Kingston Trio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il giorno in cui Bob Dylan impugnò la chitarra elettrica https://www.carmillaonline.com/2023/03/04/il-giorno-in-cui-bob-dylan-impugno-la-chitarra-elettrica/ Sat, 04 Mar 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76153 di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, [...]]]> di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, Milano 2022, pp. 370, 18,90 euro, eBook 11,99 euro.

Dylan a Newport con un nuovo look e una chitarra elettrica: incoronato re del folk, Dylan mette in chiaro che il suo sogno è diventare re del rock’n’roll. Nasce un tumulto.
È un evento originario, tramandato attraverso i decenni dai «boomers» che furono adolescenti negli anni sessanta, l’età dei diritti civili e del flower power. E come tutti gli eventi originari è falso, o parecchio esagerato, come illustra e racconta Elijah Wald nel suo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, una splendida e appassionante visita guidata all’ouverture dei sixties.

È il 25 luglio del 1965. Newport, Rhode Island. È qui che dal 1959, ogni estate, si tiene il Newport Folk Festival, dedicato a canti etnici, antiche ballate importate dall’Europa in tempi remoti, blues tradizionale, gospel, canzoni socialiste e proletarie, qualche timido excursus nel «folk pop», come lo chiamano, cioè nel folk commerciale, che ha cominciato a scalare l’hit parade: Tom Dooley del Kingston Trio, If I Had a Hammer e Where Have All the Flowers Gone di Peter, Paul and Mary.

Sono canzoni impegnate, legate al movimento antisegregazionista e alla sinistra americana. Pete Seeger, il creatore del festival, ha scritto gli hit di Peter, Paul and Mary e nei primi cinquanta ha importato dall’Africa The Lion Sleeps Tonight, o Wimoweh, una canzone che lo ha reso ricco (mentre Solomon Linda, l’autore della canzone, un musicista zulu, muore nel 1962 in miseria, e ci vuole una sentenza di tribunale per risarcire gli eredi). Seeger è stato anche membro del partito comunista ed è finito in lista nera. Veste dimesso, e se la tira da santa canaglia, ma ha «studiato a Harvard» e, come gli ricorda sua moglie: «Non sei un operaio, fai solo finta, e lo vedono tutti». Lui non se ne dà per inteso: pugno chiuso, camicia a scacchi e canzonette engagé. Due anni prima, nel 1963, a nome del Newport Folk Festival ha incoronato fenomeno del folk il giovanissimo Bob Dylan. Questi è salito sul palco in look (anche lui) da classe operaia imbracciando una chitarra acustica, l’armonica fissata al collo da un supporto subito entrato nella leggenda, e ha intonato canzoni che non saranno più dimenticate: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Don’t Think Twice, It’s All Right, Masters of War.

Ma ecco che due anni dopo Dylan si presenta a Newport in costume rockettaro stretto: «giacca di pelle lucida sotto i fari del palco, una camicia color salmone abbottonata fino al collo, jeans neri e stretti che gli fasciano le gambe sopra gli stivali a punta da cowboy, neri anch’essi». Imbraccia una chitarra «Stratocaster sunburst a due colori». Una chitarra elettrica. Sul palco, con lui, una band improvvisata di bluesmen di Chicago: chitarristi sparsi, qualche amico, Paul Butterfield e alcuni musicisti della sua Blues Band (che ha esordito, qualche mese prima, con Born in Chicago, una canzone che comincia così: «Sono nato a Chicago nel 1941 / Mio padre mi ha detto: “Figliolo, ti conviene prendere una pistola”»). Intorno, amplificatori, cavi elettrici, riflettori. Diranno poi che, venuto per ascoltare Bob Dylan cantare che «una dura, dura pioggia cadrà», e quel giorno è effettivamente piovuto per ore, il pubblico del Newport Folk Festival, bagnato fradicio, i piedi nel fango, s’è ritrovato davanti uno sconosciuto. Sguardo cattivo, modi strafottenti, chiaramente «stoned» di chissà che, una mise da damerino di Carnaby Street.

E via con l’evento originario: «Le luci sono puntate su di lui, solo al centro del palco, mentre i musicisti alle sue spalle iniziano a suonare avvolti dal buio. Ascolta per un momento, sente la forza della band, quindi s’avvicina al microfono e canta un singolo verso: “Alla fattoria di Maggie non ci lavoro più!” Fa un passo indietro, lascia che il grande chitarrista Mike Bloomfield risponda con un fraseggio di chitarra, si lascia trasportare dal ritmo ancora per un momento, poi torna al microfono e ripete la frase. Bloomfield risponde di nuovo, e ancora una volta lui ascolta per un istante prima d’irrompere con la prima strofa: «Mi sveglio la mattina, giungo le mani e prego perché piova / Le idee che mi frullano per la testa mi fanno impazzire». Yarrow sta accovacciato dietro ai musicisti, sistema i cavi apportando piccole regolazioni agli amplificatori. Bloomfield è alla destra di Dylan, avvolto dal buio e illuminato solo momentaneamente dal flash dei fotografi. La voce di Dylan si alterna ai fill secchi e ruvidi del chitarrista. Tra una strofa e l’altra, Bloomfield suona liberamente, senza attenersi a parti scritte in precedenza. Dalla sua chitarra escono urla stridenti, bassi tonanti e grappoli di note dissonanti, che si chetano ogni volta nel riff ripetitivo che annuncia il successivo ingresso di Dylan. Il suo non è un semplice accompagnamento: duella con Dylan, sfidandolo e incoraggiandolo a proseguire. Il cantante ulula l’ultimo verso: “Faccio del mio meglio per essere me stesso / ma tutti vogliono che sia come loro”».

È una metamorfosi, pensano i dylaniani della prima ora: il profeta beatnik di The Times They Are A-Changin’ ha saltato il fosso. Si è venduto, è passato al pop. Esultano invece i nuovi dylaniani: basta con le lagne sdolcinate del folk, basta con le canzoni sociali, finalmente l’introspezione, evviva Rimbaud, sex revolution, marijuana!

Non è vero, come racconta Elijah Wald nel suo libro, ma si racconta (e si racconterà ancora a lungo) che Pete Seeger, urlando «basta con questo rumore», si sia avventato sui cavi degli amplificatori mulinando un’ascia, come uno di quei boscaioli del Vermont che invita al festival insieme ai suonatori di banjo, di ukulele, di kazoo e a tutti quegli artisti che suonano «la vera musica del proletariato». Anche lui, nelle sue memorie, lascerà credere d’aver trasceso: nessuno rinuncia al suo cammeo, per quanto sgradevole, nella storia del mondo. Ma anche se non ci sono state scene madri, e Seeger si è limitato a soffrire in silenzio, qualcosa è successo davvero. Aveva ragione il vecchio Dylan: i tempi stanno davvero cambiando.

Dai diritti civili si sta passando ai diritti umani; dalle cause sociali a quelle del singolo, dell’individuo. È il grande ritorno del rock’n’roll, la cui stella era tramontata con l’eclisse di Elvis Presley, trasformato in star hollywoodiana e crooner di Las Vegas (ma anche nel saltafosso da Be-Bop-A- Lula e Mistery Train a Love Me Tender e Viva Las Vegas Presley rimane Presley, un principe). John Lennon e Paul McCartney stanno cambiando la vita della gioventù europea e americana con le loro melodie perfette e l’eleganza dada del loro look. Altrettanto innovativi, ma decisamente meno iconici, sono i CCR, per esteso Creedence Clearwater Revival, una band californiana che fonde il country con il blues e il rock’n’roll. Comincia l’età del rock duro e adrenalinico, poi psichedelico, presto anche del punk, dei Velvet Underground, del rock en travesti di David Bowie. Dylan è uno di loro, e il più bravo di tutti. Come canta in un altro dei suoi nuovi hit, Subterranean Homesick Blues, lui non «ha bisogno d’un meteorologo per sapere da che parte tira il vento».

Perché è di questo, ribadiamolo, che si tratta: dei tempi che cambiano. Non sono i Beatles o gli Stones né Dylan a cambiare il mondo, come qualcuno dirà in seguito, ma le loro canzoni sono l’inconfondibile colonna sonora del cambiamento, un’apocalisse dei costumi che coglie tutti di sorpresa, Dylan compreso. Ma il ragazzo è sveglio e si lascia portare dall’onda. A Newport, nel 1965, si volta pagina, nel bene e nel male. Non solo Dylan, ma almeno metà dei musicisti presenti sono passati, da un pezzo, alle chitarre elettriche.

«Non fu piacevole», racconta Wald, «ma fu di gran lunga meglio delle scontate declamazioni dei progressisti da manuale». A Newport, tutti erano abituati a essere accolti e coccolati, a sentirsi circondati da menti affini. «L’unico a mettere in dubbio la nostra posizione è stato Dylan. Forse non l’ha fatto nel migliore dei modi. Forse è stato maleducato. Ma ci ha dato una scossa. Questo è il ruolo dei poeti e degli artisti».

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Che cos’è una canzone di protesta? https://www.carmillaonline.com/2018/03/15/cose-canzone-protesta/ Wed, 14 Mar 2018 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44055 di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza (caratterizzata spesso dall’immediatezza dell’evento e dall’oralità) che per i secoli precedenti è andata perduta. Fatti salvi i casi in cui una mano benevola abbia trascritto la canzone o il motivo oppure i casi in cui questi siano stati tramandati mnemonicamente di generazione in generazione e di terra in terra.

Da questo punto di vista la musica popolare prodotta negli Stati Uniti è stata forse la più fortunata poiché non solo ha raccolto l’eredità musicale di decine di etnie diverse, ma le ha viste anche spesso registrate sul campo da autentici fondatori della ricerca sulla popular music e, di fatto, della storia orale quali John e Alan Lomax, Sidney Robertson, Helene Sratman Thomas fino al più “recente” Art Rosenbaum.1

A tutto ciò l’industria discografica del XX secolo, sviluppatasi enormemente proprio negli USA fin dagli anni dei primi grammofoni, ha contribuito con una collezione infinita di suoni e canzoni che, pur allineandosi spesso ai canoni più commerciali, hanno ulteriormente arricchito quel patrimonio. Finendo anche col diventare uno degli archivi più preziosi dell’immaginario collettivo, sociale e giovanile, di un intero secolo. Anche se, va qui ricordato, il mercato degli spartiti sviluppatosi nel corso dell’Ottocento aveva già contribuito al mantenimento della memoria della cultura popolare o, come sarebbe stata poi in seguito spesso chiamata e confusa, di massa.

Matteo Ceschi, storico, saggista e fotografo milanese, che collabora da anni con diverse riviste musicali e ha pubblicato numerosi saggi dedicati alla controcultura statunitense, esplora uno degli infiniti aspetti possibili della popular music e indaga le vie e le modalità attraverso le quali una canzone entra nell’immaginario collettivo come espressione condivisa di un determinato momento storico o politico e diventa manifesto, strumento e definizione dell’azione collettiva contraria all’establishment economico, culturale, razziale e militare dominante. Ovvero come una canzone diventa “canzone di protesta”.

Per fare ciò l’autore sceglie tre canzoni più volte riprese nel contesto sociale e discografico, anche a distanza di generazioni: This Land Is Your Land di Woody Guthrie, Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e Kick Out the Jams degli MC5, questi ultimi autentici guerriglieri del rock di Detroit degli anni Sessanta e Settanta. Tre espressioni musicali prodotte originariamente in contesti, da autori e con stili diversi, ma che nel tempo hanno finito con l’essere accomunate nel canone della protesta.

Tra la canzone di Woody Guthrie la cui politicizzazione è sempre stata estremamente evidente, a partire dalla scritta sulla chitarra che recitava “Questa è una macchina per uccidere i fascisti”, e la canzone di Dylan che derivava da uno spiritual che risaliva alla seconda metà dell’Ottocento e che il folksinger originario di Duluth era solito inserire nelle sue prime esibizioni newyorkesi2 oppure lo scatenato brano inciso dai Motor City Five nel 1968 corrono non solo anni, ma epoche dal punto di vista del gusto e dello stile musicale di esecuzione. Ma tutti e tre hanno finito col condividere un destino simile, quello di essere interpretati all’epoca e in seguito dalle generazioni successive come bandiere della lotta: dal racconto dei migranti impoveriti dopo le tempeste di polvere e al grande crisi degli anni Trenta, ai movimenti per l’uguaglianza e per i diritti degli afro-americani dei primi anni Sessanta, fino alla rabbia giovanile bianca delle rivolte urbane e universitarie degli anni Settanta e poi ancora dei movimenti succedutisi contro la guerra in Vietnam, contro quella in Irak fino, in alcuni casi, a Occupy Wall Street.

Come tale fenomeno sia stato possibile è ciò che l’autore riesce a spiegare nel suo sintetico ed efficace testo.
Per riuscire nel suo scopo Ceschi individua tre elementi fondamentali destinati a trasformare una semplice canzone, per quanto folk, in un inno della protesta.
Il primo consiste nel fatto che la canzone destinata a diventare simbolica deve nascere, come opera d’arte che si rispetti, da una sensibilità autoriale capace di leggere le paure e le inquietudini della propria epoca di appartenenza ed espressione.

“Un secondo aspetto, non meno importante della sensibilità dell’artista alle correnti della realtà sociale e politica che lo circonda, permette di includere nella categoria delle canzoni di protesta una maggiore varietà di brani: va cioè ammessa la possibilità che l’artista non senta e non nutra un’affiliazione particolare a uno specifico movimento politico o partito in attività e non abbia quindi l’intenzione soggettiva di essere un portavoce. Questo è stato particolarmente vero nella storia degli Stati Uniti, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, e può essere fonte di equivoci per il pubblico europeo, anche se da questa parte dell’Oceano qualche caso di questo tipo c’è stato. La militanza […] non dipende dall’adesione a forme di protesta strutturate sul territorio, ma può scaturire dalla presa di coscienza del singolo che, affidandosi a quel common sense che da Thomas Paine in poi ha fatto da pietra angolare alla sensibilità politica americana, aderisce ad alcune istanze sociali e si sente in dovere di denunciare e rendere pubblici alcuni fatti.
Con ogni evidenza, la posizione privilegiata dell’artista quale “testimone e megafono dei tempi”, e la lingua universale di cui è dotata la musica […] facilitano enormemente la veicolazione del messaggio e la sua diffusione anche presso l’ascoltatore casuale.”3

Il terzo fattore, a far sì che una folk song sia immediatamente recepita come canzone di protesta, è costituito dalla

“presenza e il ruolo attivo del pubblico – ascolto-decifrazione-elaborazione-diffusione – che costituiscono il più importante requisito per definire una canzone di protesta, oltre che per decretarne il successo. Diversamente da quanto accade per un discorso di un oratore, con la musica la «retorica della protesta» arriva al pubblico anche senza che questo sia specificamente preparato o predisposto a riceverne il messaggio. Tutto, grazie al supporto fondamentale della melodia e del ritmo, è ancora di più affidato alla sfera emotiva dell’individuo. In un clima di progressiva e spontanea complicità dettato dal momento e, è bene ripetere, quasi mai predi¬sposto, cantante e platea possono quindi scoprire inaspettate affinità e trasformare un sentimento personale in una più inclusiva esperienza collettiva.”4

Una volta accumulati questi tre fattori la canzone entra nel “mito” o nel “canone” protestatario destinandola a successive interpretazioni ed utilizzi. Ceschi, oltre che delle tre canzoni sopra elencate, fa l’esempio di altri brani musicali entrati nell’immaginario musicale e culturale non solo statunitense come Morning Dew di Bonnie Dobson, nata dalla paura suscitata nell’autrice dal possibile conflitto nucleare tra USA e URSS nel 1962 e poi diventata attraverso i Grateful Dead o l’interpretazione datane dal Jeff Beck Group un simbolo della protesta contro l’arruolamento dei giovani per la guerra in Vietnam. Oppure The Star Spangled Banner che da orgoglioso inno degli Stati Uniti fu rovesciato da Jimi Hendrix nel suo esatto contrario, attraverso un processo di distorsione e feedback chitarristico che avrebbe immediatamente ricordato ai suoi ascoltatori i devastanti bombardamenti e i combattimenti sanguinosi di qualsiasi guerra dal Vietnam in poi.

L’interazione tra pubblico, momento socio-politico e creatività dell’artista diventa un nodo fondamentale della costruzione del simbolo e della sua successiva trasmissione anche se, e non è male ricordarlo, è la vastità, la durata o la portata dell’evento che definisce la crisi o la rottura sociale a determinare il destino di una canzone di protesta o rivoluzionaria.
In tal senso si potrebbe affermare in teoria che può esistere una rivoluzione o una rivolta anche senza una musica che l’accompagni, ma che non può esistere una canzone rivoluzionaria o di protesta senza l’evento traumatico di una rottura socio-politica e/o rivoluzionaria.

Facendo un salto più indietro nel tempo può essere, a questo riguardo, interessante ricordare che il primo inno rivoluzionario francese, il Ça ira!, nacque da un brano composto nel 1786 da Bécourt, violinista del Teatro Beaujolais, e intitolato Le Carillon National, la cui melodia divenne una delle preferite della regina Maria Antonietta. Le parole rivoluzionarie furono aggiunte da un soldato, tale Ladré, e ispirate da un tic verbale di Benjamin Franklin che nel corso della Guerra di Indipendenza americana fosse solito ripetere ossessivamente: “Ça ira! Ça ira!” soltanto per farsi coraggio.
L’ironia della Storia fece poi così che la giovane regina mentre veniva condotta al patibolo, il 16 ottobre 1793, dovesse sentire cantare dalla folla inferocita proprio il refrain della sua amata canzone.

Era stato però il 14 luglio del 1790, durante un’improvvisazione alla Fête de la Federation, che erano stati aggiunti i versi che l’avrebbero resa poi famosa ed espressiva della rabbia popolare: Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates à la lanterne / Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates, on les pendra! 5 E queste ultime parole, probabilmente, erano state ispirate da un evento “da strada” parigino, quando Foullon de Doué, un funzionario del ministero della Guerra, era stato catturato dalla folla.

“La Bastiglia è appena caduta, e per le strade si inseguono voci su cospirazioni tese ad affamare il popolo e a reprimere l’insurrezione. Si dice che Foullon sia coinvolto in uno di questi complotti. I rivoltosi lo atterrano, lo trascinano fino a un lampione nei pressi dell’Hôtel de Ville e lo impiccano a quella forca improvvisata. Per un attimo resta sospeso a mezz’aria, poi la corda si rompe. Lo appendono di nuovo. Di nuovo la corda si spezza. Al terzo tentativo, finalmente, muore soffocato. Una mano agguanta brutalmente il cadavere, stacca la testa dal collo, apre le mandibole e riempie la bocca di paglia.. «Che mangino fieno», si vuole abbia esclamato Foullon, riecheggiando il famoso «Mangino brioches» attribuito alla regina. Lo ha veramente detto? Non importa.Ora la sua testa, portata in trionfo per le strade in cima ad una picca, urla ai quattro venti quel messaggio”. 6

Il successivo inno, la Marsigliese, divenuto poi inno nazionale, è ben più retorico ed attentamente formulato per invitare i cittadini alla difesa della Patria e questo percorso, tra un inno e l’altro, credo sia estremamente utile per illustrare, anche per periodi e contesti diversi quali quelli di cui parla il libro di Ceschi, la differenza tra il prodotto di un momento storico specifico, della spontaneità dell’azione e della percezione sociale e della creatività individuale e artistica che contribuiscono alla definizione e diffusione di una canzone di protesta o di un inno rivoluzionario nel tempo e nella cultura e un prodotto artificiale, istituzionalizzato e sostanzialmente limitante per la sensibilità collettiva realizzato in seguito oppure con specifiche finalità retoriche e politiche.

Nel corso della seconda metà del ‘900 però, proprio per l’importanza assunta dalla musica registrata e dall’industria discografica che comunque l’ha raccolta e diffusa, la ripresa della canzone di protesta è stata anticipata da una rinvigorita produzione di folk music seguita al grande successo internazionale di un brano come Tom Dooley,7 ripreso ed eseguito dal Kingston Trio nel 1958 e successivamente da molti altri artisti e gruppi folk, che scatenò negli ambienti discografici americani un’autentica caccia al cantautore o all’esecutore di folk song e che a sua volta segnò la svolta del folk revival del Greenwich Village in cui finirono col precipitarsi giovani artisti squattrinati da ogni parte degli States e dal Canada. Finendo col costituire un “quarto” e inaspettato possibile fattore per la messa in moto del processo creativo e percettivo cui il movimento per i diritti civili avrebbe dato la spinta definitiva.

E questo rivela come la strada intrapresa dall’autore, supportata anche da interviste originali a personaggi del calibro di Wayne Kramer (chitarrista degli MC5), Joe McDonald (meglio conosciuto come Country Joe) e Jimmy Collier (allievo di Pete Seeger e Martin Luther King), potrebbe rivelarsi ancora estremamente ricca e stimolante per l’ulteriore sviluppo degli studi non solo sulla popular music, ma anche sull’immaginario collettivo nel suo insieme.


  1. Si vedano, soltanto per citarne alcuni, a proposito della varietà delle culture e delle etnie che hanno contribuito alla formazione del patrimonio musicale statunitense: James P. Leary, FOLKSONGS OF ANOTHER AMERICA. Field recordings from the Upper Midwest, 1937 – 1946 (con allegati 5 cd e un DVD), Dust to Digital 2015; Mariano De Simone, Benvenuti in America! Musica e minoranze etniche nel sud degli Stati Uniti, L’Epos 2004 e, ancora, M. De Simone, “Doo-dah! Doo-dah!” Musica e musicisti nell’America dell’Ottocento. Afro-americani e Minstrel Show. Popular music e tradizione irlandese. Brass bands e canzoni della Guerra Civile, Arcana 2002 . Va qui aggiunto che Mariano De Simone è il ricercatore che, insieme a Robbie Robertson, ha contribuito alla realizzazione della colonna sonora del film Gangs of New York di Martin Scorsese, uno dei tentativi più interessanti e riusciti di ricostruzione dell’immenso melting pot musicale e culturale da cui è scaturita la musica popolare statunitense.  

  2. Si tratta di Many Thousand Go trascritto con il numero 35 da Thomas Wentworth Higginson, pioniere della ricerca musicale sul campo e colonnello del 1° Reggimento dei South Carolina Volunteers (il primo contingente dell’U.S.Army composto esclusivamente da soldati afro-americani), che lo raccolse insieme ad altri sulla rivista “Atlantic Monthly” nel 1867 e che Bob Dylan eseguì e incise , quasi con le stesse parole, nel 1962 con il titolo No More Auction Block. Dal quale estrasse poi la melodia di Blowin’ In The Wind. Si veda. Alberto Crespi, Quante strade. Bob Dylan e il mezzo secolo di Blowin’ In The Wind, Arcana 2013  

  3. Matteo Ceschi, Un’altra musica, pag. 19  

  4. Ceschi, op.cit. pp. 19-20  

  5. Arriverà, arriverà, arriverà il momento in cui gli aristocratici saranno impiccati ai lampioni!  

  6. Robert Darnton, Il bacio di Lamourette, pp. 11-12, Adelphi 1994  

  7. Una canzone probabilmente composta ed eseguita negli anni successivi al 1865, che narra della morte per impiccagione di un soldato accusato dell’assassinio della sua fidanzata dopo il ritorno dalla Guerra Civile  

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Come tombe sul bordo della strada https://www.carmillaonline.com/2016/06/15/tombe-sul-bordo-della-strada/ Wed, 15 Jun 2016 20:01:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31196 di Sandro Moiso

in the pines Erik Kriek, In The Pines. 5 Murder Ballads, Postfazione di Jan Donkers, Eris, Torino 2016, pp. 136, € 16,00

La giovane e coraggiosa (Associazione culturale) Eris, specializzata nella pubblicazione di opere narrative di giovani autori e di fumetti, realizzati a livello internazionale e al di fuori del mainstream statunitense dei comics, dopo aver già precedentemente proposto la trasposizione a fumetti di alcuni famosi racconti di H. P. Lovecraft,1 ci offre oggi, ad opera di uno dei più [...]]]> di Sandro Moiso

in the pines Erik Kriek, In The Pines. 5 Murder Ballads, Postfazione di Jan Donkers, Eris, Torino 2016, pp. 136, € 16,00

La giovane e coraggiosa (Associazione culturale) Eris, specializzata nella pubblicazione di opere narrative di giovani autori e di fumetti, realizzati a livello internazionale e al di fuori del mainstream statunitense dei comics, dopo aver già precedentemente proposto la trasposizione a fumetti di alcuni famosi racconti di H. P. Lovecraft,1 ci offre oggi, ad opera di uno dei più famosi ed originali disegnatori olandesi, la rilettura di alcune delle più famose “Murder Ballads” della tradizione folk anglo-americana.

Erik Kriek, nato ad Amsterdam nel 1966 dove tuttora vive e lavora, nasce, a suo dire, come musicista ancor prima che come disegnatore di fumetti e proprio con la presente opera riunisce le sue due principali passioni. Nell’edizione originale il testo era accompagnato da una riproposizione musicale, su cd e ad opera dello stesso Kriek, delle cinque ballate contenute nelle sue pagine più quella che dà il titolo all’opera che non compare, però, tra le cinque narrate dai disegni dell’autore olandese.erik-kriek

Ma cosa sono le murder ballads cui si fa riferimento? Molti lettori probabilmente ricollegheranno le ballate omicide all’omonimo disco di Nick Cave, pubblicato nel 1996 dalla Mute Records, ma in realtà si tratta di una tradizione narrativa e musicale molto più antica. Soprattutto, come si diceva all’inizio, nel contesto folklorico anglo-americano.

Sono storie di assassini e di omicidi, di violenze banditesche e di rappresaglie della giustizia. Costituiscono spesso la memoria di femminicidi oppure di manifestazioni della violenza maschile, e talvolta femminile, connessa all’amore passionale. O meglio ad una sua distorta e brutale interpretazione. E stanno molto spesso alla base di tantissimi successi rielaborati e rivisitati nell’ambito della musica rock e di tanta musica folk inglese ad americana.

Sono state cantate e, spesso, rese famose da personaggi come Woody Guthrie, Bob Dylan, Bob Frank, Dave Van Ronk e da un’infinità di altri cantastorie bianchi e afro-americani. Costituiscono un patrimonio immenso di storia orale e popolare e hanno contribuito a dar vita ad un’epica delle classi subalterne più profonda, ben al di là della semplicistica immagine risultante dalla, troppo spesso, retorica riproposizione dei canti del lavoro e delle lotte.

long black veilLong Black Veil”, una delle ballate disegnate da Kriek, ha costituito un grande successo per Johnny Cash, ma è stata interpretata anche dai Byrds (soltanto dal vivo), da Nick Cave, nel disco “Kicking Against the Pricks” del 1986, e da molti altri ancora. E’ la storia di un uomo ingiustamente accusato di omicidio e condannato a morte, a causa di un tranello tesogli dal marito della donna da lui amata, e del lutto che la donna del suo cuore porterà in seguito per sempre con sé.

La stessa “In The Pines”, che dà il titolo al libro, ha avuto un’infinità di versioni, spesso contraddittorie tra di loro e accomunate talvolta soltanto da pochissimi versi.
Kurt Cobain e i Nirvana ne hanno data una delle interpretazioni più drammatiche2, ma prima della loro versione se ne conoscono molte altre incise nei contesti più diversi e dai titoli più disparati. Da Leadbelly ad una moltitudine di cantanti e gruppi degli anni sessanta, come ad esempio i texani Sir Douglas Quintet, oppure da gruppi glam come i Mott The Hoople.

pretty polly Anche le altre ballate riscritte dai disegni di Kriek affondano le loro radici in una tradizione che risale all’Ottocento e talvolta anche al Settecento. “Pretty Polly”, ad esempio, è la storia della vendetta del fantasma di una donna che insegue il proprio assassino anche sull’ oceano, fino a spingerlo a suicidarsi tra le onde del mare in tempesta. Mentre “Taneytown”, “Caleb Meyer” e “Where The Wild Roses Grow” hanno risalito il corso del tempo per giungere fino a noi attraverso le versioni di artisti come gli Stanley Brohers, Judy Collins, Sandy Denny, Steve Earle, la Band, Grateful Dead, Gillian Welch e Handsome Family. Ma non voglio citarli qui tutti proprio perché nella postfazione a cura di Jan Donkers il lettore potrà trovare una colta ed istruttiva ricostruzione dei percorsi discografici seguiti dalle stesse. E che i magnifici disegni dell’autore,ispirati dalla grafica degli EC Comics degli anni cinquanta, privi di “garanzia morale” e visti come fumo negli occhi dai benpensanti dell’epoca, rendono in maniera davvero drammatica ed immaginifica.

A queste si potrebbero aggiungere altre famosissime canzoni, non contenute nella ricostruzione di Kriek, come “Hey Joe”, resa celebre dal primo 45 giri di Jimi Hendrix nel 1966 e poi ripresa da centinaia di gruppi in tutto il mondo. Basti citare, oltre al solito australiano Nick Cave, anche la versione sessantottesca, adrenalinica e folle dei nipponici Golden Cups. La storia di un femminicidio premeditato e di un uomo che viaggia solo, sulla strada per il Messico e armato di un fucile a pompa, per raggiungere la sua donna e l’uomo con cui è fuggita.

Oppure la straordinaria “Tom Dooley” che, nel 1958 con il successo internazionale della versione eseguita dal Kingston Trio (giunse al vertice di tutte le classifiche internazionali, Italia compresa), aprì più di ogni altra istanza la strada al successo del folk revival al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico. Una canzone che risale agli anni successivi alla Guerra di secessione americana e che narra l’attesa della morte per impiccagione di un ex-soldato confederato, Tom Dooley appunto, per l’uccisione della sua fidanzata. In questo caso però la canzone sembra non voler dare un giudizio certo sulla colpevolezza del condannato, forse per drammatizzarne di più le parole e i rimpianti in esse contenuti.

long black veil 1Questi drammi costituiscono, però, soltanto una piccola parte di quell’imponente eredità di storie che la memoria popolare ci ha trasmesso attraverso la popular music.
In una sua prefazione ad un’antologia di canzoni popolari americane incise tra il 1913 e il 1938, Tom Waits ha scritto: “Cicloni, inondazioni, fame, questioni di soldi, naufragi, epidemie, uragani, suicidi, infanticidi, omicidi, malessere, incidenti ferroviari ed aerei, incendi…disastri. Non hanno costituito soltanto il pane e il burro oppure la succulenta bistecca del business della notizia.

Tutto ciò è contenuto anche nelle canzoni popolari: tragiche cronache dei pericoli connessi all’esistenza umana. Canzoni che sono come fosse scavate in fretta lungo le strade e appena ingentilite da croci di legno mentre il delitto era ancora fresco […] Nei tardi anni Venti e nei primi anni Trenta la Depressione strangolava la Nazione. Quello fu il tempo in cui le canzoni costituivano strumenti per poter continuare a sopravvivere. Un’intera comunità cercava di rielaborare i propri lutti e le proprie perdite , diffondendone così i semi della memoria. Questa collezione è un giardino selvaggio sviluppatosi da quei semi”.3

La stessa cosa si potrebbe dire di questa bellissima, preziosa e commovente raccolta di storie che Erik Kriek e la Eris ci hanno voluto così intelligentemente proporre nella collana Kina.


  1. Erik Kriek, H.P. Lovecraft Da altrove e altri racconti, Collana Kina, 2014, pp. 112  

  2. con il titolo “Where Did You Sleep Last NIght” nel disco “Unplugged in New York City” del 1994  

  3. Tom Waits, The Daily Record in People Take Warning! Murder Ballads & Disaster Songs, 1913 – 1938, libro e box di tre cd a cura di Christopher C. King e Henry “ Hank” Sapoznik, Tompkins Square 2007  

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Inside Dave Van Ronk https://www.carmillaonline.com/2014/03/04/inside-dave-van-ronk/ Mon, 03 Mar 2014 23:10:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13164 di Sandro Moiso

llewyn davis Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

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di Sandro Moiso

llewyn davis
Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

Al centro delle vicende, che si sviluppano nell’arco di pochi giorni, si staglia la figura di Llewyn Davis, musicista e cantante folk di origine irlandese, spiantato, costantemente indeciso tra il proseguire una poco significativa carriera artistica oppure riprendere il mare come membro dell’ equipaggio di qualche nave mercantile. Un proletario della cultura, insomma, costantemente a caccia di un impiego sia sotto forma di ingaggio in qualche locale oppure sotto quella di un nuovo e migliore contratto discografico oppure, ancora, a bordo di una nave destinata a solcare i mari del mondo.

Proletario nelle origini e nell’attitudine, comunista per scelta, come rivela in un momento del film, e disperato intrattenitore di pubblici distratti nei café newyorchesi oltre che sfigatissimo tombeur de femmes. Un personaggio spesso antipatico, scomodo come quasi sempre sono i protagonisti della cinematografia dei Coen, ma dotato di una sua intrinseca coerenza. Soprattutto nel rifiutare tutto ciò che potrebbe limitarne la libertà espressiva e di movimento.

Tra un viaggio a Chicago, in compagnia di un musicista jazz sarcastico e tossicomane (interpretato dal solito bravissimo John Goodman), e svariate incursioni, a caccia di qualche dollaro, in una casa discografica legata alla musica tradizionale (in cui è facile individuare la Folkways Records di Moses Asch) ed incapace di promuovere adeguatamente i giovani artisti, il personaggio interpretato da Oscar Isaac corre contro tempi ed eventi che sembrano costantemente sfuggirgli di mano.

Anzi, che sembrano proprio prendersi gioco di lui. Troppo in anticipo sul rinnovamento del folk, che avverrà poi con altri nomi ed altri musicisti, ma allo stesso tempo troppo in ritardo con il suo gusto per una musica prodotta quasi artigianalmente. In tempi di musica ed artisti prodotti, poi, industrialmente. E in cui una critica troppo sincera e tutt’altro che allusiva può essere ripagata con una gran scarica di pugni da parte di un marito adirato e violento.

Tempi in cui il suicidio poteva costituire la “soluzione del problema”, l’estrema risorsa contro la sconfitta e la delusione. Così la figura dell’amico suicida, presa a prestito dai tanti folksinger che decisero così di troncare la loro vita negli anni sessanta (Peter La Farge, Phil Ochs, Paul Clayton) accompagna le vicende del protagonista, che sembra, in più di un momento, pensare alla stessa soluzione per sfuggire ai suoi fantasmi, alla delusione artistica e alle difficoltà economiche.
inside
Ritagliato sulla figura di Dave Van Ronk, colui che fu descritto come il sindaco del Greenwich Village o, almeno, di quelle vie dedicate ai locali dove si suonava musica folk ( MacDougal Street e Bleecker Street) e dallo stesso Dylan come “il re e il signore indiscusso” di quella zona di Manhattan che gravitava intorno a Washington Square, il film ne ripercorre, sintetizzandoli, alcuni momenti topici della carriera. Avvicinandoli nel tempo e dando loro quel tocco di tristezza e di dramma che spesso fa sì che le commedie di Joel ed Ethan Coen lascino quasi sempre in bocca al pubblico il sapore amaro della sconfitta personale e dell’errore inevitabile.

E proprio questo sapore amaro accompagnato, però, da un’abbondante dose di ironia e di cinismo avvicina i fratelli Coen allo spirito dell’autentico Van Ronk e, forse, anche al sano materialismo privo di fronzoli e di orpelli inutili che ne hanno sempre caratterizzato sia le scelte musicali che di vita. Come ben dimostra la sua autobiografia recentemente pubblicata in Italia da Rizzoli2 .

Ancora un libro

Io sono un marxista e un materialista” (pag.367). Da questa netta affermazione, probabilmente inaspettata per la gran parte di coloro che si interessano alla musica americana, occorre iniziare per comprendere il senso della ricerca musicale di Dave Van Ronk, spentosi nel 2002 all’età di sessantasei anni, e del giudizio che egli dava della società e dell’ambiente musicale in cui e con cui si trovò a vivere e convivere.

manhattan folk La cifra politica, infatti, segna tutta la sua esperienza, fin dagli anni cinquanta. Ripercorrere attraverso la sua penna, e quella dell’amico Elijah Wald che ha dovuto completarne la biografia dopo la sua dipartita, gli anni che vanno dai tempi del senatore McCarthy a quelli della Nuova Sinistra degli anni sessanta e anche oltre, significa entrare in una sorta di caleidoscopio di sigle ed intenzioni che potranno sorprendere molti lettori.

Van Ronk ci guida attraverso le sue esperienze prima nel movimento anarchico, poi tra i rimasugli degli Industrial Workers of the World fino alla sua adesione al trotzkismo e al comunismo di sinistra, senza mai interrompere il suo più totale rifiuto di ogni forma di stalinismo. E dei prodotti culturali che ne derivavano. Il tutto, però, condotto con animo, allo stesso tempo, cinico e gentile; completamente privo di qualsiasi retorica partitocratica o intellettualistica.

Così come cantava, parlava questo perfetto esempio di newyorchese nato a Brooklyn nel 1936 e morto nella stessa città. Basti qui riportare un episodio, per capirne lo sguardo e l’esperienza che ebbe modo di farsi in un ambiente in cui la memoria delle rivoluzioni europee dei primi decenni del XX secolo erano ancora molto vivaci. “Un bavarese di nome Franz, che aveva fatto parte del movimento sindacale in Germania, mi raccontò di essere stato a Monaco al tempo dell’assalto al parlamento. Qualcuno gridava «Compagni! Dobbiamo mantenere l’ordine rivoluzionario. Non calpestate le aiuole». E tutti questi tizi, armati di fucile e quant’altro, si tolsero dall’erba e si misero in fila sui vialetti lastricati. Nel frattempo, all’altra estremità del vialetto, li attendevano le mitragliatrici. Franz si accorse di cosa stava accadendo, mollò il fucile e si incamminò nella direzione opposta. Andò fino ad Amburgo, salì su una nave e venne in America. Ma da quella esperienza, diceva, la classe operaia tedesca si era ritagliata un posto speciale nel suo cuore…” (pag. 75)

La prima vera scoperta della tradizione musicale folcloristica americana avvenne infatti negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, durante la Grande Depressione. Soprattutto nell’ambiente degli immigrati e del Partito Comunista Americano. “Il Partito comunista ebbe un ruolo chiave nella nascita di questo movimento musicale; (Woody) Guthrie per un po’ tenne persino una rubrica tutta sua sul «Daily Worker» (il quotidiano del partito). Ma dall’altro creava non pochi e trascurabili problemi. Tanto per cominciare c’erano i vari avvicendamenti negli incarichi politici, per cui i membri degli Almanac Singers si ritrovavano a cantare un pezzo antimilitarista come Plow Under o altri contro l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale durante il patto Molotov-Ribbentrop per poi gettare tutto dalla finestra per intonare canti patriottici militaristici inneggianti alla guerra quando la Germania invase l’Unione Sovietica” (pag. 68).

Questa esperienza, soprattutto quella degli Almanac Singers, avrebbe fortemente segnato la generazione di folksinger precedente quella di Van Ronk e di Dylan. E fu questa la linea di demarcazione che divise per anni dal nuovo movimento folk un personaggio come Pete Seeger. Che era ritenuto da tutti quei giovani musicisti un autentico padre putativo, ma che tardò a riconoscerli come suoi legittimi eredi, anche quando negli anni sessanta gli stessi presero le sue difese per permettergli di rientrare nel mondo della radiodiffusione e della televisione americana, da cui era ancora escluso come ai tempi di Joseph McCarthy.

Ma quello che avvenne nei locali e nelle strade del Greenwich, intorno a quella Washington Square che divenne un po’ la palestra all’aria aperta per un’intera generazione di folksinger, nel periodo narrato da Van Ronk fu ancora qualcosa di diverso e di più radicale, dal punto di vista musicale.
La prima riscoperta della tradizione orale e musicale americana aveva privilegiato le tradizioni dei lavoratori e le canzoni di lotta. Spesso questo aveva mantenuto invariata la separazione tra musica bianca e nera. I neri come Leadbelly e Josh White erano ben accetti principalmente quando attraverso i canali culturali del partito comunista prestavano la loro voce alla tradizione musicale bianca e, possibilmente, impegnata.
dylan e van-ronk I giovani “bianchi” del Greenwich, però, scelsero un altro approccio. Magari con scarse attitudini musicali, ma con tanta voglia di cambiare decisero che tutto il patrimonio della musica popolare americana andava salvaguardato. Se da un lato era quindi possibile risalire alle origini inglesi ed irlandesi di quella musica, dall’altra il blues e il jazz ne facevano anche indiscutibilmente parte. Così, mentre Bob Dylan costruiva il suo primo, vero successo, “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, sull’aria della vecchia ballata inglese “Lord Randall”, altri iniziarono ad andare a cercare i grandi esecutori di blues ascoltati sui vecchi dischi a 78 giri per portarli a suonare nei locali dove si suonava musica folk.

E anche se i primi ad avere successo furono dei gruppi bianchissimi come il Kingston Trio, tutto ciò aprì la strada alla riscoperta del blues in tutte le sue forme da un lato e alla nuova canzone cantautoriale dall’altro. Così mentre vecchi bluesman come Mississippi John Hurt, Skip James, Gary Davis e Lightnin’ Hopkins, solo per citarne alcuni, iniziavano a calcare le scene del Gaslight, dall’altra nuovi personaggi come Joni Mitchell, Leonard Cohen , Phil Ochs iniziavano a diventare le star del circuito folk.

Dave attraversò tutto il periodo e ne attraversò tutte le tendenze: dalla riscoperta del jazz tradizionale al folk anglo-irlandese, passando per le jug band e le canzoni composte da Kurt Weil e Bertolt Brecht fino a Woody Guthrie e al blues, in cui fu particolarmente favorito dalla sua voce.
E quel brontolio profondo nella mia voce? Amico mio, sono asmatico. Più il tempo è brutto, più la mia voce è rauca e rasposa. E’ fantastico. Nasconde tutti i difetti” (pag. 231) ebbe modo di rispondere ad un giornalista che lo intervistava.

Anche se per Van Ronk “fu senza dubbio il successo di Bobby (Dylan) a mettere in moto il cambiamento. Fino ad allora il movimento folk era ancora molto legato alla tradizione, tanto che gli autori a volte spacciavano le proprie composizioni per pezzi tradizionali. Per certi versi, quindi, la cosa più importante fatta da Bobby non fu scrivere le canzoni, quanto dimostrare che era possibile scriverle” (pag. 341).

Innamorato delle belle canzoni, che spesso per lui non coincidevano con quelle impegnate o politiche, il nostro interprete dalla voce spesso cavernosa quanto quella di Tom Waits, non si preoccupò mai di avere un futuro come autore, ma si preoccupò sempre della qualità dell’esecuzione e del mantenere la propria personalità. Come quei bluesman neri cui riservò sempre la più grande ammirazione. “Il mondo che aveva generato quelle personalità non esiste più da parecchio tempo. Già all’epoca i musicisti più anziani sembravano spesso emissari di un’era mitica e ormai svanita […] (Ma) in fondo si trattava di uomini e donne adulti, e sapevano benissimo chi erano. E quella era una delle caratteristiche più importanti della loro musica, che la ragione stessa per la quale erano diventati famosi: suonavano e cantavano come persone che sapevano chi erano. Non era gente facile da impressionare. Non importa poi molto se sei un bracciante del Texas o un laureato di Harvard: se non sai chi sei, sei perso, a prescindere da dove finisci. Se invece lo sai, non ci sono problemi” (pp. 332 – 333).

Quando si trattava di musica politicamente impegnata, il mio sguardo si faceva altrettanto critico anche rispetto ciò che veniva scritto intorno a me. Avevo l’impressione che nessuno si fosse mai lasciato convincere di essere nel torto semplicemente ascoltando una canzone; in sostanza, quando scrivi una canzone di argomento politico, stai predicando a un coro di convertiti. Ovvio però che al coro servono canzoni e poi, quando un gruppo si ritrova a cantare insieme, i suoi membri diventano più solidali gli uni con gli altri […] ho sempre pensato che la politica è politica e la musica è musica. Brecht era stalinista, ma le sue migliori canzoni non sono staliniste.[…] E parlando di Paxton, Ochs o Dylan, le loro canzoni mi piacevano quando erano ben scritte, indipendentemente da ciò che dicevano, mentre quando non erano ben scritte non mi interessavano” (pag. 346)
dave_van_ronk In queste, e in molte altre osservazioni, sta la bellezza di una testimonianza quasi unica sulla musica folk americana e sull’ambiente politico e culturale che l’ha prodotta.

Alcune indicazioni di carattere discografico

Nonostante lo scarso successo commerciale, la discografia di Dave Van Ronk è piuttosto estesa e disseminata tra varie case discografiche (Folkways, Prestige, Verve Forecast, Polydor, Philo solo per citarne alcune), anche se di difficile reperibilità essendo ormai quasi tutta fuori catalogo. Per iniziare a farsi un’idea dello stile e del genere musicale vale forse la pena di ascoltare la colonna sonora del film dei Coen, prodotta e arrangiata dal solito, autorevole e bravissimo T-Bone Burnette, per poi passare a qualche antologia ancora reperibile come: Down in Washington Square, The Smithsonian Folkways Collection, Smithsonian Folkways 2013 oppure la classica raccolta Inside Dave Van Ronk, che dovrebbe ancora essere reperibile in edizione Prestige, o, ancora, i suoi ultimi dischi per la Philo come il bellissimo Sunday Street, ristampato nel 1999 dalla Rounder Records. Buon Ascolto… e buona lettura!


  1. in Italia A proposito di Davis  

  2. Dave Van Ronk e Elijah Wald, Manhattan Folk Story. Il racconto della mia vita, Rizzoli 2014, pp. 422, euro 18,00  

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Which Side Are You On? Pete Seeger e la presenza della lotta di classe nella canzone folk americana https://www.carmillaonline.com/2014/01/29/which-side-are-you-on-pete-seeger-la-presenza-della-lotta-classe-nel-folk-americano/ Tue, 28 Jan 2014 23:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12447 di Sandro Moiso

PeteSeeger Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli [...]]]> di Sandro Moiso

PeteSeeger
Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli anni cinquanta e sessanta, ma della canzone politica americana e un autentico testimone dello sviluppo della lotta di classe e della sua organizzazione politica negli Stati Uniti d’America. Con tutte le contraddizioni culturali, politiche ed umane che ne sono conseguite.

Spesso, infatti, nell’attuale società dei consumi, musicali e non, il verbo classista è completamente rimosso a discapito di una realistica e credibile ricostruzione del passato e dei suoi aspetti più conflittuali. Così l’attuale attenzione per la musica tradizionale americana e suoi aspetti risalenti al blues e al folklore delle origini tende a sottolineare prevalentemente l’aspetto razziale e religioso della stessa, dimenticando troppo spesso la forte valenza classista che tale musica ha portato con sé dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni sessanta.

Si dimentica così di sottolineare come gran parte dell’ambiente che finì col costituire negli anni cinquanta e sessanta del ‘900 il brodo di coltura da cui sarebbero usciti Bob Dylan, Phil Ochs, Joan Baez, Tom Paxton su su fino a Springsteen e Tom Morello affondava le sue radici non solo nel conflitto di classe, ma nella stessa storia del comunismo americano e nelle sue contraddittorie manifestazioni politiche e culturali.

Woody Guthrie, di cui nel 2012 si è celebrato senza alcun clamore il centenario della nascita, è stato sicuramente il testimone canoro più importante dello sviluppo e delle conseguenze politiche e culturali di tale tradizione. E, sicuramente, anche il più conosciuto.
Così che la sua leggenda, ingrandita dall’omaggio che Dylan gli fece per tutta la prima parte della sua carriera, e le sue canzoni originali hanno finito spesso col mettere in ombra la figura di Seeger che, al contrario di ciò che in genere si potrebbe pensare, è stata altrettanto importante se non di più nel riscoprire e tramandare alle successive generazioni la tradizione “blue collar” e proletaria delle ballate e delle folk songs statunitensi.

Un po’ il destino che Engels ha avuto nei confronti dell’amico e sodale Marx, se questo non suona blasfemo ai puristi, della musica folk e della politica. Anzi, per rinforzare l’ipotesi, vale la pena di sottolineare come, a differenza delle letture più semplicistiche del folk americano, il recupero della tradizione popolare americana operato da Pete Seeger sia stato, nella miglior tradizione marxista, frutto di teoria e prassi dialetticamente, ed artisticamente, riunite.

Pete Seeger nacque e ricevette la prima educazione in un ambiente già fortemente politicizzato: il padre, Charles Seeger, fu un pioniere della musicologia ovvero dello studio della musica inserita nel suo contesto sociale e storico e fu anche uno compositore che cercò di sviluppare tra gli anni dieci e venti del XX secolo un’autonoma musica sperimentale americana, liberata dall’europeismo di Arnold Schoenberg e, allo stesso tempo, dalla scarsa carica emotiva di quella di Charles Ives.

Ma fu anche un militante degli Industrial Workers of the World e un fiero oppositore alla partecipazione americana al primo conflitto mondiale; motivo per cui fu ostacolato nella sua carriera di docente presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Berkley e osteggiato dai colleghi. Nel 1918 finì così col lasciare quell’Università e tornare all’est. Dove, appunto, nacque Pete e Charles poté introdurre gli studi di etnomusicologia presso l’Istituto di Arte Musicale di New York.

Charles Seeger divorziò dalla prima moglie, e madre di Pete, nel 1927 e due anni dopo si unì con la compositrice americana Ruth Crawford che aveva studiato con Alban Berg, Bela Bartok e Arthur Honegger. Qualche anno dopo i due entrarono a far parte del Composers’ Collective, vicino al partito Comunista Americano. L’ideale compositivo di Charles Seeger era quello, come scrisse David Nicholls in “American Experimental Music”, che “la musica dovesse provenire sia dalla testa che dal cuore per poter essere compresa”, senza, per questo rifiutare le dissonanze e le complessità degli studi armonici contemporanei.

Gran parte dell’innovativa opera compositiva del padre andò distrutta in un incendio nel 1923, ma quell’idea di musica che doveva tener conto della testa e del cuore fu sicuramente trasmessa al figlio e fu, anche, alla base delle ricerche etnomusicologiche di John e Alan Lomax, padre e figlio, che avrebbero raccolto la più grande collezione di musica popolare americana e mondiale tra gli anni trenta e sessanta del ‘900. Per poi essere costretti a lasciare gli Stati Uniti nel periodo della caccia alle streghe del senatore Mc Carthy.

Charles si era associato a John Lomax nel 1933 e aveva finito coll’influenzarne il figlio Alan con le sue idee di sinistra e, allo stesso tempo, all’epoca dei Fronti Popolari, aveva abbandonato le sue composizioni più avanguardistiche a favore di una musica più semplice e popolare. In seguito sarebbe divenuto, sotto l’amministrazione Roosvelt, direttore del Programma Federale per la Musica, mentre Ruth Crawford , oltre che continuare a comporre, si occupò della trascrizione delle registrazioni sul campo fatte per l’Archivio Americano della Canzone Popolare per la Libreria del Congresso e in seguito avrebbe curato proprio il secondo volume della raccolta di musica folk fatta dai due Lomax. Perseguitato dal Federal Bureau of Investigation per i suoi trascorsi, Charles Seeger, che aveva anche composto delle opere musicali in onore di Sacco e Vanzetti e dei lavoratori cinesi sfruttati nelle lavanderie americane, dovette, nella prima metà degli anni cinquanta, rassegnare le sue dimissioni dagli incarichi governativi, ma avrebbe continuato a condurre i suoi studi di etnomusicografia presso l’Università di Los Angeles fino alla morte, avvenuta nel 1979.

Perché dilungarsi tanto sulla vita del padre di Seeger? Proprio perché nel suo percorso biografico ed intellettuale sono già compresi tutti gli elementi che avrebbero poi caratterizzato le concezioni musicali di Pete e del folk revival in generale. Nel bene e nel male, poiché tale recupero della tradizione popolare e proletaria della canzone e della musica americana era fortemente infarcita dalle scelte operate dai partiti comunisti dell’età del Comintern e del Cominform e, per questo motivo soggetto a cambi di contenuto e di interpretazione che avrebbero continuato a manifestarsi (anche attraverso un certo conservatorismo musicale) fino ai primi anni sessanta.

Dopo aver incontrato Woody Guthrie, Pete abbandonò gli studi di sociologia ad Harvard e si dedicò a tempo pieno all’impegno politico musicale, prima con gli Almanac Singers2 e poi con i Weavers, sempre decisamente schierato sul lato sinistro della barricata. Cosa che gli costò un severo ostruzionismo artistico e politico negli anni di Mc Carthy, ma che sarebbe poi stata premiata sul finire degli anni cinquanta con i successi ottenuti dai Weavers e, in particolare, con la trascrizione e reinterpretazione della canzone sud africana “Wimoweh”, che sarebbe diventata più nota nella sua interpretazione solista come “The Lyon Sleeps Tonight”.

Rimasto comunista e marxista anche dopo aver abbandonato il Partito Comunista Americano, a seguito della denuncia dei crimini di Stalin e dello stalinismo avvenuta durante il XX congresso del Partito Comunista dell’URSS, Pete Seeger non ebbe un rapporto facile e lineare con i movimenti radicali degli anni sessanta. Prova ne sia proprio il suo controverso rapporto con Bob Dylan che, dopo essere stato un suo beniamino in quanto nuova promessa della musica folk tradizionale, sarebbe poi stato fieramente osteggiato da Pete che si sentì tradito dalla svolta elettrica del menestrello di Duluth. Come ben dimostrano le immagini del Festival di Newport del 1965, in cui si può vedere un Seeger stravolto, fermato a stento da altri partecipanti al festival, mentre tenta di andare a tagliare con un’ascia i cavi della strumentazione elettrica di Dylan e della sua band.

Fiero oppositore della guerra in Vietnam, contro la quale si battè con veemenza e più che esplicite dichiarazioni, spesso sabotate dai media, vide poi le proprie composizioni raggiungere i successo proprio attraverso la rilettura che ne diedero gruppi elettrici come i Byrds (“Turn! Turn! Turn!” e “The Bells of Rhymney”), mentre la sua “Where Have All the Flowers Gone?” sarebbe diventata un vero inno, reinterpretato da infiniti cantanti e gruppi, del movimento contro la guerra in Indocina.

Spostatosi negli anni successivi sul versante della lotta ecologista, Pete Seeger ha continuato a comporre, cantare e partecipare come suonatore di banjo a numerosi album, anche di altri musicisti, come il bellissimo “My Name Is Buddy” di Ry Cooder ha ancora dimostrato nel 2007. Certo la sua opera principale rimane, però, l’interpretazione, spesso per voce sola e banjo, del grande patrimonio musicale americano, raccolta nei numerosi album dedicati alle American Favorite Ballads e alle American Industrial Ballads incisi per la Folkways sul finire degli anni cinquanta e ancora oggi facilmente reperibili su cd.

C’è infine da ricordare che anche il fratello Mike (1933 – 2009) e la sorella Margaret “Peggy” (1935) hanno avuto un importante ruolo nella storia e nello sviluppo del folk revival. Il primo, esperto suonatore di autoharp, banjo, violino, dulcimer, armonica a bocca, chitarra, mandolino, dobro, scacciapensieri, e flauto di Pan ha contribuito, con i suoi New Lost City Ramblers tra il 1958 e il 1973, ad un recupero estremamente filologico del suono tradizionale americano a cavallo tra la fine dell‘ottocento e i primi trent’anni del ‘900; mentre la sorella, dopo aver avuto il passaporto ritirato negli anni cinquanta per una visita non autorizzata nella Cina comunista, è vissuta quasi sempre in Europa dove è stata sposata per oltre trent’anni con il musicista Ewan McColl e dove ha contribuito alla formazione del Critics Group che raccoglieva giovani esecutori di musica tradizionale delle isole britanniche o di composizioni nuove ma ispirate alle strutture musicali tradizionali.

Autore di un importante manuale destinato ai suonatori del banjo a cinque corde, Pete Seeger ha influenzato e contribuito all’affermazione e al successo di gruppi come il Kingston Trio, Peter, Paul and Mary, i Mamas and Papas e di riviste politico-musicali come Broadside (uscita indefessamente tra il 1962 e il 1988) fino alle voci più recenti del movimento neo-folk. Con lui se n’è andato l’ultimo, grande testimone di una stagione, forse si potrebbe dire di un secolo, che con tutte le sue contraddizioni non ha mai dimenticato quanto fosse importante da che parte della barricata ci si schierava. Grazie Pete di essere stato con noi e di averci accompagnato, per tanti anni, nelle lotte con le tue canzoni.


  1. Bruce Springsteen, We Shall Overcome. The Seeger Sessions, Columbia – Sony 2006 

  2. Creati nel 1941 furono di fatto il gruppo musicale che, fondendo lo stile musicale delle string band degli stati del Sud con aspetti del cabaret newyorkese, contribuì a definire lo stile di quello che sarebbe poi stato il folk revival. Pete Seeger nel gruppo iniziò a suonare quello che sarebbe stato per sempre il “suo” strumento: il banjo a 5 corde  

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