kulaki – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La patria dell’uomo nuovo e l’inferno dei bambini di strada https://www.carmillaonline.com/2019/08/15/la-patria-del-socialismo-reale-e-linferno-dei-bambini-di-strada/ Thu, 15 Aug 2019 21:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54131 di Sandro Moiso

Luciano Mecacci, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), Adelphi, Milano 2019, pp. 274, 22,00 euro

Siamo in pieno Ferragosto e vorreste star tranquilli, lo so. Non pensare a nulla e oziare è sicuramente il modo migliore per rilassarsi, qualsiasi sia l’attività che accompagna o determina le nostre giornate di attività fisica e/o mentale. Soprattutto, in questi primi o ultimi giorni di ferie non avete voglia di farvi mettere in agitazione da discorsi, letture o riflessioni che possano mettere a soqquadro la mente, le convinzioni e le, poche, certezze che vi rimangono.

Invece no, quella foto sulla [...]]]> di Sandro Moiso

Luciano Mecacci, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), Adelphi, Milano 2019, pp. 274, 22,00 euro

Siamo in pieno Ferragosto e vorreste star tranquilli, lo so. Non pensare a nulla e oziare è sicuramente il modo migliore per rilassarsi, qualsiasi sia l’attività che accompagna o determina le nostre giornate di attività fisica e/o mentale.
Soprattutto, in questi primi o ultimi giorni di ferie non avete voglia di farvi mettere in agitazione da discorsi, letture o riflessioni che possano mettere a soqquadro la mente, le convinzioni e le, poche, certezze che vi rimangono.

Invece no, quella foto sulla copertina di un libro, quello sguardo furtivo e incattivito di un bambino che, lo saprete soltanto poi consultando la terza di copertina, sbuca da un cassonetto della spazzatura di Odessa, nel 1928, ha attirato il vostro sguardo e vi ha incuriosito.
In quegli occhi è contenuta una storia, un enorme dramma che, lo si capisce al volo, non può essere soltanto individuale, ma deve essere per forza collettivo. E in effetti lo è.

Luciano Mecacci, già ordinario di Psicologia generale presso l’Università di Firenze e membro dell’Associazione Italiana degli Slavisti, sintetizza in un volume, che si fa leggere come un romanzo, la storia e le esperienze educative e repressive collegate al problema dell’infanzia randagia in Russia tra la Prima guerra mondiale e gli anni del pieno trionfo dello stalinismo.
Un problema non da poco se si pensa che su 147 milioni di abitanti della Russia, poi sovietica, almeno 7 milioni di giovanissimi appartenevano a tale e sfortunato gruppo.

Bambini di un’età compresa tra i 6 (e forse meno) e i 16 anni che venivano definiti come besprizorniki, una parola che tradotta letteralmente significa bambini abbandonati, privi di tutela, genitoriale o di qualsiasi altra specie.
Un fenomeno che iniziò a manifestarsi con la Prima guerra mondiale, ma che tese ad espandersi nel corso della rivoluzione, della susseguente guerra civile e delle carestie che si abbatteranno sul paese a seguito della seconda e delle svolte repressive messe in atto dal regime durante le campagne di espropriazione dei cosiddetti kulaki e che finiranno col dar vita ad un’ampia resistenza contadina nei confronti delle politiche bolsceviche di collettivizzazione dall’alto della terra e di ammasso forzato dei suoi prodotti, prima e dopo la morte di Lenin.

Bambini che non erano obbligatoriamente orfani dei genitori, ma che dalle alterne vicende della guerra, della rivoluzione, della Nep e delle politiche agrarie e. troppo spesso, della deportazione nei gulag e dell’eliminazione fisica di molti adulti ritenuti terroristi o nemici del partito stalinizzato negli anni Trenta, erano stati costretti ad abbandonare, spesso con l’incoraggiamento degli stessi genitori, le case e i luoghi di origine in cerca di una salvezza che, quasi sempre, non c’era e non poteva esserci.

Nell’Introduzione, l’autore afferma

Generalmente in queste ricerche la dimensione psicologica e comportamentale dei besprizornye, la vita di quei bambini e quei ragazzi nelle loro famiglie d’origine, nelle strade, negli orfanotrofi, nelle prigioni e nei lager emerge a posteriori rispetto all’esame del contesto storico, sociale e politico della Russia sovietica che li aveva generati. In questo libro si è adottata una prospettiva diversa, descrivendo i basprizornye attraverso i loro pensieri, il loro linguaggio, le loro emozioni e i loro affetti, e a questo scopo si è dato ampio spazio alle testimonianze dei protagonisti, così come ai racconti e alle relazioni degli scrittori russi o stranieri negli anni Venti e nei primi anni Trenta. Ne risulterà, così ci auguriamo, un quadro completo – dall’interno e, dall’esterno – dei vari aspetti della vita dei besprizornye: dalla fuga all’accattonaggio al furto, dalle manifestazioni di aggressività e di autodistruzione alla vera e propria violenza psichica e fisica (fino all’omicidio), dalla prostituzione al consumo di droghe.1

Già negli anni Settanta l’autore aveva trascorso un periodo di studio nell’URSS, durante il quale aveva avuto modo di raccogliere materiali e testi inerenti all’argomento sviluppato nel testo attuale e aveva potuto incontrare personalità quali, ad esempio, Aleksandr Lurjia che avevano avuto modo negli anni Trenta di occuparsi del pensiero e del linguaggio di quei bambini. Poiché già all’epoca, e soprattutto negli anni Venti, non erano mancati gli studi e i tentativi pedagogico-educativi di risoluzione del problema.

Ma se negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione si era peccato, forse, di troppo ottimismo nei confronti della possibile soluzione del problema attraverso il miglioramento dell’uomo socialista, come dimostrano le osservazioni della stessa Nadežda Krupskaja contenute nel testo di Mecacci, a partire dagli anni Trenta la risposta aveva cominciato a consistere in una progressiva rimozione dello stesso, accompagnata da una azione repressiva degna di quella degli squadroni della morte che hanno il compito di liberare le strade delle metropoli brasiliane dai meninos de rua che le “infestano”.

Il vero dramma infatti consiste proprio in una rimozione che ha fatto sì che per decenni, praticamente fino alla morte di Stalin ma anche oltre, negli anni Sessanta e Settanta, in Unione Sovietica fosse di fatto vietato parlare di tale, enorme problema.
Il documento di riferimento ufficiale è rimasto per anni lo pseudo-romanzo Poema pedagogico di Anton Makarenko pubblicato tra il 1933 e il 1935, e recentemente ristampato con eccessiva pompa magna qui in Italia, in cui si tracciava il cammino evolutivo di alcuni di quei bambini attraverso i provvedimenti statali che li avrebbero trasformati da piccoli delinquenti affamati a giovani pionieri, poi in militanti del Partito e infine in tranquilli e sereni cittadini sovietici.

Una narrazione ideologizzata e tranquillizzante che corrispondeva pienamente al progetto dell’uomo nuovo sovietico e dell’immagine che attraverso di esso il regime staliniano avrebbe voluto dare di sé. Un’immagine che fu distorta anche attraverso narrazioni fasulle e falsate, successivamente sbugiardate dalla ricerca storica, che raccontavano di un cammino dalle stalle alle stelle di numerosi personaggi in vista della scienza e della politica sovietica post-rivoluzionaria, tutti provenienti dai besprizornye e dagli istituti che se ne occupavano.

Purtroppo, invece, la realtà fu ben diversa poiché proprio nel 1935, anno di pubblicazione definitiva del Poema pedagogico, avvenne la svolta decisiva con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile di quell’anno, con cui si abbassò il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye: “A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furti, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passabili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.”2

Secondo le ricerche condotte dall’autore

Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le ‘misure punitive’ andava annoverata anche la pena capitale (fucilazione). Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa ‘nota esplicativa’, ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per ‘liquidare’ quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.3

Il trionfo della pedagogia sovietica stalinizzata consistette, dunque, nella rimozione fisica del problema e nella rimozione di ogni memoria differentemente caratterizzata. Non solo la propaganda collegata al Poema pedagogico avrebbe nascosto la struttura criminalizzante, liquidatoria ed omicidiaria dei provvedimenti dell’aprile del 1935, ma anche il fatto che molti di coloro che si erano occupati in ben altri termini del problema sociale e pedagogico rappresentato dai bersprizornye avrebbero concluso le loro vite nei gulag e/o davanti a un plotone di esecuzione con l’accusa di terrorismo e tradimento.

Molto altro ci sarebbe da dire sull’ottimo libro di Luciano Mecacci, ma credo che sia sufficiente fermarsi qui per disturbare il tranquillo Ferragosto del lettore. E per ricordargli come non sarà mai possibile costruire alcun nuovo mondo e alcuna altra comunità umana se si continuerà a credere in modelli politici e culturali nati morti, sulla scia di un modello sociale ed economico di stampo ancora eminentemente autoritario e classista. Come quello stalinista, appunto.


  1. L. Mecacci, Besprizornye, p. 15  

  2. Sulle misure della lotta alla criminalità minorile, in Izvestija e Pravda dell’8 aprile 1935, cit, in L. Mecacci, op. cit. p. 29  

  3. Ivi, p. 29  

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La rivoluzione non è (soltanto) affare di Partito https://www.carmillaonline.com/2017/07/26/la-rivoluzione-non-affare-partito/ Tue, 25 Jul 2017 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39349 di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il [...]]]> di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.

Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente. La letteratura specialistica e politica, fatte salve alcune opere dovute a protagonisti e testimoni di quell’esperienza (Trockij e Bordiga1 in primis, ma pur sempre segnati dalla necessità di intervenire nelle battaglie politiche e nelle polemiche in corso all’epoca dello loro stesura) oppure allo storico inglese Edward H. Carr, 2 sembra essersi schierata fino ad oggi o sul fronte del rifiuto e della condanna oppure su quello della passiva accettazione, o quasi, di ogni suo aspetto. Fenomeno inaspritosi sicuramente, in ogni senso, a partire dal 1989.

Il testo della Luxemburg fu probabilmente scritto nell’autunno del 1918, mentre l’autrice si trovava in carcere per scontare una condanna dovuta al suo intransigente antimilitarismo. Avrebbe dovuto essere successivamente rivisto, come alcune lapidarie frasi e brevi appunti al suo interno sembrano rivelare ad un lettore attento, ma ciò non poté essere portato a termine a causa dell’omicidio di Rosa, ad opera dei Freikorps di Noske, durante l’insurrezione spartachista di Berlino nel gennaio del 1919.

Rimase inedito fino al 1921 quando Paul Levi, già presidente del Partito comunista tedesco e da questo espulso nel 1920, decise di pubblicarlo, nonostante la contrarietà di amici e compagni della Luxemburg (trattandosi appunto di un testo non rivisto dall’autrice), proprio per contrastare le premesse teoriche della tattica e dell’organizzazione bolscevica e di quella Terza Internazionale che iniziava a richiederne l’applicazione da parte di ogni Partito comunista.3

Forse tale interpretazione servì a far sì che in seguito non solo tale testo, insieme a molti altri dell’autrice, fosse rimosso dalla tradizione e dalla stampa comunista, ma “quando già l’Internazionale comunista cominciava ad agonizzare, fu considerato un merito quello di aver proceduto in Germania alla liquidazione del luxemburghismo nel movimento operaio e nel Partito comunista tedesco”.4

Mentre nella “letteratura” stalinista: ”Alla voce «Luxemburg» dell’Enciclopedia Sovietica si può leggere quanto male abbia fatto alla classe operaia e al socialismo questa povera semi-menscevica, questa intellettuale piccolo-borghese, rea di spontaneismo, di oggettivismo, di meccanicismo, di liquidatorismo”.5 Eppure, eppure…

Proprio nell’incipit del testo ora ripubblicato a cura di Massimo Cappitti, Rosa Luxemburg aveva scritto: “La rivoluzione russa è l’avvenimento più importante della guerra mondiale”.6
Da questa perentoria affermazione la comunista tedesca prende l’avvio per un’analisi sia dell’immaturità del proletariato tedesco che si era lasciato irretire dalle chimere della guerra nazionale che la socialdemocrazia, tradendo anche i più semplici principi del socialismo, aveva travestito da lotta contro l’autocrazia russa e da campagna progressiva di liberazione dell’Europa e dello stesso proletariato russo da condizioni socio-economiche arretrate; sia per una autentica scomunica dei tentennamenti, delle giravolte e degli autentici tradimenti dei compiti dei partiti socialisti che la direzione e i giornali del partito tedesco, con Karl Kautsky in testa, avevano contribuito a diffondere con l’obiettivo di confondere e cancellare la memoria e l’esperienza di classe dei suoi militanti e dei lavoratori tedeschi.

Per fare ciò la rossa Rosa sente la necessità di tracciare un paragone tra le scelte dei rivoluzionari russi dal marzo all’ottobre del 1917 e quella delle componenti più radicali della rivoluzione inglese e di quella francese. L’excursus storico che la porterà ad affermare che “il partito leninista fu l’unico a capire i veri interessi della rivoluzione in quel primo periodo, ne fu l’elemento trainante, in questo senso, in quanto unico partito a fare una politica davvero socialista7 passa attraverso la valutazione delle scelte fatte dai Levellers e dai Diggers nello spingere avanti il corso della rivoluzione inglese, affinché questa non si arenasse nelle trame presbiteriane e monarchiche e, successivamente, attraverso la ricostruzione dell’azione giacobina nello spingere verso una compiuta democrazia la rivoluzione francese.

In entrambi i casi sono proprio le componenti più umili della società sei/settecentesca a spingere in avanti i progressi rivoluzionari. Ad impedire che dirigenze incerte potessero limitare o fare arretrare il percorso rivoluzionario dal suo naturale percorso. Riferendosi alla rivoluzione francese, ma in realtà anche ai compiti del moderno socialismo e alle teorie di coloro che, sia in Russia che in Germania, affermavano che la rivoluzione russa avrebbe dovuto accontentarsi di realizzare una compiuta democrazia borghese prima di affrontare il tema della rivoluzione socialista, la Luxemburg scriveva: “La superficialità liberale nel concepire la storia naturalmente non permise di capire che senza il sovvertimento «senza regole» dei giacobini, anche le prime, incerte e parziali, conquiste della fase girondina sarebbero state sepolte sotto le macerie della rivoluzione, che la vera alternativa alla dittatura giacobina, così come la poneva il ferreo corso dello sviluppo storico nel 1793, non era la democrazia «moderata» ma la restaurazione dei Borboni! La rivoluzione non è in grado di mantenere l’«aureo mezzo», la sua natura esige una rapida decisione: o la locomotiva, pompando a tutto vapore, viene trainata su per la salita della storia fino in cima, oppure, trascinata dalla forza di gravità, rotola indietro fino al punto più basso e trascina irrimediabilmente con sé nell’abisso quanti, con le loro fiacche energie, volevano tenerle a metà strada.“8

Per la teorica tedesca però era “chiaro che non un’apologia acritica, ma solo una critica accurata e riflessiva è in grado di rivelare la ricchezza di esperienze e insegnamenti. Sarebbe infatti una follia pensare che, in coincidenza con il primo esperimento nella storia mondiale di una dittatura della classe lavoratrice, e proprio nelle peggiori condizioni possibili – in mezzo all’incendio e al caos di un eccidio imperialista nella morsa di ferro della potenza militare più reazionari d’Europa, nel pieno fallimento del proletariato internazionale – proprio tutto quanto in Russia era stato fatto e disfatto fosse stato il massimo della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la comprensione delle sue necessarie premesse storiche costringono a prendere atto del fatto che , in condizioni così fatali, nemmeno l’idealismo più smisurato e l’energia rivoluzionaria più impetuosa sono in grado di realizzare democrazia o socialismo, ma solo tentativi impotenti e distorti verso entrambi9

Quali furono quindi i principali elementi “critici” su cui si soffermò all’epoca la rivoluzionaria tedesca?
Sostanzialmente tre: la ripartizione delle terre subito dopo la presa del potere da parte dei soviet e del Partito rivoluzionario, il principio dell’autodeterminazione delle nazioni applicato a partire dalla pace di Brest –Litovsk con cui la Russia rivoluzionaria aveva dovuto concedere ingenti conquiste territoriali alla Germania guglielmina per poter giungere alla fine della guerra e la questione della democrazia interna e dei rapporti tra Partito bolscevico ed esigenze e proposte delle masse rivoluzionarie.

Nei primi due punti, intrinsecamente legati alle parole d’ordine che Lenin aveva lanciato nell’ottobre del ’17 (Potere ai soviet, terra ai contadini e pace ad ogni costo), la Luxemburg intravedeva, nel primo, il pericolo, poi effettivamente verificatosi, che una disordinata distribuzione delle terre dei latifondi avrebbe potuto creare una classe di piccoli e medi proprietari che avrebbero poi potuto opporsi, in nome dei propri diritti proprietari, alla rivoluzione stessa. Con le successive note conseguenze, soprattutto durante la collettivizzazione forzata voluta successivamente da Stalin, la carestia in Ucraina e il massacro di centinaia di migliaia di presunti kulaki (medi proprietari terrieri) negli anni Trenta.

Mentre nel secondo la rivoluzionaria tedesca, sempre nemica di ogni forma di nazionalismo, vedeva la possibilità di una risorgenza nazionalista borghese e piccolo borghese che avrebbe minato sia la fiducia delle masse proletarie nella rivoluzione e nelle sue conquiste, sia il potere stesso della politica rivoluzionaria. Proprio come in seguito gli episodi della lunga e stremante guerra civile avrebbero poi dimostrato (dalla Finlandia all’Ucraina, che per la Luxemburg “non aveva mai costituito una nazione o uno stato”,10 e successivamente con l’argine costituito dalla Polonia del maresciallo Józef Klemens Piłsudski all’avanzata delle truppe rivoluzionarie verso il cuore tedesco del capitalismo europeo nel 1920). Finendo poi, di ritorno, a costituire la giustificazione per l’annessione forzata e l’occupazione militare voluta dalla politica “Grande russa” di Stalin nei decenni successivi alla sua presa del potere.

Ma al di là delle virtù “profetiche” dell’attenta analisi luxemburghiana della situazione “sul campo”, quello che il testo riprende ( e per questo in appendice è stato aggiunto il testo Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, scritto nel 1904, un anno prima della rivoluzione del 1905 e due anni dopo la stesura del Che fare? di Lenin) è la polemica dell’autrice con la concezione esclusivamente partitica e accentratrice dell’azione rivoluzionaria concepita dall’avanguardia bolscevica e da Lenin stesso.

Il partito di Lenin era l’unico ad aver compreso davvero il dovere e l’esigenza di un vero partito rivoluzionario che, con la parola d’ordine: «tutto il potere nelle mani di proletari e dei contadini» ha assicurato il proseguire della rivoluzione.11 Ma tale parola d’ordine era destinata ad entrare presto in conflitto con le decisioni, prese essenzialmente da Lenin e da Trockij, di limitazione delle espressioni di democrazia, a partire dall’affossamento dell’Assemblea costituente,

In primo luogo, a seguito di ciò, il diritto elettorale fu concesso solo a coloro che vivevano del loro lavoro mentre era negato agli altri. Ma “è ormai chiaro – scrive ancora Rosa – che un siffatto diritto elettorale ha senso solo in una società che è anche economicamente in condizione di garantire a tutti quanti vogliano lavorare una vita decente e civile attraverso il loro lavoro. E’ vero anche per la Russia attuale? Con le terribili difficoltà con cui la Russia sovietica – esclusa dal mercato mondiale, privata delle sue principali fonti di materie prime – si deve scontrare […] E’ un fatto che la riduzione dell’industria ha suscitato un massiccio afflusso verso le campagne di un proletariato urbano in cerca di una sistemazione. In tali condizioni, un diritto elettorale politico che abbia come premessa economica il lavoro obbligatorio, rappresenta una misura incomprensibile. In linea generale esso dovrebbe privare dei diritti politici soltanto gli sfruttatori. E mentre le forze produttive vengono sradicate, il governo sovietico si vede letteralmente costretto a lasciare l’industria nazionale nelle mani dei precedenti proprietari capitalisti.12

La tacita premessa della teoria della dittatura in senso leninista-trockista è che il capovolgimento socialista sia una questione per la quale c’è una ricetta bell’e pronta, infilata nella tasca del partito rivoluzionario, che deve solo essere realizzata energicamente. Purtroppo, o per fortuna, non è così […] Quello di cui disponiamo nel nostro programma è un numero esiguo di grandi indicazioni di carattere peraltro negativo, che mostrano la direzione in cui andrebbero presi i provvedimenti […] Del negativo, della demolizione si può decretare, del positivo e della costruzione no […] Solo la vita libera e in fermento inventa migliaia di nuove forme, improvvisa, promana la forza creatrice, corregge da sé gli errori13

Ecco cosa differenzierà sempre il pensiero della Luxemburg da quello di Lenin: la fiducia nell’azione delle masse di cui l’azione del partito deve essere un risultato e non una premessa obbligata. La rivoluzionaria tedesca era convinta che “nelle sue grandi linee, la tattica di lotta della socialdemocrazia non è, in generale, da ‘inventare’; essa è il risultato di una serie ininterrotta di grandi atti creatori della lotta di classe spesso spontanea, che cerca la sua strada. Anche in questo caso l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo storico oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti“.14

Da ciò faceva derivare la seguente osservazione: “Se la tattica del partito è il prodotto non del Comitato centrale, ma dell’insieme del partito o, meglio ancora, dell’insieme del movimento operaio, è evidente che […] l’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare come impregnato non già da uno spirito positivo e creatore, bensì dello spirito sterile del sorvegliante notturno. Tutta la sua cura è rivolta a controllare l’attività del Partito, e non a fecondarla; a restringere il movimento e non a svilupparlo, a strozzarlo, non a unificarlo15

Differenze e polemiche che, però, non videro mai venir meno la stima reciproca tra la rivoluzionaria tedesca e Lenin. Entrambi erano rimasti vicini nella sostanza, soprattutto quando erano stati tra i pochi socialisti contrari al primo macello imperialista; così che se la Luxemburg riconosceva in Lenin tutte le qualità del leader rivoluzionario agitato da una grande passione e da una grande energia, dall’altra il rivoluzionario russo riconosceva in lei lo “sguardo d’aquila” da grande teorica del socialismo.

Grazie dunque a Massimo Capritti e alle Edizioni BFS per averci ricordato, in occasione di questo centenario sotto tono, di quali contenuti fossero intessuti i dibattiti e di quali energie fossero dotati i rivoluzionari di quella stagione gloriosa della storia del movimento operaio.


  1. Amadeo Bordiga: Russia e rivoluzione nelle teoria marxista (autunno1954 – inverno1955), Le grandi questioni della rivoluzione in Russia (1955), La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea (1956) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (aprile 1955 – dicembre 1957)  

  2. La rivoluzione russa, pubblicata in lingua originale a partire dal 1950 e tradotta in italiano da Einaudi nella Collezione Storica tra il 1964 e il 1978, di cui soltanto il primo volume è dedicato alla Rivoluzione mentre gli altri nove ripercorrono il periodo dalla morte di Lenin all’esperienza del socialismo in un solo paese, alla pianificazione economica e ai rapporti con gli altri paesi e gli altri partiti comunisti fino al 1929  

  3. Almeno questo è ciò che afferma György Lukács nelle sue Osservazioni critiche sulla critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute ora in Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978  

  4. Pier Carlo Masini, Introduzione a Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, pag. 81  

  5. P.C. Masini, op. cit. pag. 83  

  6. pag. 7  

  7. pag. 39  

  8. pp. 43-44  

  9. pag. 33  

  10. pag. 58  

  11. pag. 44  

  12. pp. 67-68  

  13. pp. 71-72  

  14. Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pp. 99-100  

  15. Problemi, pag. 101  

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Vite nella Rivoluzione: Michail Bulgakov. https://www.carmillaonline.com/2014/03/12/vite-nella-rivoluzione-michail-bulgakov/ Tue, 11 Mar 2014 23:10:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13410 di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte si sconta vivendo” (G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante. Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova [...]]]> di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte
si sconta
vivendo
(G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante.
Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova può probabilmente ancora essere considerata, a livello internazionale, la massima esperta bulgakoviana. Teorica letteraria e scrittrice va considerata fra le più alte autorità nel panorama critico letterario russo e, oltre ad insegnare presso l’Istituto Letterario Gor’kij di Mosca, è stata visiting professor all’Università del South Carolina, a Stanford e all’École Normale Supérieure di Parigi. Inoltre, è la presidentessa della Fondazione Bulgakov e ha curato l’introduzione di molte opere dello stesso pubblicate in Italia.

Ma proprio questa cronaca, importante sia per chi è interessato alla storia della letteratura di età sovietica quanto per chi lo è nei confronti dell’era di Stalin, costituisce il coronamento della sua attività e, quasi sicuramente, di una vita. Infatti, dal 1965 al 1984 l’autrice ha lavorato al Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca di Stato dell’URSS, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’archivio personale dell’autore custodito dalla vedova Elena Sergeevna, grazie alla quale i suoi lavori inediti (quasi tutti) furono salvati dall’oblio e pubblicati molti anni dopo la sua morte. La prima edizione della biografia risale in Russia al 1988 e ha costituito fino ad oggi il primo ed autorevole studio approfondito sulla vita dello scrittore.

Vita che ha inizio a Kiev nel 1891, in una famiglia profondamente intrisa dalla tradizione culturale e religiosa russo-ortodossa, socialmente lontana dagli ambienti in cui si formava solitamente l’intelligencija. Laureatosi in Medicina, si troverà coinvolto prima nei drammi del primo conflitto mondiale e, in seguito, in quelli della guerra civile, durante la quale, proprio per tradizione famigliare, egli parteggerà per le armate bianche anche se il suo coinvolgimento sarà sempre legato, prima di tutto, alla sua professione medica.

La Čudakova è abilissima nel collegare, sempre, alle fasi della vita di Bulgakov le pagine dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Risulta, infatti, chiaramente che fin dai primi scritti, pubblicati su vari giornali, e fino a quelli pubblicati, poi, su alcune riviste letterarie sovietiche e dal primo romanzo, “La guardia bianca”, fino al suo capolavoro “Il Maestro e Margherita”, ogni pagina dell’autore russo è impregnata di autobiografismo.

Costantemente “mosso dalla volontà di trasformare il rapporto tra «biografia» e «creazione»”, si possono individuare “ nel processo creativo di Bulgakov […] due movimenti convergenti. Da un lato le riflessioni sulle proprie scelte e sul proprio destino si vestono di mire letterarie e vengono acconciate nella cornice di un’idea a essa precedente. Dall’altro il romanzo (in questo caso “Il Maestro e Margherita” – NdA), con le questioni che tocca e la sua extratemporalità […], non può che lasciare un segno sull’interpretazione dei problemi autobiografici di chi scrive, inducendolo a guardare alla propria vita come qualcosa che dal tempo è slegato. Alle conseguenze di scelte fatali non c’è rimedio […] e chi cerca aiuto in Satana e lega per sempre le sue sorti al diavolo ( e dunque «non merita la luce») ne pagherà lo scotto in eterno” (pag.358).

La questione, qui efficacemente sintetizzata dalla Čudakova, non è di poco conto, perché se, da un lato, apre ad una riflessione sull’opera letteraria in generale, dall’altro ricollega l’opera di Bulgakov non solo alle scelte morali, politiche e culturali dello stesso ma, più in generale, al destino di tutti i letterati, e non solo, dell’epoca staliniana in cui l’autore si trovò a vivere.
Nel primo caso, la riflessione rende evidente che spesso le maggiori opere degli autori più importanti della letteratura universale, da Dante Alighieri a Louis-Ferdinand Céline, da Giacomo Leopardi a Franz Kafka e da Marcel Proust allo stesso Michail Bulgakov, solo per citarne alcuni e molto diversi tra loro, sono il risultato proprio di un processo in cui l’autobiografismo, trasfigurato in elemento romanzesco, si eleva al di sopra della misera vita individuale per diventare invece lo specchio delle ansie, delle delusioni e delle speranze dell’intera specie umana.

Mentre nel secondo, pur rimanendo anch’esso un tema universale della grande letteratura, la questione delle scelte individuali in tempi di dittatura totalitaria, anche se travestita da “comunista” o “proletaria”, rende chiaro come il “libero arbitrio” degli artisti, dei letterati e degli intellettuali, anche se si potrebbe affermare la stessa cosa per tutti i cittadini, finisce quasi sempre con l’essere estremamente condizionato dall’autoritarismo e dalle giravolte ideologico-politiche di chi sta al potere. Fatto che, proprio in epoca staliniana, raggiunse i vertici dell’assurdo e dell’auto-cannibalismo.

Bulgakov non volle, non seppe e non poté mai dichiararsi bolscevico o avvicinarsi all’ideologia del partito comunista russo e, proprio per questo motivo, si trovò a vivere culturalmente e letterariamente come un escluso , come un vero e proprio paria. Ma anche coloro che, come tanti autori da Majakovskij a Mandel’štam e da Mejerchol’d a Isaak Babel’ fino a Boris Pilniak, avevano abbracciato la causa rivoluzionaria fin dal suo primo apparire, avrebbero pagato un crudele tributo di sangue sull’altare del piccolo padre di tutte le Russie. Chi col suicidio, chi con la deportazione e lo sfinimento fisico, chi con la fucilazione. La stessa sorte che toccò a tutta la vecchia guardia bolscevica, da Bucharin a Kamenev, e ai migliori generali dell’armata rossa come Michail Tukhachevsky. Anche a coloro che avevano voltato, per tempo, le spalle a Trockij e all’Opposizione operaia.

Scelte fatali, appunto, che non lasciano rimedio. Sicuramente quella di Bulgakov di non piegarsi al potere, anche quando questo si rivolse a lui direttamente, con una telefonata dello stesso Stalin cui, evidentemente, lo scrittore non seppe o non volle dare le giuste risposte. Oppure il rifiuto opposto a chi, ancora nella primavera del 1938 gli chiese di scrivere un romanzo sovietico d’avventura: “«Tiratura imponente, traduzioni in tutte le lingue, soldi a palate – anche valuta estera – e un Assegno seduta stante, come anticipo. Che ne dice?» Bulgakov rifiuta: «Non posso»” Al che lo stesso incaricato lo convince – a fatica – a leggergli “Il Maestro e Margherita”:”Dopo i primi tre capitoli commenta: «Questo non si pubblica di certo». «Perché?» chiede Bulgakov. «Perché no»” (pag. 440).

E’ il destino dell’autore: apprezzato come scrittore e commediografo dai vertici del Partito e dallo stesso Stalin che, insieme a Kirov e Zdanov, assistette svariate volte alla rappresentazione della sua opera teatrale “I giorni dei Turbin” (tratta proprio da quella “Guardia bianca”, mai pubblicata integralmente in patria); ignorato come autore della stessa opera che fu rappresentata centinaia di volte mentre Bulgakov era in vita; inascoltato nei suoi appelli per avere a disposizione almeno una nuova macchina da scrivere o un permesso, per lui e la moglie, per recarsi all’estero per un breve periodo e, infine, costantemente rifiutato come autore di opere letterarie e teatrali sempre apprezzate, in prima battuta, ma quasi mai realmente pubblicate o rappresentate in seguito.

Una vita artistica e personale costantemente rimossa, spinta ai margini della vita culturale o della vita tout court se si pensa alle costanti difficoltà economiche cui l’autore dovette sempre far fronte. Spesso disperatamente. Ma, soprattutto, una vita che costantemente ostacolata nelle sue manifestazioni letterarie ed artistiche si trasformava, di fatto per l’autore, in una non vita. Rimozioni e divieti che, alla fine, accomunarono Bulgakov ad altri autori sovietici, ma dei quali, almeno, non condivise l’onta di aver denunciato altri nel tentativo di affermarsi o sopravvivere, come era invece successo a Boris Pasternak, nell’estate del 1936, quando, insieme a Kostantin Fedin e molti altri, aveva firmato l’esortazione del Direttivo dell’Unione degli Scrittori ad “applicare ai nemici del popolo la pena massima della difesa socialista: fatelo per il bene dell’umanità!” pubblicato sulla Pravda con l’inquietante titolo: “Cancellateli dalla faccia della terra!” che avrebbe, di fatto , inaugurato la stagione dei grandi processi di Mosca e del terrore staliniano.

No, non cercò mai la vendetta o il compromesso Bulgakov. La sua arma era la scrittura, spesso fortemente ironica, come nella migliore tradizione russa da Puskin a Gogol’ fino al più recente Varlan Salamov. Ironia che faceva paura, tanto che i pochi lettori del work in progress bulgakoviano spesso vedevano il fantasma di Stalin anche là dove non c’era, come nella figura di Woland che nel romanzo capolavoro di Bulgakov rappresenta davvero Satana e non il dittatore, in un’opera in cui il Faust di Goethe, rivisitato in ambito sovietico, si mescola alle vicende storiche di Ponzio Pilato e Yeoshua.

Lo conferma anche Elena Sergeevna, che annota: «Finito di leggere Miša (nomignolo attribuito all’autore – NdA) chiese:”Chi è Woland?” Vilenkin disse di averlo intuito, “Ma non speri che lo annunci a gran voce!”». Anche Vilenkin cita la domanda nelle sue memorie, e aggiunge: «Nessuno si decise a rispondergli: era un rischio». Ognuno, dunque, scrive la risposta su un pezzo di carta, che poi passa agli altri.«Michail Afanas’evič, curioso, venne alle mie spalle, e quando mi vide scrivere “Satana” mi carezzò la testa»” (pag.455).

D’altra parte la vena fantastica che attraversava le sue opere più importanti (oltre al solito “Il Maestro e Margherita” anche “Diavoleide” oppure “Le uova fatali” o, ancora “Cuore di cane“), pur affondando le proprie radici nella tradizione letteraria russa, non poteva essere apprezzata in un tempo in cui il severo realismo promosso da Zdanov richiedeva esclusivamente opere che cantassero il valore dell’industrializzazione forzata, dello stakanovismo e della lotta ai kulaki. Senza contare che Bulgakov, nella sua carriera di medico, avendo potuto osservare quanto poco eroico ed affidabile fosse quel popolo russo che la letteratura ufficiale chiedeva di esaltare ad ogni piè sospinto, non poteva prestarsi ad essere un ingegnere dell’animo umano così come lo stesso Stalin chiedeva agli scrittori di diventare1. Finendo con l’essere molto più vicino alle opere ottocentesche, ironiche e crudeli insieme, di Saltykov-Ščedrin che al realismo socialista, insopportabilmente retorico, di un Fadeev.

Ma le capacità letterarie di Bulgakov, che sovrastavano indiscusse quelle di tanti pseudo sperimentatori ed autori della letteratura proletaria, spingevano i critici burocrati della letteratura di partito a chiedergli di rivolgere la sua satira contro i nemici del popolo e del socialismo in un solo paese. Cui, l’autore, non poteva far altro che rispondere:”Qualunque tentativo di creare la satira è condannata a fallire miseramente. La satira non si crea da fuori. La satira nasce da sola quando meno te lo aspetti. E nasce quando uno scrittore che ritiene imperfetto il suo presente si indigna e decide di smascherarlo con la letteratura. Perciò ritengo che avrà vita grama, in terra sovietica, anzi gramissima”. (pag. 361)

Relegato al ruolo di adattatore di opere letterarie per il teatro, poi a librettista, talvolta ad attore, Bulgakov sopravvisse attraverso gli anni del terrore vedendo rappresentati ottocento volte i suoi “Giorni dei Turbin” senza mai essere citato dai giornali sovietici come autore di quello straordinario successo di pubblico; vide ancora rappresentata la sua “Vita del Signor di Molière”, diversamente detta “Cabala dei Bigotti”, con l’appoggio di Stanislavskij, ma non vide mai la pubblicazione dei suoi romanzi preferiti e del suo capolavoro2 .

Condannato ad un’autentica morte civile, non troppo diversa dalla morte vera e, talvolta, più dolorosa poiché prolungata nel tempo in una sorta di ultra-decennale agonia, Bulgakov lavorò fino quasi all’ultimo giorno sulle pagine del suo ultimo ed insuperato romanzo. Morì, come il padre, di nefrosclerosi ipertensiva, tra atroci sofferenze, il 10 marzo 1940. Per tutto questo vale, dunque, la pena di ricordarlo ancora oggi, a settantaquattro anni dalla morte, con rispetto estremo, attraverso le pagine di questo testo bellissimo, anche se non sempre di facile lettura.

E’ tutto finito dunque?
Proprio così, caro il mio discepolo
(Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”)


  1. Stalin approvò e proclamò obbligatoria per tutta l’arte sovietica la parola d’ordine del realismo socialista. La cosa riguardava innanzitutto la letteratura: il metodo del realismo socialista fu infatti definitivamente formulato e approvato per la prima volta nel corso del primo congresso dell’Unione degli scrittori nel 1934 e solo in seguito trasferito senza alcuna modifica nelle altre arti […] L’estetica e la prassi dell’epoca staliniana tendono fondamentalmente all’educazione e alla formazione delle masse, una concezione formulata da Stalin utilizzando in un diverso contesto una metafora dell’avanguardia: gli scrittori sono gli ingegneri dell’animo umano“, Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti 1992, pp. 48 – 49  

  2. Pubblicato per la prima volta, in edizione integrale, in Italia da Einaudi nel 1967  

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