi non vuole misurarsi con l’ignoto per paura di non capire. Questo è un masterpiece assoluto in salsa agrodolce. Dunque (e occhio agli spoiler, coreanamente agliati): Oh-Dae-Soo è un poveretto con un diavolo per capello, una sorta di Brancaleone incazzato come una pantera per aver passato 15 anni di prigionia in un appartamento, senza sapere per quale motivo meritasse la pena e chi lo avesse costretto lì dentro. La tortura atroce però non è stata solo la reclusione ma proprio il dubbio: la classica frase “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”. E quando il protagonista si trova all’improvviso libero, il suo unico pensiero è capire il perché e il per come. E vi ho già detto troppo. Film grandioso e agghiacciante, pieno di idee e violentissimo, ma di una violenza psicologica terribile, fuori scena, che non ti serve chiudere gli occhi: fa male lo stesso. Girato benissimo, fotografato da dio con gelida rarefazione cromatica, recitato e montato meglio, Old Boy ti spiazza e ti spezza con continui cambi di registro, in un vortice senza fondo. Eccezionale, insomma, anche al netto della mia difficoltà coi nomi coreani: ad un certo punto ho rimpianto i film dei tempi dell’autarchia, quando i protagonisti dei film stranieri avevano sempre nomi tradotti in italiano e tutto era molto più semplice (anche se un coreano di nome Rodolfo o Gioacchino farebbe strano, eh?). (Dvd; 29/4/09)

Pinocchio743 – Il truffaldino Pinocchio yankee, di Hamilton Luske e Ben Sharpsteen, USA 1940
Sofia rimane abbastanza indifferente alla favolona, io mi diverto amaramente a notare l’adattamento disneyano che ha regalato al mondo un Collodi completamente stravolto: rivoglio Mastro Ciliegia! Il disegno è splendido per ricchezza di dettaglio, morbidezza di tratto e cura del colore, ma gli sfondi testimoniano un’aberrante congiura semplificatoria, tipicamente yankee: l’architettura è completamente incoerente e predomina un inedito stile alpino-alsaziano remixato con un gonfio neocoloniale messicano. Passando ai personaggi molto zuccherosi, la fatina – possibile CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, Cacace) per le mie fantasie malate – non mi attizza per niente: sarà il ricordo dell’agghiacciante Lollobrigida col capello bluastro nel Pinocchio televisivo di Comencini (sceneggiato che puzzava di povertà da ogni dove, ma era bello proprio per quel motivo) o perché qui è una slavata biondina che parla come una mentecatta e perdona sempre Pinocchio, tanto che il burattino ci ricasca ogni volta. Chissà se da Burbank han mai pagato qualche diritto agli eredi di Collodi: più che altro meriterebbero i danni, visto lo scempio subito dal libro. Considerato uno dei grandi capolavori Disney, in realtà è uno dei meno memorabili e dei più colpevoli. Ma non ho la forza per arrabbiarmi ulteriormente, dài. (Dvd; 16/5/09)

ddv6703744 – L’eccitante La bella addormentata nel bosco di Clyde Geronimi, USA 1959
Cinemascope grandioso, sfondi e architetture disegnati perfettamente e tratto spigoloso un po’ Fifties. Film molto carino, se si pensa che la vicenda è una fiaba da tre minuti tre di racconto. Sofia è ammaliata e non la spaventa la cattiveria della fata malvagia. Bene: dopo il composto pensierino da persona seria, il doveroso commento da vecchio porco: la principessa Aurora è finalmente una CILF (vedi pensierini sopra) niente niente male. Se le metti addosso un body rosso hai una perfetta popputa bagnina di Baywatch, dallo sguardo finto-virginale un po’ assente. Ma non deve essere neanche una brutta chiavata la strega Malefica, bicornuta, molto Suicide Girl ante litteram e con dei poteri magici che potrebbero garantire inediti fuochi d’artificio. Vabbeh, basta. Ah, no: ma cosa cazzo è un fuso? E un arcolaio?! Me lo chiede Sofia e non so rispondere, da sempre! (Dvd; 22/5/09)

ddv6704745 – Ancora strepitoso, E.R. Anno 7 di Michael Crichton, USA 2000/2001
La vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo. Sarà la lontananza di oltre due mesi da un seriale tivù, ma questo mi sembra molto movimentato e adrenalinico. È evidente che gli sceneggiatori stiano concertando un diluvio emozionale inesorabile e ogni puntata ha un bel crescendo e diversi colpi di scena, sia drammatici che d’azione. Prendo ad esempio la numero 7, Rescue Me (e fate finta di conoscere il cast. Anzi, no: vi do due ragguagli ogni volta): Elizabeth (inglese, chirurgo, fidanzata di Benton) scopre di aspettare un bimbo e viene denunciata per negligenza in sala operatoria; Mark (Ciccio, il capo del pronto soccorso) accerta la presenza di un tumore nella sua testa; Jing-Mei (tirocinante) affronta la madre tradizionalista che non sa che è incinta, di un nero oltre tutto; Benton (chirurgo, nero, tormentato) ha casini a non finire col lavoro, la fidanzata e la sua situazione familiare. Abby (infermiera) non riesce a liberarsi della madre bipolare ma continua il suo avvicinamento a Kovac (nuovo pediatra dell’ER), che ha appena scazzato con Carter (ricco e democratico) che deve stare attento a non drogarsi di nuovo… Ritmo tesissimo, dramma ai massimi livelli. I nuovi personaggi sono ormai ben ambientati e non c’è la sensazione che si stia prendendo tempo: le storie sono fluide e mettono alla prova i nervi e le ghiandole lacrimali spesso e volentieri. Non posso dire perché, perché già lo saprete essendo io impostato su un fuso orario indietro di dieci anni, ma questa è la penultima serie che vedo. Dopo non avrà più senso e sto già soffrendo. (Dvd; giugno e luglio 2009)

ddv6705746 – Il dionisiaco Madagascar 2 di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2008
Secondo episodio decisamente migliore del primo (già godibile, alla fin fine), con i quattro amici (leone, zebra, giraffa e ippopotama scappati dallo zoo di New York) finiti nella savana africana. La trama continua a essere semplice e leggibile, ma crescono esponenzialmente le caratterizzazioni, specialmente quelle dei personaggi secondari, e le gag funzionano. C’è uno straordinario villain, il leone Makunga, dotato di una mimica facciale incredibile come il suo avversario, il poderoso felino “alfa” Zuba; ma esaltano anche i quattro pinguini in missione impossibile, la vecchietta nemesi newyorchese di Alex (il leone del quartetto) e soprattutto quel grandioso inno all’imbecillità che è Re Julien, un lemure felicemente ambiguo e sessualmente lascivo, carogna e se possibile dedito alla crapula. L’animazione è di gran livello e i primi 20 minuti sono da antologia, come sintesi di racconto e ritmo indiavolato. Mentre il primo Madagascar cresce alla distanza, questo prende subito e c’è da augurarsi un terzo capitolo. A tanto son ridotto (29 giugno, Sofia: “Speriamo che stanotte dormi papà, eh… però mi sa di no, sai?”). (Dvd; giugno 2009)

ddv6706Il Grande Passo Falso 2009
Anticipare le vacanze assieme a una coppia di amici ci era sembrata una buona idea: rifugiarci in un villaggio evitando il caos e la calura d’agosto e dedicarci allo svacco più atroce, senza doversi preoccupare troppo dei bambini. Solo che abbiamo sbagliato tutto perché siamo finiti in una di quelle centrali concentrazionarie del divertimento che David Foster Wallace mi fa un baffo, anche se non saprò raccontarvela come lui.
Il luogo del delitto è il famoso Tanka Village, un resort oceanico vicino a Villasimius, nel sud della Sardegna. Non proprio a buon mercato ma provvisto di ogni comfort, ristoranti, teatro con musical (wow), anfiteatro con concerti, baby dance e altro ancora. Oh, del resto: lavoro, guadagno, spendo, pretendo.
E così ci ritroviamo immersi fino al collo nella fanga dell’Italia berlusconiana – di cui il nano è profeta massimo, ispiratore e perfetto faccia da cesso specchio riflesso – tra mandrie di villeggianti che immagini indebitati fino al collo per concedersi questa settimana di esibizione reciproca, dove ci si veste, trucca e parla come Simona Ventura e Costantino Vitaliano. Tutti giovani forever, ancora ragazzi a cinquant’anni, adulti mai: catenazze, collane, ori, argenti e mirre, pietre preziose, braccialetti, tatuaggi, orologi con quadranti grotteschi, vestiti a colori acidi, lamé e strappi ad arte, marchi, firme ed etichette, a coprire e scoprire pance che debordano, ombelichi su ventri rugosi, tette che crollano come l’Aquila e pelli istericamente abbronzate. Uomini e donne esibiscono le mutande fuori dai calzoni, unghie curatissime con la perizia di un amanuense e calzature che neanche Caligola nei periodi di minore lucidità: gli stivali in pelle (con 32° di temperatura media), però infradito. Giuro.
Mi sento il Numero 6 de Il prigioniero. Non capisco nulla.
Siamo abbacinati e sconvolti. Tolta l’oretta tardo pomeridiana jazz di tre scappati di casa che ascolto solo io, unico nel resort, non riusciamo a godere di nessuno dei benefit – snob del cazzo che non siamo altro – in imbarazzo costante con la t-shirt nera dei Deep Purple in mezzo a gente firmata Dolce e Gabbana. Per un volatile sollievo rimane l’edicola del villaggio, dove però trovi poca roba e ti devi accontentare di stampa sovversiva come Repubblica o il Corriere. A leggere cosa scrivono Pigi Battista o Ezio Mauro ti crollano i coglioni (questi orchestrano il dibattito politico nazionale con la credibilità di un Alvaro Vitali direttore di Segnocinema) e aumenta il nervoso. Guadagno quotidianamente le mie copie in mezzo a trogloditi che si fanno la mazzetta con Libero, Il Giornale, Chi, Visto, Novella 3000 e Di Più. Di più non so di cosa. Noto anche l’eccentrica con gutturale accento nordestino che chiede “il giornale di puszl, grazie”.
E poi siamo in coda, sempre in coda, sempre superati in coda, a pranzo e cena, guardando tonnellate di cibo buttato via. E per una Sofia che si diverte frequentando il kindergarten, c’è un’Elena che si rifiuta di farci dormire, rendendoci degli irritabili zombie catatonici: siamo giunti pressoché DOA, rischiamo di ripartire OPD. Nel caldo venezolano realizziamo che dopo una vacanza così servirebbe un’altra vacanza per riprendersi. Magari anche un po’ d’ufficio farebbe bene. Sicuramente un consulto psichiatrico.
Tento di movimentare la villeggiatura facendo uno scherzo al fraterno amico Ric, compagno di sventura. E’ fresco e vanitoso proprietario di una macchina insensatamente voluminosa e lo stuzzico lasciandogli sul parabrezza un biglietto: “La sua auto è grossa e me ne compiaccio, ma la mia lo è di più. Firmato l’inquilino della 256”. Me ne dimentico, sinché non mi viene a bussare alla camera la sera dopo. Apro la porta della stanza, lo vedo tutto rosso in volto, penso che mi abbia sgamato e invece lo sento dire: “Adesso vieni con me che devo spaccare la faccia al deficiente della stanza 256”. Siamo ridotti così, come dei miserabili, contagiati dall’aggressività consumistica del contesto.
ddv6707Le poche volte che mi avventuro in spiaggia sono vicino di sdraio di Mimmo Criscito (terzino del Genoa dall’italiano prealfabetico), del musicista Mario Lavezzi (ex Camaleonti e Flora Fauna Cemento, che importuno con un progetto strampalato di intervista che poi lascio perdere), del telecronista Mediaset Bruno Longhi (già bassista anche lui nei Flora Fauna Cemento, figuriamoci se non gli rompo le balle) e infine di Alessandra Mussolini, colpo di grazia che mi fa desistere da ulteriori frequentazioni del bagnasciuga (Mussolini, bagnasciuga… com’era la faccenda? Ah, che ci han fatto un culo come un rosone. Per fortuna).
Barbara riparte col demonietto in aereo e io ritorno in macchina percorrendo la Sardegna con Sofia e quasi per espiare mi fermo, nel sole di un primo pomeriggio, a Ghilarza, luogo gramsciano per eccellenza. Ci sono 42 gradi secchi, è tutto chiuso e non so cosa visitare. Che senso ha? Vedo una grande foto di Gramsci. Mi guarda severo, forse è un’allucinazione climatica. Sembra che muova le labbra. Sì, lo fa. Dice “Coglione”. (Luglio 2009)

ddv6708747 – Si può fare di Giulio Manfredonia, Italia 2008 e un delinquenziale Abel Ferrara
Si può fare è una buona commedia drammatica, popolare, come se ne facevano una volta, che tratta di disagio mentale senza essere farlocca o facilona. Poi, certo, c’è qualche cedimento alla retorica e alla lacrimuzza (nel finale) e più di una volta senti l’assonanza di troppo con Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma, ripeto, è un film onesto, non banale, che spazia da Basaglia a Forman, e in controluce ci parla anche di tradimento degli ideali e adattamento alla società “fredda” dopo il calore della contestazione giovanile. Insomma, tocco leggero e attento nell’affrontare un tema invece pesante, con qualche scena molto intensa (la scelta dei “nuovi” matti da portare in una cooperativa, liberandoli dall’istituto di cura) e altre molto divertenti (il sesso in gita aziendale, la stella a 5 punte “vista sui muri” e riprodotta senza intenzione). Claudio Bisio è in forma e il cast di facce azzeccate è ben diretto. Ritmo sostenuto, bel copione, fotografia discreta, musica divertente (i genovesi Pivio e De Scalzi blueseggianti e balcanici: un po’ alla cazzo, ma fan sempre piacere). Insomma: un buon piccolo film. A differenza di quello che ho visto venerdì 17 luglio, quando ho sopportato assieme a mio padre mezz’ora di Go Go Tales di Abel Ferrara, prodottino semplicemente allucinante. Certo, è ingiusto valutare dopo pochi minuti, ma sono mica la Cassazione, io. E come posso descrivervi il senso di dislocamento spazio-temporale di fronte al doppiaggio, la recitazione, le situazioni messe in scena, le facce da cazzo assortite e la totale mancanza di senso di questo film (se non aver raggirato un produttore che ha messo il grano perché Ferrara passasse qualche mese a Roma, tra alcol, polveri e baldracche)? Detto ciò, Abel viene sempre perdonato, avendoci regalato Il cattivo tenente e la slinguazzata tra Asia Argento e un rottweiler. (Dvd; 18/7/09)

ddv6709748 – Grindhouse – Death Proof, una defecatio post mortem di Quentin Tarantino, USA 2007
Che Tarantino fosse pericoloso, era noto. Perché è il brillantone che può anche imbroccare la serata storta e sfinirti di cazzate ed è quello che accade con questo film insensato, omaggio/parodia/calco dell’exploitation anni Settanta, talmente calligrafico e imitativo da risultare una fetecchia esattamente come le opere (…) che vuole omaggiare. A prova di morte è pervaso da quell’atmosfera malata che trovavamo in quelle cagate con regia e storie completamente scrause che solo le tivù private della nostra infanzia compravano e avevano il coraggio di mandare in onda. In più metteteci decine di citazioni incrociate di film propri e di amici, di slasher sconosciuti ai più, di poliziotteschi italiani e di film brutti e basta, in un frullatore dove non capisci più questo darsi di gomito col vicino rimbambito pure lui. Insomma, rimani stordito da questa messe immane di vaccate, ma il problema vero – alla fine – è nella lunghezza del film, nella pressoché totale mancanza di azione (a parte due scene) e nei dialoghi senza qualità, eterni ed esiziali. Quentin ha dichiarato: ho voluto celebrare le donne e le loro chiacchiere. Sarebbe da denuncia, ed esistessero ancora quei bei gruppi di femministe incazzate ne verrebbe fuori proprio una scena tarantiniana, con le scalmanate che se lo vogliono evirare. La confezione è d’altro canto divertente: si parte con titoli seventies bellissimi e si prosegue con programmatici errori di continuità, bloopers clamorosi, scavalcamenti di campo, salti di pellicola e di audio, giunte sporche tra i rulli, impronte, righe e spuntinature. La musica come sempre va a segno e anche la fotografia satura è notevole. Però, se in Kill Bill la voglia di giocare era assecondata da invenzioni narrative continue, qui no e ho presto realizzato che Quentin mi stava lentamente sodomizzando, me consenziente. A prova di morte dura due ore, sembrano sei e non ne meriterebbe mezza… solo gli ultimi 20 minuti hanno un po’ di consistenza (cioè pura e semplice ottusa azione). Se volete, il finale è anche divertente, però il film rimane una merdaccia, di una bruttezza e di una inconcludenza da non crederci. Grande il perfido Kurt Russell, deludente Rosario Dawson che sembra un pugile dopo 8 round, c’è pure un cameo di Tarantino, con una faccia che, se lo vedeva Lombroso, gli faceva comminare un ergastolo per direttissima. (Dvd; 20/7/09)

ddv6710749 – L’incredibile Azur e Asmar di Michel Ocelot, Francia 2007
Fiaba splendida, messa in scena con perizia cromatica inarrivabile. Si è investiti da geometrie e composizioni abbacinanti, mentre si racconta la vicenda di due fratelli uniti dalla vita e separati dal censo, dalla razza e dalla religione. Uno bianco, ricco e con gli occhi azzurri, l’altro arabo, crespo e che – dopo un’infanzia povera – è diventato un altero principe. Avventure a non finire, morale all’insegna della tolleranza reciproca, scoperte continue e un piacevole senso di serenità, avvolti dagli sfondi e dalle architetture sontuose. Nonostante ogni tanto pensassi al videogioco Prince of Persia, visivamente Azur e Asmar è eccezionale. Il messaggio conciliante e la speranza di dialogo tra Occidente e Oriente, riportano purtroppo alla natura fiabesca del racconto. (Dvd; 27/7/09)

ddv6711750 – Un bel colpo (secco): Slap Shot di George Roy Hill, USA 1977
La squadra di hockey va male, la fabbrica cittadina sta chiudendo e presto saranno tutti a spasso: operai e giocatori. Il coach che va ancora in campo, Reggie Dunlop, deve farsi venire qualche idea, anche perché come hockeista è ormai passé mentre come allenatore, con questi risultati, non se lo piglierebbe nessuno. E comincia a giocare sporco, ma mica come la Juve, no, niente Moggi: lui fa soffiate false alla stampa, irride gli avversari, usa ogni trucco a disposizione per creare spaesamento nel nemico ed entusiasmo nella sua squadra, demotivata e zeppa di cialtroni. E riesce nel miracolo, anche grazie all’arrivo nel team dei tre fratelli Hanson, che sembrano sfigati come Joey Ramone ma sul ghiaccio menano di brutto come Johnny con la sua Mosrite. E così i Chiefs di Charlestown cominciano a vincere, trascinano il pubblico, diventano consapevoli di risorse fino a quel momento nascoste, fino a un finale folle e veramente inaspettato. In mezzo ci sono incomprensioni linguistiche, fidanzate e mogli disperate, gelosie professionali e allenamenti a sollevare birre. Reggie ha la faccia furbetta di Paul Newman e alla regia c’è quella vecchia volpe di Roy Hill. Un po’ Stangata, un po’ Butch Cassidy, Colpo secco è un film solido, divertente e arguto, magnifico esemplare di quel cinema anni Settanta bello robusto. (Ri)Visto perché più volte citato dai Wu Ming come loro cult. Come dargli torto? (Dvd; 31/7/09)

ddv6712751 – Poesia: Wall E di Andrew Stanton, USA 2008
Riportando tutto a casa, tra 700 anni: una pianticella in mezzo alla rumenta, i nuovi primi passi dell’umanità. Pura poesia, digitale e umanissima, con una prima mezz’ora che è il cinema all’ennesima potenza, con protagonista un robottino sfigato in mezzo alla devastazione del pianeta. Incredibile. Come sempre, alla Pixar, spira la brezza del genio. Poi la vicenda diventa più ordinaria e fanciullesca, con la consueta corsa contro il tempo etc. etc. Però siamo sempre dalla parte del capolavoro, come caratterizzazione dei personaggi, tocco leggero, invenzioni. Sofia ha visto senza problemi la parte iniziale, muta (siamo noi adulti ad avere paura della mancanza di dialoghi. Anzi, siete voi!). Qualche apprensione normale per i suoi 4 anni nel concitato prosieguo. Significa che dovremo rivederlo. Spero presto. (Dvd; 5/8/09)

ddv6713752 – L’imbarazzante 24 – Stagione Sei di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2007
(Attenzione: spoiler a go-go). La sesta serie di 24 parte nel peggiore dei modi: nessuna plausibilità, tutto drammatizzato senza ritegno e senza equilibrio. Dopo che alla fine della splendida serie precedente Jack Bauer era stato sacrificato alla ragion di stato e consegnato ai perfidi cinesi, ecco che qui basta una telefonata del presidente (il fratello di David Palmer, il Kennedy nero) per farselo rendere. Barbuto, zozzo, tumefatto e ammutolito. Arriva che il cielo è ancora nero (le 6 e 13 di L.A.) e dopo 15 minuti c’è un sole che spacca le pietre e lui è sbarbato, pettinato, probabilmente profumato e pure con una manicure invidiabile. E sapete perché se lo son ripreso gli americani? Per darlo in mano a un terrorista islamico assetato di vendetta che in cambio rivelerà dove trovare il responsabile degli attentati che stanno mettendo sotto assedio gli USA. Ovviamente Bauer accetta (non fiata, obbedisce e va mestamente al macello; 20 mesi in mano ai cinesi devono averlo rincorbellito non poco… e non solo: c’è il consueto imperativo morale ricattatorio, l’higher good, il bene superiore, davanti al quale ogni considerazione etica va a farsi benedire, fino all’autosacrificio. Di questo ne riparliamo più avanti) ma ovviamente la faccenda non finisce qui. Come detto, il primo episodio fa abbastanza schifo. Il ritmo c’è e l’azione pure, ma manca la sospensione d’incredulità che ci ha tirati scemi per anni. Stavolta il miracolo non accade. E da qui in poi è un crescendo. Pretendere verosimiglianza sarebbe assurdo, è chiaro (tra l’altro verosimiglianza con cosa?). Ma questo non è più un thriller, è fantascienza. Al quarto episodio viene data l’immunità a un terrorista efferato, Jack Bauer fa secco un commilitone per difendere il succitato cattivone e poi c’è un bello champignon atomico sulla città degli angeli. Insomma, di questo passo arriveremo alla fine della serie con: lo scioglimento della calotta polare in poche ore, l’arrivo del Messia in Israele (quello vero, a questo punto), l’atterraggio degli UFO e la scoperta dei responsabili di Ustica… (nah!, così sarebbe troppo). Però non ci risparmiamo la consueta cagnara in un consolato straniero, una tragedia familiare shakespeariana, i terroristi che sono una masnada di montanari coglioni, il gusto – tra il menagramo e l’apotropaico – nel far vedere cosa potrebbe accadere (se non ci difendessimo a ogni costo) alla Land of the Free, la classica cospirazioncina bombastica interna alla White House e i “veri” patrioti che per amor della Nazione fan nuclearizzare il loro paese, così poi si può rispondere al fuoco, per Dio. Siccome vedere 24 è come fumare crack, rimaniamo scimmiati dalla serie anche stavolta e, va da sé, il divertimento c’è. Eccome, ma l’equilibrio perfetto (e subdolo) di altre edizioni s’è perso. Crediamo per sempre, perché ormai o si esagera ancor di più o sembra tutto all’acqua di rose. Il problema più grosso, ad ogni modo, è che l’inganno di 24 è diventato sempre più scoperto, non c’è più alcuna reputazione “democratica” da difendere: Jack Bauer, pentendosene sempre dopo e magari anche affrontandone le conseguenze (con lacrime coccodrillesche), travalica ogni volta i limiti: la tortura non è un metodo – aberrante e inumano a cui, Dio non voglia!, siamo stati costretti a ricorrere -, è il metodo e dagli e ridagli, per quanto forti siano le tue difese intellettuali, ti abitui a considerarla una brutta cosa che qualcuno deve pur fare per salvare il culo a tutti. Questa serie in particolare è scopertamente assolutoria e, se vogliamo, paradossalmente anche meno insincera del solito: tutti i politicanti ambigui, alla fine, fanno le scelte giuste per la Patria. E in fondo, a parte qualche arabo puzzone e qualche cinese infido, non ci sono veri cattivi. Per cui, sì, dopo anni, devo ammetterlo: 24 è una serie clamorosa, molto entertaining, molto destrorsa, decisamente bushiana. Mi verrebbe da dire che, no!, io so resistere e so godere solo del lato ludico. Ma poi la notte un po’ ci penso e ho i complessi di colpa. (Dvd; settembre e ottobre 2009)

ddv6714753 – Altro giro, altro capolavoro: Mr. Vendetta di Chan wook Park, Corea del Sud, 2004
Evidentemente questo regista è un genio. Qui c’è tutto quello che voglio da un film, oggi. Ho 40 anni, sono un ordinario rimbambito italiano, dormo poco o niente da un anno e mezzo e sono ancora lontano dal riprendermi. Ma soprattutto nella mia vita ho ingurgitato tonnellate di pellicola e ascoltato migliaia di storie. Per divertirmi, per pensare, perché ne valga la pena insomma, ho bisogno di una vicenda originale, che mi sorprenda e che mi appaghi. Sono come quella puzzona della signora in giallo con Ambrogio, quella col languorino, per capirci. Oh: lo so che non è facile, ma per godere devo trovare soluzioni espressive inedite. Un’estetica diversa, che mi stupisca e che mi faccia dire: a questo non ci aveva ancora pensato nessuno. Tanto meno io, te capì? E questo Park è grandioso: qui non c’è nulla di risaputo. Sembra tutto fresco, diverso. Dico “sembra” perché la distanza occidentale e la mia abissale ignoranza del cinema dell’est asiatico probabilmente ingigantiscono il sapore di novità, ma qui mi esaltano i volti, le ellissi narrative, le scelte fotografiche, gli snodi imprevisti. Questo è un film bello da vedere, tanto che potrebbe essere anche muto, ed è quasi perfetto perché Old Boy porterà al livello estremo le premesse di Mr. Vendetta. Riassunti non ve ne faccio, ma uno spoilerino insignificante sì: dopo trapianti senza anestesia, autopsie, torture con gli elettrodi, suicidi, annegamenti e colpi di mannaia o di mazza da baseball, alla fine trionfa la giustizia rivoluzionaria. E se un film così lo fa un coreano del sud, chissà che bocconcini ci riservano quei buontemponi del nord schienati dal cinefilo Kim Jong Il, eh. (Dvd; 11/10/09)

ddv6715754 – E ho pianto: Up! di Pete Docter e Bob Peterson, USA 2009
Interrompo il mio digiuno cinematografico in sala che dura da ben 515 giorni (per un film visto parzialmente, perché se dobbiamo a risalire a un film intero, i giorni di astinenza sono 679. Interessantissimo, no? La parola magica è: “figli”) e vado con Sofia a testare questo nuovo Pixar di cui si dicono mirabilie. E in effetti Up! è un film straordinario, un Frank Capra del nuovo secolo. Io piangevo di nascosto, tirando su col naso e mordendomi l’interno delle guance, e Sofia mi chiedeva preoccupata se stessi male. E piangevo dopo neanche dieci minuti (in cui si racconta con intensità impressionante la vita di una coppia), perché questi artisti geniali della Pixar hanno saputo costruire un inno all’avventura, all’amore e alla fedeltà alle idee seguendo i percorsi meno battuti e prevedibili. Il protagonista è un simil Spencer Tracy, molto incazzato coll’orbe terracqueo intero, sdentato e catarroso, talmente legato al vecchio mondo che grida (con la voce di Arnoldo Foà: 94 anni e non sentirli) “tagliati i capelli, hippie!” a uno yuppie. Si accompagna a un bimbo petulante, che conosce il mondo solo attraverso esperienze vicarie (dai libri ai videogiochi). Assieme scopriranno tante cose che, se le elencassi, il film sembrerebbe una stronzata. E invece è l’ennesimo capolavoro che ci dice che si può diventare adulti e rimanere bambini e liberarsi di tutto, anche delle cose che ci sembrano irrinunciabili, per volare di nuovo. Discutendo con amici, c’è chi individua nella moglie rimpianta la zavorra che legava il protagonista. Ma il problema è loro, non mio, e del resto le recensioni sono esercizi d’autoanalisi su sogni di celluloide condivisi. In sala c’erano pochi spettatori, nessun bambino e qualche liceale che viene al cinema per chiacchierare. Ah: il 3D, questo 3D, è pazzesco. (Cinema Gloria, Milano; 19/11/09)

(Continua – 67)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 52 https://www.carmillaonline.com/2013/09/06/ddv52/ Thu, 05 Sep 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8887 di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981 La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni [...]]]> di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981
La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni imperanti modelli produttivi risulta felicemente povero di mezzi ma ricco di idee, come quella beffarda e geniale della Manhattan ridotta a un carcere. E l’aereo dirottato che ci finisce schiantato è… beh, diciamo un’intuizione criminale azzeccata, anche se dubito che Osama Bin sia un appassionato di Carpenter, regista anarchico, mai banalmente qualunquista, sempre attento a ricordarci che il Potere è marcio, corrotto, violento e senza alcuna pietà nei confronti dei misfits che lo combattono. L’edizione in Dvd regala un veloce ma interessante documentario che ripercorre le tappe produttive del piccolo gioiello, nato da una sceneggiatura dei tempi dell’università, pensata – guarda il caso – per Clint Eastwood. Cast spettacolare che include anche Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton e Isaac Hayes (e subito sentiamo tutti il chugga chugga del wah wah di Shaft). Rivisto durante gli anni del liceo (sicuramente in seconda, probabilmente anche più avanti e mai più dal 1995 in poi), lo vidi la prima volta all’Instabile di Genova nell’estate del 1982, con la mia amica Roberta. M’era piaciuto moltissimo: avevo già ragione. Carpenter promise che MAI avrebbe realizzato un sequel. Mentiva. (Dvd; 23/1/05)

ddv5202513 – La febbre del sabato sera sedata da Pasazerka di Andrzej Munk, Polonia 1963
Il mio sabato ideale: a casa, con un capolavoro polacco, in lingua originale. Barbara recalcitra e m’impongo poco democraticamente, tirando fuori anche la Giornata della memoria e il dovere civile di vedere un film in tema. Cede e ci vediamo l’incompiuto La passeggera del regista Munk, morto in un incidente d’auto prima di aver ultimato il montaggio. Dopoguerra pacificato. Lisa, che è stata guardia ad Auschwitz, è in crociera e le sembra che una delle passeggere sia Marta, una ragazza ebrea con cui aveva instaurato un tremendo rapporto di potere durante la prigionia. Racconta al marito, edulcorando la vicenda e mascherando la sua meschinità con la compassione. Un film eccezionale, forse anche aiutato dalla sua incompletezza che rende scarni ed essenziali i momenti ambientati al presente (narrati da una voce fuori campo su foto delle scene). Il lager come universo concentrazionario dove è annullata ogni umanità e un biglietto, uno sguardo, una carezza, diventano gesti per cui vale la pena di rischiare la vita. L’orrore della dignità calpestata continuamente, l’illusione degli aguzzini di essere assolti dalla loro cattiveria concedendo avarissimi scampoli di carità, sottomessi sempre all’opportunismo. Munk sceglia una strada difficile: l’incerto tormento personale di Lisa, l’indifferenza di fronte all’immane tragedia e la ricerca di una complicità con una prigioniera per sentirsi meno colpevole. Splendido. In nottata, tra l’altro, Fuori Orario l’ha riproposto, facendolo precedere dal toccante Notte e nebbia di Alain Resnais, visto anni fa e rivisto, impietrito e insonne, non appena ci son capitato su, scanalando. Agghiacciante e dolorosamente necessario. (Vhs da RaiTre; 29/1/05)

ddv5203514 – L’horror de paura Ju-On The Grudge di Shimizu Takashi, Giappone 2003
Nipponata orrorifica dove l’oggettiva impossibilità di distinguere i personaggi rende trama e comprensione oltremodo difficoltosi. Ma non c’è molto da girarci attorno: una casa infestata da bimbo, madre e gatto nero, vittime in passato di un capofamiglia sanguinario. Chi frequenta la casa ha le visioni e prima o poi viene risucchiato in soffitta. Perché The Grudge è piaciuto, tanto da diventare un cult e autorizzarne un rifacimento hollywoodiano? Boh! Direi perché ormai qualunque cosa presenti qualche vago motivo d’interesse diventa allora un’opera d’arte da elevare sopra lo squallore generale. E The Grudge un vago motivo d’interesse lo ha nel fare una paura del diavolo, al di là della farraginosità assolutamente non necessaria e nonostante la staticità narrativa, poco aiutata dall’espressività da bassorilievo di alcuni attori. La scommessa, in questi horror metafisici e metà stronzate, è trovare un modo per farci accapponare la pelle e se da ogni angolo spunta e poi scompare il pallidissimo bimbo Toshyo, beh, lo spaghetto viene eccome. Peggio ancora quando ti appare la madre che rantola come un radiatore rotto e ha capelli degni di Tina Turner metà anni Ottanta. Nella totale indifferenza della trama, mi son goduto un’oretta e mezza di fifa blu. Per cui ve lo consiglio? Mah! Vi lascio nel dubbio: non vi devo niente, io. Dvd affittato dal Blockbuster di Papiniano: sfornito, con commessi da freakshow che non sanno che lavoro fanno e ti mettono in coda per ore. Ah, domenica Prodi è stato intervistato dalla Dandini: per la gioia del Nano, sotto una funerea luce da confessionale il Professore ha risposto disastrosamente alle domande della dentona. Ci meritiamo tutto. (Dvd; 3/2/05)

ddv5204515 – La puzzonata The Peacemaker di Mimi Leder, USA 1997
Il classico film fracassone e ottuso del venerdì sera di Italia1: un richiamo troppo perverso per rinunciarvi. Stavolta tocca a The Peacemaker, film d’azione molto stereotipato, povero di psicologie e, più in generale, di idee che lo distinguano all’interno del genere. Mentre la guerra in Bosnia va concludendosi portando seco un pericoloso carico di vendetta, un’esplosione atomica (!) insospettisce il fisico nucleare Julia Kelly (Kidman), ingenuotta primina della classe. Le affiancano il gaglioffo e non cristallino Thomas Devoe (Clooney), che, da tenente colonnello dei servizi segreti, sa bene come funzionano le cose nel disintegrando ex impero sovietico. La strana coppia è litigarella, ma finirà coll’amarsi (la cosa è intuibile fin dal manifesto del film), ma la regia mette da parte ogni smanceria e va dritta al sodo, con inseguimenti, botti e decisioni fatali dei soldati americani, pronti a sacrificarsi per il bene mondiale. In questa messa in scena muscolare di una regista che vuol far vedere che ha due coglioni di titanio, si salva solo una battuta profetica: di fronte al pakistano cattivo che ha studiato ad Harvard, Clooney chiosa: “Eh già, li abbiamo istruiti quasi tutti noi, i terroristi!”. Se c’è un motivo d’interesse in The Peacemaker è nella compresenza di due attori che da lì a breve sarebbero diventati star a tempo pieno. Nicole Kidman, non ancora sfigurata dalla chirurgia estetica tanto da sembrare oggi la gemella di Eva Grimaldi, pare una ragazzina, con occhi azzurrissimi e capelli rossicci. È di ieri la dichiarazione dello stilista Karl Lagerfeld che ha definito il suo corpo “bizzarro” (è una dichiarazione ripresa da tutte le agenzie di stampa e probabilmente propagata da quello dell’attrice stessa). In effetti ha gambe da fenicottero, sederone e tronco magrissimo e quando corre sembra una papera. Clooney, invecchiando, ha invece guadagnato charme e qui è ancora tutto adrenalina, anche se lo sguardo da giuggiolone promette già quella simpatia sorniona che lo fa amare da donne e uomini. Film molto lungo, non particolarmente ispirato, ma infettivo: visto il primo quarto d’ora, diventa difficile mollarlo. (Diretta tv su Italia1; 4/2/05)

ddv5205516 – Un piccolo capolavoro, Mad Max 2 di George Miller, Australia 1981
Prima di interpretare un poliziotto isterico e spericolato (i vari Arma letale) e prima di dirigere un horror con protagonista Gesù Cristo, il reazionario Mel Gibson è stato un ribelle ricoperto di cuoio che sfrecciava sulla terra devastata dai conflitti nucleari. Unico obbiettivo, procurarsi la prossima tanica di benzina. Era l’ossessione degli anni Settanta (dopo la crisi petrolifera) e oggi ce ne siamo dimenticati: per risolvere facciamo ogni tanto una guerra a chi possiede il petrolio e si rimanda la soluzione al futuro, quando arriverà Mad Max sul serio. Per adesso godiamoci questo splendido memento cinematografico, arrivato in Italia col titolo Interceptor – Il guerriero della strada. Come aveva previsto Einstein, si combatte con le pietre, all’arma bianca e solo Mad Max ha un fucile a canne mozze, ma i proiettili sono rari e spesso difettosi. Abbondano balestre, coltelli e boomerang affilatissimi e vige la legge del più forte. Nella fattispecie i selvaggi che abitano il wasteland agli ordini del temibile e orrendo Humungus. Mad Max, da vero eroe anarchico e cinico, sceglie i buoni per interesse, perché gli possono assicurare un po’ di carburante, cioè vita, strada. La vicenda è divertente, senza cali di ritmo, equilibrata nella costruzione e azzeccata nello svolgimento, con un’introduzione e un finale suggestivi. Da un punto di vista figurativo, il film ha pesantemente influenzato tutto l’immaginario degli anni Ottanta, popolando la videomusica e la fantascienza cinematografica di punk mohicani, abbigliati come moderni gladiatori. Cinemascope oceanico per paesaggi (australiani) di selvaggia bellezza. Azzeccato score classicheggiante di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen. Gran film, visto con la cugina Alessandra. (Dvd; 5/2/05)

ddv5206517 – L’ambiguo (?) Rambo di Ted Kotcheff, USA 1982
Anche questo venerdì cado nell’agguato di Italia1: il film (visto anche recentemente) è perfetto per staccare i lobi cerebrali e identificarsi ottusamente nel protagonista, John J. Rambo, reduce dal Vietnam leggermente confuso e abbandonato a se stesso sulla fredda costa del Pacifico. Alla ricerca di un commilitone, ultimo superstite del suo battaglione, scopre che è morto di cancro dovuto al tremendo defoliante, l’agente arancione. Il commilitone, peraltro, era pure nero e – sicuro – i due assieme avranno fumato e si saranno calati più d’un acido. Fai due più due e ti viene un atroce sospetto: ma questo è mica un film di sinistra?! Possibile che abbiamo preso un simile abbaglio per tutti questi anni? Bisogna rivederlo tutto, Rambo, perché qui è in agguato una rivalutazione ideologica non da poco! Dunque: Rambo arriva a Hope, pacifica cittadina dove lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) è frustrato dalla monotonia e non vede l’ora di avere qualche problema per poter menare le mani. Un girovago è l’ideale e Rambo viene portato in cella per vagabondaggio. Siccome puzza da far schifo lo strigliano ben bene e minacciano di tagliargli i capelli perché sembra uno hippie; infine provano a fargli la barba, a secco (sai che roba: e tirargli un pizzicotto, no?). Alla vista del rasoio, Rambo ripensa alla sua prigionia in Vietnam e, come un cane di Pavlov, sbarella e sbava: mena tutti e scappa su pei monti (cane di Pavlov come recitazione, non come reazione, eh?). Teasle non ci pensa due volte e scatta la caccia all’uomo: finalmente un po’ d’azione! Ma c’è un problema, hanno sbagliato indirizzo: Rambo è un ex berretto verde decorato, sopravvissuto alla giungla vietnamita, e sceriffi e guardia nazionale (formata da ciccioni parolai) gli fanno un baffo. Lo riporterà alla ragione solo il colonnello Trautman (Richard Crenna), suo comandante in guerra, uomo talmente coraggioso da sopportare con infinita pazienza anche la frignata finale in cui Rambo tira via la maschera e dice, testuale, che la guerra era già vinta, ma qualcuno a casa, non ha voluto che finisse così. E i dubbi su una possibile riabilitazione rambistica svaniscono d’un colpo. Avevamo ragione da vendere, cazzo. Rambo il film è confuso quanto Rambo il personaggio, anche se come mero prodotto d’azione il film si fa vedere, lo ammetto. Sempliciotto, virile, girato economicamente, abbastanza ritmato, ben fotografato (Laszlo), recitato così cosà, con Stallone capace di due espressioni: o assente o piagnucolante. Sbattuto in carcere, di Rambo se ne rivaluteranno le qualità belliche e i capitoli successivi lo vedranno protagonista in Vietnam e nell’Afghanistan sovietico. Si parla di un quarto episodio: Iran? Corea del Nord? Tra le scene passate alla storia sicuramente il rammendo del protagonista che si ricuce una ferita sul braccio. In un’estate dei primi anni Novanta mia sorella calpestò in casa un ago lasciato per errore per terra. Gli entrò nel tallone e dovetti portarla al pronto soccorso dove un geniale infermiere – saputo l’accaduto – chiamò così il medico di guardia: “Megu, mia! U l’è arrivou u sciu Rambo!”. (Diretta tv su Italia1; 11/2/05)

ddv5207518 – Giochiamo a fare la guerra con The Warriors di Walter Hill, USA 1979
Il Bronx, un improbabile raduno notturno, con tutte le bande della città in tregua, perché Cyrus, il carismatico capo dei Riffs, ha da fare un discorsetto: se ci uniamo, non c’è polizia che tenga e New York sarà nostra. Ma il leader schizzato dei Rogues gli pianta una pallottola in corpo: Cyrus muore. Il caos, coi Warriors accusati dell’assassinio: casa è lontana una cinquantina di miglia e tutti vogliono fargli la pelle. Per tornare alla fetida Coney Island affrontano gli skinhead Turnbull A.C.’s, gli sfigatissimi Orphans, le assatanate lesbiche Lizzies, i Baseball Furies truccati da Kiss e infine i temibili Punks, col leader sui pattini. Botte da orbi e dei nove componenti la delegazione, due onorevoli perdite: il carismatico Cleon, subito fatto fuori dai Gramercy Riffs, e Fox, quello perbene, gettato da un agente sotto un vagone della metrò. L’esuberante Ajax (James Remar) viene invece arrestato perché ci prova con una poliziotta nel parco. Gli altri, capitanati dal sosia magro di Jim Morrison, Swan, raggiungeranno le livide spiagge dell’Atlantico e si chiederanno se sia valsa la pena di questa impresa. Grande western metropolitano, con una New York mitica e irriconoscibile, stilizzatissima grazie alla luccicante fotografia di Andrew Laszlo. La storia non è altro che l’attualizzazione dell’Anabasi di Senofonte (che sbulaccone, eh? Eddài, lasciatemela passare, su) e il vero valore di Warriors risiede nella messa in scena, all’epoca considerata d’insopportabile violenza (oggi fa ridere: poco sangue, niente droghe, nessuna arma da fuoco, volano solo pugni e qualche coltellata). Irrealistica la definizione delle bande giovanili, improponibile – perlomeno oggi – la mescolanza razziale, inesistente il realismo, ma il cinema americano ha sempre inseguito la leggenda. Coloratissimo, amaro, epico: non perfetto, ma comunque imprescindibile, perlomeno per la mia generazione. E a un certo punto, per pochi frame, c’è il mio amore Debra Winger, paffutella e tenerissima. (Dvd; 12/02/05)

ddv5208519 – The Untouchables di un ludico Brian De Palma, USA 1987
Per combattere Al Capone bisogna usare le maniere forti e mettere in conto che non ci saranno più amici sicuri, famiglia tranquilla e orari di lavoro da ufficio. Kevin Costner è lo specchiato federale che va a Chicago a scontrarsi con la polizia locale corrotta. Mette su una banda pronta a tutto (gli Intoccabili, appunto) e reagisce colpo su colpo al mefistofelico boss mafioso, passando pure al contrattacco e infine incastrandolo. Messa in scena sontuosa, attori in parte, pochi indugi autoriali, qualche esibizionistico pezzo di bravura (la scena della carrozzella, che omaggia Ejzenstejn), una più generale voglia di abbracciare il grande pubblico: è il cinema italo-americano nella sua variante più spettacolare, con un Morricone particolarmente fracassone e sintetico, un De Niro mattatore e i ricchi costumi di Armani. Divertente. Perso all’epoca, riguadagnato in versione originale e chilometrico cinemascope. Questa ottusa recensione si accompagna alla ferale notizia che ho smesso di comprare Film Tv. Avevo cominciato a leggerlo anni fa su consiglio di Marco Polese, compagno di straordinarie visioni al cineclub Lumière. Dopo gli ultimi mesi in cui non lo guardavo neanche, questa settimana mi sono semplicemente dimenticato di chiederlo in edicola. La rivista è forse diventata un po’ noiosa, ma soprattutto sono io a essere sicuramente diventato mortale: non c’è film che desideri vedere e – di conseguenza – non c’è articolo o recensione che voglia leggere. E poi, l’odierna critica cinematografica mi sembra un esercizio di dissezione di cadaveri. Qualche nome che mi piace? Beh, sì: il vivace Filippo Mazzarella, che leggo qui e là. Oppure Alessio Guzzano, libero pensatore dotato d’ironia e di creatività linguistica, che costruisce miniature finissime e ha gusto (e idiosincrasie, ma dichiarate). Ma altro non saprei. È colpa mia? È colpa mia, probabilmente. (Dvd; 13/02/05)

ddv5209520 – Lo spaventevole Zeder di Pupi Avati, Italia 1983
Beh, questa è storia. Scrivo esclusivamente pensando a Pier che un giorno leggerà queste righe e ricorderà anche lui quel fine agosto a Champoluc. Sarà stato il 1983, direi. Pier Paolo, alquanto precocemente, ha già “la ragazza”, Tiziana, e io sono il terzo incomodo. Fatto sta che in una serata ancora calda, finiamo lì, a casa di Tiziana per vedere questo horror, in prima serata sulla Rai. La casa verde era sul curvone per andare ad Antagnod ed era famosa perché si diceva che lì avesse soggiornato Bettega quando aveva dovuto curare i polmoni deboli. Chissà: io riferisco, ma non ho mai verificato tutta la vicenda, anche perché l’interesse è oggettivamente prossimo allo Zero Assoluto. Ricordo perfettamente che il film ci aveva fatto abbastanza cagare addosso e nell’intervallo avevamo riso come matti per una pubblicità micidiale di prodotti in gomma il cui slogan era “il chiodo fisso”: il nome dell’azienda era letteralmente martellato in fronte a un tipo. Altri tempi, altre strategie di marketing: darei una cifra per rivederla. La vicenda di Zeder vi ricorderà quella di altri più fortunati horror: esistono terreni speciali, detti terreni K, dove i cadaveri possono riprendere vita. Più o meno come nel cimitero indiano di Pet Semetary o come sul palco dell’Ariston a Sanremo. A proposito: lessi il libro di Stephen King durante l’Interrail europeo del 1989, quando conobbi Barbara. Faceva paura (il libro, non Barbara). Poi qualche anno dopo, con Ferro, abbiamo visto anche il film e faceva paura anche quello, ma per lo schifo. Tornando a Zeder: ancora bello inquietante, nonostante durante la visione Barbara e Alessandra abbiano anticipato mirabilmente tutti i colpi di scena perché lo ricordavano meglio di me. Sceneggiato da Pupi Avati assieme a Maurizio Costanzo che – dopo essersi occupato anche de La casa dalle finestre che ridono – da allora ha deciso di dedicarsi ad altre forme di orrore, tipo Buona Domenica. (Vhs da RaiUno; 15/02/05)

ddv5210521 – Il primo clamoroso episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra di Renato Pozzetto, Italia 1978
Questo episodio (di una trentina di minuti) è un po’ il Graal di certa commedia italiana anni Settanta, perlomeno per me e la mia famiglia. Mi sto addentrando nei meandri della salute mentale dei miei genitori e di mia sorella, ma da sempre, quando tra di noi uno dice “bestiale”, subito gli viene risposto con marcato accento lumbard “ha stabilito il record del letame!”, citando uno dei momenti stracult dell’episodio in questione. Protagonista è Pozzetto, ingenuo abitante di una casupola prefabbricata. Si guadagna da vivere consegnando merda di vacca col suo Ape Piaggio spoilerato e tirato da corsa, ma il frustrato Ponzoni lo assolda come cameriere col preciso piano di far secca la moglie ricca. Finirà tutto in un colossale sputtanamento, come canta strascicato Jannacci. Mezz’ora di surrealtà purissima, umorismo geniale e freddo come un ghiacciolo nel culo. Tra battutacce da declamare tra amici, nonsense e qualche ingenuità di regia, viene fuori una perla di follia, ma è di questa materia che sono fatti i sogni e i film che più amiamo, cari amici. Tra i tanti che appaiono c’è Giorgio Porcaro (con le mani “come due badiletti”) e soprattutto Massimo Boldi, fantastico cameriere ribelle con la Porsche che fa rivendicazioni proletarie agitando coltelli. Rivedendo Io tigro, tu tigri, egli tigra, ho goduto come sempre, notando però più i difetti che i pregi. Barbara era abbastanza attonita, ma certe cose o le vedi a tredici anni oppure non ne coglierai mai più la sublime poesia. (Vhs da RaiUno; 16/02/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 52)

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