Karl Kautsky – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marx: scomodo e attuale, anche nella vecchiaia https://www.carmillaonline.com/2024/06/11/marx-scomodo-e-attuale-anche-nella-vecchiaia/ Tue, 11 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82684 di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. [...]]]> di Sandro Moiso

Marcello Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 278, 19 euro

«L’umanità ora possiede una mente in meno, quella più importante che poteva vantare oggi. Il movimento proletario prosegue il proprio cammino, ma è venuto a mancare il suo punto centrale, quello verso il quale francesi, russi, americani e tedeschi si volgevano automaticamente nei momenti decisivi, per ricevere quel chiaro e inconfutabile consiglio che solo il genio e la completa cognizione di causa potevano offrire loro. I parrucconi locali, i piccoli luminari e forse anche gli impostori si troveranno ad avere mano libera. La vittoria finale resta assicurata, ma i giri tortuosi, gli smarrimenti temporanei e locali – già prima inevitabili – aumenteranno adesso più che mai. Bene, dovremo cavarcela. Altrimenti che cosa ci stiamo a fare?» (F. Engels, lettera a F. Sorge, 15 marzo 1883 – 24 ore dopo la morte di Karl Marx)

Marcello Musto, professore di Sociologia presso la York University di Toronto, può essere considerato tra i maggiori, se non il maggiore tra gli stessi, studiosi contemporanei di Karl Marx. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in venticinque lingue e annoverano, tra le più recenti, dallo stesso scritte o curate: Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (Einaudi 2018), Karl Marx. Scritti sull’alienazione (Donzelli 2018), Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture (Donzelli 2019), Karl Marx. Introduzione alla critica dell’economia politica (Quodlibet 2023) e Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione (Carocci 2023 con M. Iacono).

L’attuale volume costituisce la riedizione ampliata di una ricerca già pubblicata nel 2016 dallo stesso editore che pone al centro dell’attenzione gli ultimi due anni di attività del Moro di Treviri prima della morte, giunta per lui alle 14,45 del 14 marzo 1883. Sono anni di sofferenza fisica e psicologica per Marx, segnati pesantemente, ancor più che dai malanni fisici che lo perseguitano, dalla morte della moglie (Jenny von Westphalen, 12 febbraio 1814 – 2 dicembre 1881) e della figlia maggiore Jenny (1° maggio 1844 – 11 gennaio 1883). Ancora nella stessa lettera citata in esergo, l’amico Engels avrebbe commentato:

Tutti gli eventi che accadono per necessità naturale recano in sé la propria consolazione, per quanto possano essere terribili. È stato così anche in questo caso. Forse, l’abilità dei medici gli avrebbe potuto assicurare ancora qualche anno di esistenza vegetativa; la vita di un essere impotente, il quale, per il trionfo della medicina, non muore d’un sol colpo, ma soccombe a poco a poco. Tuttavia, il nostro Marx non lo avrebbe mai sopportato. Vivere con tutti quei lavori incompiuti davanti a sé, anelando, come Tantalo, a portarli a termine senza poterlo fare, sarebbe stato per lui mille volte più amaro della dolce morte che lo ha sorpreso. «La morte non è una disgrazia per colui che muore, ma per chi rimane», egli soleva dire con Epicuro. E vedere quest’uomo geniale vegetare come un rudere a maggior gloria della medicina e per lo scherno dei filistei che lui, quando era nel pieno delle sue forze, aveva tanto spesso stroncato… no, mille volte meglio le cose così come sono andate. Mille volte meglio che dopodomani lo porteremo nella tomba dove riposa sua moglie. Dopo tutto quello che era successo precedentemente, di cui neanche i medici sono a conoscenza più di quanto lo sia io, secondo me non ci poteva essere che una scelta1.

Ma al di là delle considerazioni sulle afflizioni personali, è quell’annotazione engelsiana sui “lavori incompiuti” che ci proietta all’interno del lavoro condotto da Musto sugli ultimi anni del rivoluzionario tedesco, che, occorre qui subito dirlo, costituì, più che un’unica opera definitivamente compiuta, un gigantesco laboratorio di riflessioni, intuizioni e rielaborazioni che finiscono col costituire, ancora oggi, l’autentica eredità scientifica dello stesso Marx.

Una scienza definibile come tale non in virtù di dogmi, verità e affermazioni apodittiche espresse una volta per tutte, come molti seguaci e settari eredi ancora vorrebbero, ma proprio per la possibilità di falsificare tante affermazioni date per scontate, costringendo, così come l’autore del Capitale continuò a fare fino al momento della morte, lo scienziato a verificare e riverificare le proprie precedenti osservazioni e formulazioni. Non in nome del dubbio perenne, sempre insoddisfatto, ma della necessità di chiarire meglio concetti, problemi, sistemi di riferimento teorici che pur sempre nella concreta realtà materiale, sia che si trattasse della lotta di classe oppure delle trasformazione dei meccanismi di accumulazione e sfruttamento del capitalismo, dovevano piantare solidamente i piedi.

Una sfida che Marx accettò, e allo stesso si impose, durante l’intero corso del suo operato. Una sorta di gigantesco work in progress, condotto spesso in solitudine e talvolta nel confronto e con la collaborazione con Friedrich Engels, in cui è possibile inserire e verificare tutti i suoi scritti, dagli Annali Franco-tedeschi del 1844 fino agli ultimi scritti e lettere sulla Russia e le sue tradizioni comunalistiche in uso tra i contadini al servizio dei grandi proprietari terrieri ai tempi dello Zar.

Musto nel corso del suo lavoro, e non soltanto in questo caso, fa riferimento sia all’edizione delle opere di Marx-Engels già uscita in 50 volumi (più vecchia e dal travagliato percorso editoriale, soprattutto in Italia), sia a quella più recente, e tutt’ora i corso di pubblicazione, in 114 (che dovrebbe raccogliere tutti gli scritti e relative revisioni degli stessi, pubblicati e non, ad opera dell’autore). Mentre la prima iniziata ancora ai tempi dell’URSS doveva costituire una sorta di monumento all’opera dei due comunisti, trasformatosi, però, per carenza di materiali, rimozioni politiche e ideologiche e frettolose ricostruzioni in una sorta di fossile critico, l’attuale, pur di più difficile consultazione, finirà di fatto col costituire non tanto l’”opera definitiva” quanto piuttosto quella di riferimento filologico per tutti gli studi a venire.

Da questo punto di vista, all’interno del volume sugli ultimi anni di Marx, risultano importanti e utili le considerazioni contenute nella parte riguardante i motivi per cui Il capitale non fu mai davvero completato in vita dall’autore.

Tra il 1877 e l’inizio del 1881, Marx redasse nuove versioni di diverse parti del Libro Secondo del Capitale. Nel marzo del 1877, ripartì dalla compilazione di un indice, piuttosto esteso, dei materiali precedentemente raccolti. Si concentrò, poi, quasi esclusivamente sulla prima sezione, dedicata a «Le metamorfosi del capitale e il loro ciclo», eseguendo un’esposizione più avanzata del fenomeno della circolazione del capitale. In seguito, nonostante le cagionevoli condizioni di salute e seppure la necessità di effettuare ulteriori ricerche rendesse il lavoro molto saltuario, Marx continuò a occuparsi di diversi argomenti, tra i quali l’ultimo capitolo «Accumulazione e riproduzione allargata». Risale a questo periodo il cosiddetto «Manoscritto VIII» del Libro Secondo in cui, accanto alla ricapitolazione di testi precedenti, Marx preparò nuove bozze che riteneva utili per il proseguimento dell’opera. Egli comprese anche di avere commesso, e reiterato per lungo tempo, un errore di interpretazione, allorquando aveva ritenuto che le rappresentazioni monetarie fossero meramente un velo del contenuto reale delle relazioni economiche2.

Ma ciò che è stato appena qui riportato costituisce soltanto uno dei tanti ripensamenti che in qualche modo frenarono la definitiva stesura e pubblicazione di quella che avrebbe dovuto costituire l’opera definitiva del Moro di Treviri e che, invece, tale non fu e non avrebbe potuto essere. Ai problemi di carattere economico, politico, tecnologico, agrario e monetario che Marx si sforzò di comprendere per dare validità al proprio lavoro, si aggiunsero, oltre a quelli già segnalati di salute e gravi lutti famigliari, anche quelli legati alla traduzione in altre lingue del testo stesso. Fin dalla pubblicazione del primo volume dell’opera (l’unico comparso con l’autore ancora in vita).

Ecco allora che appare evidente la forzatura, iniziata già con Engels, di completare la pubblicazione del secondo e terzo volume basandosi (prima con il lavoro dello stesso amico e sodale tra il 1885 e il 1894 e poi per il quarto, noto anche come Teorie del plusvalore, pubblicato tra il 1905 e il 1910 a cura di Karl Kautsky, ex-segretario personale di Engels e all’epoca massimo esponente della socialdemocrazia tedesca e del marxismo cosiddetto ortodosso) sugli appunti sparsi e disordinatissimi, nonostante il rigore degli studi, dello stesso Marx. Errore che non è stato migliorato, e non poteva esserlo, nemmeno nell’edizione francese della Pléiade delle opere di Marx curata da Maximilien Rubel, in cui, grazie anche al contributo di Suzanne Voute, vecchia militante internazionalista di Marsiglia, sia il secondo che il terzo libro dell’opera stesso venivano, in qualche modo, risistemati sulla base di materiali tralasciati da Engels e Kautsky durante i precedenti lavori di sistemazione.

Riportare qui le vicende di quegli studi ripensati, sospesi e ripresi da Marx sarebbe troppo lungo nell’ambito di una recensione e per questo motivo non si può far altro che rinviare il lettore al teso pubblicato da Donzelli, in cui Musto sottolinea ancora come, ad ogni modo, «lo spirito problematico con il quale Marx scrisse e continuò a ripensare la sua opera palesa l’enorme distanza che lo separa dalla rappresentazione di autore dogmatico, proposta sia da molti avversari che da tanti presunti seguaci»3.

Ma questo carattere distintivo di Marx, questa sua estrema attenzione alla realtà delle cose e alla necessità di una spiegazione dei fatti sociali, economici e politici che fosse pienamente convincentte e utile ai fini dello sviluppo di un vittorioso confronto con l’avversario di classe, lo si può riscontrare anche nei confronti dell’”autonomia” della lotta di classe, del suo naturale svilupparsi a partire dall’azione dei lavoratori e delle loro lotte senza alcuna necessità di attori esterni che spingessero in tale direzione oppure, ancora,nei confronti sollevati dai socialisti rivoluzionari russi, quando questi si rivolsero a Marx e al suo giudizio proprio a proposito della comune contadina rssa e sulle sue potenzialità di sviluppo. Cui Marx rispose in maniera tale da demolire a priori qualsiasi tentativo di dare per scontati cicli storici di sviluppo sociale ed economici forzatamente uguali in ogni angolo del mondo.

Tanti, dopo la morte di Marx, avrebbero innalzato la sua o le sue bandiere, però, come ci ricorda in chiusura Marcello Musto:

Nel corso di questo lungo processo – durante il quale Marx è stato studiato a fondo, trasformato in icona, imbalsamato in manuali di regime, frainteso, censurato, dichiarato morto e, di volta in volta, sempre riscoperto – alcuni hanno completamente stravolto le sue idee con dottrine e prassi che, in vita, egli avrebbe irriducibilmente combattuto. Altri, invece, le hanno arricchite, aggiornate e ne hanno messo in evidenza problemi e contraddizioni, con spirito critico simile a quello da lui sempre adoperato e che egli avrebbe apprezzato.
Coloro che oggi ritornano a sfogliare le pagine dei suoi testi, o quanti si cimentano con essi per la prima volta, non possono che restare affascinati dalla capacità esplicativa dell’analisi economico-sociale di Marx e coinvolti dal messaggio che trapela, incessantemente, da tutta la sua opera: organizzare la lotta per porre fine al modo di produzione borghese e per la completa emancipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, di tutto il mondo, dal dominio del capitale4.

Ancora oggi, dunque, è utile tornare ai suoi testi e al suo metodo, anche attraverso le pagine di questo libro.


  1. F. Engels a F. Sorge, cit. ora in M. Musto, L’ultimo Marx. Biografia intellettuale (1881-1883), Donzelli editore, Roma 2023, pp. 252-253.  

  2. M. Musto, op. cit. pp. 172-173.  

  3. Ibidem, p. 190.  

  4. Ibid, pp. 253-254.  

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No, non è soltanto una questione di genere https://www.carmillaonline.com/2023/11/02/non-e-soltanto-una-questione-di-genere/ Thu, 02 Nov 2023 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79714 di Sandro Moiso

Rafia Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 240, 18 euro

Rafia Zakaria è nata a Karachi in Pakistan ed è stata costretta a un matrimonio combinato a 17 anni con un uomo pakistano-americano, da cui è fuggita nel 2002, quando aveva 25 anni a causa delle violenze domestiche perpetrate dallo stesso. Dopo essersi iscritta alla facoltà di legge e aver conseguto una laurea specialistica in filosofia politica, è diventata avvocato, femminista, giornalista e scrittrice. Ha scritto per The «Nation», «Guardian Books», «The New Republic», «Boston Review», «Al Jazeera» [...]]]> di Sandro Moiso

Rafia Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 240, 18 euro

Rafia Zakaria è nata a Karachi in Pakistan ed è stata costretta a un matrimonio combinato a 17 anni con un uomo pakistano-americano, da cui è fuggita nel 2002, quando aveva 25 anni a causa delle violenze domestiche perpetrate dallo stesso. Dopo essersi iscritta alla facoltà di legge e aver conseguto una laurea specialistica in filosofia politica, è diventata avvocato, femminista, giornalista e scrittrice. Ha scritto per The «Nation», «Guardian Books», «The New Republic», «Boston Review», «Al Jazeera» ed è editorialista di « Dawn» (il più importante giornale di linguaa inglese del Pakistan). Oltre che di “Against White Feminism: Notes on Disruption” (W. W. Norton & Company. New York 2021), è anche autrice di “The Upstairs Wife: An Intimate History of Pakistan” (Beacon Press. Boston 2016) e “Veil (Object Lessons)” (Bloomsbury Academic. London 2017). E’ musulmana, si identifica come una femminista musulmana e ha lavorato a favore delle vittime di abusi domestici.

Il libro appena tradotto in italiano dalle edizioni add, critica l’enfasi che il pensiero femminista convenzionale pone sulle esperienze delle donne bianche escludendo quella delle donne di colore, motivo per cui, fin dalla sua uscita in lingua inglese nel 2021, molti commentatori hanno accusato Zakaria di minare il movimento femminista e di fare il gioco del patriarcato attraverso i suoi attacchi al femminismo bianco.

Partiamo da quest’ultimo punto per comprendere invece l’importanza di un testo che esce mentre tutto il furibondo odio razziale, per anni appena mascherato dietro una facciata liberal e perbenista, sta esplodendo in Europa a causa della situazione venutasi a creare in Palestina a seguito degli attacchi subiti da Israele il 7 ottobre. Un testo che, fin dalle prime pagine, affonda il bisturi dell’analisi nelle radici ottocentesche del “femminismo bianco”. Prima di fare ciò, però, l’autrice chiarisce, fin dalle prime pagine, che:

Una femminista bianca è una persona che rifiuta di riconoscere il ruolo che la bianchezza, con il conseguente privilegio razziale, ha avuto e continua ad avere nell’universalizzare le preoccupazioni, l’agenda le convinzioni delle emministe bianche, spacciandosi per quelle di tutti i femminismi e di tutte le femministe. Non bisogna essere bianche per essere femministe bianche. […] Il termine descrive una serie di presupposti e comportamenti integrati nel femminismo occidentale mainstream, anziché l’identità razziale dei suoi soggetti. E’ pur vero, tuttavia, che la maggior parte delle femministe bianche sono in effetti bianche e che la bianchezza è al centro del femminismo bianco.[…] Più in generale per essere femministe bianche è sufficiente essere persone che accettano i benefici confriti dalla supremazia bianca a spese delle persone non bianche, pur affermando di sostenere la parità di genere e la solidarietà con ttte le donne. [quindi] questo libro è una critica della bianchezza all’interno del femminismo: vuole indicare cosa va reciso e cosa distrutto, affinché possa essere sostituito da qualcosa di nuovo e di migliore. Spiega perché gli interventi che si sono limitati ad aggiungere donne nere, brown e asiatiche alle strutture di potere esistenti si sono rivelati un fallimento1.

Diciamolo pure, sono affermazioni forti che sembrano essere una semplificazione delle profonde contraddizioni sociali che ruotano intorno alle questioni di parità di genere e di differenza di classe e di linea del “colore”, ma hanno un pregio evidente poiché non temono di sbattere in faccia al lettore quella crisi dell’universalizzazione dei valori occidentali e bianchi attraverso cui viene letta ancora troppo spesso la complessità di un mondo che si è fatto sempre più grande, per tramite della globalizzazione non tanto economica quanto delle contraddizioni che lo animano anche fuori dell’ormai ristretto perimetro del mondo bianco o occidentale qual dir si voglia.

Una visione colonialista, dal punto di vista culturale ma non solo, che ha sempre ritenuto di poter affermare che ciò che entro i propri confini era dato, anche troppo facilmente, per scontato doveva essere tale e valido in ogni altra parte del globo, in ogni altra società e per ogni altra cultura. Compresi i valori di una Sinistra, talvolta anche radicale, che per certi versi, fin dalle origini era stata segnata da un severo stigma colonialista, legato ad una pretesa superiorità del mondo che l’aveva prodotta. Sostituendo troppo spesso il compito imperialista kiplinghiano dovuto al white man burden (fardello dell’uomo bianco) con una sorta di proletarian or social democratic burden originato da certe riflessioni risalenti a Engels e, soprattutto, a Karl Kautsky2.

Un primo esempio di una concezione di tale natura viene alla luce nel racconto che la narratrice fa di una nota e acclamata drammaturga femminista che in un articolo pubblicato su «Glamour» nel 2007, a proposito delle violenze , degli stupri e delle mutilazioni genitali subiti dalle donne della Repubblica Democratica del Congo, però, più che dar voce alle donne congolesi, sottolinea con enfasi ripetuta «ciò che lei fa e sente, anziché su ciò che vede e ascolta, dimostra che il suo obiettivo è evidenziare il ruolo cruciale che lei, donna bianca, riveste nella vita di queste donne».

L’articolo di Eve Ensler su «Glamour» dimostra in che modo il complesso del salvatore bianco si interseca al femminismo nel XXI secolo. Una donna bianca si arroga il compito di parlare a nome di altre donne stuprate e brutalizzate, collocandosi nel ruolo di salvatrice, veicolo attraverso cui giungerà l’emancipazione. E’ anche un esempio di come il dramma “laggiù” sia usato come trmine di paragone per giudicare i successi delle donne in Occidente. ”Come siamo fortunate”, sono indotte le lettrici a concludere le lettrici dell’articolo, scuotendo tristemente la testa per le circostanze in cui vivono le donne in parti del mondo meno civilizzate3.

Ma questa attitudine a fornire un’immagine salvatrice della donna bianca ha, come si diceva all’inizio, radici lontane, guarda caso risalenti all’epoca coloniale, quando

I ruoli di genere ottocenteschi e il privilegio maschile limitavano notevolmente la libertà delle donne bianche nei loro paesi d’origine. Partire per le colonie era un’occasione di fuga eccezionale. In India o in Nigeria le donne avevano un vantaggio notevole, il privilegio bianco. Seppur subordinate agli uomini, in virtù del colore della pelle erano comunque considerate superiori rispetto ai soggetti colonizzati, superiorità che garantiva loro automaticamente un maggior potere e una maggiore libertà.
«In questo paese sono una persona! Sono una persona» esclamava un’affettuosa Gertrude Bell ai genitorin el marzo 1902. Scriveva dal monte Carmelo, a Haifa, dove si era recata pe rimparare l’arabo e sfuggire alle risatine sgarbate della società londinese. […] L’esotico Oriente offriva spazio a volontà per le signore londinesi fuori tempo massimo per il mercato matrimoniale e, come scoprì ben presto Gertrude, i privilegi dell’Impero compensavano gli svantaggi del genere. Davvero lei era una “persona” lì a Gerusalemme perché, a differenza di casa, la bianchezza la collocava sopra gran parte dell’umanità. […] L’esempio di Bell mostra che per alcune donne bianche inglesi le primissime esperienze di libertà al di fuori della casa e del focolare coincidevano con le esperienze di superiorità imperiale oltre i confini della Gran Bretagna e dell’Europa4.

Fermiamoci ancora una volta a riflettere e cerchiamo di cogliere come l’osservazione dell’autrice travalichi la condizione femminile per farci comprendere come tale “privilegio imperiale” potesse essere condiviso e motivo d’orgoglio anche per coloro che, maschi o femmine, pur appartenendo agli strati sociali inferiori della società classista bianca, potevano usufruire di maggiori vantaggi nelle colonie, naturalmente ancora a discapito dei colonizzati.

Miserabile privilegio che riempiva e riempie ancora d’orgoglio i pieds-noir francesi in Algeria oppure i coloni, violenti e altezzosi, dei nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania. O che nutriva i sogni “popolari” in stile Faccetta nera delle avventure coloniali italiane in Libia e in Etiopia. Celebre canzonetta che riuniva in sé sia la pretesa coloniale dell’italico Homo expugnator che la condizione di sottomissione della donna colonizzata, e che sta alla base ancora oggi di un immaginario e di uno sguardo sull’”altro” e l’”altra” in cui il razzismo si mescola al desiderio di dominare chi sta più in basso, un tempo manifesto nelle colonie e oggi lungo le arterie periferiche delle grandi città percorse di notte da cacciatori di squallide e miserabili avventure erotiche a poco prezzo.

Retaggio di una mentalità coloniale che, spesso inconsapevolmente, si esplicita nell’attitudine liberale a rimuovere qualsiasi simbolo identitario delle culture altre, come nel caso del velo per le donne o della proibizione di indossare la kefia in Francia e in Germania. Quel velo diventato nell’Algeria coloniale, come ci ricordava Frantz Fanon, in uno scritto del 1959:

la posta di una battaglia grandiosa per cui le forze di occupazione mobiliteranno i loro mezzi più svariati e potenti e il colonizzato svilupperà una stupefacente forza di inerzia. […] Prima del 1954, più esattamente dagli anni 1930-35, ha inizio la battaglia decisiva. I responsabili dell’amministrazione francese in Algeria, preposti alla distruzione della peculiarità del popolo, incaricati dalle autorità di procedere ad ogni costo alla disgregazione delle forme di esistenza suscettibili di evocare d vicino o da lontano una realtà nazionale, concentrano il loro massimo sforzo sull’uso del velo, concepito in questo caso come simbolo della condizione della donna algerina. Un simile atteggiamento non è la conseguenza di un’intuizione fortuita5.

Come sia andata poi a finire lo sappiamo dai libri di storia, così come in Afghanistan, dove l’uso del burqa, conseguenza di tradizioni locali indipendenti dalle prescrizioni religiose dell’Islam, fu usato come pretesto per giustificare una presunta “guerra per le donne” in quell’area. Anche quella andata a finire senza liberazione delle stesse, ma con un’ennesima catastrofe militare. Per finire, per amore della Storia, andrebbe poi ancora qui ricordato che i Vespri siciliani, che nel 1282 diedero vita alla cacciata della presenza angioina in Sicilia con una ribellione a furor di popolo, scoppiarono proprio a causa del tentativo di un soldato francese di strappare il velo dal volto di una donna di Palermo, in occasione del Lunedì dell’Angelo di quell’anno.

E’ uno sguardo a 360 gradi quello che il testo ci invita a sviluppare, in un conteso in cui l’intrecciarsi della questione coloniale con quella di genere può dar vita ad una miscela esplosiva, molto pericolosa per l’ordine costituito sia ad Ovest che a Est, a Nord come a Sud. Motivo per cui è preferibile lasciare alle lettrici e ai lettori più attente/i e più interessate/i scoprire, pagina dopo pagina, tutti gli esempi, i casi, le storie e le ipotesi di lavoro e di lotta proposti da Rafia Zakaria, riportando qui, però, le considerazioni svolte dalla stessa proprio nelle pagine finali del libro.

Mentre stavo finendo di scrivere il libro, mi ha sopraffatto un senso di inquietudine. Separando le donne in bianche e non bianche, molte donne che amavo e rispettavo avrebbero potuto leggere le mie parole come un’accusa nei loro confronti […] E’ un riflesso della nostra società dilaniata e dei vividi contorni emotivi che la discussione sul razzismo suscita in noi. […] A questo scopo ho provato a costruire una tesi che favorisca la possibilità di vedere il mondo attraverso gli occhi di altre donne. E’ una sfida individuale e collettiva e dobbiamo partire dalla consapevolezza che le donne non bianche l’affrontano da secoli, mosse non da chissà quale empatia o interesse razziale, ma dal bisogno di sopravvivere in un mondo governato dai bianchi. E’arrivato il momneto che le donne bianche si uniscano al lavoro e condividano il fardello.
[…] Questo libro è una tesi a favore di un femminismo posizionato ontro una frontiera molto specifica, quella della bianchezza – in cui la bianchezza non è intesa come una categoria biologica, ma come l’insieme di pratiche e idee emerse dal sostrato della supremazia bianca, eredità dell’impero e della schiavitù. Al momento il femminismo è spaccato rispetto a quella frontiera, rendendo impossibile un “noi” donne davvero unito, in parte perché non siamo disposte a discutere e affrontare ciò che la bianchezza ha fatto al femminismo, ciò che gli ha rubato. Ma la bianchezza può essere recisa attraverso uno stravolgimento dichiarato e visibile delle strutture di potere. Dobbiamo abbandonare l’appendice dell’inclusione […] Dobbiamo denunciare chi continua ad aggrapparsi alle storie , ai racconti e alle forme di esclusione, anche aggrappandosi alla tradizione. E le femministe che hanno sfruttato troppo a lungo il privilegio della bianchezza per impostare un femminismo a cascata devono lasciare spazio a un femminismo disposto a battersi per smantellare l’establishment6.


  1. R. Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 9-10.  

  2. Sulle differenze tra il pensiero di Friedrich Engels e quello di Karl Marx si vedano: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca book, Milano 1977 e il più recente K. Saito, L’ecosocialismo di Karl Marx, Lit Edizioni, Roma 2023.  

  3. R. Zakaria, op.cit., p. 26.  

  4. Ivi, pp. 28-29.  

  5. F. Fanon, L’Algeria si toglie il velo (1959) in Fanon 1 – Opere scelte di Frantz Fanon, volume primo (a cura di G. Pirelli), Giulio Einaudi Editore, Torino 1971, pp. 150-151.  

  6. R. Zakaria, op.cit., pp. 231-234.  

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L’ultimo Marx https://www.carmillaonline.com/2016/12/24/lultimo-marx/ Fri, 23 Dec 2016 23:20:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35484 di Alfio Neri

lultimo-marxMarcello Musto, L’ultimo Marx. 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, 2016.

Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti. La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera. La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare. Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste [...]]]> di Alfio Neri

lultimo-marxMarcello Musto, L’ultimo Marx. 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, 2016.

Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava.
Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare.
Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
detesto-dirveloMarx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4.
Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5.
Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.


  1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. 

  2. Cfr. pp. 49-75. 

  3. Cfr. pp. 84-87. 

  4. Cfr. p. 25. 

  5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. 

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