Kropotkin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/81947/ Mon, 08 Apr 2024 18:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81947 Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la [...]]]> Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto che
Malabou volutamente non prende in considerazione: la prassi, l’azione. L’anarchismo
infatti non è solo analisi e riflessione sui sistemi di dominanza, ma ribellione ad essi. Anzi
è proprio il confronto tra pensiero e azione che può dare nuovi frutti concettuali e nuove
pratiche di lotta.

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Estetiche del potere. L’ultimo spettacolo. Immaginari funebri sovietici https://www.carmillaonline.com/2023/10/15/estetiche-del-potere-lultimo-spettacolo-immaginari-funebri-sovietici/ Sun, 15 Oct 2023 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79252 di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri [...]]]> di Gioacchino Toni

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 240, € 19,00

Dai funerali di epoca sovietica al culto della morte per la patria putiniano

Totalitari o democratici che siano, scrive Gian Piero Piretto, comune a tutti i regimi è «il ricorso ai riti collettivi, anche funebri, come strumenti di potere, esercitato nelle sue forme più diverse e subdole, per stabilizzarsi e affermarsi attraverso narrazioni emotivamente coinvolgenti» (p. 17). Nel volume dall’indovinato titolo L’ultimo spettacolo, l’autore analizza gli escamotage retorici e le forme estetiche di diverse cerimonie funebri di personalità influenti – allineate o scomode – della storia dell’Unione Sovietica, indagando la componente visuale degli eventi e le testimonianze scritte, valutando la relazione tra popolazione e governo, i meccanismi di strumentalizzazione e di coinvolgimento, le imposizioni e le spontaneità.

Lo studioso si dice convinto che approfondire la propaganda legata al rito funebre del periodo sovietico contribuisca a una maggiore comprensione dei fenomeni propri di una Russia contemporanea segnata da un rinnovato culto della morte per la patria venato di suggestioni medievali rilette in chiave filostaliniana.

Scrive Piretto che «nella Russia postsovietica putiniana le modalità di gestione delle emozioni, di ottenimento del consenso da parte del potere e la predisposizione della popolazione all’empatia totalizzante nei confronti di un leader» riprendono modalità proprie del peridio sovietico, tra queste anche un «culto della morte per la patria, molto vicino a quello impostato sulle morti sacrificali dei rivoluzionari sovietici negli anni Venti e addirittura tristemente evocante ideologie naziste» (p. 19).

Emblematiche di questo clima malsano sono le parole pronunciate da Vladimir Solov’ёv, giornalista-conduttore televisivo putiniano, in un suo intervento a Capodanno: “La vita è altamente sopravvalutata. Perché temere ciò che e inevitabile? Soprattutto quando ci aspetta il paradiso. La morte è la fine di un percorso terreno e l’inizio di un altro. Non lasciate che la paura della morte influenzi le vostre decisioni. Vale la pena di vivere solo per qualcosa per cui si possa morire, così dovrebbero stare le cose. Stiamo combattendo contro i satanisti. Questa è una guerra santa e dobbiamo vincerla”.

Il volume si apre con la ricostruzione di alcuni casi di esequie civili solenni dal profondo significato politico e lo fa a partire dai funerali civili riservati a Nikolaj Bauman, collaboratore di Lenin, deceduto nell’ottobre del 1905, il cui funerale, iconograficamente documentato, si trasformò in un’enorme manifestazione politica che vide sfilare oltre mezzo milione di persone in un’apoteosi di stendardi e bandiere rosse.

Vengono dunque tratteggiati i funerali di alcuni rivoluzionari del 1917 che, pur ispirati a quello di Bauman, come dimostra il materiale cine-fotografica dell’epoca, assunsero una forma del tutto particolare derivata dalla combinazione di vecchio e nuovo, di rituali militari e religiosi, forme tipiche delle manifestazioni operaie e messe in scena tipiche delle “feste della libertà” introdotte dai rivoluzionari. Un tipo di esequie riconducibile alla categoria della “scomparsa eroica sacrificale”. Strada facendo l’immortalità sociale ottenuta attraverso narrazioni e funerali ufficiali finì per diventare «la versione sovietica e corretta dell’obsoleta vita eterna religiosa» (p. 35) e i “funerali rossi”, oltre alla funzione di promemoria simbolico delle conquiste della Rivoluzione d’ottobre, intenderanno contribuire alla formazione della coscienza rivoluzionaria delle masse.

A dare il via a quella che sarebbe divenuta un’usanza sovietica per le esequie delle personalità politiche più importanti, ossia all’esposizione della salma all’interno della Sala delle colonne della Casa dei sindacati  moscovita, fu il funerale del febbraio 1921 di Kropotkin organizzato autonomamente dai suoi compagni una volta rifiutate le esequie ufficiali. In questo caso i funerali si trasformano in una manifestazione di dissenso nei confronti dello Stato bolscevico.

Ad essere esaminato con attenzione è poi il funerale di Lenin del 1924 che prese il via con un primo corteo funebre che, nel sobborgo di Gorki, accompagnò la bara sino alla stazione ferroviaria da dove sarebbe partita alla volta di Mosca. Le immagini consentono di percepire la spontaneità della partecipazione popolare che, ancora non irreggimentata in scenografie istituzionali, procedeva in una sfilata richiamante le processioni religiose rurali ortodosse del secolo precedente, pur con una non irrilevante differenza: i contadini smisero di restare ai margini dell’evento trasformandosi da comparse defilate in coprotagonisti.

Il corteo divenne dunque una sfilata onorifica, una sorta di «riproposta in chiave politica contemporanea dell’archetipo della percorrenza della terra russa a piedi unito all’antico e universale valore celebrativo della processione funebre», che «si sarebbe ripresentato per giorni interi fino a perpetuarsi nella lenta, immancabile coda che, nei decenni sovietici, si sarebbe snodata lungo l’apposito percorso tracciato dal giardino Aleksandrovskij fino alla piazza Rossa per rendere omaggio alla salma imbalsamata» (p. 47).

Nonostante l’intenso freddo, circa cinque milioni di persone resero omaggio allo scomparso e se, come visto, i funerali rivoluzionari avevano dialogato con la “festa”, nel caso della morte del leader bolscevico ad avere il sopravvento fu il dolore e lo sbigottimento nonostante una sloganistica votata ad attenuare la perdita: “Lenin vive!”, “Lenin è morto, ma il Partito comunista da lui creato è rimasto”, “Lenin e morto, ma il leninismo vive!”.

Non pochi tra i testimoni oculari parlarono di sensazioni da favola. Primo riscontro di una realtà che nei funerali di Stato successivi si sarebbe riproposta e avrebbe acquisito tonalità sempre più cariche. Necessità di costruire una scenografia mirabolante, una rappresentazione che prendesse nette distanze dalla tragicità e dalla complessità della situazione effettuale per trasportare con la suggestione in una dimensione altra e rassicurante. Anche se, nella fattispecie, tali espletazioni del lutto contrastavano nettamente con lo spirito e le volontà dell’illustre defunto. La ragion di Stato prevalse (p. 50).

Il funerale del celebre poeta Sergej Esenin, nel 1925, si trovò invece a fare i conti con il problema della morte derivata da suicidio, gesto che, da quel momento in avanti, iniziò a essere formalmente denunciato come atto antisovietico e antisociale del tutto inconcepibile per un comunista.

Nel 1930, come Esenin, anche Majakovskij morì suicida e non potendolo liquidarle come traditore, il regime si affrettò a ricondurre le cause a questioni sentimentali. Assenti i rappresentanti delle alte sfere politiche, a rendergli omaggio al Circolo degli scrittori, ove venne esposto il feretro, sfilarono centocinquantamila persone e decine di migliaia accompagnarono la bara al crematorio. Pur trattandosi di una partecipazione spontanea e non organizzata, tra i presenti, probabilmente, in molti non conoscevano davvero le sue poesie ma, scrive Piretto, «il suo mito, politico, personale, oltre che poetico, aveva scatenato la partecipazione popolare». Ornai da tempo, anche in Russia, aveva preso piede «la “cultura della celebrità” e anche alla morte veniva attribuito un significato sociale» (p. 82).

Tra i tanti «funerali illustri e ideologicamente corretti negli anni Trenta staliniani» (p. 85), definiti con estrema efficacia dalla studiosa Helena Goscilo “melodrammi nazionali”, vi è anche quello dell’esponente politico Sergej Kirov assassinato nella sede del Soviet di Leningrado. Non vi sono prove certe che si sia trattato di un omicidio voluto da Stalin, resta il fatto che il suo posto venne prontamente preso da Andrej Ždanov, personalità gradita al dittatore.

Dopo l’assassinio di Kirov immediata fu, in parallelo, la glorificazione del defunto, secondo modalità che la mitologizzazione della storia caratteristica del decennio avrebbe messo sistematicamente in campo. Kirov divenne uno dei più brillanti simboli della lotta contro i nemici interni. La cerimonia del suo addio, avvenuta il 6 dicembre 1934, fu molto solenne, pur non tanto grandiosa come era stato il commiato a Lenin. Cambiavano i morti, ma immutato rimaneva ciò attorno a cui si snodava tutto quel magnifico rituale, melodramma, che ben presto restò l’unico protagonista. I fatti storici, nella fattispecie le reali cause della morte del personaggio, perdevano importanza di fronte alla necessità di mitologizzare il presente, senza attendere che la storia avesse compiuto il suo corso (p. 87).

Gli anni Trenta cambiarono le carte in tavola in Unione Sovietica anche per i funerali delle personalità più rilevanti. «Decesso, sacrificio, immolazione, categorie che erano state determinanti per l’ideologia degli anni Venti, perdevano valore e cedevano il passo all’euforia per le conquiste del raggiunto socialismo e spianavano la strada alla creazione della realtà virtuale, impostata sulla gioia di vivere di Stato, che sarebbe stata caratteristica degli anni Trenta staliniani» (p. 77).

Piretto si sofferma anche sulle vittime dell’assedio di Leningrado facendo riferimento in particolare all’inverno passato alla storia come “il tempo della morte” in cui i cadaveri si accatastavano lungo le strade nell’impossibilità materiale di seppellirli; un contesto in cui i «corpi dei singoli cittadini e, metaforicamente, il corpo collettivo sociale mutavano e perdevano le proprie caratteristiche umane» (p. 98). Il Museo dell’assedio realizzato a Leningrado alla fine del tragico evento venne chiuso da Stalin nel 1948. «Il tema dell’eroismo, temporaneamente accantonato all’inizio della guerra nel cosiddetto tema leningradese della letteratura, tornò prepotentemente per sostituirsi a quello della sofferenza. Il concetto di “guerra” fu rimpiazzato dal concetto di “vittoria”. La storia della guerra diventava la storia della vittoria» (pp. 104-105).

Vista la sua rilevanza nella storia sovietica, il volume non poteva che dedicare ampio spazio al funerale di Stalin del 1953. «L’investimento totale nel culto staliniano portò nei giorni del lutto all’espressione di esasperazioni emotive, ciechi coinvolgimenti ideologici, commozioni estreme, fino all’isterismo e al suicidio» (p. 108). Come per Kropotkin, Lenin e Kirov, anche la camera ardente di Stalin venne allestita per il pubblico omaggio nella Sala delle colonne della Casa dei sindacati. Una folla immensa sentì il bisogno di presenziare incredula circa l’avvenuta scomparsa del leader. A differenza di quanto accaduto ad esempio per Lenin, in questo caso a dominare furono il senso di incertezza, di incredulità, di spaesamento in assenza delle consolanti convinzioni dogmatiche. «Paradossalmente, quello Stalin morto fu la versione del leader più autentica che molti sudditi sovietici avessero mai potuto contemplare: un esemplare unico, appena contraffatto, pressoché tangibile, almeno con lo sguardo, molto più “reale” dei mille simulacri che lo avevano incarnato nei decenni di vita e di potere» (p. 116). È curioso notare come i dipinti realizzati nella Sala delle colonne mostrino uno Stalin isolato, non attorniato, come nelle fotografie e nei filmati, dalla schiera dei compagni di lotta desiderosi di rendergli omaggio ma anche di mettersi in luce in vista della successione.

Mentre, come visto, Lenin era stato sepolto accompagnato dal canto militante, a risuonare durante le esequie di Stalin furono musiche di Chopin, Mozart, Beethoven e Čajkovskij. Il funerale venne trasmesso in diretta radiofonica all’intero Paese con altoparlanti nelle piazze. Estremamente studiata la concessione della parola dalla tribuna del mausoleo; a succedersi furono gli interventi di Malenkov, Berija e Molotov al cospetto di quattromilaquattrocento militari della guarnigione di Mosca e dodicimila delegati moscoviti.

Una volta collocata la bara di Stalin accanto a quella di Lenin, a mezzogiorno le porte del mausoleo si chiusero lasciando la scena ai botti di artiglieria, alle sirene delle fabbriche, delle locomotive e dei cantieri e a cinque minuti di assoluto silenzio in tutti i locali pubblici, nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Dalla mole di pellicola girata durante i funerali sarebbe poi stato realizzato un film a colori intitolato Il grande addio che però, una volta terminato, venne accantonato probabilmente per volere di diverse autorità che, per motivi di convenienza politica, in epoca di destalinizzazione, preferirono rimuovere la loro precedente vicinanza al vecchio leader. Dalle oltre quaranta ore di girato il regista ucraino Sergej Loznitsa derivò nel 2019 un nuovo lungometraggio intitolato Funerali di Stato.

A morire lo stesso giorno di Stalin, ricorda Piretto, fu anche il musicista Sergej Prokof’ev. La sua scomparsa non venne però divulgata immediatamente, quasi a non disturbare la “morte principale” del momento. Trovandosi la sua abitazione vicina alla Sala delle colonne, nell’impossibilità di percorrere le strade con la bara del compositore, le autorità decisero di far ricorso «a una squadra di alpinisti militari che di notte trascinarono la cassa fuori dalla finestra con delle corde e la sollevarono fino ai tetti. Ci vollero cinque ore di rischiosa camminata su tetti spioventi per raggiungere la meta» (p. 122), ove presenziarono poche decine di amici e parenti al seguito.

Se, come suggerisce Piretto, si può affermare che, al di là del decesso vero e proprio, Stalin morirà metaforicamente una seconda volta sul finire degli anni Cinquanta per mano della condanna chruščeviana del culto della personalità, dunque una terza quando, all’inizio del decennio successivo, il Congresso del PCUS decise di rimuovere nottetempo le sue spoglie dal mausoleo per collocarle al muro del Cremlino, spetterà a Putin riesumare il mito di Stalin quando, in anni recenti, in risposta a un crescente malumore nei suoi confronti, decise di fare appello a un passato idealizzato. Non a caso, in occasione della sua visita a Volgograd nel febbraio 2023 per la commemorazione della battaglia di Stalingrado, la città lo ha accolto svelando un busto di Stalin e ripristinando, seppur temporaneamente, il nome Stalingrad.

Dopo aver tratteggiando le modalità con cui si venivano svolti i funerali sovietici della gente comune nei contesti cittadini tra gli anni Sessanta-Ottanta, Piretto, avvalendosi di resoconti dell’epoca e, soprattutto, di un filmato delle cerimonia reso pubblico dagli eredi nel 2017, dedica spazio alle esequie di Pasternak, caduto in disgrazia a seguito del romanzo Dottor Živago terminato nel 1955, opera accusata dal Comitato centrale del partito di essere calunniosa e antisovietica. In quell’occasione, per molti, partecipare al funerale significava non soltanto omaggiare la produzione letteraria dello scomparso ma anche esprimere una posizione di dissenso all’interno della Russia sovietica.

Un capitolo del volume è dedicato ai funerali di alcune donne importanti nel mondo sovietico. Nel febbraio 1919, racconta Piretto, le immagini dei funerali di Vera Cholodnaja, diva del cinema muto russo, si trasformarono in una sorta di suo ultimo film e conclusiva occasione di idolatria. Altri funerali di donne che seppero conquistare una certa partecipazione popolare furono quelli, nel 1920, della rivoluzionaria Inessa Armand, pianta pubblicamente dallo stesso Lenin alla Casa dei sindacati, dunque di Nadežda Krupskaja, una delle più strette collaboratrice di Lenin morta nel 1939 che, nonostante l’isolamento politico a cui era stata ridotta da Stalin, proprio quest’ultimo non mancò, come da copione, di essere tra i portatori dell’urna cineraria alla necropoli del Cremlino in un contesto che vide mezzo milione di persone renderle omaggio alla Sala delle colonne. Altro caso toccato dal volume è quello della poetessa Marina Cvetaeva, morta suicida nell’agosto del 1941 che, pagando l’emarginazione a cui era stata costretta, venne sepolta con una mesta cerimonia nell’indifferenza generale

L’onore di essere sepolte a Novodevičij, nel cimitero dell’elite nazionale, per quanto, allo stesso tempo, «alternativa diplomatica per le figure che non “meritavano” la visibilità della necropoli del Cremlino», spettò a donne come: Aleksandra Kollontaj, deceduta nel 1952, «pioniera dell’emancipazione femminile sovietica, femminista ante litteram, “valchiria della rivoluzione”, le cui teorie (spesso mistificate) relative all’eros e alle relazioni di coppia conquistarono il mondo suscitando perplessità tra molti bolscevichi di vecchia scuola» (pp. 154-155); la scultrice Vera Muchina, venuta a mancare l’anno successivo; Ekaterina Furceva, scomparsa nel 1974, per quattordici anni ministra della Cultura, poi divenuta scomoda al regime; Ljubov’ Orlova, morta nel gennaio 1975, diva sovietica delle commedie musicali dell’era staliniana.

Anna Andreevna Achmatova, tra le massime esponenti della poesia sovietica, pur essendo stata liquidata da Ždanov come una dei “portabandiera della poesia vuota, senza principi, da salotto aristocratico, assolutamente estranea alla letteratura sovietica”, alla morte nel 1966 venne omaggiata con necrologi e articoli pieni di riguardo nei suoi confronti, tuttavia le esequie, di cui esistono filmati, scontarono la storica condanna nei suoi confronti e si svolsero tra mille difficoltà.

Interessante il caso di Jurij Gagarin, per cui venne dichiarato il lutto nazionale, tributo mai concesso a un cittadino sovietico che non fosse un politico eminente. Il cosmonauta perse la vita trentaquattrenne nel 1968, a sette anni dalla sua impresa nello spazio, schiantatosi al suolo insieme a un istruttore di volo a bordo di un caccia. Le morti degli eroi-cosmonauti, ricorda Piretto, vennero spesso ammantate del discorso eroico-sacrificale proprio dei primi anni rivoluzionari: «immolazioni alla causa per la patria e investimenti esistenziali estremi che costellavano di imprese ardite la via verso il radioso avvenire» (p. 167). Il funerale di Gagarin aveva seguito il rituale non certo immune dal kitsch destinato alla scomparsa dei grandi personaggi sovietici: «l’accumulazione, l’inautentico, la facilità della fruizione, la riduzione della complessità estetica» (p. 169). Fuori copione, si sottolinea nel libro, i fiori portati dalla gente comune sparsi disordinatamente nei pressi della bara  infransero il rigido controllo estetico previsto dalle autorità. Come dimostrano le immagini, alle esagerazioni kitsch del cerimoniale, segnate da un “troppo di tutto”, si contrapposero il contegno e la composta sobrietà della gente comune accorsa per sincero affetto nei confronti dello scomparso ma anche, come in molti altri casi, per presenzialismo e per il desiderio di partecipare a un’emozione collettiva.

Un funerale interessante è anche quello di Vladimir Vysockij, deceduto nel 1980, popolare cantautore e attore non apprezzato dal regime anche a causa di una condotta di vita non esemplare secondo i canoni ufficiali. Pur non essendo mai stato dissidente in senso stretto, per certi versi il cantante può essere collocato nella tradizione dei cosiddetti poeti “non raccomandati”. Nel suo caso il funerale si svolse con grande partecipazione popolare e, in assenza di un cerimoniale organizzato dalle autorità, finì per rivelarsi genuino quanto improvvisato.

Nel tardo pomeriggio del 25 dicembre 1991 veniva ammainata la bandiera rossa dal pennone sul Cremlino lasciando posto ad una che riprendeva gli storici colori rosso, bianco e blu. Venendo dunque ad all’era post-sovietica, è da notare come a Gorbačёv, venuto a mancare nel 2022, non siano stati concessi i funerali di stato. Per l’occasione il regime putiniano mise in scena uno sproporzionato sistema di controllo con tanto di imponente schieramento di agenti di polizia nel centro di Mosca, recinzioni, itinerari obbligati e metal detector nella malcelata intenzione di scoraggiare la partecipazione popolare alle esequie. Il Cremlino si era limitato a un formale telegramma di condoglianze alla famiglia, pur avendo dichiarato di malavoglia un giorno di lutto nazionale.

I funerali vennero tenuti presso il tempio moscovita di Cristo Salvatore per poi concludersi con la sepoltura nel cimitero Novodevičij. Anche il feretro di Gorbačёv venne ammesso alla storica Sala delle colonne della Casa dei sindacati, mantenuta insolitamente spoglia rispetto ai funerali di autorità, alla presenza della guardia d’onore. Le tensioni internazionali derivate dal conflitto in Ucraina bloccarono la partecipazione di numerosi capi di Stato stranieri. Lo stesso Putin si limitò a un rapidissimo passaggio alla camera ardente dell’ospedale e alla deposizione di un mazzo di fiori accanto alla bara.

Nell’ultima parte del libro Piretto sottolinea come recentemente Putin abbia esplicitamente riesumato il culto della morte per la patria infarcendo i discorsi ufficiali di “eroi”, “eroismi” e rimandi all’eredità lasciata dai combattenti della “guerra patriottica”, mentre al contempo il regime si prodiga in una politica di negazione dei decessi minimizzando il bilancio delle vittime tra le sue fila. «Una notifica di “disperso sul campo di battaglia” ha consentito alla Russia di non pagare i risarcimenti a cui hanno diritto le famiglie se una persona viene uccisa in prima linea». Si è dunque creata una situazione paradossale. «O si glorificano i defunti per emulare il patriottismo, e si accetta di rendere visibile il fatto che i soldati stanno decedendo a migliaia, oppure si deve negare la morte stessa, facendo finta che tutto sia sotto controllo» (p. 197).

Tale tipo di retorica putiniana riesce a far breccia soprattutto nelle periferie, nelle province e nelle campagne in cui minore è l’attrazione del mondo occidentale.

I ricorrenti accenti “sovietici” riportati in auge, lessico, tono, gestualità, al di la del suonare falsi e stonati per il loro cadere fuori contesto, ribadiscono il disagio che deve essere di molti, rispetto alla contemporaneità postsocialista, e l’adesione alla più manifesta attrazione che il proselitismo putiniano esercita: allucinazione di recuperare un passato glorioso e roboante attraverso la riapplicazione di modalità e pratiche che, in realtà, altro non sono che spettri passati a cui si cerca di ridare nuovo corpo (p. 198).

La conclusione del volume è dunque lasciata ad alcune riflessioni sulla stretta attualità russa a partire dal “non funerale” di Prigožin nell’estate del 2023. La vicenda della colonna militare della Wagner diretta su Mosca, al di là delle letture degli eventi proposte dai media, resta al momento tutta da decifrare. Nel frattempo quel che è certo è che il suo comandante, Prigožin, è morto, insieme ad altri membri del gruppo, su un aereo schiantatosi al suolo.

La vendetta del Cremlino per lo “sgarbo” compiuto dal “traditore della patria” Prigožin il 24 giugno è stata plateale ed efferata», scrive Piretto, è dunque inevitabile «un collegamento con il passato, la morte (e le successive onoranze funebri) di Kirov […], “amico” di Stalin – ucciso nel 1934, forse, per sua stessa volontà –, le cui ceneri erano state portate a spalla anche dall’enigmatico leader. Il suo assassinio era stato strumentalizzato per dare il via alle repressioni dei cosiddetti nemici interni. Copione non così dissimile da quanto e accaduto nella Russia del 2023, dove gli ex “nemici interni” sono stati ribattezzati “agenti stranieri” (p. 205).

Nel caso di Prigožin, nel suo scarno messaggio di condoglianze, Putin si è ben guardato dal riferirsi allo scomparso come a un “Eroe della Russia”, limitandosi a segnarle blandamente il suo contributo alla lotta della Russia contro l’Ucraina, aggiungendo che “era stato un uomo dal destino difficile” capace però di ottenere “i risultati desiderati”. Nonostante tali dichiarazioni siano di difficile decifrazione, non si può non notare come Putin abbia evitato di inveire contro presunti responsabili o anche solo di suggerirne l’identità. Il sorgere di memoriali spontanei volti a celebrare Prigožin, secondo lo studioso, mostrano come in Russia negli ambienti contrari a Putin si riponessero speranze nel defunto leader della Wagner o, almeno, si tenti di costruire attorno alla sua figura una mitologia utile a fini politici, a riprova di come, ancora oggi, l’“ultimo spettacolo” continui a rivelarsi momento tutt’altro che secondario di propaganda e lotta politica.

 

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L’anno degli anniversari / 1871-2021: Comune di Parigi https://www.carmillaonline.com/2021/09/08/lanno-degli-anniversari-2-1871-2021/ Wed, 08 Sep 2021 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67867 di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti [...]]]> di Sandro Moiso

Goffredo Fofi (a cura di), I giorni della Comune. Parigi 1871, con una cronologia di Mariuccia Salvati, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 208, euro 9,00

Per chiunque si ritenga nemico dell’attuale modo di produzione e, allo stesso tempo, si sforzi di immaginare un modo per uscire dal medesimo attraverso una differente organizzazione sociale e politica, il centocinquantesimo anniversario della Comune di Parigi avrebbe dovuto costituire l’anniversario più importante da celebrare nel corso di quest’anno.

Purtroppo non è stato così. Tra i fasulli “mea culpa” e i tardivi guaiti di dolore comparsi su quotidiani come Repubblica, solitamente indirizzati alla criminalizzazione di ogni forma di conflitto di classe (si pensi soltanto alla posizione costantemente assunta dal quotidiano romano nei confronti della lotta No Tav), destinati a celebrare, ancora una volta, una sconfitta del movimento in occasione dei vent’anni trascorsi dal G8 di Genova del 2001 e l’eccessivo spazio concesso, in ogni ambito, all’attuale, infruttuoso e fuorviante dibattito sul green pass (considerati anche i numeri “reali” delle piazze e delle “stazioni” e i limiti di un discorso incentrato quasi esclusivamente sul diritto e il sentire “individuale”), il ricordo di uno degli episodi più luminosi (poiché illuminante anche per l’oggi e per il domani) della storia della lotta di classe, e della rivolta della specie contro la devastazione politica, economica e sociale prodotta dal capitalismo imperante, è passato praticamente sotto silenzio.

Poche sono state le pubblicazioni dedicate quest’anno a quella fiamma che per alcuni mesi incendiò la Francia e indicò il divenire dello scontro sociale, costringendo prima Marx e poi Lenin a posare saldamente i piedi nell’esperienza prodotta dall’auto-organizzazione e dalla spontanea riflessione di un movimento che della guerra di classe aveva fatto il suo inestirpabile baricentro. Ieri come oggi, e forse proprio questo ha contribuito a far sì che si preferisse rimuoverne il ricordo quasi in ogni ambito di informazione e discussione.
Poi dicono…la memoria e la sua importanza
Come al solito dipende sempre da quale memoria e di cosa o chi.

Per questo motivo l’agile libretto curato da Goffredo Fofi, e pubblicato nella collana Piccola Biblioteca Morale (PBM), ci è sembrato uno dei migliori, anche se in realtà si tratta di una selezione di articoli di giornali della Comune tratta da una ben più ampia raccolta curata da Mariuccia Salvati nel 1971 (quando la forza dei movimenti di classe si vedeva dalla capacità di imporre anche l’agenda degli anniversari e il corretto uso della memoria)1.
Così, prima di continuare con il discorso sulla Comune e i suoi giornali, sembra utile ricordare qui l’intento della collana delle edizioni e/o proprio attraverso le parole del suo curatore che, immancabilmente, rinviano anche a quanto qui si è fino ad ora detto.

Riprendere oggi la Piccola Biblioteca Morale2 significa per noi reagire all’abulia della cultura di questi anni, dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti […]. Sono stati sostituiti costoro, da branchi di professionisti della cultura, di ratificatori delle scelte del potere e non di suoi critici oppositori; sono stati sostituiti da masse di scriventi da cui ben di rado si distaccano figure di scrittori e di studiosi all’altezza delle necessità del nostro tempo, che i più avvertiti giudicano estremamente critico o addirittura prefinale, proprio nel senso di una possibile fine della natura e fine della società umana. Quando le politiche in fatto di ecologia e di frontiere e di interessi finanziari mettono in dubbio la possibilità stessa di un futuro per il pianeta e per i suoi abitanti, quando gli stati cedono ai privati rinunciando alle responsabilità verso le collettività e finiscono quasi ovunque in mano ad avventurieri senza scrupoli, torna ad essere urgente guardare al presente con occhi ben aperti sulle sue storture e i suoi pericoli, dando voce , per il poco che si può fare, a chi ancora si ostina a pensare e a proporre, in funzione di una risposta, di un agire individuale e per gruppi piccoli e grandi, per comunità collettive.
La nuova Piccola Biblioteca Morale questo cercherà di fare, scovando il pensiero che più può esserci utile là dove ancora viene prodotto e recuperando dal passato le lezioni che ancora servono a capire e ad agire3.

Ecco allora che tutte le questioni poste in essere dall’esperimento comunardo e dal grande assalto al cielo tentato dal proletariato parigino, ma non solo, intercorso tra la sconfitta dell’esercito francese a Sedan ad opera dei prussiani e la feroce repressione della Comune messa in atto dal medesimo esercito nazionale, una volta riarmato ad hoc dai prussiani stessi, può rivelarsi ancora di grande attualità e di aiuto, non soltanto per comprendere la storia del movimento antagonista di classe, ma anche per provare a dirimere alcuni dei dilemmi politico-sociali che si pongono oggi.

Il fatto che quell’esperienza, già ampiamente documentata nei ricordi di Louise Michel o Hyppolite-Prosper-Olivier Lissagaray (solo per citare due dei testimoni e protagonisti più accreditati) e analizzata in alcune delle opere più significative di Karl Marx, Michail Bakunin, Kropotkin e Lenin, sia vista attraverso la testimonianza diretta di quei giorni, tratta da i giornali editi in quel periodo rende, poi, il tutto più utile e diretto.

Furono decine i giornali pubblicati in quel periodo e ventisei quelli dai quali furono tratti gli articoli scelti dalla Salvati per la sua opera originale del 1971. Oltre naturalmente a manifesti, proclami ed editti dello stesso periodo che compaiono anche, pur se ridotti complessivamente a circa sessanta testi, nelle pagine del volume curato da Fofi.

La Comune, attraverso questi testi, ci “parla”, direttamente e senza, soprattutto, il sovrapporsi di interpretazioni ideologiche e critiche interessate espresse a posteriori che, vista la permanente contrapposizione tra anarchismo e socialismo, rischiano sempre di spostare l’attenzione del lettore dal fatto o dal “detto” concreto alla sua valutazione di carattere filosofico-politico.

Carta canta si sarebbe detto un tempo e, in effetti, quei giornali cantano ancora: una canzone di rivolta, presa di coscienza, organizzazione, battaglia e determinazione. Mai il piagnisteo percorre quelle pagine, mai l’allusione a generici “diritti umani”, mai la rivendicazione di un diritto strettamente individuale. Tutti gli articoli, anche se espressi da giornali di diversa tendenza, diventano espressione di una voce collettiva. Sia che si tratti di editti, analisi dei fatti, considerazioni sulla vita della Comune o anche dell’organizzazione di un Museo, è sempre chiaro che attraverso quelle righe, poche o tante che siano, si esprime una volontà collettiva… Se ci sono errori, e in una realtà vitale sono inevitabili, vi è sempre la possibilità di correggerli o rivederli. Insieme.

La vita è magmatica, non è un percorso ben ordinato e tale fu la vita, intensissima anche se breve, di quel primo radicale esperimento di società “altra” da quella del capitale. Anzi ci sarebbe da dire che proprio là dove regna l’ordine, come a Parigi dopo la semaine sanglante o come a Berlino dopo la repressione dei moti spartachisti, là regna la morte.
Alla faccia di tutti coloro che, utopisti o stalinisti o altro che fossero o siano, immaginano un processo rivoluzionario o l’organizzazione di una nuova società come un percorso ben ordinato e determinato dalle direttive di “un partito” o di un nucleo scelto di militanti.

Un autentico processo rivoluzionario integra tra di loro realtà differenti, sessi, classi e frazioni di classe potenzialmente nemiche del Capitale, per le quali l’eventuale egemonia politica di una di esse può essere soltanto condivisa con e dalle altre, mai imposta. Come ci insegnano la Comune stessa, le donne e gli uomini del Rojava e, ancora, i movimenti in difesa delle comunità e dell’ambiente come quello No Tav.

La vita è disordine creativo, la lotta e la rivoluzione disordine determinato, dai fatti oggettivi e dalle iniziative collettive. Tutto il resto è fuffa, volontarismo, centralizzazione autoritaria, deviazione opportunistica dagli obiettivi che si vanno invece meglio definendo nella polemica costruttiva, nel confronto collettivo e nelle battaglie condotte insieme. Anche sul piano militare, perché la pace, soprattutto tra chi sta in basso e chi sta in alto, oggi come ai tempi della Comune, può essere sventolata come bandiera soltanto da chi vuol mantenere un sempiterno status quo.

Può così risultare curioso, oggi, leggere sulle pagine del n° 131 del «Journal Officiel» dell’11 maggio 1871 un appello che la Federazione dei massoni e dei compagni di Parigi rivolge ai fratelli della Francia e del mondo intero.

Essendo state riprese le ostilità con un odio indescrivibile da parte di coloro che osano bombardare Parigi, i massoni si riunirono il 26 aprile allo Châtelet, e decisero che il sabato 29 sarebbero andati solennemente a fare adesione alla Comune di Parigi, e a piantare le loro bandiere sui baluardi della città, nei luoghi piùminacciati, sperando che avrebbe portato la fine di questa guerra empia e fratricida.
Il 29 aprile, i massoni, in numero di 10-11.000, si recarono all’Hôtel de ville, seguendo le grandi arterie della capitale, in mezzo alle acclamazioni di tutta la popolazione paerigina; arrivati all’avenue dela Grande Armée malgrado le bombe e le raffiche di mitraglia, inalberarono sessantadue delle loro bandiere di fronte agli assalitori.
[…] E’ da Versailles che sono partiti i primi colpi, e un massone ne è stato la prima vittima […]
No! massoni e compagni, voi non vorrete permettere che la forza bruta l’abbia vinta, voi non sopporterete che ritorniamo nel caos, ed è quello che avverrebbe se voi no foste con i fratelli di Parigi che vi richiamano alla riscossa.
Agite di concerto, tutte le città insieme, gettandovi davanti ai soldati che combattono, loro malgrado, perla peggiore causa “quella che non rappresenta che degli interessi egoisti”[…]
Voi sarete benemeriti della patria universale, voi avrete assicurata la felicità dei popoli per l’avvenire.
Viva la Repubblica!
Viva le Comuni di Francia federate con quella di Parigi!4.

Citare questo episodio non significa andare a cacca di curiosità storiche, ma sottolineare come l’idea della federazione di Comuni ovvero di comunità in lotta e auto-organizzate contro lo stato autoritario centralizzato e le alleanze imperialiste avesse pervaso tutto il tessuto sociale di Parigi e della sua resistenza al ritorno all’ordine precedente, anche in settori inaspettati.

Ma non del tutto, considerato ciò che lo stesso Marx annotò a proposito di alcuni provvedimenti della Comune: «Una parte rilevante della classe media ha aderito alla guardia nazionale di Belleville. I grandi capitalisti hanno pianto, quando i piccoli affaristi e gli artigiani andarono con la classe operaia.[…] I decreti sugli affitti e sugli effetti cambiari sono realmente due colpi magistrali, senza di essi i tre quarti dei piccoli uomini d’affari e degli artigiani sarebbero andati in bancarotta»5.

Sono, questi, solo degli esempi dell’attualità dell’insegnamento comunardo: vivo, presente, utile e battagliero. Senza pentimenti, senza renitenze, senza piagnucolii. I Comunardi, dalle pagine dei loro giornali, sembrano ancora dirci: Abbiamo assaltato il cielo e non ce ne siamo mai pentiti, ma adesso tocca a voi!

Il centenario della Comune di Parigi, che sia Marx che Bakunin considerarono la novità decisiva nella storia della classe operaia e dei “ceti subalterni” e delle loro lotte per una società egualitaria e solidale, per il socialismo, cadde nel 1971 a poca distanza dal ’68. E il movimento studentesco seppe appropriarsi di quell’anniversario finanche nelle sue frange “maoiste” e indicare la Comune come il primo modello della sua rivolta, in giro per il mondo ma in particolare in Francia dove la Comune era esplosa. Ma dopo, un pesante e cupo silenzio ha circondato quella storia […]
Prima dei “codici” staliniani che costrinsero le arti nella retorica e nel “culto della personalità”, anche nella Russia sovietica la Comune era additata come il punto di svolta nella storia dell’umanità6, una concreta esperienza rivoluzionaria di “potere al popolo”[…]
Nonostante le derive staliniane, nonostante le retoriche dell’intellighenzia borghese e piccolo-borghese di ieri ( e specialmente di oggi, quella che ha osato dirsi comunista), la Comune è stata e continuerà a essere il punto di riferimento di tante e vere rivolte, e in particolare ha dato ai popoli in lotta il modello di modi di organizzarsi, anzi di auto-organizzarsi, nel legame tra mandanti e rappresentanti, dentro una giusta comunanza di intenti e di pratiche (anche tra i sessi). Sotto – ne scrisse il ragazzo Rimbaud – “il gran sole carico d’amore”7.


  1. Mariuccia Salvati (a cura di), I giornali della Comune. Antologia della stampa comunarda 7 settembre 1870 – 24 maggio 1871, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 460  

  2. La collana era infatti nata, per lo stesso editore, già negli anni ’90 – NdA  

  3. Goffredo Fofi, Piccola Biblioteca Morale, in G. Fofi (a cura di), I giorni della Comune, edizioni e/o, Roma 2021, pp. 205-206  

  4. cit. in G. Fofi, I giorni della Comune, op. cit., pp. 139-142  

  5. Appunti di un discorso di Karl Marx sulla Comune parigina in Karl Marx, 1871 La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, edizione integrale con annessi i lavori preparatori ed altri inediti. Edizioni International – Savona e La vecchia Talpa – Napoli, 1971, p. 428  

  6. Come avrebbe affermato nel corso del ‘900 Amadeo Bordiga, dopo la Comune non sarebbe più potuto esserci in Europa alcuna alleanza tra Capitale e Proletariato – NdA  

  7. Goffredo Fofi, Introduzione a op. cit., pp. 5-7  

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La comodità di un’antologia “scomoda” https://www.carmillaonline.com/2021/05/26/la-comodita-di-unantologia-scomoda/ Wed, 26 May 2021 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66392 di Gianfranco Marelli

Gian Piero de Bellis (a cura di), Libertaria. Una antologia scomoda. Vol. I, D editore, Roma 2021, pp. 584, euro 23,90

Per la collana “Eschaton” diretta da Raffaele Alberto Ventura, l’editrice romana D editore ha pubblicato il primo dei cinque volumi dell’antologia Libertaria, con l’obiettivo di rinverdire il pensiero libertario – da qui il nome dato all’antologia, sulla scia del Libertaire di Dèjacque e Faure, entrambi presenti nella raccolta dei documenti qui proposti – ponendo a confronto i testi classici dell’anarchismo scritti da Malatesta, Bakunin, Goldman, Kropotkin, Berneri, Nettlau e tanti altri, con autori moderni e contemporanei del [...]]]> di Gianfranco Marelli

Gian Piero de Bellis (a cura di), Libertaria. Una antologia scomoda. Vol. I, D editore, Roma 2021, pp. 584, euro 23,90

Per la collana “Eschaton” diretta da Raffaele Alberto Ventura, l’editrice romana D editore ha pubblicato il primo dei cinque volumi dell’antologia Libertaria, con l’obiettivo di rinverdire il pensiero libertario – da qui il nome dato all’antologia, sulla scia del Libertaire di Dèjacque e Faure, entrambi presenti nella raccolta dei documenti qui proposti – ponendo a confronto i testi classici dell’anarchismo scritti da Malatesta, Bakunin, Goldman, Kropotkin, Berneri, Nettlau e tanti altri, con autori moderni e contemporanei del vasto arcipelago libertario quali Paul Goodman, Amedeo Bertolo, David Graeber, Bob Black.

Il progetto, curato da Gian Piero de Bellis, si propone in tempi brevi [il secondo volume è già in stampa] di tradurre oltre trecento documenti suddivisi in più di ventidue temi, fra i più coevi e i più disparati. Infatti, come si evince dal piano dell’opera1 c’è di che far tremare le vene e i polsi, soprattutto per l’eterocliti degli argomenti individuati, sebbene il filo conduttore che li lega, «quello della libertà dell’essere umano, la libertà di sperimentare vari stili di vita e aderire dappertutto a una o più comunità autonome, sulla base di scelte libere e volontarie» abbia la pretesa – secondo De Bellis – di porre in primo piano ciò che accomuna, non ciò che separa, l’anelito di difendere e rivendicare la libertà del singolo come «presupposto, necessario e indispensabile, per la nascita di molteplici e variegate comunità volontarie, al posto degli attuali stati cosiddetti nazionali, che uniformano le persone e centralizzano le decisioni, imposti a tutti coloro che vivono in un dato territorio».

Proprio la strenua difesa della libertà del singolo, strettamente connessa alla più aperta tolleranza nei confronti di tutte le espressioni ed esperienze in grado di praticare forme di organizzazione in cui i singoli associati scelgono liberamente le regole, i vincoli e gli obiettivi che li uniscono – nella libertà, ovviamente, di scindere l’accordo se questo non rispetta i patti comuni, o se il singolo non vi si riconosce più in essi – sembra essere la bussola che guida la presente antologia, al punto da mostrarsi «scomoda», soprattutto a « taluni cosiddetti anarchici, o presunti tali, visti – secondo il curatore di Libertaria – come i sostenitori di un’ideologia inventata (anarchismo) invece di essere gli sperimentatori di una pratica di libertà (anarchia)». Per tacere dei detrattori dell’anarchia, da sempre impegnati nel considerarla un’utopia, cui guardare con tenerezza e compassione, se non temere più della peste, in quanto caos, disordine, violenza.

Sennonché, più della scomodità ci sembra invece la comodità l’aspetto caratterizzante il primo volume di un’antologia che raccoglie 57 testi – scritti fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XXI – attraverso i quali gli autori descrivono la loro anarchia e il loro essere anarchici/anarchiche a partire dalle proprie conoscenze, esperienze e considerazioni riguardo al loro propendere per una visione individualista, mutualista, collettivista, comunista dell’anarchia. Ma c’è di più. Nel curare e tradurre i testi antologizzati, Gian Piero de Bellis riassume all’inizio di ogni capitolo lo spirito che ha animato quest’opera ciclopica, sottolineando l’intento ecumenico di presentare l’anarchia come una pratica di libertà individuale che sperimenta la possibilità di trovare piena corrispondenza nelle scelte compiute con altri individui che volontariamente decidono di riunirsi ed organizzarsi al fine di attuare la forma di società più consona alle loro aspettative e ai loro desideri. In tal modo, prediligendo un’anarchia senza “additivi” per evitare che fraintendimenti e contrapposizioni ideologiche possano ostacolare tale ideale pratico «attraverso passaggi prestabiliti e per mezzo di un partito di militanti ben inquadrati», il curatore dell’antologia indirizza le lettrici e i lettori a volgere uno sguardo meravigliato verso i poliedrici esempi libertari già presenti e agenti in ambiti sociali e organizzativi in cui il metodo anarchico supplisce e sostituisce la visione gerarchica, burocratica e autoritaria degli attuali Stati, oggi più che mai incapaci di garantire non soltanto la felicità, ma addirittura la sicurezza per i suoi “sudditi”.

Ma proprio questo intento ecumenico di presentare il metodo libertario come una pratica tutt’altro che utopista, bensì afferente al fallimento dello Stato nel gestire centralmente e territorialmente bisogni sociali che nascono da un mondo globalizzato e senza confini, contribuisce a dare dell’anarchia l’idea che sia un rimedio indolore in grado di raddrizzare le storture burocratiche degli apparati statali se lasciato libero di esprimersi nei modi e nei contesti più variegati, così da far prevalere la molteplice varietà della proposta organizzativa anarchica rispetto alla omogeneità monopolistica imposta con violenza tramite il controllo del territorio pubblico da parte dell’autorità statale. Aspetto, questo, che non tiene però in dovuta considerazione la violenza con la quale gli Stati affermano il proprio predominio sul territorio, soprattutto se dovessero perderne il controllo da parte di associazioni e comunità non più convinte e disposte a seguirne i diktat. Di ciò ne sono ben consapevoli gli autori presenti in questo primo volume di “Libertaria|”, al punto da offrire una lettura dell’anarchia affatto idilliaca e conciliante – oseremmo dire di comodo – con gli attuali regimi di governo; infatti, gli scritti qui presentati, pur nelle loro molteplici e differenti sfumature, non solo denunciano l’oppressione e la violenza degli Stati, compresi gli Stati post rivoluzione vittoriosa, ma ripetutamente sottolineano la necessità ineluttabile di doversi difendere dalla violenza statale che, da buon guardiano a tutela della proprietà e degli interessi della classe dominante, vecchia o nuova che sia, per nulla sarà disposta ad ammettere le proprie deficienze e i propri errori al punto da uscire di scena senza colpo ferire.

Così da Kropotkin a Bakunin, da Nettlau a Malatesta, da Goldman a Rocker, da Reclus a Landauer – passando per la Circolare di Sonvilier del 1871 contro l’involuzione autoritaria dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, da allora sotto la direzione del Consiglio Generale di Londra controllato da Karl Marx [non a caso è il primo documento che dà inizio alla presente antologia] – si ha la netta impressione che la selezione operata dal curatore abbia sottaciuto questo importante snodo teorico (vale a dire l’uso della forza per non essere sopraffatti dalla violenza dell’avversario), preferendo sottolineare le esperienze e le pratiche libertarie dalla chiara impronta pragmatista al fine di affermare l’idea anarchia come attività conciliatrice, in grado di prefigurare già da ora il necessario superamento di un quadro politico statuale non più al passo coi tempi, poiché messo in crisi dal progresso tecnologico di un sistema economico, produttivo, finanziario che da tempo ha abolito ogni confine territoriale, operando su scala globale e organizzando i suoi utenti-consumatori affinché si rappresentino appartenenti e solidali a consorzi privati “social”, la cui influenza mediatica è capace di pilotare le scelte degli individui e, di conseguenza, influenzare la politica stessa degli Stati.

Del resto, proprio questa visione conciliatrice, armoniosa e radicalmente tollerante dell’idea anarchica, in grado di stemperare sino a risolvere le tensioni e i conflitti presenti in un mondo multiculturale, dove la globalizzazione del sistema capitalistico produttivo ha praticamente superato i confini nazionali degli Stati, ha fatto da guida al precedente e fortunato studio di de Bellis sulla “Panarchia”, sfociato nel 2017 con la pubblicazione di un’apposita antologia – sempre edita dalla giovane casa editrice romana – in cui sono raccolte le più svariate interpretazioni storiche date a questo concetto, a partire dall’articolo scritto nel 1860 dal biologo belga Paul-Émile de Puydt, il quale per primo teorizzò la Panarchia come un “movimento per i diritti civili” impegnato a spezzare l’intolleranza politica che assegna automaticamente una nazionalità, una religione o un’appartenenza a qualsiasi istituzione (Stato, Chiesa, Corporazione) senza la scelta e l’assenso preventivo della persona. Non per nulla nell’introduzione a Libertaria, il curatore richiama la precedente pubblicazione con il chiaro proposito di rimarcare lo stesso impianto teorico che anima le due antologie, ossia l’idea che «il modo migliore per far convivere, in maniera armoniosa, su uno stesso territorio, persone di diverso orientamento culturale e politico, è far sì che ognuna sia libera di formare o scegliere la comunità di cui vuole far parte, attenendosi alle sue regole e forme organizzative, senza intromettersi od ostacolare i modi di vita dei membri delle altre comunità autonome. Un po’ come si aderisce a una Chiesa, a una religione o come, negli ultimi decenni, si sceglie una tra le tante compagnie telefoniche, la cui sede amministrativa non è o non deve necessariamente essere situata nel paese in cui vive l’utente» [p.13].

Con questo spirito conciliante con il mondo e alla ricerca di poter conciliare fra di loro le diverse anime che popolano il pensiero libertario, Gian Piero de Bellis ha così deciso di intraprendere una variegata presentazione delle teorie anarchiche, andando a scavare nell’immenso giacimento di scritti prodotti da centinaia di pensatori e protagonisti della storia dell’anarchia, al fine di rimarcare la stretta parentela con la definizione più ampia e inclusiva del termine Panarchia, individuando «nella libera sperimentazione di comunità volontarie a base non territoriale rappresenta la soluzione migliore (più umana e più funzionale) per la vita in società. Soprattutto in società variamente articolate, estremamente complesse e tecnologicamente avanzate». In tal modo, ridotta l’anarchia a una libera sperimentazione di modi diversi di vivere più congeniali a ciascun individuo, inevitabilmente ogni contestazione radicale e violenta nei confronti del sistema capitalista è stemperata, fino al punto da sussumere la tolleranza verso chiunque – anche riguardo a chi non brama né libertà, né autonomia, in quanto ritiene più sicuro e tranquillo essere accudito, guidato, dominato – come il pilastro che, ponendo fine al monopolio territoriale degli Stati «perché negativo, diseconomico e disfunzionale in tutti i campi», condurrà l’intera umanità a combattere l’ulteriore e ultimo ostacolo che impedisce a ciascun individuo di sperimentare l’organizzazione a-territoriale che più gli si confà, scegliendo volontariamente la forma istituzionale più prossima alle sue idee e ai suoi valori nel rispetto delle idee e dei valori altrui.

Utopia o necessità insita nel processo evolutivo dell’umanità che, esausta delle continue tensioni fra stati nazionali e fra culture e religioni differenti, ha saputo trasformare la violenza aggressiva in energia difensiva da optare a favore di una tolleranza radicale di tutti verso tutti? Sì, perché l’ANARCHIA 2.0 – in altre parole, la Panarchia – non è che l’evoluzione armoniosa di un’idea esagerata di libertà che, oltre a distruggere confini statali e barriere confessionali, rompe qualsiasi steccato ideologico che finora ha impedito alla visione liberista del lassez faire lasser passer in economia di essere applicata anche in politica, attribuendo alla libertà del singolo la scelta di quale forma istituzionale preferire e partecipare, assieme ad altri, al suo funzionamento in base ai principi di merito, funzionalità, concorrenza.

La questione, in ultima analisi, concerne il valutare se questa evoluzione dell’umanità nella prospettiva pananarchica possa trasformarsi in un’opportunità per l’emancipazione sociale e il suo diverso sviluppo economico non più finalizzato al profitto proprietario attraverso lo sfruttamento dell’ambiente, o se, al contrario, debba segnalare una realtà che già si è concretizzata a seguito del progressivo predominio a-territoriale dei robber baron di Internet [Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft] sugli Stati nazionali. Si tratta di una questione scomoda che “Libertaria” ha posto all’attenzione delle lettrici e dei lettori, nella speranza che siano sempre più giovani interessati a occuparsene. Dopotutto, se vuoi essere sempre giovane – ci ricorda Voltarine De Cleyre, tra le tante anarchiche presenti nell’antologia – «diventa un anarchico e vivi una esistenza fatta di fiducia e di speranza, anche quando sei carico di anni».


  1. “Anarchia/ Anarchici/ Individualismo/ Mutualismo/Collettivismo/Comunismo” (vol. I); “Stato/Potere/ Autorità/ Ordine/ Patriottismo/ Nazionalismo/Militarismo/Violenza/Nonviolenza/Spiritualismo” (vol. II); “Democrazia Rappresentativa maggioritaria/ Federalismo/ Organizzazione/ Natura-Ambiente-Spazio” (vol. III); “Istruzione-Educazione/Lavoro-Attività/ Economia/ Proprietà/ Tasse” (vol. IV); “Libertà/Essere Umano/ Futuro/Arte-Creatività/Poesia-Canzoni” (vol. V)  

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Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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