Kamenev – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali /7: Nikolaj Nikolaevič Suchanov https://www.carmillaonline.com/2023/07/31/esperienze-estetiche-fondamentali-7-nikolaj-nikolaevic-suchanov/ Mon, 31 Jul 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77950 di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library c’era una ventola a soffitto che girava a stento. I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino. Stavo su una nave fantasma con le vele alzate. Non si vedeva terra. Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio. (Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è [...]]]> di Diego Gabutti

Nella sala di lettura della Public Library
c’era una ventola a soffitto che girava a stento.
I viaggi di Herman Melville erano il mio cuscino.
Stavo su una nave fantasma con le vele alzate.
Non si vedeva terra.
Il mare con i mostri non poteva darmi refrigerio
.
(Charles Simic, Hotel Insonnia)

È l’ottobre del 1917, un giorno o due prima del colpo di stato bolscevico, e salta fuori che sua moglie, Galina Flakserman, ospita in casa le riunioni dell’ufficio politico leninista in clandestinità mentre lui, giornalista menscevico, è fuori per lavoro. Ciò a dimostrazione che i mariti sono sempre gli ultimi a sapere. Torni a casa una sera, Galina esclama «cielo, mio marito» ed eccoli tutti lì, Lenin, Trotsky, Kamenev, che stanno pianificando la presa del potere.

Nikolaj Nikolaevič Suchanov è redattore capo della Novaja Žizn’, «la nuova vita», il giornale che Maksim Gor’kij ha fondato a febbraio, deposto lo zar, nella presunzione di fare da ponte, con la sua autorità di scrittore proletarskiy, tra le diverse anime della socialdemocrazia. Pessimo romanziere, e se possibile politico anche peggiore, all’epoca Gor’kij non è ancora completamente impazzito e così osteggia l’«avventurismo» e l’«impazienza» dei bolscevichi, colpevoli di voler «saltare un’intera fase storica», come si dice in lingua di gesso, saltando con un oplà «dal feudalesimo al socialismo senza tappe intermedie».

Suchanov è d’accordo, naturalmente. Saltare le fasi? Mai! È stato il primo a definire «inaudito» e peggio ancora «ridicolo» il discorso col quale, in aprile, tornato a San Pietroburgo (divenuta nel frattempo Pietrogrado) sul treno piombato che gli è stato messo a disposizione dallo stato maggiore tedesco, Lenin ha squadernato urbi et orbi il suo programma e reclamato «tutto il potere». Tenta un primo colpo a luglio, e gli va male. Scatta il «wanted» del governo provvisorio, come a Tombstone, quando a Wyatt Earp girano le balle. Ul’janov circola imparruccato, via la barba, una camicia girocollo da mugicco. È a buon titolo ricercato dagli sbirri, e Galina lo riceve in casa a insaputa del marito menscevico (be’, non proprio menscevico, per la precisione, ma membro d’una cupola che vuol riunire le due ali del partito, roba che per noi, qui, ha scarsa importanza, e comunque è anch’essa, dati i tempi e i personaggi, inaudita e un po’ ridicola).

«Per intervenire alle riunioni segrete» di casa Suchanov «tutti prendono ogni precauzione», scrive nel suo Aleksandra Kollontay (Einaudi 2023) Hélène Carrère d’Encausse, madre d’Emmanuel Carrère (o piuttosto lui figlio suo, per stabilire la giusta gerarchia). «Lenin si mette una parrucca e si traveste da contadino. Lo affiancano Zinov’ev, Kamenev, Stalin, Trockij, Kollontaj, Sverdlov, Dzeržinskij, Sokol’nikov, Urickij, Bubnov e Lomov. Lenin esordisce dichiarando che l’ora della rivoluzione è giunta, che l’Europa intera è pronta a incendiarsi e che tocca alla Russia accendere la scintilla che avrebbe portato alla rivoluzione mondiale. Si deve prendere il potere senza indugio. Trockij lo sostiene energicamente. Zinovev e Kamenev, invece, invitano alla prudenza, suggerendo di tenere conto dell’esperienza di luglio. Inoltre, argomentano i due, le elezioni della Costituente avrebbero dato al Paese una maggioranza conforme ai desideri della società. E avanzano un quesito: “La rivoluzione, e poi?” Lenin risponde con le parole di Napoleone: “Cominciamo e poi vediamo” (On s’engage et puis on voit)».
Insomma Suchanov torna improvvidamente a casa. Dove si prendono decisioni «farneticanti», pensa lui non appena capisce come si stanno mettendo le cose, oltre che tra le sue mura domestiche, anche nelle assemblee dei soldati e degli operai.

Lenin e gli altri congiurati, interrotti sul più bello, smettono di parlare per fissare il coniuge menscevico oltraggiato. Cosa ci fai qui, Suchanov, hanno l’aria di pensare, infastiditi. Zitto, irritato, Suchanov ricambia lo sguardo e pensa: come cosa ci faccio, questa è casa mia, accidenti a Galina e a tutti voi. Pensa che il politburò bolscevico sta occupando il suo salotto, beve la sua vodka, mangia i suoi cetrioli e le sue salsicce, fuma i suoi sigari. Lenin sbuffa, Trotsky pulisce gli occhialetti col dorso della cravatta, Sverdlov sospira, Kamenev zufola La Marsigliese tra i denti, a occhi chiusi. Stalin non c’è. Inutile insinuare che potrebbe essere nascosto sotto il letto, o nell’armadio, con le scarpe in una mano e le mutande nell’altra. No, è che Džugašvili proprio non c’è, che nessuno sa (ancora) chi sia.

Dirà più tardi Suchanov, nelle sue formidabili Cronache della rivoluzione, un altro dei libri che ogni tanto torno a sfogliare, gran romanzo d’avventura, che «a proposito di Stalin c’è da restare perplessi. Il partito bolscevico, accanto a un’accozzaglia di gente ignorante, possiede tra i suoi “generali” una serie di grandissime figure, di capi degni. Ma Stalin, durante la sua modesta attività nel Comitato esecutivo, produsse e non su me solo l’impressione d’una macchia grigia che mandava talvolta una debole luce, ma non lasciava mai traccia. Di lui non c’è altro da dire».
Magari.

Fu alla Libreria Popolare di Via Saluzzo, un pomeriggio d’inverno del remoto 1969, le strade intasate dalla neve, l’automobile che sbandava, il Natale in arrivo, che comprai le Cronache della rivoluzione di Nikolaj Nikolaevič Suchanov. Due grossi volumi in cofanetto, un chilo buono di carta porosa e di storie impagabili. Non si capiva perché gli Editori Riuniti, la casa editrice comunista, culo e camicia con gli eredi dei rovinafamiglie e scassanazioni che il povero Sachanov, cinquant’anni prima, s’era ritrovato per casa in strettissima intimità politica con la sua signora, avessero pubblicato il racconto antibolscevico di Suchanov, che trascorse dieci anni nel Gulag prima d’essere fucilato a Omsk nel 1940 (forse Galina la scampò, o forse no, ma di sicuro Stalin lesse il passo della Cronache che lo riguardava, e se lo legò al dito). Tradotte nel 1967, nessuno che ne avesse mai parlato a me o anche soltanto ne avesse parlato in generale, le Cronache spiccavano tra altri libri di dimensioni più modeste in uno degli scaffali d’angolo della libreria. Estratto un volume dalla custodia, poi l’altro, sfogliati entrambi, e benché non capitassi proprio subito e lì dov’ero nella pagina in cui Suchanov liquidava (ahinoi, troppo in fretta) il futuro Padre dei Popoli, egualmente non ebbi dubbi: dovevo comprarlo, per costoso che fosse, e lo era, a costo di svenarmi.

Fuori nevicava, dicevo, ma in realtà non è che semplicemente nevicasse, come quando Frank Sinatra, accompagnato da un’orchestra swing, canta Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow! e dice che «il fuoco è così piacevole / ho portato del pop corn / non dobbiamo andare da nessuna parte». Quel giorno, su Torino, s’era abbattuta una vera e propria tempesta di neve, l’unica che abbia visto nella mia vita, strade impraticabili, auto che slittavano, freddo cane, sei o sette centimetri di neve su tutti i marciapiedi, sirene dei pompieri, la fiocca così fitta da impedire la vista dei tetti delle case. Sa il cielo perché avessi lasciato casa mia per avventurarmi nella tormenta, per di più in auto, la 500 spetazzante che avevo allora, gomme lisce, ruggine, avviamento a spinta. Eppure eccomi lì, in Via Saluzzo, alle cinque del pomeriggio, sciarpa, un giaccone imbottito, guanti di lana, bardato insomma come un cercatore d’oro di Jack London che anela a farsi un fuoco nel Klondike, però consolato dall’aver trovato, setacciando gli scaffali, una pepita bella grossa: le Cronache, appunto, di Suchanov.

Nevicava, verosimilmente, anche in Russia, sia a febbraio, quando la dinastia Romanov venne finalmente deposta (come da un secolo si prefiggeva, ripetutamente provandoci, sempre invano, l’intellighenzia russa) sia a ottobre, quando i demoni dostoevskiani, con una mossa che sorprese anche loro, allungarono le mani sull’intero paese e deposero la democrazia per reinstaurare lo zarismo sotto nuove e peggiorate spoglie. In quattro e quattr’otto democrazia e zarismo old style furono liquidati insieme da un identico colpo alla nuca, sparato tra capo e collo.

A premere il grilletto della Mauser totalitaria fu Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij, capo della Čeka, in futuro KGB, la polizia politica, uno che somigliava straordinariamente (cercate una sua foto su Google se non ci credete) a Lee Van Cleef, il «cattivo» di Sergio Leone, e che quel giorno, quando Suchanov era tornato inaspettatamente a casa figurava tra i presenti, il pizzetto, il cappellino con visiera, l’aria di uno che non ha passato per caso tutti quegli anni, prima della grande guerra, nelle cliniche psichiatriche polacche. Al comando d’un onnipotente apparato terroristico, Dzeržinskij decretò il repulisti anche degli «intelligent» – base sociale della rivoluzione, «il ceto medio riflessivo» di tutte le Russie – qualunque fosse la loro competenza, e a qualsivoglia partito aderissero.

Non si salvarono, tempo al tempo, oggi a te domani a me, nemmeno gli stessi bolscevichi, compresi quelli antemarcia, che avevano abbracciato la causa del Che fare? molti anni prima, allo scoppio del conflitto con la Germania, alcuni addirittura nel 1905 e persino prima, quando la socialdemocrazia russa si era spaccata in due come una noce. Cronache della rivoluzione era il prequel, diciamo così, della catastrofe novecentesca. Altro che la mia tempesta di neve. Quanto fioccava su San Pietroburgo (anche senza Stalin, ancora nell’ombra) in quel 1917.

Posai il cofanetto sul bancone per pagarlo, scambiai le solite due chiacchiere con i proprietari della libreria, due anziani bottegai, che al solito mi guardarono con sospetto. Non che disapprovassero il mio acquisto, o forse lo disapprovavano, non so, ma non è questo il punto, il punto è che guardare con sospetto era ciò che facevano sempre e con tutti. Marito e moglie come i Suchanov a San Pietroburgo, però entrambi bolscevichi, e il menscevismo quanto di più lontano da loro, erano stalinisti irriducibili (altro, ahinoi, che «di lui non c’è altro da dire») e la loro libreria era popolare nel senso delle repubbliche popolari, in primis quella cinese, l’albanese in secundis. Jean-Luc Godard l’avrebbe preferita a Disneyland.

C’erano pile così di Libretti rossi con la copertina di plastica e il titolo stampigliato in caratteri d’oro come sui libretti della cresima nelle chiese e negli oratori degli anni quaranta e cinquanta. C’era Leggere il Capitale di Louis Althusser (una lettura pazzotica dell’opera di Marx, e che l’autore fosse pazzo anche di suo, non soltanto a causa del libro che spiegava come leggere, lo dimostrò qualche anno dopo, quando in un raptus strangolò la moglie). Conoscevo tizi che a leggere il Capitale si scocciavano a morte (io tra gli altri) ma che avevano letto Leggere il Capitale (non io). C’erano, incorniciati e appesi qua e là alle pareti della Libreria Popolare, manifesti con la faccia da topo allegro ma infingardo di Lin Piao. Mao Zedong (all’epoca Tse-tung) era dappertutto. C’erano suoi ritratti, piccoli e grandi, in ogni spazio libero, persino in bagno (dove non si negava a chi doveva fare pipì il permesso d’appartarsi): Mao giovane e atletico, Mao vecchio ma sempre in gamba, Mao di mezz’età con l’aria sciupaticcia del tombeur de femmes e, se non ricordo male, persino Mao bambino: tutt’e quattro in posa per il ritrattista di regime (lo sguardo perso nell’infinito, gli abiti perfettamente stirati).

Gli scaffali abbondavano d’edizioni Samonà e Savelli, De Donato, Bertani, Sapere, Feltrinelli, Programma comunista. Ma a farla da padrone era soprattutto il gruppo editoriale «Ciclostilato in proprio» che pubblicava opuscoli che reclamizzano le bizzarre e talvolta vaneggianti teorie di gruppuscoli marxleninisti, operaisti, operaiostudentisti, trotskisti, guevaristi, bordighisti. Credenze, speculazioni, tesi e opinioni che stavano a una qualsivoglia analisi sociale con la testa sul collo come le macchine per il moto perpetuo alla fisica dei gravi. Era sempre lì, in Via Saluzzo, che avevo comprato i non so più quanti volumi delle Opere scelte di Peppone, anch’esse edite e benedette dal partito comunista italiano (o «picì», come si diceva) quando gli Editori Riuniti si chiamavano Edizioni Rinascita (volumi che non ho più per casa, chissà che fine hanno fatto, ma almeno di quelli non c’è davvero «altro da dire» mentre del loro autore, ribadisco, magari… scomparso da settant’anni, ancora se ne parla).

Era su tutto questo, sui libri e sui ciclostilati, sui manifesti, sulle Edizioni in Lingue Estere di Pechino e Tirana, che vigilavano sospettando di tutti i due della Libreria Popolare, con quella loro aria da cekisti in pensione, lui un operaio Fiat «licenziato per rappresaglia padronale dieci anni prima», lei non so. Avevano puntato tutto, gli affetti, e la vita intera, su una cosa che chiamavano «comunismo» o «rivoluzione» senza avere idea di cosa fossero l’uno e l’altra. Se invece di vendermi Cronache della rivoluzione, che adesso stavo strapagando mentre fuori nevicava a grandi fiocchi, l’avessero letto, be’, forse una mezza idea della rivoluzione e del comunismo se la sarebbero fatta.

C’erano dentro, raccontati in presa diretta da un testimone, non soltanto gli eventi del 1917: le burrascose sedute del parlamento, le riunioni degli organi dirigenti di tutti i partiti di sinistra, le assemblee dei soviet eletti nelle fabbriche della città e nelle trincee, al fronte. C’erano aneddoti, e c’erano appunti ora severi, ora ironici. Ogni cosa, ogni singolo passaggio politico, la manifestazione dei marinai, il discorso del leader cadetto, menscevico o socialrivoluzionario, lo sciopero dell’officina x o ipsilon, tutto era accuratamente descritto, annotato, messo a fuoco. A Suchanov non sfuggiva nulla, era sempre sul posto, sempre presente, il lapis, il taccuino. Suchanov conosceva tutti, e tutti gli passavano notizie (quelli che non le passavano a lui, le passavano a Galina, sua moglie).

Nato nel 1882, nel 1917 poco più che trentenne, era da vent’anni un rispettato militante socialdemocratico, in buoni rapporti con l’ala destra e quella sinistra del partito. Gli articoli che pubblicava su Novaja Žizn’, informati e sobri, erano letti da tutti, immagino più di quelli moralisti e sciropposi che firmava Gor’kij (date un’occhiata a M. Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, Jaca Book 1978, e datemi torto). Tutti parlavano con Suchanov, deputati e ministri, capataz di partito, ex terroristi, ex deportati. Era in buoni rapporti anche con lo stesso Kerenskij, primo ministro e un po’ «dictator» della giovane repubblica russa da febbraio a ottobre. Erano tutti vecchi conoscenti, tutti amici, fin dai tempi dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, quando l’intellighenzia doveva badare a come si muoveva, pena brutte sorprese (non così brutte, si capisce, e neppure così mortali come quelle che riservò agl’«intelligent», spingendoli ad autodivorarsi, il trionfo dell’intellighenzia rivoluzionaria sull’autocrazia).

Osservazioni, incontri, riflessioni, dispute, confronti: Cronache della rivoluzione è un libro mastro. Insegna a leggere gli eventi storici (altro che Althusser e la sua lettura frou-frou/ollallà del Capitale) senza bellurie storiciste e spiega, anche suo malgrado, che rivoluzione russa e comunismo sono stati capricci della storia, riffe, tiri di dadi, lotterie.

Nulla, insomma, che somigliasse nemmeno remotamente a ciò cui avevano votato l’esistenza, francamente sprecandola, le due anziane guardie rosse di vedetta sul bastione della Libreria Popolare come tra i merli d’un castello medievale, o meglio come sugli spalti d’una speciale Fortezza Bastiani, con la differenza mica da poco che loro due, moglie e marito, non temevano l’arrivo dei tartari, invisibili oltre il deserto dei soprusi e delle ingiustizie sociali, ma al contrario lo invocavano.

Detto ciò, va aggiunto che lì in Via Saluzzo, se soltanto si badava – per educazione oltre che per prudenza, allo scopo cioè di essere gentili e di evitare le discussioni troppo accese – a non dare mai torto (qualunque cosa dicessero, e ne dicevano di madornali) ai due librai, si trascorrevano delle mezz’ore non dico simpatiche, che questa sarebbe un’esagerazione, ma divertenti, questo sì, specie se come me non si ha mai avuto niente contro l’orrido (anzi) e questo spiega tre quarti (e forse più) delle persone che mi si sono appiccicate negli anni. Quel giorno, poi, il giorno in cui scoprii Suchanov, questo cucu politique, l’uomo che sorprese sua moglie in compagnia dell’intero ufficio politico bolscevico, mentre Lenin e tovarish preparavano niente meno che una spallata al governo provvisorio, cioè l’evento che avrebbe provocato la valanga: D’Annunzio e Mussolini Dux, Baffone e Baffino, col tempo e le disgrazie anche Putin, il capitalismo cinese maò-maò, Evita e Juan Perón, l’eredità inestirpabile dei Castro Brothers, Beppe Grillo, gli ayatollah, l’11 settembre… ecco, quel giorno, come ho detto, oltre le vetrine della Fortezza Bastiani di Via Saluzzo, c’era questa gran tempesta di neve e pertanto non avevo fretta d’uscire.

Forse Arcibaldoff e Petronnilova, sempre guardandomi con sospetto, com’era loro costume, educati così nei ranghi del «picì» dei tempi eroici, mi offrirono un caffè. A volte lo facevano. Avevano nel retro, oltre al bagno, anche una piccola cucina. Nel caso, sono certo che lo gradii. Se ancora non l’ho detto, lo dico adesso: avevo freddo, ero bagnato e, se al posto del caffè, sempre che me l’abbiano offerto, m’avessero servito un grog bollente, o almeno un cognac, sarei stato anche più grato.

Fu quel giorno, in ogni modo, che scoprii qualcosa di nuovo a proposito della storia del XX secolo, anzi della storia in generale, ma per il momento restiamo pure alla storia recente e contemporanea. Scoprii che la storia del Novecento, e in particolare la storia del comunismo, che m’intrigava già da un po’, era possibile leggerla come si legge un romanzo, metti Salgari o Dumas, metti Assurdo Universo, metti Moby Dick e Doctor Sax, metti Johnny Liddel e Kickaha, l’eroe tarzaniano di Philip Josè Farmer, e metti pure volendo lo Spirito assoluto di Hegel, che sta alla storia della filosofia come Batman alla DC Comics.

Scoprii, anzi, che in realtà non c’è altro modo d’occuparsi con vantaggio di storia. Scoprii che il peggio, con la storia, subito dopo lo studio rigoroso (tra sbuffi, sbadigli e stronfiamenti di naso) di tomi e tomoni pomposi e inesatti, è prenderla sul serio e proclamarla maestra di vita, ma che peggio di tutto è viverla, come a San Pietroburgo sotto la commissariocrazia, a Berlino sotto i cleptocrati antisemiti, a Dresda sotto i bombardamenti alleati raccontati in Mattatoio n.5 da Kurt Vonnegut o a Hiroshima dopo che Robert Oppenheimer e gli altri scienziati atomici hanno «liberato Shiva, il distruttore di mondi» e oggi a Kiev sotto le bombe o a Bucha e Mariupol nelle mani del Gruppo Wagner.

Ispirato dalle Cronache di Nikolaj Suchanov – un capolavoro giornalistico e storiografico col quale osò polemizzare Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa, dove il commissario del popolo alla guerra, dietro le spalle vent’anni di bohème socialista, nel futuro Alain Delon armato di picozza come nel film del 1972 di Joseph Losey, parla di se stesso in terza persona, tipo Giulio Cesare e Silvio Berlusconi buonanima– cominciai a leggere, collezionare e schedare biografie, historiae e memoir sulla rivoluzione russa e sulla storia del comunismo, cominciando dai più noti, Victor Serge, Isaac Deutscher, John Reed, Edgar Snow, Boris Savinkov e via così (non esagero) per migliaia di titoli. Qualche anno fa ne feci, per così dire, una spremitura generale distillandoli in due grossi volumoni (Mangia ananas, mastica fagiani, 2 voll., WriteUp 2020-2021, libri che so soltanto io e tutti giustamente ignorano 1 ). Dopo di che, passat’a nuttata d’una vita, ho ceduto l’intera sezione salgarian-comunista della mia biblioteca all’archivio d’una fondazione tardobordighista amica. Faccia buon pro, d’ora in avanti, a qualcun altro. Adieu.

Ma cosa cederò e a chi la prossima volta? Intere collezioni di fumetti? Tutta la sezione rock’n’roll? La filosofia crucca per intero? Tutte le ucronie e tutta la fantascienza? Anche il Ringworld di Larry Niven?
Come fiocca.


  1. Il primo dei due volumi è stato recensito qui  

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Vite nella Rivoluzione: Michail Bulgakov. https://www.carmillaonline.com/2014/03/12/vite-nella-rivoluzione-michail-bulgakov/ Tue, 11 Mar 2014 23:10:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13410 di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte si sconta vivendo” (G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante. Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova [...]]]> di Sandro Moiso

bulgakovMarietta Čudakova, Michail Bulgakov. Cronaca di una vita, Odoya, Bologna 2013, pp. 480, euro 30,00

La morte
si sconta
vivendo
(G.Ungaretti, 1916)

Se la storia della letteratura russa prodotta in età sovietica, e soprattutto durante l’era di Stalin, è già di per sé drammatica, la lettura dell’opera di Marietta Čudakova dedicata alla biografia di Michail Afanas’evič Bulgakov può risultare addirittura straziante.
Basato su lettere, testimonianze e, soprattutto nella parte finale, sui diari della terza moglie di Bulgakov, Elena Sergeevna Bulgakova, il testo ricostruisce esattamente la cronaca, ordinata per periodi triennali, della vita del grande scrittore russo.

Marietta Čudakova può probabilmente ancora essere considerata, a livello internazionale, la massima esperta bulgakoviana. Teorica letteraria e scrittrice va considerata fra le più alte autorità nel panorama critico letterario russo e, oltre ad insegnare presso l’Istituto Letterario Gor’kij di Mosca, è stata visiting professor all’Università del South Carolina, a Stanford e all’École Normale Supérieure di Parigi. Inoltre, è la presidentessa della Fondazione Bulgakov e ha curato l’introduzione di molte opere dello stesso pubblicate in Italia.

Ma proprio questa cronaca, importante sia per chi è interessato alla storia della letteratura di età sovietica quanto per chi lo è nei confronti dell’era di Stalin, costituisce il coronamento della sua attività e, quasi sicuramente, di una vita. Infatti, dal 1965 al 1984 l’autrice ha lavorato al Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca di Stato dell’URSS, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’archivio personale dell’autore custodito dalla vedova Elena Sergeevna, grazie alla quale i suoi lavori inediti (quasi tutti) furono salvati dall’oblio e pubblicati molti anni dopo la sua morte. La prima edizione della biografia risale in Russia al 1988 e ha costituito fino ad oggi il primo ed autorevole studio approfondito sulla vita dello scrittore.

Vita che ha inizio a Kiev nel 1891, in una famiglia profondamente intrisa dalla tradizione culturale e religiosa russo-ortodossa, socialmente lontana dagli ambienti in cui si formava solitamente l’intelligencija. Laureatosi in Medicina, si troverà coinvolto prima nei drammi del primo conflitto mondiale e, in seguito, in quelli della guerra civile, durante la quale, proprio per tradizione famigliare, egli parteggerà per le armate bianche anche se il suo coinvolgimento sarà sempre legato, prima di tutto, alla sua professione medica.

La Čudakova è abilissima nel collegare, sempre, alle fasi della vita di Bulgakov le pagine dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Risulta, infatti, chiaramente che fin dai primi scritti, pubblicati su vari giornali, e fino a quelli pubblicati, poi, su alcune riviste letterarie sovietiche e dal primo romanzo, “La guardia bianca”, fino al suo capolavoro “Il Maestro e Margherita”, ogni pagina dell’autore russo è impregnata di autobiografismo.

Costantemente “mosso dalla volontà di trasformare il rapporto tra «biografia» e «creazione»”, si possono individuare “ nel processo creativo di Bulgakov […] due movimenti convergenti. Da un lato le riflessioni sulle proprie scelte e sul proprio destino si vestono di mire letterarie e vengono acconciate nella cornice di un’idea a essa precedente. Dall’altro il romanzo (in questo caso “Il Maestro e Margherita” – NdA), con le questioni che tocca e la sua extratemporalità […], non può che lasciare un segno sull’interpretazione dei problemi autobiografici di chi scrive, inducendolo a guardare alla propria vita come qualcosa che dal tempo è slegato. Alle conseguenze di scelte fatali non c’è rimedio […] e chi cerca aiuto in Satana e lega per sempre le sue sorti al diavolo ( e dunque «non merita la luce») ne pagherà lo scotto in eterno” (pag.358).

La questione, qui efficacemente sintetizzata dalla Čudakova, non è di poco conto, perché se, da un lato, apre ad una riflessione sull’opera letteraria in generale, dall’altro ricollega l’opera di Bulgakov non solo alle scelte morali, politiche e culturali dello stesso ma, più in generale, al destino di tutti i letterati, e non solo, dell’epoca staliniana in cui l’autore si trovò a vivere.
Nel primo caso, la riflessione rende evidente che spesso le maggiori opere degli autori più importanti della letteratura universale, da Dante Alighieri a Louis-Ferdinand Céline, da Giacomo Leopardi a Franz Kafka e da Marcel Proust allo stesso Michail Bulgakov, solo per citarne alcuni e molto diversi tra loro, sono il risultato proprio di un processo in cui l’autobiografismo, trasfigurato in elemento romanzesco, si eleva al di sopra della misera vita individuale per diventare invece lo specchio delle ansie, delle delusioni e delle speranze dell’intera specie umana.

Mentre nel secondo, pur rimanendo anch’esso un tema universale della grande letteratura, la questione delle scelte individuali in tempi di dittatura totalitaria, anche se travestita da “comunista” o “proletaria”, rende chiaro come il “libero arbitrio” degli artisti, dei letterati e degli intellettuali, anche se si potrebbe affermare la stessa cosa per tutti i cittadini, finisce quasi sempre con l’essere estremamente condizionato dall’autoritarismo e dalle giravolte ideologico-politiche di chi sta al potere. Fatto che, proprio in epoca staliniana, raggiunse i vertici dell’assurdo e dell’auto-cannibalismo.

Bulgakov non volle, non seppe e non poté mai dichiararsi bolscevico o avvicinarsi all’ideologia del partito comunista russo e, proprio per questo motivo, si trovò a vivere culturalmente e letterariamente come un escluso , come un vero e proprio paria. Ma anche coloro che, come tanti autori da Majakovskij a Mandel’štam e da Mejerchol’d a Isaak Babel’ fino a Boris Pilniak, avevano abbracciato la causa rivoluzionaria fin dal suo primo apparire, avrebbero pagato un crudele tributo di sangue sull’altare del piccolo padre di tutte le Russie. Chi col suicidio, chi con la deportazione e lo sfinimento fisico, chi con la fucilazione. La stessa sorte che toccò a tutta la vecchia guardia bolscevica, da Bucharin a Kamenev, e ai migliori generali dell’armata rossa come Michail Tukhachevsky. Anche a coloro che avevano voltato, per tempo, le spalle a Trockij e all’Opposizione operaia.

Scelte fatali, appunto, che non lasciano rimedio. Sicuramente quella di Bulgakov di non piegarsi al potere, anche quando questo si rivolse a lui direttamente, con una telefonata dello stesso Stalin cui, evidentemente, lo scrittore non seppe o non volle dare le giuste risposte. Oppure il rifiuto opposto a chi, ancora nella primavera del 1938 gli chiese di scrivere un romanzo sovietico d’avventura: “«Tiratura imponente, traduzioni in tutte le lingue, soldi a palate – anche valuta estera – e un Assegno seduta stante, come anticipo. Che ne dice?» Bulgakov rifiuta: «Non posso»” Al che lo stesso incaricato lo convince – a fatica – a leggergli “Il Maestro e Margherita”:”Dopo i primi tre capitoli commenta: «Questo non si pubblica di certo». «Perché?» chiede Bulgakov. «Perché no»” (pag. 440).

E’ il destino dell’autore: apprezzato come scrittore e commediografo dai vertici del Partito e dallo stesso Stalin che, insieme a Kirov e Zdanov, assistette svariate volte alla rappresentazione della sua opera teatrale “I giorni dei Turbin” (tratta proprio da quella “Guardia bianca”, mai pubblicata integralmente in patria); ignorato come autore della stessa opera che fu rappresentata centinaia di volte mentre Bulgakov era in vita; inascoltato nei suoi appelli per avere a disposizione almeno una nuova macchina da scrivere o un permesso, per lui e la moglie, per recarsi all’estero per un breve periodo e, infine, costantemente rifiutato come autore di opere letterarie e teatrali sempre apprezzate, in prima battuta, ma quasi mai realmente pubblicate o rappresentate in seguito.

Una vita artistica e personale costantemente rimossa, spinta ai margini della vita culturale o della vita tout court se si pensa alle costanti difficoltà economiche cui l’autore dovette sempre far fronte. Spesso disperatamente. Ma, soprattutto, una vita che costantemente ostacolata nelle sue manifestazioni letterarie ed artistiche si trasformava, di fatto per l’autore, in una non vita. Rimozioni e divieti che, alla fine, accomunarono Bulgakov ad altri autori sovietici, ma dei quali, almeno, non condivise l’onta di aver denunciato altri nel tentativo di affermarsi o sopravvivere, come era invece successo a Boris Pasternak, nell’estate del 1936, quando, insieme a Kostantin Fedin e molti altri, aveva firmato l’esortazione del Direttivo dell’Unione degli Scrittori ad “applicare ai nemici del popolo la pena massima della difesa socialista: fatelo per il bene dell’umanità!” pubblicato sulla Pravda con l’inquietante titolo: “Cancellateli dalla faccia della terra!” che avrebbe, di fatto , inaugurato la stagione dei grandi processi di Mosca e del terrore staliniano.

No, non cercò mai la vendetta o il compromesso Bulgakov. La sua arma era la scrittura, spesso fortemente ironica, come nella migliore tradizione russa da Puskin a Gogol’ fino al più recente Varlan Salamov. Ironia che faceva paura, tanto che i pochi lettori del work in progress bulgakoviano spesso vedevano il fantasma di Stalin anche là dove non c’era, come nella figura di Woland che nel romanzo capolavoro di Bulgakov rappresenta davvero Satana e non il dittatore, in un’opera in cui il Faust di Goethe, rivisitato in ambito sovietico, si mescola alle vicende storiche di Ponzio Pilato e Yeoshua.

Lo conferma anche Elena Sergeevna, che annota: «Finito di leggere Miša (nomignolo attribuito all’autore – NdA) chiese:”Chi è Woland?” Vilenkin disse di averlo intuito, “Ma non speri che lo annunci a gran voce!”». Anche Vilenkin cita la domanda nelle sue memorie, e aggiunge: «Nessuno si decise a rispondergli: era un rischio». Ognuno, dunque, scrive la risposta su un pezzo di carta, che poi passa agli altri.«Michail Afanas’evič, curioso, venne alle mie spalle, e quando mi vide scrivere “Satana” mi carezzò la testa»” (pag.455).

D’altra parte la vena fantastica che attraversava le sue opere più importanti (oltre al solito “Il Maestro e Margherita” anche “Diavoleide” oppure “Le uova fatali” o, ancora “Cuore di cane“), pur affondando le proprie radici nella tradizione letteraria russa, non poteva essere apprezzata in un tempo in cui il severo realismo promosso da Zdanov richiedeva esclusivamente opere che cantassero il valore dell’industrializzazione forzata, dello stakanovismo e della lotta ai kulaki. Senza contare che Bulgakov, nella sua carriera di medico, avendo potuto osservare quanto poco eroico ed affidabile fosse quel popolo russo che la letteratura ufficiale chiedeva di esaltare ad ogni piè sospinto, non poteva prestarsi ad essere un ingegnere dell’animo umano così come lo stesso Stalin chiedeva agli scrittori di diventare1. Finendo con l’essere molto più vicino alle opere ottocentesche, ironiche e crudeli insieme, di Saltykov-Ščedrin che al realismo socialista, insopportabilmente retorico, di un Fadeev.

Ma le capacità letterarie di Bulgakov, che sovrastavano indiscusse quelle di tanti pseudo sperimentatori ed autori della letteratura proletaria, spingevano i critici burocrati della letteratura di partito a chiedergli di rivolgere la sua satira contro i nemici del popolo e del socialismo in un solo paese. Cui, l’autore, non poteva far altro che rispondere:”Qualunque tentativo di creare la satira è condannata a fallire miseramente. La satira non si crea da fuori. La satira nasce da sola quando meno te lo aspetti. E nasce quando uno scrittore che ritiene imperfetto il suo presente si indigna e decide di smascherarlo con la letteratura. Perciò ritengo che avrà vita grama, in terra sovietica, anzi gramissima”. (pag. 361)

Relegato al ruolo di adattatore di opere letterarie per il teatro, poi a librettista, talvolta ad attore, Bulgakov sopravvisse attraverso gli anni del terrore vedendo rappresentati ottocento volte i suoi “Giorni dei Turbin” senza mai essere citato dai giornali sovietici come autore di quello straordinario successo di pubblico; vide ancora rappresentata la sua “Vita del Signor di Molière”, diversamente detta “Cabala dei Bigotti”, con l’appoggio di Stanislavskij, ma non vide mai la pubblicazione dei suoi romanzi preferiti e del suo capolavoro2 .

Condannato ad un’autentica morte civile, non troppo diversa dalla morte vera e, talvolta, più dolorosa poiché prolungata nel tempo in una sorta di ultra-decennale agonia, Bulgakov lavorò fino quasi all’ultimo giorno sulle pagine del suo ultimo ed insuperato romanzo. Morì, come il padre, di nefrosclerosi ipertensiva, tra atroci sofferenze, il 10 marzo 1940. Per tutto questo vale, dunque, la pena di ricordarlo ancora oggi, a settantaquattro anni dalla morte, con rispetto estremo, attraverso le pagine di questo testo bellissimo, anche se non sempre di facile lettura.

E’ tutto finito dunque?
Proprio così, caro il mio discepolo
(Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”)


  1. Stalin approvò e proclamò obbligatoria per tutta l’arte sovietica la parola d’ordine del realismo socialista. La cosa riguardava innanzitutto la letteratura: il metodo del realismo socialista fu infatti definitivamente formulato e approvato per la prima volta nel corso del primo congresso dell’Unione degli scrittori nel 1934 e solo in seguito trasferito senza alcuna modifica nelle altre arti […] L’estetica e la prassi dell’epoca staliniana tendono fondamentalmente all’educazione e alla formazione delle masse, una concezione formulata da Stalin utilizzando in un diverso contesto una metafora dell’avanguardia: gli scrittori sono gli ingegneri dell’animo umano“, Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti 1992, pp. 48 – 49  

  2. Pubblicato per la prima volta, in edizione integrale, in Italia da Einaudi nel 1967  

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