Karl Marx – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 17 Apr 2025 20:00:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito di internazionalismo https://www.carmillaonline.com/2025/02/05/a-proposito-di-internazionalismo/ Wed, 05 Feb 2025 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86703 di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve [...]]]> di Sandro Moiso

Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro

Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)

Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.

Infatti, andando ad indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.

Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.

Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori ed affossatori.

Nel 1889, sei anni dopo la scomparsa di Marx, sarebbe sorta una Seconda Internazionale sulle basi delle idee e delle pratiche socialiste espresse a partire dalla socialdemocrazia tedesca, già fortemente criticate dallo stesso filosofo di Treviri nella sua “critica al programma di Gotha”, scritta nel 1875, ma resa pubblica soltanto nel 1891.

Una seconda internazionale che avrebbe rivolto sempre e soltanto uno sguardo paternalistico, talvolta prossimo al razzismo, alle vicende dei popoli colonizzati e ai loro moti di rivolta. Una posizione che facendo propria, in chiave falsamente classista, il concetto del white man’s burden espresso da Rudyard Kipling in una sua poesia del 1899, spostava sulle spalle del proletariato bianco e occidentale e dei suoi partiti politici il fardello rappresentato dalla necessità di educare i popoli “altri”, ritenuti ancora incapaci di esprimere una propria critica teorica e pratica che, in questo caso davvero, ancora li affardellava.

Una posizione “educazionista” che più che in Marx, sempre attento alla novità rappresentate dalle lotte e dalle esigenze dei popoli posti fuori dai confini tradizionali dell’Europa e spesso schiavizzati per poter sostenere l’ineguale sviluppo economico su cui si era fondata la rivoluzione industriale e la nascita del moderno capitalismo1, aveva tratto spunto dalle considerazioni talvolta liquidatorie con cui il suo sodale Friedrich Engels aveva guardato ai popoli slavi e a tutti quelli che egli riteneva “popoli senza storia”2.

Una posizione che è possibile riscontrare ancora oggi in molte delle posizioni espresse a proposito della lotta del popolo palestinese e che, ammantandosi di classismo di maniera e ultra-sinistrismo, nei fatti nega ciò che invece costituì uno dei punti basilari della politica della Terza Internazionale o Internazionale Comunista: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il tentativo di integrare nella lotta del proletariato internazionale le lotte venutesi a determinare sulla base del primo, senza stravolgerne forme e contenuti specifici (Congresso di Baku – settembre 1920).

Benedict Anderson (1936-2015) è stato uno storico che ha saputo coniugare perfettamente la disciplina che ha insegnato lungamente alla Cornell University, International Studies e Storia dell’Asia orientale, con l’antropologia e ibridare la storia politica con la storia delle idee, cosa che lo ha spinto a studiare come si formi l’immaginario nazionalista e a perlustrarne le complesse vicende. Così, come afferma Stefano Boni nella sua prefazione all’edizione italiana di Anarchismo e immaginario anticoloniale:

Anderson tendeva a osservare i fenomeni non partendo dalle prospettive dominanti, spesso quelle emerse nel Nord Atlantico, ma perlustrando appieno le conseguenze della critica anticoloniale: il posizionamento prospettico a fianco dei colonizzati gli permetteva non solo di denunciare la violenza dell’occupazione europea ma anche di individuare i presupposti epistemologici del colonialismo, per scardinarli. […] La sua sensibilita e le sue conoscenze gli permettevano – e questo è forse il lascito piu importante di Anderson – di mettere in discussione assiomi eurocentrici, come l’origine propulsiva del nazionalismo nel vecchio continente, per dare spazio invece a voci neglette e soppresse3.

L’opera più conosciuta di Anderson è sicuramente Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, pubblicato per la prima volta nel 1983 e ripubblicato in una versione più ampia nel 1991. Comunità immaginate è uscito in italiano nel 1996 ed è un testo che insiste sulla comunità e il suo immaginario come premessa della nascita stessa della nazione e del nazionalismo. Comunità è un termine che, come viene spiegato dall’autore, può anche tradursi nel corso del tempo in nazione, ma, se e quando accade, è per effetto di una serie di passaggi successivi, poiché nella “comunità immaginata” è implicita l’idea che il passaggio da una comunità immaginata a una comunità “istituzionalizzata”, cioè alla nazione, si venga costruendo, nel corso del tempo, con una serie di processi legati all’accelerarsi della comunicazione tra i soggetti appartenenti alla comunità (viaggi, stampa, mercati).

Per l’autore tale processo avvenne prima fuori dall’Europa e non all’interno della stessa come tanta storiografia continua a sostenere. La prima idea di “nazione” fu quella che si formò tra i pionieri creoli delle colonie europee del continente americano: che furono i primi sostenitori di una patria nazionale in conflitto con la madrepatria, con la quale, paradossalmente, condividevano sia la lingua che la religione.

È solo dopo questa prima esperienza che nascono, nei primi decenni dell’Ottocento, i nazionalismi europei, che avrebbero avuto come base le lingue nazionali e che si costruirono con la formazione di una burocrazia di funzionari. Dando vita a una comunità, non più fondata su fattori dinastici, ma sulla borghesia in quanto classe che aveva bisogno per le sue attività produttive di una “nazione”, con territorio e lingua comuni e ben delimitati ai fini dello sviluppo di leggi condivise e mercati “protetti”.

Un modello che tornerà, poi ancora, ad essere riportato nelle colonie attraverso gli stati coloniali, soprattutto in Asia e Africa, per il tramite della formazione e del mantenimento di rigide burocrazie e di una istruzione in grado di dare ai colonizzati una medesima lingua, spesso straniera, che avrebbe poi spinto questi a ritrovare le proprie radici originarie, linguistiche e culturali.

Benedict Anderson era contrario ad una visione eurocentrica della storia e a una tradizione che ignorava l’aspetto emozionale del nazionalismo. Il termine che fa la differenza nella sua opera è, come si è già detto, immaginate, un termine che secondo Anderson evoca emozione, appartenenza e che può far comprendere la mobilitazione per la “patria” cui si aspira. Una scelta spiazzante, che rovescia lo sguardo storico (e geografico!) tradizionale e fa dell’autore un maestro e un anticipatore di tante problematiche odierne.

Nello specifico del testo ora pubblicato da elèuthera occorre ricordare non solo che l’autore focalizza il suo interesse su quanto avvenne in Indonesia e nelle Filippine a cavallo tra XIX e XX secolo, ma anche sulla funzione che gli ideali anarchici ebbero nello spingere avanti le rivendicazioni politiche anticoloniali, oltre i limiti di un marxismo, di cui si è già detto, incapace di comprendere sia l’aspetto emozionale di tale genere di lotte che il risvolto necessariamente antimperialistico e non eurocentrico delle stesse.

Anarchismo e immaginario anticoloniale riprende una visione decentrata della storia, focalizzata sulla prospettiva dei colonizzati, aggiungendo un nuovo cruciale elemento: gli scambi tra i vari movimenti anticoloniali e tra questi e gli ambienti politici radicali europei. Si tratta di relazioni intellettuali, di sostegno economico e militare, di consigli strategici su come sottrarsi al giogo imperiale per inaugurare una nazione sovrana. Idee e persone circolano; si attivano coordinamenti e circuiti internazionali di mutuo aiuto che collegano lotte distanti in un sodalizio cosmopolita[…] La narrazione conseguentemente si snoda tra Madrid, Parigi e Londra, ma anche tra Cuba e Rio de Janeiro a ovest, e tra Giappone, Hong Kong, Singapore e Manila a est. I filippini guardavano con particolare interesse alle vicende cubane: nel 1895, l’inizio dell’ultima guerra di indipendenza latinoamericana per liberarsi del morente impero spagnolo annuncia infatti la prima insurrezione armata nazionalista in Asia, quella filippina del 18964.

Sulla copertina della prima edizione inglese (2005) del testo erano affiancate tre bandiere: quella delle lotte di indipendenza cubana (bandiera che diventerà quella nazionale), quella del Katipunan (l’organizzazione segreta anticoloniale filippina del 1894) e il vessillo anarchico e, non a caso, il titolo recitava Under Three Flags, Anarchists and the Anticolonial Imagination.

L’attrazione tra nazionalismo e anarchismo, orientamenti accomunati da una tensione per la
libertà sebbene per molti versi antitetici, in particolare per ciò che concerne la riduzione della comunità politica allo Stato, raggiunse il suo apice nel periodo delle lotte anticoloniali. Nonostante Anderson abbia simpatie marxiste, riconosce appieno l’apporto del movimento anarchico che «alla fine del diciannovesimo secolo divenne il principale veicolo per diffondere su scala globale la lotta al capitalismo industriale, all’autocrazia, al latifondismo e all’imperialismo»5.

Mentre le organizzazioni socialiste focalizzavano la loro attenzione sul proletariato industriale delle metropoli, la rete delle organizzazioni anarchiche agì con maggiore eclettismo interagendo con contadini, manovali agricoli, commercianti, artisti e artigiani. Con una flessibilità che rappresentò un indubbio vantaggio inclusivo, soprattutto in aree a bassa industrializzazione, come nelle colonie. Così un «anarchismo ormai globalizzato, grazie anche alle importanti ondate migratorie che fuoriuscivano dal vecchio continente, contribuì a offrire strumenti pratici e teorici alle lotte anticoloniali.»6 Come afferma l’autore nell’introduzione al testo:

Questo libro è un esperimento che prende le mosse in quell’ambito che Melville avrebbe definito «astronomia politica», poiché prova a tracciare una mappa della forza gravitazionale esercitata dall’anarchismo sui movimenti nazionalisti militanti sviluppatisi ai poli opposti del globo.[…] sebbene l’anarchismo avesse spesso attinto al torreggiante edificio del pensiero marxista, in un’epoca in cui l’emersione di un proletariato industriale, inteso in senso stretto, si limitava essenzialmente ai paesi dell’Europa del Nord, il movimento anarchico mirava a coinvolgere anche contadini e lavoratori agricoli. […] Per di piu, ostile quanto il marxismo all’imperialismo, l’anarchismo non nutriva pregiudizi teoretici nei confronti dei «piccoli» e «astorici» nazionalismi, inclusi quelli provenienti dal mondo coloniale. Gli anarchici furono, infine, piu rapidi a cogliere le potenzialità insite negli importanti flussi migratori transoceanici dell’epoca: Malatesta trascorse quattro anni a Buenos Aires, qualcosa di inconcepibile per Marx o Engels che non lasciarono mai l’Europa occidentale, e il Primo Maggio celebra la memoria dei migranti anarchici, e non marxisti, che furono giustiziati negli Stati Uniti nel 18877.

Per certi versi soltanto Lenin avrebbe saputo accogliere nella sua interpretazione del marxismo molti di questi elementi, ma per farlo avrebbe dovuto rompere radicalmente con la tradizione della Seconda internazionale, così come si è già detto all’inizio. Aprendo però una strada che sarebbe stata più significativa per la liberazione dell’Asia dal giogo coloniale che non per la classe operaia occidentale da quello del capitale.

Un libro quello di Anderson da leggere e meditare, ripercorrendo anche con un senso di stupore le vicende collettive e quelle personali di movimenti e personaggi che troppo spesso la tradizione eurocentrica della sinistra ha cancellato, insieme a quelle dei rivoluzionari asiatici che animano le pagine di un altro bel testo sulle rivoluzioni “altre”, Asia ribelle di Tim Harper (qui). Due testi, comunque, indispensabili per orientarsi ancora oggi tra le nebbie e le distorsioni di troppo facili interpretazioni del divenire storico e del ruolo dei rivoluzionari.


  1. Oltre che agli scritti più conosciuti dello stesso Marx sul colonialismo inglese in India e in Cina, si fa qui riferimento a: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014; K. Marx, Quaderni antropologici. Appunti da L.H. Morgan e H.S. Maine, Edizioni Unicopli, Milano 2009: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Edizioni Jaca Book, Milano 1977 e P.P. Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, «quaderni di Movimento operaio e socialista» n.1, Genova, luglio 1974.  

  2. Si veda: R. Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia». La questione nazionale nella rivoluzione del 1848-49 secondo la visione della «Neue reinische zeitung», graphos edizioni, Genova 2005.  

  3. S. Boni, Prefazione a B. Anderson, Anarchismo e immaginario anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 7-8.  

  4. S. Boni, cit. in B. Anderson, op.cit., p. 11.  

  5. Ibidem, p. 12.  

  6. ivi, p. 13.  

  7. B. Anderson, op.cit., pp. 20-21.  

]]>
Avanti barbari!/6 – L’Occidente e il capitalismo sono razzisti (l’Italia anche) https://www.carmillaonline.com/2024/10/02/avanti-barbari-6-loccidente-e-razzista-e-litalia-anche/ Wed, 02 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84539 di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di [...]]]> di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.  

]]>
Classe e popolo secondo Dussel interprete di Marx https://www.carmillaonline.com/2024/09/02/classe-e-popolo-secondo-dussel-interprete-di-marx/ Mon, 02 Sep 2024 04:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83935 di Fabio Ciabatti

Enrique Dussel, Marx e la modernità. Conferenze di La Paz, Castelvecchi 2024, € 17,50, pp. 147.

Un Marx che critica l’economia politica da un punto di vista etico e cioè dal punto di vista della materialità della vita, della soggettività corporea del lavoratore inteso come non essere del capitale. Una critica che parte dall’esteriorità, da ciò che la totalità del capitale esclude. È questa l’interpretazione di Marx per certi versi spiazzante, ma sempre sorretta da una solida conoscenza dei testi che ci presenta Enrique Dussel, studioso argentino scomparso lo scorso anno. Uno studioso che, partendo dalla teologia della [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enrique Dussel, Marx e la modernità. Conferenze di La Paz, Castelvecchi 2024, € 17,50, pp. 147.

Un Marx che critica l’economia politica da un punto di vista etico e cioè dal punto di vista della materialità della vita, della soggettività corporea del lavoratore inteso come non essere del capitale. Una critica che parte dall’esteriorità, da ciò che la totalità del capitale esclude. È questa l’interpretazione di Marx per certi versi spiazzante, ma sempre sorretta da una solida conoscenza dei testi che ci presenta Enrique Dussel, studioso argentino scomparso lo scorso anno. Uno studioso che, partendo dalla teologia della liberazione, negli anni Novanta si dichiara discepolo di Marx per rifiutare l’idea, oramai comune, che il rivoluzionario tedesco sia da considerare un “cane morto”.
Marx e la modernità, recentemente tradotto in italiano da Antonino Infranca, è un testo formato dalla trascrizione di un ciclo di conferenze tenute a La Paz da Dussel nel 1995 e può essere letto come una introduzione sufficientemente completa all’opera del pensatore sudamericano. La provenienza geografica è essenziale perché la valorizzazione dell’esteriorità cui abbiamo accennato nasce proprio dal punto di osservazione rappresentato dalla periferia dell’impero. 

Una collocazione che si vede a partire dalla critica del tradizionale concetto di modernità. In breve,

la Modernità non si è allargata dall’Europa. Questa è l’idea sostanzialista della Modernità: prima c’è una sostanza e dopo si espande. No, il Sistema-Mondo si origina incorporando una periferia che lo costituisce.1

Questa sostanza, secondo la narrazione convenzionale, avrebbe avuto un’evoluzione con diversi stadi storico-geografici che rileverebbe la sua intrinseca forza espansiva: Rinascimento, riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, parlamentarismo inglese e, nel frattempo, diffusione a livello mondiale. In realtà, sostiene Dussel, l’Europa è sempre stata una periferia, perfino durante l’impero romano. Diventa centro di un nuovo ordine globale solo con la conquista delle Americhe, avvenuta per caso mentre la Spagna cercava una via verso l’India, vero centro del Sistema Mondo dell’epoca. Questa conquista dà un grande vantaggio agli stati del Vecchio Continente rispetto a tutte le altre potenze extraeuropee del periodo consentendo la nascita della prima modernità, quella della Spagna, un Paese tutt’altro che medioevale con l’inquisizione che costituisce non una rimanenza del passato, ma una progredita burocrazia.  Abbiamo poi la seconda modernità, quella olandese, nella coscienza comune la Modernità in quanto tale, che produce una “semplificazione materializzante della realtà” finalizzata a far prosperare il capitalismo mercantile in una misura che la Spagna non era riuscita a fare. Con l’espansione a livello globale delle Compagnie delle Indie olandesi la crescita del tasso di profitto diventa il parametro per giudicare tutto: la storia, l’economia e la politica. 

E con questo arriviamo a Marx. Ma si tratta, come anticipato, di un Marx letto attraverso il concetto di “esteriorità” o, per essere meno filosofici, per mezzo della figura del “povero”. Una lettura spesso accusata di negare la centralità della lotta di classe nel pensiero del rivoluzionario tedesco. A questa osservazione Dussel risponde che

oggi essere sfruttati è un privilegio (avere un salario e produrre plusvalore) perché la maggioranza non lo è. La maggioranza è esclusa [..] Perché l’umanità sta per essere marginalizzata dal capitalismo, perché il capitalismo non gli può dare più lavoro.2

Ma c’è di più. La “povertà assoluta”, per dirla con il Marx dei Grundrisse, è il presupposto necessario del lavoro salariato. Bisogna precisare che il concetto di povertà non corrisponde a quello di indigenza. Il contadino che possiede un piccolo appezzamento in grado di procurargli i beni di consumo appena necessari alla sua sopravvivenza rientra certamente nella condizione di povertà. Ma la povertà assoluta è un’altra cosa: è la “totale esclusione dalla ricchezza materiale” per mezzo della separazione dai mezzi di produzione, in primis la terra. Si tratta della condizione che costringe gli esseri umani a vendersi sul mercato del lavoro; la condizione che consente al capitale di sussumere la soggettività umana e di trasformarla in lavoratore salariato, vale a dire lavoro vivo che produce valore e plusvalore per il capitale stesso.
Ma cos’è il valore? Il valore è oggettivazione di vita umana, di lavoro vivo. A sua volta, “Il lavoro vivo è il non capitale. Prima di vendersi è un povero, ma è la fonte creatrice di ogni ricchezza”.3 La povertà assoluta, dunque, è al tempo stesso esclusione da ogni ricchezza e possibilità generale di ogni ricchezza. Qui secondo Dussel si può comprendere il rovesciamento compiuto da Marx nei confronti di Hegel il quale parte dall’essere e di lì dispiega tutte le categorie. Apparentemente Marx segue lo stesso procedimento perché parte dal valore come essere del capitale per dispiegare concettualmente la totalità del capitale stesso. Ma il valore non è in grado di autoriprodursi perché a tal fine ha bisogno del lavoratore, del non essere del capitale, che costituisce la fonte del valore stesso. Dunque, secondo Dussel, il vero punto di partenza di Marx è il non essere. Il capitale nasce soltanto nel momento in cui sussume il suo non essere:  sussumere significa, appunto, portare dentro ciò che sta fuori. Usando le parole dello stesso Marx, il capitale porta dentro di sé “una materialità non separata dalla persona”.

Detto altrimenti, il capitale pretende di essere esso stesso la fonte del profitto e dunque di avere la capacità di autoriprodursi, di riprodurre il proprio essere. Ma questo è solo il feticismo cui soggiace l’economia. Smascherare questa apparenza significa, secondo Dussel, riportare la produzione di valore e plusvalore alla sua fonte, il lavoro vivo che è, appunto, il non essere del capitale. Il tasso di profitto, sostiene Dussel, è una categoria economica. Ma questo deve essere ricondotto al tasso di sfruttamento (o tasso del plusvalore) che, invece, è una categoria con risvolti antropologici e etici. La vera ossessione di Marx, sostiene Dussel, è quella di riportare il profitto in tutte le sue forme (industriale, commerciale, finanziario) alla sua fonte, il plusvalore, vale a dire all’appropriazione di lavoro vivo senza corrispettivo alcuno. In breve allo sfruttamento. Il capitalismo, come i sistemi che lo hanno preceduto, va dunque considerato non tanto un “modo di produzione”, ma un “modo di appropriazione” del lavoro. Quest’ultimo nel processo produttivo derealizza sé stesso. Il capitale sfruttando il lavoro si appropria senza corrispettivo della vita umana. Il capitale è perciò sottrazione di vita umana.
Da questi brevi accenni possiamo capire che, secondo il filosofo argentino, l’economia è un pensiero formale, autoreferenziale perché considera il capitale come fondamento della sua autovalorizzazione senza alcun riferimento alla fonte del valore, il lavoro vivo, perdendo così il suo contenuto materiale. Se un popolo ha bisogno di qualcosa, ma la produzione di questo qualcosa non porta alla creazione di plusvalore per il capitale esso semplicemente non viene prodotto. “La morte del popolo non è un fattore economico”, chiosa Dussel.4 In questo modo la Modernità rivela la sua natura dualistica “perché uccide i corpi, mentre il capitale è in buona salute”.5 All’opposto quella di Marx è una critica etica che può essere portata avanti grazie al concetto di valore il quale, a sua volta, consente di scoprire il concetto di plusvalore, vale a dire di sfruttamento. Insomma, di fronte al formalismo dell’economia, attraverso Marx è possibile affermare il principio materiale di ogni etica: “È valido ciò che faccio se riproduce la vita. Se uccide non è valido, è cattivo. La vita è il criterio materiale”.6 L’economia, invece, si occupa soltanto della riproduzione del capitale, noncurante delle distruzioni che questa finisce per comportare per la vita umana e per la natura. 

L’indifferenza dell’economia capitalistica nei confronti della riproduzione della vita è particolarmente evidente nei paesi periferici nell’ambito del mercato mondiale. Seguendo la Teoria della Dipendenza, Dussel sostiene la subordinazione nei confronti del centro capitalistico altro non è altro che “Trasferimento di plusvalore dal paese meno sviluppato a quello più sviluppato”.7 Ciò avviene attraverso diversi meccanismi, ma quello fondamentale è costituito dalla concorrenza che determina un livellamento dei prezzi sul mercato mondiale tra le merci dei capitali più sviluppati e quelle dei capitali meno sviluppati. Questi ultimi, in conseguenza di una componente tecnologica minore, producono con maggiori prezzi di costo. Allo stesso tempo, per l’utilizzo di maggiori quantità di lavoro vivo a parità di investimento, assorbono una maggiore quantità di valore che viene appropriato dai capitali più sviluppati. Da ciò deriva che un “capitale periferico che sta continuamente trasferendo parte del suo plusvalore non può accumulare”8 e dunque sussumere i poveri facendoli diventare lavoratori salariati. Di conseguenza “quasi il 50% del popolo latinoamericano, se non di più, è costituito da poveri, non sono neanche classe”.9 

Entra qui in gioco la differenza tra classe e popolo. Quest’ultimo è costituito da diversi soggetti collettivi che hanno differenti livelli di esteriorità rispetto al capitale. Il livello più esterno è costituito dalle nazionalità indigene che possono riprodursi senza la necessità di avere rapporti stabili con il capitale. A livello intermedio abbiamo la grande massa di poveri che sopravvivono ai margini dell’economia capitalistica. La vicinanza maggiore al capitale ce l’ha il lavoro salariato, la classe in senso proprio, che però mantiene un certo grado di esteriorità perché anche un operaio “può essere padre di famiglia, membro di un club di calcio, di un club di ballo e di molte altre cose”10 che non sono semplice funzione del sistema cui è sussunto in quanto lavoratore.
Più in generale, gramscianamente, “Popolo è il blocco sociale degli oppressi in uno Stato”, vale a dire “classi, etnie emarginate e altri settori sociali oppressi”11 che si contrappongono al “blocco storico al potere”, vale a dire la borghesia nazionale industriale, commerciale e finanziaria, la borghesia del capitale transnazionale e altri gruppi sociali vicini al potere statale. 

Popolo è la categoria storica che attraversa una formazione sociale. Allora, c’è coscienza di popolo, che non è coscienza di classe.
La coscienza di popolo è l’autocoscienza che hanno gli oppressi dei loro eroi, della loro storia (dei loro fatti che non dimenticano).12

In questa memoria 

ci può stare un eroe inca che ha lottato contro gli spagnoli, uno schiavo che ha lottato durante l’emancipazione e può, adesso, essere una sindacalista (ma quell’oppresso inca non era un operaio, non aveva nulla a che vedere con la classe e neanche era un contadino coloniale).13

Tutto ciò è importante, secondo Dussel, perché

ciò che rimane, dopo la rivoluzione, non è più la classe operaia, bensì un popolo, che transita verso un nuovo tipo di formazione sociale e, pertanto, la classe operaia, dovrebbe dissolversi in un’altra cosa. È scomparso l’operaio, ma ciò che è rimasto è il popolo.14

Dussel riconosce che Marx non ha visto la dinamica che trasforma il popolo in un soggetto storico, ma sostiene che, in questo ambito, “è facile sviluppare una critica dalle sue stesse categorie”.15 La domanda che ci si può porre legittimamente è se la categoria di “popolo” sia davvero sufficiente per pensare e praticare la transizione verso un nuovo tipo di formazione sociale. Oggi, a differenza di quanto si poteva immaginare negli anni Novanta, stiamo assistendo al rafforzamento di alcuni capitalismi un tempo periferici che hanno saputo sfruttare a loro vantaggio le dinamiche della cosiddetta globalizzazione. In questo contesto appellarsi al popolo può costituire un mezzo per cementare un’alleanza interclassista finalizzata a consolidare una traiettoria di sviluppo che, per quanto differente dai percorsi storicamente seguiti dal centro, rimane di natura capitalistica.
Ciò detto ci si può porre un’ulteriore domanda, tutt’altro che retorica: è davvero il popolo il tipo di soggetto collettivo destinato a permanere in un processo rivoluzionario? L’ottimismo di Dussel rispetto alla soggettività popolare fa da contraltare alla veloce liquidazione della soggettività di classe. Una questione che può essere messa in relazione a un altro problema: l’utilizzo da parte del pensatore argentino del concetto di “modo di appropriazione” al posto del più tradizionale “modo di produzione”. Detto in modo forse troppo semplice, la liquidazione del primo sembra un processo più semplice della trasformazione del secondo che richiederebbe, quantomeno, l’attivo contributo di una soggettività interna al processo produttivo. Anche se si tratta di una soggettività destinata nel corso di questa transizione a negare sé stessa perché il novum possa sorgere.

Questi brevi accenni non hanno certo l’intento di disconoscere l’importanza della riflessione di Dussel. Il pensatore argentino, ponendo l’accento sull’esteriorità senza negare la centralità dei rapporti sociali di produzione capitalistici, ci aiuta a mettere a tema la questione della transizione verso un mondo postcapitalistico in una congiuntura storica che vede l’Occidente sviluppato perdere la sua centralità e le stesse formazioni capitalistiche avanzate creare al loro interno sacche sempre più ampie di esclusione.  Una congiuntura che ci obbliga a pensare alle possibili soggettività anticapitalistiche in modo più complesso e articolato di quanto abbiano immaginato i classici del marxismo e forse lo stesso Marx.
Da questo punto di vista la prassi e la teoria (o forse sarebbe meglio dire le prassi e le teorie) devono fare ancora molta strada facendosi largo tra le macerie prodotte dagli attuali rapporti sociali di produzione. Come sostiene Marx letto da Dussel, infatti,  il “gran potere civilizzatore del capitale” dopo aver rotto tutti i limiti si trasforma in un “grande feticcio” e come un “Moloch” esige “i sacrifici della Terra e dell’umanità”. Insomma, vale la pena riflettere su quanto il pensatore argentino afferma alla fine del suo ciclo di conferenze di La Paz: “è molto utile, almeno, passare per Marx, e dopo lasciarlo; ma dopo averlo lasciato non si può essere più ingenui”.16


  1. E. Dussel, Marx e la modernità, Castelvecchi 2024. p. 30. 

  2. Ivi, pp. 32-33. 

  3. Ivi, p. 115. 

  4. Ibidem. 

  5. Ivi, p. 41. 

  6. Ivi, p. 115. 

  7. Ivi, p. 136. 

  8. Ivi, p. 139. 

  9. Ivi, p. 139. 

  10. Ivi, p. 140. 

  11. Ivi, p. 142. 

  12. Ivi, p. 143. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 144. 

  15. Ivi, p. 143. 

  16. Ivi, p. 147. 

]]>
I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-seconda-parte/ Tue, 16 Jul 2024 04:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83180 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria.  Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che

l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1

Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.

Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.

È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3

Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?

Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4

In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.

A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.

La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11

Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.
Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, ed in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché ad essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.

In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico.  Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.
Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e razzializzata risvegliato dai populismi fascistoidi.  Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.

La prima parte è stata pubblicata venerdì 12 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024 (p. 19. 

  2. A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, p. 55. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 495. 

  4. Ivi, p.493. 

  5. Ivi, p.285. 

  6. Ivi, p. 512. 

  7. Ivi, p. 389. 

  8. Ivi, p. 284. 

  9. Ivi, p. 287. 

  10. Ivi, p.285. 

  11. Ivi, p. 292. 

  12. A. Negri, Marx oltre Marx, cit. p. 29. 

]]>
I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/12/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-pima-parte/ Fri, 12 Jul 2024 04:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83172 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla fondamentalmente a sé stesso “attraverso qualsiasi strumento o idea a portata di pensiero, pronto a scatenare un flusso di coscienza in grado di proiettare su carta possibilità e interrelazioni che potevano o non potevano rilevarsi importanti per i suoi studi più ragionati”. In questo testo, scritto tra il 1857 e il 1858, troviamo dei “passaggi in cui Marx getta alle ortiche ogni cautela” dando spazio a “intuizioni geniali, drammatiche e spesso sbalorditive per le possibili implicazioni”.1
Insomma, i Grundrisse possono certamente letti come un testo preparatorio al Capitale, che vedrà la luce un decennio dopo, ma ci offrono anche di più. Perché si spingono oltre le conclusioni del Capitale, opera in cui Marx costringe sé stesso a un rigore metodologico che gli impedisce di anticipare qualsiasi risultato fino a che lo svolgimento del ragionamento non abbia ancora posto tutti gli elementi necessari per trattare l’argomento. Rigore senz’altro condivisibile. Peccato che Marx abbia realizzato solo una piccola parte del suo immane progetto di lavoro e questo ci privi di molte delle conclusioni cui voleva arrivare.

Per quanto spesso dispersivi, i Grundrisse hanno comunque un focus ben definito e cioè “l’elaborazione esatta del concetto di capitale” che risulta necessaria poiché, ci dice Marx,

questo è il concetto fondamentale dell’economia moderna, così come il capitale stesso […] è il fondamento della società borghese. Dalla comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre sé stesso.2

È attorno a questa problematica che Harvey concentra la sua lettura del testo. Una problematica che ci porta subito a un’altra questione fondamentale.

Marx intende indagare la formazione e il funzionamento del capitale in quanto “totalità”. Si tratta di un aspetto dell’approccio marxiano ampiamente ignorato nei commentari contemporanei. Ho il sospetto che su questo punto siano in parte da biasimare Foucault e il post-strutturalismo, nel loro ridurre ad anatema ogni discorso totalizzante e, di conseguenza, ogni evocazione del concetto stesso di totalità.3

Harvey sostiene che “’Totalità’ è la parola chiave. Leggere e costruire una teoria economico-politica interpretando il capitale alla stregua di una totalità in evoluzione è qualcosa di enormemente proficuo”.4 Marx riprende questo concetto da Hegel ma lo rielabora in profondità. La totalità del capitale, infatti, non è né prestabilita né predefinita, non è né fissa né determinata quanto a estensione nello spazio e nel tempo. È una rete di prassi sociali storicamente determinate e di rapporti costruiti e sviluppati nel tempo attraverso l’attività umana, costantemente assorta in un processo di crescita e trasformazione, in continuo “divenire”. La totalità del capitale è caratterizzata fondamentale dalla fluidità.
Questa fluidità di significato nello spazio e nel tempo spinge Harvey a chiedersi come poter leggere le categorie di base marxiane nel contesto del nostro presente. Dal momento che la totalità viene trasformata, anche l’apparato concettuale che usiamo per rappresentarla dovrà in qualche modo mutare. È il genere questioni che vengono al pettine quando si parla, per esempio, di finanziarizzazione dell’economia. Prendiamo, insieme a Harvey, il caso della Cina degli ultimi due decenni. Il suo rapidissimo processo di urbanizzazione ha richiesto la costruzione di un sistema finanziario che fosse adeguato al capitale fisso e alla formazione del fondo di consumo. Esattamente come ci si poteva aspettare a partire dalle categorie marxiane. Queste, però, prevedono anche un ruolo subordinato del capitale creditizio rispetto alle esigenze quello propriamente industriale. E qui emerge, secondo Harvey l’esigenza di un aggiornamento concettuale perché bisogna riconoscere che il sistema finanziario dagli anni Ottanta in avanti è emerso come il vero padrone della circolazione e dell’accumulazione del capitale, come il sistema nervoso centrale adeguato ai bisogni della circolazione e dell’accumulazione tipici della totalità costituita dal capitale contemporaneo.
Il punto di vista della totalità, secondo Harvey, ci aiuta a evitare alcuni schematismi che hanno talvolta caratterizzato la riflessione del marxismo. Qui basterà accennare, senza avere la possibilità di svilupparle, due questioni. In primo luogo, se è vero che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è ritenuta da Marx “la legge più importante della moderna economia politica”5 è altrettanto importante sottolineare che essa ha a che fare con il connesso aumento della massa del valore. “Dalla prospettiva della totalità Marx evidenzia come sia la crescita assoluta del capitale (cioè la massa del valore) a definirne l’essenza”,6 commenta Harvey. In secondo luogo, “L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione all’interno della totalità concepita in termini marxiani è una caratteristica centrale e fondamentale nella teoria del capitale”.7 Non si tratta di negare la centralità della produzione, perché questa è la sfera dove si genera il plusvalore. Ma, prosegue Harvey, valore e plusvalore esistono solo in potenza finché non vengono realizzati attraverso la vendita delle merci sul mercato.

Torniamo, dunque, al concetto di totalità che, per quanto riguarda il capitale, può essere considerata come un ecosistema isolato in funzione del suo studio, ma immerso in un ambiente più ampio, quello della formazione sociale borghese di cui costituisce il motore fondamentale, la forza trainante. Un’altra utile analogia, suggerita dallo stesso Marx, è quella con il corpo umano, costituito da diversi processi di circolazione autonomi e indipendenti, eppure compresi nella logica organica di un unico sistema. Applicare una struttura gerarchica a questi processi, sostiene Harvey, non ha senso perché il collasso di ognuno di loro minaccerebbe l’intera totalità. Allo stesso modo il capitale è costituito da differenti e interrelati processi di circolazione che riguardano lo scambio delle merci, il denaro in quanto tale, la capacità lavorativa, il denaro in quanto capitale, il capitale fisso e il capitale produttivo di interesse.

Il capitale è definito valore in movimento, ed è attraverso quest’ultimo che ogni singolo momento è collegato all’altro. Nessuno dei momenti all’interno della totalità del capitale può essere quindi compreso, nella visione marxiana, indipendentemente dai rapporti prevalenti fra loro.8

Il capitale è, per dirla direttamente con le parole dei Grundrisse, un “sistema organico” il cui “sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinarsi tutti gli elementi della società, o nel crearsi a partire da essa gli organi che ancora gli mancano”.9 Ma nel pensiero di Marx questo tipo di considerazione non mette capo ad una concezione organicistica della società, se con essa intendiamo una visione che si basa sulla interrelazione armoniosa tra le parti, tipica del pensiero politicamente conservatore. Al contrario, continuando a utilizzare le parole dei Grundrisse, il capitale è “contraddizione in processo”, “contraddizione vivente” perché pone da sé stesso i suoi specifici limiti e al tempo stesso tende a superare ogni limite. L’esempio forse più significativo in questo senso è la dinamica che lo porta a ridurre il tempo di lavoro ad un minimo (attraverso la meccanizzazione del processo produttivo e la conseguente diminuzione di manodopera a parità di investimento) mentre pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.

La totalità del capitale non si limita a riprodurre sé stessa. Bisogna infatti considerare, come ripetutamente sottolineato da Harvey, che la circolazione del capitale non è un semplice circolo, ma, utilizzando direttamente le parole dei Grundirisse, “una spirale, una curva che si amplia”.10 Tornando a Harvey,

se il capitale è denaro usato per fare altro denaro, e alla fine del giorno dovrà risultare più capitale monetario che all’inizio, è evidente che la totalità, per sopravvivere, dovrà mantenersi in uno stato ininterrotto di espansione infinita.11

Per Marx è chiaro che “quanto più alto è lo sviluppo del capitale, tanto più esso appare come ostacolo alla produzione”. Ma il capitale non si può fermare di fronte a nessun tipo di crisi dovendo “ricominciare da capo il suo tentativo, a partire da un grado superiore di sviluppo delle forze produttive ecc., con la prospettiva di un collasso sempre più grave in quanto capitale”.12 Il capitale ovviamente produce soluzioni alle sue crisi, ma anche esse si rivelano contraddittorie. Senza alcuna pretesa di sistematicità, se ne possono citate alcune di cui Harvey parla prendendo spunto dalle pagine dei Grundrisse per trattare di temi di attualità (come gli capita spesso in questo testo): l’enorme espansione del capitale finanziario, l’espansione geografica del capitale (quello che Harvey definisce “spatial fix”), il consumo improduttivo nella forma di investimenti nell’urbanizzazione e in ogni genere di infrastrutture fisiche, ma anche delle spese militari.
A dire il vero, nota Harvey, l’economia bellica è trattata da Marx solo attraverso pochissimi commenti. Il marxista britannico, però, cita una breve ma significativa digressione in cui l’autore dei Grundrisse afferma essere un’ovvietà il fatto che dedicando risorse alla guerra “dal punto di vista economico è come se la nazione buttasse a mare una parte del suo capitale”.13 Un accenno importante perché prefigura la volontà di costruire una teoria più generale su questo argomento. Una teoria, commenta Harvey, in grado di spiegare come “Ogni tendenza verso la sovraccumulazione […] può essere risolta incanalando e dissipando il capitale in investimenti inutili e in campagne militari”.14

In ogni caso l’incessante espansione del capitale generalizza e intensifica il suo dominio nella forma che propriamente gli si addice, quella dei “rapporti di dipendenza materiale in antitesi con quelli personali”15 tipici di sistemi precapitalistici. Questo significa che “Gli individui [sono] dominati da astrazioni mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri”.16 Non si tratta di un dominio delle idee, come quello che viene chiamato spesso in causa quando si vuole spiegare l’affermazione dell’ideologia thatcheriana, e più in generale neoliberista, con la sostituzione di una concezione statalista keynesiana con il pensiero filo-imprenditoriale di Hayek e Friedman. Questa è una prospettiva idealistica che ragiona come se “la dissoluzione di una determinata forma di coscienza” fosse “sufficiente ad uccidere un’intera epoca”17. Dal punto di vista storico-materialistico di Marx, invece, occorre identificare quali forze di classe e quali origini sociali si nascondano dietro queste astrazioni. “Perché l’astrazione o idea non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio”18 sugli individui. Sono specifiche pratiche sociali e condizioni storico-materialistiche, per esempio, che “pongono” (per dirla alla Marx) l’esistenza del valore in qualità di astrazione capace di governare l’azione sociale. Così come accade per la gravità, il valore non lo si può vedere o misurare direttamente, ma la sua esistenza viene confermata chiaramente dai suoi effetti. Questo ha delle conseguenze politiche di importanza tutt’altro che secondaria.

Se siamo governati dalle astrazioni, come Marx insiste a dire, l’unico obiettivo dell’agire umano che abbia un senso è prendersela con quei processi che le producono in modo tale da renderli infine irrilevanti: esattamente ciò che l’ideologia e la politica capitalista si rifiutano di prendere anche solo in considerazione. D’altra parte, contemplare una lotta di classe contro le astrazioni sembra anche parecchio complicato.19

Ma delle vicissitudini della lotta di classe di fronte alla totalità capitalistica ci occuperemo nella seconda e ultima parte di questo articolo.

La seconda parte sarà pubblicata martedì 16 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024, p. 24. Per le precedenti citazioni vedi p. 12. Harvey ha pubblicato anche due commentari dedicati rispettivamente al primo e al secondo volume de Il capitale, successivamente raccolti in un unico volume: A Companion to Marx’s Capital: The Complete Edition, Verso Book 2018. Del primo è disponibile una traduzione italiana: Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La Casa Usher 2014. I commentari di Harvey nascono dalle sue lezioni che sono disponibili in video sul sito Intenet https://davidharvey.org/

  2. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi 1976, p. 285. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p.15. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 767. 

  6. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 448. 

  7. Ivi, p. 2017. 

  8. Ivi, p. 44. 

  9. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 227. 

  10. Ivi, p. 213. 

  11. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 199. 

  12. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 384. 

  13. Ivi, p. 54. 

  14. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 82. 

  15. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 96. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 529. 

  18. Ivi, p. 96. 

  19. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 433. 

]]>
Marx: scomodo e attuale, anche nella vecchiaia https://www.carmillaonline.com/2024/06/11/marx-scomodo-e-attuale-anche-nella-vecchiaia/ Tue, 11 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82684 di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. [...]]]> di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. La vittoria finale resta assicurata, ma i giri tortuosi, gli smarrimenti temporanei e locali – già prima inevitabili – aumenteranno adesso più che mai. Bene, dovremo cavarcela. Altrimenti che cosa ci stiamo a fare?» (F. Engels, lettera a F. Sorge, 15 marzo 1883 – 24 ore dopo la morte di Karl Marx)

Marcello Musto, professore di Sociologia presso la York University di Toronto, può essere considerato tra i maggiori, se non il maggiore tra gli stessi, studiosi contemporanei di Karl Marx. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in venticinque lingue e annoverano, tra le più recenti, dallo stesso scritte o curate: Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (Einaudi 2018), Karl Marx. Scritti sull’alienazione (Donzelli 2018), Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture (Donzelli 2019), Karl Marx. Introduzione alla critica dell’economia politica (Quodlibet 2023) e Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione (Carocci 2023 con M. Iacono).

L’attuale volume costituisce la riedizione ampliata di una ricerca già pubblicata nel 2016 dallo stesso editore che pone al centro dell’attenzione gli ultimi due anni di attività del Moro di Treviri prima della morte, giunta per lui alle 14,45 del 14 marzo 1883. Sono anni di sofferenza fisica e psicologica per Marx, segnati pesantemente, ancor più che dai malanni fisici che lo perseguitano, dalla morte della moglie (Jenny von Westphalen, 12 febbraio 1814 – 2 dicembre 1881) e della figlia maggiore Jenny (1° maggio 1844 – 11 gennaio 1883). Ancora nella stessa lettera citata in esergo, l’amico Engels avrebbe commentato:

Tutti gli eventi che accadono per necessità naturale recano in sé la propria consolazione, per quanto possano essere terribili. È stato così anche in questo caso. Forse, l’abilità dei medici gli avrebbe potuto assicurare ancora qualche anno di esistenza vegetativa; la vita di un essere impotente, il quale, per il trionfo della medicina, non muore d’un sol colpo, ma soccombe a poco a poco. Tuttavia, il nostro Marx non lo avrebbe mai sopportato. Vivere con tutti quei lavori incompiuti davanti a sé, anelando, come Tantalo, a portarli a termine senza poterlo fare, sarebbe stato per lui mille volte più amaro della dolce morte che lo ha sorpreso. «La morte non è una disgrazia per colui che muore, ma per chi rimane», egli soleva dire con Epicuro. E vedere quest’uomo geniale vegetare come un rudere a maggior gloria della medicina e per lo scherno dei filistei che lui, quando era nel pieno delle sue forze, aveva tanto spesso stroncato… no, mille volte meglio le cose così come sono andate. Mille volte meglio che dopodomani lo porteremo nella tomba dove riposa sua moglie. Dopo tutto quello che era successo precedentemente, di cui neanche i medici sono a conoscenza più di quanto lo sia io, secondo me non ci poteva essere che una scelta1.

Ma al di là delle considerazioni sulle afflizioni personali, è quell’annotazione engelsiana sui “lavori incompiuti” che ci proietta all’interno del lavoro condotto da Musto sugli ultimi anni del rivoluzionario tedesco, che, occorre qui subito dirlo, costituì, più che un’unica opera definitivamente compiuta, un gigantesco laboratorio di riflessioni, intuizioni e rielaborazioni che finiscono col costituire, ancora oggi, l’autentica eredità scientifica dello stesso Marx.

Una scienza definibile come tale non in virtù di dogmi, verità e affermazioni apodittiche espresse una volta per tutte, come molti seguaci e settari eredi ancora vorrebbero, ma proprio per la possibilità di falsificare tante affermazioni date per scontate, costringendo, così come l’autore del Capitale continuò a fare fino al momento della morte, lo scienziato a verificare e riverificare le proprie precedenti osservazioni e formulazioni. Non in nome del dubbio perenne, sempre insoddisfatto, ma della necessità di chiarire meglio concetti, problemi, sistemi di riferimento teorici che pur sempre nella concreta realtà materiale, sia che si trattasse della lotta di classe oppure delle trasformazione dei meccanismi di accumulazione e sfruttamento del capitalismo, dovevano piantare solidamente i piedi.

Una sfida che Marx accettò, e allo stesso si impose, durante l’intero corso del suo operato. Una sorta di gigantesco work in progress, condotto spesso in solitudine e talvolta nel confronto e con la collaborazione con Friedrich Engels, in cui è possibile inserire e verificare tutti i suoi scritti, dagli Annali Franco-tedeschi del 1844 fino agli ultimi scritti e lettere sulla Russia e le sue tradizioni comunalistiche in uso tra i contadini al servizio dei grandi proprietari terrieri ai tempi dello Zar.

Musto nel corso del suo lavoro, e non soltanto in questo caso, fa riferimento sia all’edizione delle opere di Marx-Engels già uscita in 50 volumi (più vecchia e dal travagliato percorso editoriale, soprattutto in Italia), sia a quella più recente, e tutt’ora i corso di pubblicazione, in 114 (che dovrebbe raccogliere tutti gli scritti e relative revisioni degli stessi, pubblicati e non, ad opera dell’autore). Mentre la prima iniziata ancora ai tempi dell’URSS doveva costituire una sorta di monumento all’opera dei due comunisti, trasformatosi, però, per carenza di materiali, rimozioni politiche e ideologiche e frettolose ricostruzioni in una sorta di fossile critico, l’attuale, pur di più difficile consultazione, finirà di fatto col costituire non tanto l’”opera definitiva” quanto piuttosto quella di riferimento filologico per tutti gli studi a venire.

Da questo punto di vista, all’interno del volume sugli ultimi anni di Marx, risultano importanti e utili le considerazioni contenute nella parte riguardante i motivi per cui Il capitale non fu mai davvero completato in vita dall’autore.

Tra il 1877 e l’inizio del 1881, Marx redasse nuove versioni di diverse parti del Libro Secondo del Capitale. Nel marzo del 1877, ripartì dalla compilazione di un indice, piuttosto esteso, dei materiali precedentemente raccolti. Si concentrò, poi, quasi esclusivamente sulla prima sezione, dedicata a «Le metamorfosi del capitale e il loro ciclo», eseguendo un’esposizione più avanzata del fenomeno della circolazione del capitale. In seguito, nonostante le cagionevoli condizioni di salute e seppure la necessità di effettuare ulteriori ricerche rendesse il lavoro molto saltuario, Marx continuò a occuparsi di diversi argomenti, tra i quali l’ultimo capitolo «Accumulazione e riproduzione allargata». Risale a questo periodo il cosiddetto «Manoscritto VIII» del Libro Secondo in cui, accanto alla ricapitolazione di testi precedenti, Marx preparò nuove bozze che riteneva utili per il proseguimento dell’opera. Egli comprese anche di avere commesso, e reiterato per lungo tempo, un errore di interpretazione, allorquando aveva ritenuto che le rappresentazioni monetarie fossero meramente un velo del contenuto reale delle relazioni economiche2.

Ma ciò che è stato appena qui riportato costituisce soltanto uno dei tanti ripensamenti che in qualche modo frenarono la definitiva stesura e pubblicazione di quella che avrebbe dovuto costituire l’opera definitiva del Moro di Treviri e che, invece, tale non fu e non avrebbe potuto essere. Ai problemi di carattere economico, politico, tecnologico, agrario e monetario che Marx si sforzò di comprendere per dare validità al proprio lavoro, si aggiunsero, oltre a quelli già segnalati di salute e gravi lutti famigliari, anche quelli legati alla traduzione in altre lingue del testo stesso. Fin dalla pubblicazione del primo volume dell’opera (l’unico comparso con l’autore ancora in vita).

Ecco allora che appare evidente la forzatura, iniziata già con Engels, di completare la pubblicazione del secondo e terzo volume basandosi (prima con il lavoro dello stesso amico e sodale tra il 1885 e il 1894 e poi per il quarto, noto anche come Teorie del plusvalore, pubblicato tra il 1905 e il 1910 a cura di Karl Kautsky, ex-segretario personale di Engels e all’epoca massimo esponente della socialdemocrazia tedesca e del marxismo cosiddetto ortodosso) sugli appunti sparsi e disordinatissimi, nonostante il rigore degli studi, dello stesso Marx. Errore che non è stato migliorato, e non poteva esserlo, nemmeno nell’edizione francese della Pléiade delle opere di Marx curata da Maximilien Rubel, in cui, grazie anche al contributo di Suzanne Voute, vecchia militante internazionalista di Marsiglia, sia il secondo che il terzo libro dell’opera stesso venivano, in qualche modo, risistemati sulla base di materiali tralasciati da Engels e Kautsky durante i precedenti lavori di sistemazione.

Riportare qui le vicende di quegli studi ripensati, sospesi e ripresi da Marx sarebbe troppo lungo nell’ambito di una recensione e per questo motivo non si può far altro che rinviare il lettore al teso pubblicato da Donzelli, in cui Musto sottolinea ancora come, ad ogni modo, «lo spirito problematico con il quale Marx scrisse e continuò a ripensare la sua opera palesa l’enorme distanza che lo separa dalla rappresentazione di autore dogmatico, proposta sia da molti avversari che da tanti presunti seguaci»3.

Ma questo carattere distintivo di Marx, questa sua estrema attenzione alla realtà delle cose e alla necessità di una spiegazione dei fatti sociali, economici e politici che fosse pienamente convincentte e utile ai fini dello sviluppo di un vittorioso confronto con l’avversario di classe, lo si può riscontrare anche nei confronti dell’”autonomia” della lotta di classe, del suo naturale svilupparsi a partire dall’azione dei lavoratori e delle loro lotte senza alcuna necessità di attori esterni che spingessero in tale direzione oppure, ancora,nei confronti sollevati dai socialisti rivoluzionari russi, quando questi si rivolsero a Marx e al suo giudizio proprio a proposito della comune contadina rssa e sulle sue potenzialità di sviluppo. Cui Marx rispose in maniera tale da demolire a priori qualsiasi tentativo di dare per scontati cicli storici di sviluppo sociale ed economici forzatamente uguali in ogni angolo del mondo.

Tanti, dopo la morte di Marx, avrebbero innalzato la sua o le sue bandiere, però, come ci ricorda in chiusura Marcello Musto:

Nel corso di questo lungo processo – durante il quale Marx è stato studiato a fondo, trasformato in icona, imbalsamato in manuali di regime, frainteso, censurato, dichiarato morto e, di volta in volta, sempre riscoperto – alcuni hanno completamente stravolto le sue idee con dottrine e prassi che, in vita, egli avrebbe irriducibilmente combattuto. Altri, invece, le hanno arricchite, aggiornate e ne hanno messo in evidenza problemi e contraddizioni, con spirito critico simile a quello da lui sempre adoperato e che egli avrebbe apprezzato.
Coloro che oggi ritornano a sfogliare le pagine dei suoi testi, o quanti si cimentano con essi per la prima volta, non possono che restare affascinati dalla capacità esplicativa dell’analisi economico-sociale di Marx e coinvolti dal messaggio che trapela, incessantemente, da tutta la sua opera: organizzare la lotta per porre fine al modo di produzione borghese e per la completa emancipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, di tutto il mondo, dal dominio del capitale4.

Ancora oggi, dunque, è utile tornare ai suoi testi e al suo metodo, anche attraverso le pagine di questo libro.


  1. F. Engels a F. Sorge, cit. ora in M. Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 252-253.  

  2. M. Musto, op. cit. pp. 172-173.  

  3. Ibidem, p. 190.  

  4. Ibid, pp. 253-254.  

]]>
L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

]]>
Vabbè, vabbè, silenzio! https://www.carmillaonline.com/2024/03/20/vabbe-vabbe-silenzio/ Wed, 20 Mar 2024 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81633 di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre [...]]]> di Sandro Moiso

Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 103, 10 euro.

«Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. E’ una città di mezzi matti…E’ raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo…» (Svidrigajlov, in Delitto e castigo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

In occasione del solstizio di marzo, vale la pena di parafrasare Mattinata fiorentina, una vecchia canzone di Luciano Tajoli: è primavera, svegliatevi lettori, col primo sole qualche classico delle letteratura universale è sempre bene leggerlo. E il testo appena riproposto da Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca con il numero 800, e magnificamente curato da Serena Vitale è proprio uno di questi.

Prima di parlare del testo di Gogol’, però, occorre dedicare ancora qualche parola al lavoro della curatrice. Professoressa di Lingua e letteratura russa, ha insegnato in diversi atenei italiani (tra cui l’Istituto Orientale di Napoli e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) dal 1971 al 2015. Scrittrice e autrice di saggi, curatele e traduzioni, si è misurata con i maggiori autori russi e cechi quali Josif Aleksandrovič Brodskij, Marina Ivanovna Cvetaeva, Aleksandr Sergeevič Puškin, Vladimir Nabokov, Sergej Esenin, Michail Bulgakov, Sergei Timofeevič Aksakov, Vladimir Majakovskij. Ha tradotto anche Milan Kundera, Osip Mandel’štam, Vladimir Zazubrin, Andrej Platonov e Fëdor Dostoevskij. Traduzioni e curatele in gran parte svolte per la stessa Adelphi presso la quale ha pubblicato anche due fondamentali saggi su Puskin e Majakovskij. Entrambi travestiti da romanzi-indagine sulle cause della morte dei due autori1.

Dedicato quanto dovuto alla serietà ed esperienza della curatrice, occorre ora passare all’opera qui recensita con una prima considerazione sulla follia di questi tempi di guerra. Cosa che ha fatto sì che mentre una parte del demimonde intellettuale e politico che frequenta i media mainstream si sia scandalizzato per le decine di migliaia di firme di artisti raccolte contro la partecipazione di Israele alla prossima Biennale di Venezia, altrettanto non abbia fatto nei confronti della, realmente, spaventosa richiesta di cancellazione, in Occidente o lungo i suoi confini ucraini, della grande cultura letteraria russa, successiva all’invasione putiniana dell’Ucraina. Sia in ambito pubblicistico che universitario e di dibattito mediatico.

Tanto da far sì che, mentre si cercava e si cerca tutt’ora una valida opposizione al regime putiniano accettandone anche personaggi xenofobi e nazionalisti quali Alexei Navalny2, ci si è dimenticati o, per meglio dire, è cancellato il fatto che gran parte della grande letteratura russa, prima, e sovietica, successivamente, del XIX e XX secolo è stata sempre esemplarmente critica nei confronti sia del regime zarista che di quello staliniano. Affrontando spesso, proprio per questo motivo, lunghi periodi di detenzione, esilio se non addirittura la morte.

Una letteratura che, anche nel caso di autori come Gogol’ (1809-1852) e Dostoevskij, è stata recentemente definita come eccessivamente russofila e slavofila per l’ironia con cui a volte venivano trattate le mode culturali occidentali e per le critiche contenute anche a quelle politiche, che pur avevano animato grandi critici dell’arretratezza russa e del regime arcaico che la prima causava sia a livello politico che economico e culturale in autori e filosofi come Aleksandr Herzen (1812 – 1870). Contestandole, spesso, un richiamo arcaico alla comune contadina tradizionale russa, l’obščina, che pur fu uno degli elementi che fecero ripensare anche a Karl Marx, nell’ultima parte della sua vita, la teoria univoca dello sviluppo capitalistico e delle sue contraddizioni3. D’altra parte, parlando nello specifico di un autore come Gogol’, il riferimento al giudizio di Marx sui possibili sviluppi della comune contadina russa non è affatto fuori luogo. Scriveva infatti il filosofo tedesco:

Lo Stato ha contribuito all’arricchimento di una nuova feccia capitalistica, che succhia il sangue già impoverito della “comune rurale”. Schiacciata dalle imposte dirette dello Stato, sfruttata in maniera fraudolenta dagliintrusi capitalisti, mercanti, ecc. e dai “proprietari” fondiari, essa è per sovrammercato minata dagli usurai del villaggio, dai conflitti d’interessi provocato al suo interno dalle condizioni che le sono statte imposte4.

Tema sul quale Nikolaj Gogol’ aveva scritto uno dei suoi capolavori, Le anime morte, un romanzo pubblicato nel 1842 originariamente col titolo Le Avventure di Čičikov, e il sottotitolo Poema imposto dalla censura zarista, che narra in tono satirico-grottesco le disavventure di un piccolo truffatore di provincia nell’Impero russo del 1820. La trama prendeva spunto dal fatto che nell’Impero russo, il termine «anime» designava i servi della gleba maschi. L’intento di Cicikov è infatti quello di acquistare a buon prezzo le “anime morte” dall’ultimo censimento fino a quando non ne verrà registrata la morte nel successivo censimento quinquennale. Čičikov punta così a crearsi, con il minimo sforzo, un numero di servitori (“fantasma”) elevato al punto tale che, ipotecandoli, possa costituire un grosso capitale.

Così come in altri testi, l’autore gioca le carte della narrazione lungo un filo sottile fatto di paradossi, ignoranza, avidità e follie burocratiche che aveva già sviluppato nel racconto Brani dalle memorie di un pazzo scritto nel 1834 e pubblicato per la prima volta nel 1835 nella raccolta di racconti intitolata Arabeschi e successivamente inserito nella raccolta Racconti di Pietroburgo con il titolo abbreviato utilizzato anche dall’attuale edizione Adelphi.

In questo caso lo spunto, come spiega fin dalle pagine introduttive la curatrice, è fornito dalla “tabella dei ranghi” voluta dallo zar Pietro il Grande nel 1722 che

aveva diviso i sudditi – esclusi, ovviamente, i servi della gleba – in quattordici classi, formalizzando il čin (grado), la condizione giuridica e sociale di chi serviva lo Stato nell’esercito, a corte, nella pubblica amministrazione. A ciascun grado corrispondeva un abbigliamento di cui veniva prescritto ogni particolare (lunghezza, ampiezza, numero di bottoni, colletti, baveri, cappucci, pellegrine, colore, tipo di stoffa, mostrine, galloni). Un enorme impero in divisa…5

Un progetto di uniformare una società e un impero che uniformava non soltanto strutture e ruoli amministrativi, ma anche le mentalità individuali e lo stesso comportamento sociale, riducendo le tensioni che lo animavano ad una velleitaria, spesso comica e talvolta tragica competizione tra miserevoli individui tutti affaccendati, principalmente, a competere con coloro che li affiancavano o superavano di un grado o poco più nella scala dei “meriti” acquisiti nei confronti dei superiori, fino al massimo grado.

Un vasto impero burocratizzato in cui il protagonista, Propriščin, in qualche modo da un lato si ispira (e finirà con l’ispirare ancora) ad uno dei più classici personaggi di tanta letteratura russa dell’Ottocento, il činovnik ( il funzionario, l’impiegato nell’amministrazione pubblica) e, dall’altro, alle esperienze dello steso autore che rivestì tale funzione per circa un anno e mezzo tra la fine del 1829 e l’inizio del 1831, a Pietroburgo, col grado più basso in qualità di “registratore di collegio” nel dipartimento dell’Economia statale e degli edifici pubblici. Un breve periodo durante il quale ebbe modo di detestare il lavoro, i colleghi, la farraginosa e soffocante macchina burocratica.

Il racconto riporta tutto ciò, anche se la figura di Propriščin non è affato destinata a suscitare la simpatia o almeno la pietà del lettore. Come sempre, quello di Gogol’ è un mondo in cui la miseria morale supera ampiamente quella economica di cui è il prodotto e tutti i maneggiamenti del protagonista, prima nei confronti del suo diretto superiore, poi nei confronti della figlia del Direttore di cui è innamorato, destinati a portarlo alla follia e in manicomio, pur facendo sorridere il lettore certo non lo commuovono.

Il fatto che Propriščin poco per volta si convinca che i cani possano parlare tra di loro come gli umani e addirittura scriversi lettere e, in seguito, di essere il vero erede al trono di Spagna serve a Gogol’per dipingere un mondo assurdo che il solo realismo non sarebbe certo servito a denunciare e a smontare. Un mondo in cui ognuno spia il suo vicino, a partire dall’abito naturalmente, pronto a prenderne il posto, pur di salire in una scala di valori che sembra esser stata definita apposta per dividere e rendere impossibile qualsiasi tipo di solidarietà tra concittadini più che realmente premiare qualsiasi tipo di merito che non sia esclusivamente legato al servilismo nei confronti dell’autorità statale.

Una situazione che è impossibile non paragonare a quella descritta in altre opere di scrittori dello stesso periodo, ma anche a quella che il lettore può ritrovare in tanta letteratura russa di età sovietica, in cui la posizione sociale e all’interno di un occhiuto partito era definito dal prestigio acquisito attraverso ruoli, spesso bizzarri, vili o servili, o dalla possibilità di avere a disposizione appartamenti meno miserabili se non di lusso oppure semplicemente occupati da un minor numero di famiglie6.

In particolare, il paragone che salta immediatamente agli occhi del lettore più attento è quello con Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (1891-1940), romanzo dell’assurdo e magico che metteva drammaticamente e, allo stesso tempo, comicamente alla berlina il regime staliniano nel momento del suo massimo “splendore”7, considerato uno dei massimi capolavori della letteratura del XX secolo.
Non a caso l’autore fu un grande ammiratore di Gogol’, da cui carpì la satira feroce e la comica magia come arma per disarmare il colosso statuale russo.

Una capacità, quella di far ridere o, almeno, di suscitare il sorriso anche nei momenti più drammatici che costituisce una delle caratteristiche tipiche della grande letteratura russa, come succede anche nelle opere sul Gulag di Varlam Šalamov8 e che, erroneamente, è stato accostato al realismo magico oppure, come nel caso di Gogol’, fin dall’Ottocento, criticato per l’apparente scarsa attinenza alla realtà.

«Vabbè, vabbè, silenzio!» allora, come avrebbe potuto commentare il protagonista del racconto di Gogol’. Racconto che nell’edizione Adelphi è accompagnato da alcuni frammenti di una pièce teatrale che Gogol’ non completò, Vladimir di terzo grado, nella certezza che avrebbe subito pesanti interventi da parte della censura. Una pièce in cui l’autore si riprometteva di rappresentare la follia in cui precipita un funzionario che non riesce in alcun modo a ottenere una prestigiosa onorificenza.


  1. S. Vitale, Il bottone di Puskin, Adelphi Edizioni, Milano 1995 e Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015.  

  2. Significativo che a inizio marzo di quest’anno la moglie di Zelensky non abbia voluto incontrare a Washington, sotto l’egida del presidente Biden, la moglie del dissidente russo, Julija Naval’naja. Si veda anche M. Flammini, Navalny a Kyiv, il Foglio, 22 febbraio 2024, per capire quanto “rispetto” provino gli ucraini per il dissidente russo osannato quale simbolo di liberalismo e democrazia. Senza contare, infine, che sono stati proprio i servizi ucraina a sostenere che Navalny sia morto per “cause naturali”: M. Romeo, Navalny, clamorosa dichiarazione dello 007 ucraino Budanov sulla causa di morte dell’attivista russo, TG.LA7.IT, 25 febbraio 2024.  

  3. Si vedano in proposito: P.P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1978 e E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014.  

  4. Cit. in E. Cinnella, op. cit., pp. 148-149.  

  5. S. Vitale, « Una città di mezzi matti » in N. Gogol’, Memorie di un pazzo, a cura di Serena Vitale. Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 11.  

  6. Si veda in proposito Y. Slezkine (alias Jane K. Sather), La casa del governo. Una storia russa di utopia e terrore, Feltrinelli, Milano 2018; J. Trifonov, La casa sul lungofiume, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992 (prima edizione italiana Editori Riuniti 1977)  

  7. M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Giulio Einaudi editore, Torino 1967.  

  8. V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Giulio Einaudi editore, Torino 1999.  

]]>
Alle radici della Rivoluzione industriale: la schiavitù https://www.carmillaonline.com/2024/03/06/alle-radici-della-rivoluzione-industriale-la-schiavitu/ Wed, 06 Mar 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81300 di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua [...]]]> di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua morte.

E’ considerato come uno dei più noti storici dei Caraibi, insieme a Cyril Lionel Robert James, soprattutto per il suo libro intitolato “Capitalismo e schiavitù”, appena pubblicato in Italia da Meltemi editore. Frutto di uno studio del 1944, la ricerca costituisce un’opera imprescindibile per la comprensione dello sviluppo e del successo dell’Impero britannico e della Rivoluzione industriale. Collegando la seconda alla tratta atlantica degli schiavi e ripercorrendone l’ascesa e la caduta, tra Settecento e Ottocento, e sostenendo che l’impiego di schiavi neri nell’Impero britannico – e, di conseguenza, il fenomeno del razzismo – abbia avuto inizio per ragioni di natura esclusivamente economica, ovvero promuovere il capitalismo industriale attraverso il reperimento di manodopera a basso costo, l’autore caraibico smonta e disvela la fasulla retorica liberale sull’umanitarismo che l’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale avrebbe portato con sé.

In Eric Williams l’impegno politico e l’attività di ricerca storica non andarono mai separate, come dimostra nella Premessa William Darity Jr.:

Fervente nazionalista trinidadiano, Williams mostrava verso i suoi concittadini un sentimento misto, tanto di profondo attaccamento quanto di alterigia. Negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza, tra il 1955 e il 1962, egli si propose espressamente di portare la sua erudizione dentro al dibattito politico tenendo una serie di tortuose conferenze in una piazza del centro, nel cuore della capitale Port of Spain. I suoi discorsi contribuirono a rendere il luogo popolarmente noto come l’“Università di Woodford Square”. Eric Williams era l’insegnante e il suo uditorio riceveva delle vere e proprie lezioni accademiche di storia trinidadiana, caraibica e transatlantica, in particolare riguardo al commercio degli schiavi, alla schiavitù e al colonialismo europeo1.

Fu proprio su quella piazza che, il 15 gennaio 1956, Eric Williams lanciò il People’s National Movement (PNM), il partito politico di cui da lì in poi sarebbe stato alla guida per un quarto di secolo. Woodford Square, che prendeva il nome da un governatore coloniale razzista e corrotto dei primi dell’Ottocento, Sir Ralph James Woodford, fu ironicamente anche il luogo in cui si sarebbero radunati gli ideatori del movimento per il Black Power negli anni Settanta, trovandosi a discutere con lo stesso Eric Williams quando, durante il periodo della sua leadership, questi dovette affrontare lo status contraddittorio di essere a capo di un paese a predominanza nera sulla cui scena nazionale si stava imponendo l’attivismo del Potere Nero. Contraddizione che non fu mai risolta.

Tra il 1968 e il 1970, infatti, il movimento per il Black Power si era andato sviluppando a Trinidad e Tobago a partire dall’interno della Lega degli Studenti Universitari presso il Campus di Sant’Agostino dell’Università delle Indie Occidentali e si unì al sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi. In risposta alla sfida, lanciata dal Black Power durante il Carnevale dl 1970, Williams replicò con una trasmissione intitolata “Io sono per il Black Power” e introdusse un prelievo del 5% per finanziare la riduzione della disoccupazione e fondò la prima banca commerciale di proprietà locale. Tuttavia, questo intervento ebbe scarso impatto sulle proteste e il 3 aprile 1970 un manifestante fu ucciso dalla polizia. Il 18 aprile i lavoratori dello zucchero entrarono in sciopero e si parlò di uno sciopero generale. In risposta a ciò, Williams proclamò lo stato di emergenza il 21 aprile e arrestò 15 leader del Black Power.

Williams fece poi ancora altri tre discorsi in cui cercò di identificarsi con gli obiettivi del movimento Black Power, rimescolando il suo gabinetto e rimuovendo tre ministri e tre senatori, ma proponendo anche un disegno di legge sull’ordine pubblico che avrebbe limitato le libertà civili nel tentativo di controllare le marce di protesta. Disegno di legge che, però, dopo l’opposizione pubblica fu ritirato.

Anche se Eric William, una volta al governo, mostrò probabilmente i limiti e le contraddizioni di un cambiamento politico che non era seguito a una radicale rivoluzione nei confronti del dominio coloniale, lo stesso può essere considerato come uno dei più lucidi e spietati critici di quel “paternalismo” umanitario di cui il capitalismo britannico aveva voluto indossare i panni per giustificare con il “progresso” la propria secolare politica di rapina e oppressione che non era certo finita con la fase dell’accumulazione primaria. In cui pirati, come Sir Francis Drake, e schiavisti si erano contraddistinti e messi in bella mostra; tanto da far dire ad Adam Smith che è “il gentiluomo di ventura” (ovvero il corsaro descritto in termini più gentili) a rappresentare il primo e vero self-made man della tradizione individualista liberale.

La sua moderna critica del sistema di produzione che aveva sfruttato la manodopera schiava per incrementare il proprio sviluppo e i propri profitti non fu ben vista negli ambienti dell’Università di Oxford dove l’autore aveva studiato con ottimi risultati e soltanto con il ritorno oltre Atlantico, dove riuscì a ottenere un incarico come professore di Scienza politica e sociale presso la Howard University, che mantenne dal 1938 al 1948, riuscì a completare e a pubblicare le sue ricerche, iniziati già in Gran Bretagna con una tesi intitolata The Economic Aspects of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery – un po’ macchinoso rispetto alla precisa definizione di Capitalism and Slavery.

Prima di tornare nelle Indie occidentali, Williams aveva provato senza successo – con sei case editrici – a pubblicare la sua dissertazione del 1938 per l’Università di Oxford, e non era riuscito a ottenere un incarico accademico in nessuna università britannica. Questi ostacoli emersero nonostante Williams si fosse laureato con la lode, avesse difeso con successo la sua tesi davanti a una commissione formata dai più celebri storici dell’imperialismo di Oxford e malgrado si fosse classificato come il miglior studente del dottorato di ricerca in Storia della stessa università2.

Fu così che la ricerca, con il titolo con cui è diventata nota e con cui è stata pubblicata anche qui da noi, fu pubblicata nel 1944 dalla University of North Carolina Press. Evidentemente, una Università americana che, sarcasticamente Williams definiva come la “Oxford dei nei”, poteva allora permettersi di pubblicare un lavoro all’epoca troppo scomodo per il cuore degli studi imperiali inglesi, anche se anche all’Università di Howard i corsi fossero ancora « dominati da una premessa esplicita secondo cui la civiltà era il prodotto della razza bianca del mondo occidentale».

Ecco, proprio contro questa premessa, tutt’altro che soltanto sottintesa, o perlomeno contro l’apporto umanitario e civilizzatore degli imperi occidentali nei confronti del resto del mondo e dei popoli non bianchi, si rivolgeva l’analisi di Eric Williamsa. Così, in primo luogo, la sua tesi

si impegnava a sostenere, in modo dettagliato e ricco di evidenze, che l’abolizione britannica del commercio degli schiavi nelle Indie occidentali – ed eventualmente anche l’emancipazione delle persone in stato di schiavitù nei medesimi territori – era stata il frutto di un calcolato egoismo economico e strategico da parte dei funzionari inglesi. Williams si schierava così contro la scuola di pensiero che vedeva la causa primaria dell’abolizione e dell’emancipazione in un mutamento della moralità, in un travolgente sentimento umanitario nazionale3.

In secondo luogo, l’autore sostiene « come sia stata la schiavitù a produrre il razzismo, non viceversa». Sostenendo che il razzismo è un’ideologia emersa per fornire una potente razionalizzazione a una pratica assolutamente immorale ma economicamente profittevole.

La terza ipotesi che domina ampie sezioni di Capitalismo e schiavitù è l’argomento secondo cui il commercio degli schiavi africani e lo schiavismo nei Caraibi hanno alimentato lo sviluppo industriale britannico, facendo della schiavitù il fondamento storico del capitalismo inglese. Williams sostiene che la tratta e lo schiavismo sono stati cruciali per lo sviluppo economico britannico lungo tutto il XIX secolo, e che una volta affermatosi il progetto del “ciclo manifatturiero” essi hanno visto anch’essi declinare la loro importanza4.

Quest’ultima ipotesi è quella che lo avvicina di più a Marx, anche se è difficile capire se vi fu su di lui un’influenza diretta del pensatore tedesco, magari per il tramite di Cyril L. R. James (Port of Spain, 1901– Londra, 1989) di cui fu allievo, oppure, come si sostiene nella premessa:

È più probabile che – sempre che di influenza di Marx su Capitalismo e schiavitù si possa parlare – essa sia provenuta indirettamente dall’approccio di storia economica della Howard University, e in particolare da quello dell’economista Abram Harris.
Harris aveva anticipato l’analisi di Williams sulla relazione tra schiavitù nelle Americhe e industria britannica nel seguente pregnante passaggio di una sua pubblicazione del 1936, The Negro as Capitalist:

“Nella coltivazione della terra e nell’estrazione delle materie prime del Nuovo Mondo fu utilizzato dapprima il lavoro degli indiani e dei bianchi. Alla fine quello dei neri africani ebbe la precedenza su tutti gli altri e prese a esser visto come la fonte di un’offerta di forza lavoro quasi inesauribile e a basso costo. L’Africa ha rifornito il mondo occidentale non solo di lavoro ma anche di molto dell’oro necessario all’economia monetaria delle nazioni dell’Europa occidentale. In sintesi, l’introduzione del lavoro africano nelle Indie occidentali britanniche e i profitti ottenuti dal traffico di questa forza lavoro e dei suoi prodotti, oltre che dallo sfruttamento del continente africano per l’oro nei secoli XV e XVI, sono stati fondamentali per quell’accumulazione di capitale sulla cui base è stato costruito il sistema industriale inglese nel corso del Settecento. Analogamente, negli Stati Uniti, i profitti che il traffico degli schiavi ha portato al New England sono stati un fattore importante nella crescita dell’industria marittima e, al contempo, una fonte di surplus di ricchezza per l’industrialismo americano”5.

Nel capitolo XXXI del primo volume del Capitale, Marx aveva esplicitamente sostenuto che la schiavitù del “Nuovo Mondo” aveva costituito il pilastro cruciale dell’ascesa dell’industria britannica, motivo per cui “la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase del Nuovo Mondo”, sostanzialmente in piena sintonia con la terza ipotesi di Capitalismo e schiavitù. Ma il Moro di Treviri aveva trattato ancora il tema della schiavitù e del suo ruolo nel mantenimento della potenza dell’industria britannica anche nel corso della guerra civile americana quando, insieme al sodale Engels, aveva sostenuto la causa del Nord e di Lincoln, invitando gli operai ad arruolarsi nelle file dell’esercito federale, non per motivi “umanitari” ma per colpire, abolendo la schiavitù e il sistema delle grandi piantagioni del Sud degli Stati Uniti, una importantissima fonte di materie prime a basso costo che ancora alimentavano l’industria britannica e il suo colonialismo, diretto e indiretto.

Ecco allora che le riflessioni di Williams manifestano tutta la loro potenza ancora oggi, non soltanto nei confronti di un modo di produzione odioso che vuole, invece, fingersi sempre come il più umano e il più giusto possibile, ma anche di quella cancel culture che del primo è ancora succube, poiché soffermandosi sulla cancellazione delle “ingiustizie” non coglie lo stretto rapporto che intercorre tra queste e il sistema di produzione e riproduzione della vita che lo ha fondato e tutt’ora lo fonda, accontentandosi, troppo spesso e come sottolinea ancora William Darity nella sua premessa, di chiedere riparazioni e rimborsi per i torti subiti dagli antenati. Un risoluzione monetaria di crimini e oppressioni di cui proprio lo scambio mercantile e monetario hanno costituito, da sempre, la premessa.

In questo caso, occorre poi ancora sottolineare che, come afferma Williams in altra parte del testo, la progressiva abolizione della schiavitù non è dovuta a una nuova morale o a una progressiva perdita di convenienza economica della stessa, ma anche alla lotta vittoriosa degli ex-schiavi che, proprio nelle Antille, ad Haiti, avevano sconfitto militarmente sia le armate francesi, anche nella loro versione rivoluzionaria, che quelle inglesi inviate per sostituirle approfittando della debolezza della Francia già impegnata su troppi fronti. In questo caso è sicuramente da rilevare l’influenza di C. L. R. James e della sua opera: prima Toussaint L’Ouverture, pubblicata nel 1936, e successivamente The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution, del 19386.

Riconosciuto come “il punto di partenza per una nuova generazioni di studi”, Capitalismo e schiavitù resta ancora oggi una lettura essenziale per chi voglia comprendere la modernità e il mondo post-coloniale.


  1. W. A. Darity Jr., Premessa a E. Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, p. 9.  

  2. W. A. Darity Jr., op. cit., p. 11.  

  3. Ibidem, p. 12.  

  4. Ibid, pp. 13-14.  

  5. Ibid, pp. 14-15 

  6. trad. franc.: Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. di Pierre Naville, Parigi, Gallimard, 1949 e successivamente, in italiano, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968.  

]]>
Genealogia dello Stato e del moderno potere politico https://www.carmillaonline.com/2024/02/28/genealogia-dello-stato-moderno-e-del-suo-concreto-agire-politico/ Wed, 28 Feb 2024 21:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81195 di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione [...]]]> di Sandro Moiso

Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro

Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio ad essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione dei meccanismi del Potere e dello Stato moderno nei loro elementi essenziali.

Inviso alla Chiesa il primo, le cui opere sono state per lunghissimo messe all’Indice, e al pensiero liberale e di sinistra il secondo, hanno avuto entrambi la capacità di mettere “scientificamente”, per quanto possa essere considerata scienza quella politica, a nudo gli snodi e le caratteristiche autentiche della gestione politica delle società organizzate intorno al modello statale.

Per Machiavelli, soprattutto nel Principe, l’elemento fondativo del poter, dello stato e della loro conquista e gestione è da ritrovarsi nella Forza ovvero nell’uso della violenza organizzata in funzione di tali fini. Per il secondo, a distanza di poco meno di cinquecento anni e dopo le rivoluzioni borghesi che hanno modificato l’assetto dinastico degli Stati moderni, si tratta, di definire gli stessi per mezzo delle categorie dell’eccezione e della decisione. O, per meglio dire ancora, dello stato di eccezione e della autorità basata sulla possibilità/necessità di decidere sullo e dello stato di eccezione. Così, nello svolgimento del discorso, chi scrive cercherà di cogliere il filo rosso che lega il ragionamento novecentesco di Schmitt a quello del cinquecentesco pensiero del teorico politico fiorentino.

Carl Schmitt (1888-1985) insegnò in varie università tedesche, prima di diventare professore all’Università di Berlino nel 1933, incarico che fu costretto ad abbandonare nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale a causa dei suoi discussi rapporti con il regime nazista. Ritiratosi a vita privata, dopo essere stato rilasciato nel 1946 alla fine di un periodo di internamento da parte degli alleati, continuò a lavorare e a pubblicare nel campo del diritto internazionale ed è ancora oggi considerato uno dei massimi filosofi del diritto e dello stato.

L’autore tedesco ha sempre ritenuto che La Dittatura fosse da considerare tra le sue opere migliori, se non tra i suoi capolavori, insieme alla Dottrina della Costituzione (Verfassungslehre-1927) e al Nomos della terra (Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum – 1950)1. In questo testo, pubblicato nel 1921, Carl Schmitt mette a punto l’aspetto decisionistico del suo pensiero affrontando il nesso fra politica e diritto, fra eccezione e norma.

La dittatura è infatti un istituto giuridico che mostra apertamente la sua origine politica, tanto come dittatura commissaria, in cui il dittatore ha come obiettivo la difesa extralegale di un ordinamento minacciato, quanto come dittatura sovrana, in cui il dittatore costruisce un ordine nuovo sulle macerie di un ordine distrutto. In questa seconda accezione, che equivale al potere costituente, si rivela il cuore del decisionismo. Muovendo dall’analisi della prassi dei commissari governativi fino al Settecento e della dittatura di Cromwell e del giacobinismo, Schmitt giunge in fine a prendere in esame la rivoluzione russa guidata da Lenin come una dittatura sovrana.

Le quattro prefazioni che ne accompagnano l’attuale edizione, rispettivamente del 1921, 1928, 1964 e 1978 confermano come tale opera sia da considerarsi centrale nell’evoluzione del suo pensiero, anche se, come ci ricorda Carlo Galli nella Presentazione della stessa « il libro non ha avuto particolare fortuna fra storici e politologi che, portati ad associare la dittatura al totalitarismo e all’antidemocrazia, lo hanno considerato di volta in volta “inaccettabile” (Neumann), “poco più che un libello” (Duverger), “insidioso” (Sartori) e “troppo tedesco” (Cobban) »2. Ciò che rende esecrabile il testo per alcuni suoi interpreti qui appena, e superficialmente, citati può essere, però, considerato proprio come l’aspetto originale che lo rende ancora utile e interessante per il lettore poco ammagliato o abbagliato dal pensiero liberal-democratico. Come afferma infatti ancora il curatore:

Lo scopo di Schmitt non è definire le caratteristiche tipologiche della dittatura, individuare i criteri per classificarla come forma di potere politico, determinarla come genere (distinguendola da tirannide, assolutismo, dispotismo) e come specie (romana, cesaristica, bonapartistica, rivoluzionaria, plebiscitaria, pedagogica, ecc.); né spiegarla contrapponendola a una qualche “normalità” – libertà, democrazia, Stato di diritto, costituzionalismo. In questo libro – che sarebbe stato destinato, secondo il ricordo incerto di uno Schmitt vecchio e ormai lontano dai fatti di cui parlava ad avere rapida fortuna in Italia, grazie a una traduzione in area socialista (anche se probabilmente si era trattato di una recensione) i cui piombi sarebbero scomparsi nell’agosto del 1922 tra le fiamme dell’«Avanti!» devastato dai fascisti3 – l’autore sviluppa la tematica [della realizzazione del diritto] non tanto per giungere a una teoria generale della dittatura come forma di governo quanto per fare della dittatura il nucleo della comprensione dell’origine della forma politica moderna dello Stato4.

La dittatura deve essere quindi considerata come un passaggio decisivo nello sviluppo del pensiero e nella riflessione sistematica del giurista tedesco sull’origine e la funzione dello Stato moderno, cosicché al suo interno

si percepisce lo sforzo di condurre un innovativo discorso scientifico davanti a una contingenza scandalosamente nuova, la rivoluzione russa, e al contempo, mentre argomenta dall’interno di una crisi, l’intento di ricostruire attraverso il nesso di crisi, dittatura, rivoluzione, la storia politica moderna, di trovarne il filo conduttore nell’arco che va dal giacobinismo al bolscevismo, da Sieyès a Lenin, e di individuare nella dittatura il nodo decisivo della politica, lo stare insieme – non neutralizzato – di contingenza e di necessità, di anomia e coazione ordinativa, di eccezione e di forma5.

Discorso che, nel 1922, nella Teologia politica (Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität)6, porterà l’autore a quella definitiva individuazione dell’”eccezione” come concetto cardine del diritto pubblico e della sovranità come “decisione sullo stato d’eccezione” non come attributi apicali dello Stato, ma come intima e fondamentale essenza dello stesso e del suo agire7.

Come sottolinea ancora il curatore, Schmitt « ha l’occhio alla dittatura moderna » e per questo può, e deve nel suo ragionamento, ignorare i modelli di dittatura antica, come quella romana del I secolo a. C., poiché i tratti fondamentali di quella che più gli interessa gli appaiono costituiti dal “razionalismo” e dalla “tecnicità” e da « un agire che si impone immediatamente, senza discussioni né resistenze legali e la interpreta come dipendente dalla contingenza, da una concreta situazione di fatto che deve essere risolta, portata all’ordine […] Una teoria congegnata in modo che è l’eccezione a spiegare la normalità »8.

Occorre qui introdurre ancora un altro discorso sull’opera generale di Schmitt e cioè quello sul fatto, in sé antitetico, che pur nella ricerca di un ordine stabile l’autore tedesco non rinuncia mai alla razionale analisi dello stesso, non potendo far altro che notare e sottolineare come, in realtà, nessun ordine dato possa esserlo “per sempre” e come, per tale motivo, sia, per intrinseche contraddizioni interne o manchevolezze di ordine politico e sociale, destinato ad essere superato e destituito.

Nel suo lavoro sulla Costituzione come fondamento dello Stato moderno9, capace di dare a questo la sua identità non soltanto giuridica, ha sempre sostenuto che, se da un lato, proprio per questo fatto la Costituzione data risulta “immodificabile”, dall’altro, ad ogni nuovo cambiamento o rovesciamento dell’ordine politico statale e sociale dato deve corrispondere una nuova ed “altra” Costituzione. In questo senso uno dei più autorevoli rappresentanti di quella che fu definita “rivoluzione conservatrice” finisce col fornire strumenti validissimi per la messa in discussione di un ordine, ad esempio quello liberal-borghese, che come tutti quelli precedenti, succedutisi nel tempo, si pretenderebbe invece stabile e continuo.

Da questo punto di vista Schmitt si avvicina, senza citarlo e probabilmente senza apprezzarlo, a quanto Marx afferma, fin dal Manifesto del Partito Comunista del 1848, sulla capacità e necessità della borghesia non soltanto di rovesciare e sostituire l’ordine politico, sociale ed economico che l’ha preceduta, ma anche di continuare a rompere tutti i limiti (economici, sociali, giuridici, tecnologici, politici) che si frappongono all’espansione del modo di produzione di cui, in sostanza, è soltanto l’agente.

Infatti Schmitt, nel rivolgere la sua attenzione alla frattura avvenuta in età moderna tra la forma politica dello Stato basata sulla rigida divisione tra gli ordini sociali previsto dal regime monarchico assolutista e quella inaugurata dalla Rivoluzione francese, ancor più che da quella inglese di Cromwell ancora in larga parte fondata sul pensiero religioso più che su quello razionale inaugurato dal pensiero politico illuminista, individua esplicitamente nel potere del popolo e nelle sue istituzioni rivoluzionarie, soprattutto nella Convenzione, l’origine di ciò che egli chiama dittatura sovrana, per distinguerla da quella commissaria.

Solo in tale senso, Schmitt rivaluta il pensiero controrivoluzionario cattolico, non in quanto tale o per ciò che afferma10, ma per il fatto di aver chiaramente individuato, nel rovesciamento del ruolo del monarca e di quello del popolo, la drammatica novità della rivoluzione. Da ciò deriva ancora per il pensatore tedesco « che il popolo si è posto come titolare di una potenza originaria e illimitata: appunto il potere costituente, che però non è un solido fondamento quanto piuttosto un potere oscuro: il lato nascosto, pur nella sua evidenza, dello Stato moderno »11. A questo punto, chi qui scrive pensa che si sia giunti al centro del problema e della funzione della dittatura, nelle sue due diverse forme possibili. Infatti se a Schmitt non interessa definire la dittatura come eccezione rispetto alla pretesa normalità della democrazia costituzionale, così non gli interessa metterla sullo stesso piano dell’assolutismo della prima modernità e del suo governo per il tramite dei commissari.

Il potere costituente, nella sua onnipotenza, è […] indifferente alla forma che pur deve assumere; la potenza originaria del popolo è infatti soggetta a una altrettanto originaria coazione all’ordine e alla forma: «un minimo di ordine deve sussistere». Così la dittatura sovrana è incondizionata commissione d’azione del potere costituente, non di un potere costituito come è invece la dittatura commissaria: per poter agire il potere costituente del popolo deve essere rappresentato da una dittatura sovrana, ovvero da una istituzione politica temporanea e rivoluzionaria, onnipotente (la Convenzione ne è il modello), che vede tutto il presente come un’eccezione perché ciò che attualmente esiste, il vecchio ordine, è da spazzare via, è un non-ordine, mentre al contempo è rivolta a edificare un ordine nuovo, un nuovo potere costituito […] Il passaggio dalla ragion di Stato allo Stato rivoluzionario è il passaggio dalla dittatura commissaria alla dittatura sovrana.
La differenza tra i due tipi di dittatura è, certo, che l’una crea l’ordine, e l’altra lo difende: la dittatura commissaria è fondata giuridicamente tanto nel proprio inizio (un potere costituito) quanto nel fine (gestire e portare a termine un’emergenza), mentre la dittatura sovrana rappresenta (ma non vi si fonda) un’origine e un’energia illimitata e sempre eccedente, quella del potere costituente del popolo, dalla cui indeterminatezza trae un compito indeterminato: determinare e formare un ordine giuridico nuovo. Ma la co-implicazione fra non-ordine e ordine, fra contingenza e necessità, attraverso la decisione, è la medesima. La sovranità sempre decide sul caso d’eccezione: come potere costituito, con l’affidarne a un dittatore commissario autorizzato la gestione, oppure, come potere costituente del popolo, con la dittatura sovrana che unisce la rappresentanza del popolo con l’azione diretta che decide sull’eccezione e le dà forma12.

La prima considerazione da trarre è che qualsiasi forma stato è sostanzialmente dittatoriale, qualunque siano le motivazioni indotte per giustificarne l’esistenza e le attività di governo delle emergenze e no.

Lo Stato moderno di popolo, lo Stato democratico, ma anche ogni Stato in generale, purché politicamente attivo, ha in sé la logica, e il problema, della dittatura […] La dittatura sovrana è l’Ersatz13 moderno dell’autorità tradizionale e del suo ruolo fondativo, ma con un profondo cambiamento: una volta che ha condotto a termine la propria opera, la dittatura sovrana si spegne, mentre al contrario l’autorità è sempre visibile e presente nel monarca: il potere costituente del popolo non è nemmeno nominabile in una Costituzione formale14, che attribuisce la sovranità a questo o quello soggetto istituzionale, limitandola con leggi. Ma ciò non significa che quel potere costituente, e quella dittatura sovrana, non permangano latenti come inquietanti possibilità. [Così] Se il potere costituente del popolo e la rivoluzione sono il fantasma che sempre si aggira dentro lo Stato, la cultura e le istituzioni liberali devono esorcizzarlo, perché troppo destabilizzante e tale da mettere in discussione quelli che per i liberali sono i fondamenti dell’ordine politico: i diritti individuali. E infatti negli ordini liberali il potere costituente del popolo non è previsto come sempre attivo: si spegne nella costituzione15.

La seconda è che qualsiasi rivoluzione, innanzitutto quella proletaria che nella forma bolscevica aleggia sullo sfondo delle riflessioni di Schmitt, costituisce e deve essere per forza un atto di autorità e decisione, qualsiasi sia la forma giuridica, politica e sociale a cui darà vita. Da qui lo scontro inevitabile tra autoritari e anti-autoritari che già si manifestò all’interno della Prima Internazionale ai tempi di Marx. Engels e Bakunin.

La terza considerazione è che lo stesso ordine liberal-democratico borghese nasce da un atto di forza, la rivoluzione francese, e da un potere costituente, riassumibile come fa Schmitt, in quello generico “del popolo”. Fatti tutti che rivelano come questo, come tutti gli altri, sia di fatto transeunte e tutt’altro che destinato a durare in eterno.

All’origine dello Stato moderno non vi è alcun patto sociale, come quello idealizzato da Rousseau per l’origine della società, ma soltanto un atto di forza, e qui chi scrive si ricollega a quanto detto in apertura, come quello previsto da Machiavelli nella sua opera tutt’altro che antitetica rispetto a quella di Schmitt. Perché è il tema della forza a scorrere, per via niente affatto sotterranea, nell’opera dei due pensatori politici. Uno, Schmitt, con lo sguardo rivolto ad Oriente e alla rivoluzione russa, destinata a sconvolgere gli assetti statali e imperiali, coloniali e nazionali sia in Europa che in Asia; l’altro, Machiavelli, appena uscito dall’esperienza “repubblicana” di Girolamo Savonarola e della cacciata dei Medici da Firenze. Esperienza cui fu politicamente contrario a causa del forte stampo religioso impostole da Savonarola, anche se ne condivise gli ideali democratici e popolari.

In fin dei conti, proprio la nascita delle ancor troppo localistiche signorie italiane aveva già rivelato la base autoritaria degli Stati moderni e l’uso della forza come strumento di superamento di un non-ordine allora costituito da una fasulla democrazie comunale in cui gli opposti interessi di Chiesa, mercanti, aristocrazie terriere, artigiani e nascente proletariato urbano di fatto servirono soltanto a sviluppare l’interesse “particulare” di cui si fece campione il Guicciardini e che, nei fatti concreti, limitò ogni rivoluzione borghese in Italia alla collaborazione con l’aristocrazia ancora guerriera e alle sue bande armate mercenarie, prima, e all’unica monarchia, quella dei Savoia, che avesse a disposizione un forza organizzata in un esercito degno di questo nome.

Un’ultima considerazione, valida ancora e forse soprattutto oggi, viene svolta a latere da Schmitt nel 1928, proprio nella sua Dottrina della costituzione:

Potrebbe immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa, ma una prova del fato che Stato e pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale, nessuna volonté général, ma solo la somma di tutte le volontà individuali la volonté de tous.

Qui a colpire non è soltanto l’anticipazione di quanto si è realizzato a poco meno di cento anni di distanza con l’uso e l’abuso dei social media, ma anche la chiara indicazione, se si legge tra le righe, che un’opinione o una volontà non si può esprimere che per il tramite di un partito che, però, non può essere predestinato soltanto alla conservazione del presente all’interno di un meccanismo parlamentare già dato. In questo caso la volontà non può esprimersi che per mezzo di un partito rivoluzionario, autentico strumento bellico di rottura definitiva dell’ordine precedente e non di mediazione; grande, e fino ad ora insoddisfatto, quid di qualsiasi politica antagonista a venire.

Per ragioni di spazio occorre qui, obbligatoriamente, chiudere la recensione e la riflessione di e su un testo e un autore che, pur essendo considerato, spesso superficialmente, come appartenente al solo conservatorismo, all’interno di un pensare sempre “eretico” può rivelarsi ancora molto utili per chi voglia opporsi e ribellarsi al miserabile stato di cose presenti. Questo non per riproporre il superamento delle barriere tra destra e sinistra con cui un facile sovranismo sinistrorso vorrebbe risolvere le difficoltà politiche attuali, ma al fine di avere a disposizione validi e razionali strumenti analitici al fine di una più corretta verifica dei rapporti di forza intercorrenti tra Stato, società e movimenti (oggi ancor troppo deboli sia sul piano numerico che teorico e organizzativo). Soprattutto per superare le illusioni liberali e individualistiche ancor troppo radicate in questi ultimi.


  1. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984 e C. Schmitt, Il Nomos della terra. Nel diritto internazionale dello « jus publicum europaeum », Adelphi Edizioni, Milano 1991  

  2. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Società editrice il Mulino, Bologna 2024, p. 9.  

  3. Cfr. la lettera del 1969 di Schmitt a Gianfranco Miglio, su cui C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica in «Materiali per una storia della cultura giuridica», n.1, 1979, pp. 81-160.  

  4. C. Galli, Presentazione in C. Schmitt, La dittatura, op. cit., p. 10.  

  5. C. Galli, op. cit., p. 12.  

  6. C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Società editrice il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86.  

  7. In proposito si veda qui  

  8. C. Galli,op. cit., p. 13.  

  9. Si vedano in proposito: C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffrè editore, Milano 1984 e C. Schmitt, Il custode della Costituzione (Der Hüter der Verfassung,1931), Giuffrè editore, Milano 1981.  

  10. Si veda: C. Schmitt, Donoso Cortés (Donoso Cortes in gesamteuropäischer Interpretation – 1950), Piccola Biblioteca Adelphi, Milano 1996  

  11. C. Galli, op. cit., p. 16.  

  12. Ivi, pp. 16-17.  

  13. succedaneo, sostituto – NdR  

  14. Si pensi soltanto al dibattito avvenuto in Italia in sede di Assemblea Costituente intorno al diritto all’insorgenza dei cittadini nei confronti di un governo che non dovesse rispettare il patto costituzionale, in cui furono i rappresentanti del cattolicesimo di sinistra (La Pira, Dossetti e altri) a battersi in tal senso contro il fermo divieto imposto all’epoca dalla DC di De Gasperi e dal PCI di Togliatti.  

  15. C. Galli, op.cit., pp. 18-20.  

]]>