Joseph Ponthus – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un incubo ad alta tecnologia https://www.carmillaonline.com/2023/07/11/un-incubo-ad-alta-tecnologia/ Tue, 11 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78209 di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene [...]]]> di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.

La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.

In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.

Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“…tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.

In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.

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Un poemetto operaio che squarcia l’immagine patinata dell’agroalimentare https://www.carmillaonline.com/2022/09/20/un-poemetto-operaio-che-squarcia-limmagine-patinata-dellagroalimentare/ Tue, 20 Sep 2022 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74112 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Joseph Ponthus, Alla linea. Fogli di fabbrica, trad. di Ileana Zagaglia, Bompiani, Milano 2022, pp. 256, € 17,00

Giunge in questi giorni in libreria in traduzione italiana il libro di Joseph Ponthus, À la ligne. Feuillets d’usine (2019), opera che ha ottenuto alla sua uscita in Francia un importante successo di critica e lettori, capace di condividere, senza pietismo né autocelebrazione, uno spaccato di quel mondo operaio contemporaneo del settore agroalimentare composto soprattutto da interinali applicati alla catena di montaggio di cui si preferisce non parlare, quasi ci si vergognasse di ammetterne anche solo [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Joseph Ponthus, Alla linea. Fogli di fabbrica, trad. di Ileana Zagaglia, Bompiani, Milano 2022, pp. 256, € 17,00

Giunge in questi giorni in libreria in traduzione italiana il libro di Joseph Ponthus, À la ligne. Feuillets d’usine (2019), opera che ha ottenuto alla sua uscita in Francia un importante successo di critica e lettori, capace di condividere, senza pietismo né autocelebrazione, uno spaccato di quel mondo operaio contemporaneo del settore agroalimentare composto soprattutto da interinali applicati alla catena di montaggio di cui si preferisce non parlare, quasi ci si vergognasse di ammetterne anche solo l’esistenza, per non turbare lo storytelling patinato che riduce il settore a packaging suadenti e mirabolanti sfide gourmet ai fornelli televisivi.

Joseph Ponthus, pseudonimo di Baptiste Cornet, nonostante le origini popolari riesce ad ottenere una borsa di studio che gli consente di costruirsi una solida formazione letteraria. Dopo aver lavorato come educatore a Nanterre, nella periferia parigina, si stabilisce con la moglie in Bretagna dove, non trovando occupazione nel suo settore, si trova a dover lavorare come interinale nell’industria agroalimentare per un anno nelle industrie conserviere del pesce e per due nei macelli.

Cosa significa entrare in una di queste industrie, soprattutto da interinale, lo spiega l’autore stesso in un’intervista rilasciata ad Émilien Bernard: «Non appena metti piede lì, la fabbrica è ovunque. Ti mangia il quotidiano. Mi ricorda il modo in cui i minatori si riferivano alla miniera, dicendo che era un “mangiatore di uomini”. La fabbrica è lo stesso. Gli uomini e le donne che ci lavorano pensano solo a questo: l’ora in cui ti sveglierai, l’ora della pausa, il prossimo arrivo. È una lotta perpetua contro il tempo»1.

In tale universo lavorativo, composto in buona parte da interinali, dichiara Ponthus nell’intervista, «sono riusciti ad atomizzare la coscienza della classe operaia. Oggi non ti definisci più come un lavoratore, o come un dipendente di una determinata azienda, ma in relazione alla tua postazione di lavoro, dove c’è concorrenza. Questo porta alla conclusione: non è più possibile alcuna lotta collettiva. […] È il trionfo del capitalismo nella sua forma più violenta. E poi, lavorando nell’agroalimentare, non hai l’orgoglio della produzione. In una fabbrica “normale” si parte da zero e si finisce con un prodotto finito. Nell’agroalimentare è il contrario, è decostruzione: prendi un prodotto intero, per esempio una mucca, e ti ritrovi con una bistecca. È impossibile essere orgogliosi di dare la morte»2.

L’universo di sfruttamento dell’agroalimentare bretone non è molto diverso da quello emiliano raccontato da Giovanni Iozzoli nel suo L’Alfasuin (Sensibili alle foglie, 2018)3, romanzo incentrato sullo sgretolamento di un sistema costretto a fare i conti con una generazione sfruttata e inascoltata di lavoratori, spesso di origine straniera, che di fronte a condizioni di vita e di lavoro insostenibili ha trovato il coraggio di ribellarsi. Se Iozzoli lo ha raccontato intrecciando le vicende di una dinastia imprenditoriale locale che ha raggiunto il successo nell’ambito del settore alimentare, di una famiglia malavitosa in cerca di costruirsi una rispettabilità pubblica e, soprattutto, di tanti lavoratori provenienti dai quattro angoli del mondo per lavorare e garantirsi una vita meno agra di quella vissuta in patria, assunti con contratti vergognosi, Ponthus lo ha fatto in prima persona, elencando, insieme ai gesti ripetitivi del lavoro alla catena di montaggio, lo stato d’animo con cui li esegue, la fatica ma anche le vie di fuga a cui ricorre per sopportare tutto ciò: sprazzi di autori latini, romanzieri, poeti e cantanti che il suo pensiero riesce ad inserire tra i brevi interstizi di tempo che ricava tra le operazioni che è chiamato a svolgere.

Al racconto autobiografico ricorre anche Alberto Prunetti nel suo 108 metri. The new working class hero (Laterza, 2018)4 ove, mescolando sapientemente espressioni popolari toscane e inglesi, momenti di ilarità e di amarezza o rabbia, racconta la sua personale esperienza di lavoro in terra inglese nell’ambito della ristorazione e dintorni. Quello tratteggiato da Prunetti è un mondo del lavoro infernale, derivato dalla deregolamentazione thatcheriana, abitato da datori di lavoro senza scrupoli e da patetici capireparto che per mantenere il gradino sociale raggiunto sono disposti ad infliggere qualsiasi tipo di angheria ai loro sottoposti. In tale inferno l’autore-protagonista trova modo di fraternizzare con un manipolo di appartenenti a quella feccia proletaria che l’establishment inglese eliminerebbe volentieri ma che preferisce sfruttare il più possibile, magari al riparo da occhi indiscreti. Una ciurma di disgraziati cresciuti nella deregulation imperante, soggetti atomizzati allo sbaraglio che non riescono nemmeno a riconoscersi come classe sociale e che si confrontano, quando possono, con le angherie subite soltanto con gesta sguaiate, isolate e senza futuro. Per raccontare le proprie vicissitudini di lavoratore migrante e per difendersi da esse, Prunetti alterna il racconto della quotidianità in terra inglese a sprazzi di memoria dell’orgoglio operaio della generazione del padre, lavoratore delle acciaierie di Piombino, e della sua adolescenza in un contesto in cui la collocazione di classe era ancora non solo evidente ma anche esibita e rivendicata con fierezza.

Anche Ponthus è alla ricerca di qualche espediente che gli consenta di sopportare meglio l’inferno quotidiano e lo trova nel ricorso a una scrittura in cui miscela tratti di autobiografia e diario quotidiano adottando uno stile narrativo in cui il romanzo si intreccia con la poesia e la semplice annotazione puntale dei gesti compiuti o a cui assiste quotidianamente dentro e fuori la fabbrica. Il ricorso ad una ritmica sincopata non è però mera riproposizione del ritmo di fabbrica subito bensì, come scrive Claudio Panella5, sembra voler riprodurre le modalità con cui «i pensieri al lavoro si dimenano cercando di sfuggirlo, di meglio sopportare il tempo che manca alla fine del turno». È lo stesso autore a motivare la scelta stilistica nell’intervista rilasciata ad Émilien Bernard: «Dalla mia prima settimana di lavoro ho iniziato a scrivere dei passaggi quando tornavo a casa, di pomeriggio o la sera, a seconda dei miei orari, quando non ero troppo stordito. Il mio obiettivo era scrivere in un modo simile a come funzionavano i miei pensieri quando ero al lavoro. In fabbrica ti trovi di fronte al problema della cadenza, cioè la produzione imposta dalla fabbrica stessa. […] Ma una volta che impari a effettuare il gesto per bene, a diventare tutt’uno con lo strumento o la macchina, diciamo che puoi farlo in quarantacinque secondi. Hai più o meno quindici secondi di “libertà”. Qui è dove hai tempo per pensare. E io pensavo ai libri, alle poesie, alle frasi che avrei scritto la sera quando sarei tornato a casa […] È qui che è nata e si è imposta la questione del ritmo letterario. Perché io volevo scrivere su questi quindici secondi di libertà. Se avessi scelto di adattarmi al ritmo regolare della fabbrica, un compito al minuto, allora avrei scritto in versi regolari, di tipo alessandrino. Ma il mio ritmo era diverso, poiché io lottavo contro la cadenza, con delle irregolarità, a volte cinque secondi, a volte dieci o quindici. Quindi potevo scrivere solo in versi liberi»6.

La scrittura di Ponthus si trasforma in lotta quotidiana per la libertà: «Ho scritto e ho rubato due ore alla mia quotidianità / e alla mia famiglia / Ore alla fabbrica / Testi e ore / Come tanti baci rubati / Come tanta felicità». La scrittura appare quindi anche come un mezzo per sfuggire agli spazi infernali ed opprimenti della fabbrica divenendo essa stessa uno spazio utopico, un luogo che però diviene reale nel momento in cui si scrivono le parole sulla carta o si battono sulla tastiera del computer. La scrittura è perciò anche tempo ed è quindi intrisa di una temporalità che diviene corpo e materia, spazio di libertà. Come scrive Roland Barthes, «la scrittura è precisamente questo compromesso tra un atto di libertà e un ricordo, è quella libertà piena di ricordi che non è libertà se non nell’attimo della scelta, ma già non più nella sua durata»7. Una «libertà piena di ricordi» si palesa ad esempio nel momento in cui il poeta si chiede «cosa ci faccio io qui?»: Non è il mio posto il mio lavoro la mia vita cosa ci faccio qui / con tutti i miei anni di studio quello che ho letto scritto o / capito sul senso del mondo». Ma nell’attimo in cui egli si rende conto che esistono vie di fuga, linee serpentine che lo possono condurre lontano dagli spazi imprigionanti della quotidianità, è proprio in quel momento che emerge lo spazio di libertà che si fa materia e tempo: «Lo devo all’amore / Lo devo alla mia forza / Lo devo alla mia vita». È nel momento in cui tutto sembra perduto che si scoprono inediti percorsi di resistenza. La scrittura è indubbiamente uno di questi ma anche tutte le letture fatte, le poesie scritte, le canzoni ascoltate (soprattutto quelle di Charles Trenet e Barbara) che si possono ripetere e canticchiare nell’inferno del tempo di fabbrica sono decisive ancore di salvezza. Ponthus ribadisce ogni attimo – all’interno del suo romanzo in forma di poemetto la cui scrittura scivola via come un flusso di sensazioni, ricordi, percezioni, impressioni – che in definitiva non perde mai la propria ricchezza interiore, il proprio «privilegio del pensare», per citare Pasolini. Come quest’ultimo scrive in alcune poesie de La religione del mio tempo in cui descrive i momenti più duri e poveri della sua vita, appena giunto a Roma, perduto in una misera casa delle borgate di Rebibbia, è la «coscienza» della sua «ricchezza» interiore a permettergli di andare avanti: i suoi studi, le sue letture e le sue scritture, la sua passione per l’arte e la letteratura. Nella povertà estrema e nella dura vita di ogni giorno, trascorsa in interminabili viaggi in autobus per raggiungere le scuole di periferia dove lavorava come insegnante, il poeta riusciva a trovare delle vere e proprie falde di resistenza nella sua ‘ricchezza’ personale. Ecco che, allora, per Ponthus, Charles Trenet si trasforma in «un immenso Charlot che rende / sopportabile l’inferno dei tempi moderni».

Nell’ottica di Ponthus, quello della fabbrica appare come un vero e proprio inferno, paragonabile alla trincea durante una guerra. Per descrivere le esperienze di lavoro nel settore agroalimentare e presso il mattatoio, dove doveva pulire il sangue dei maiali macellati, il poeta non esita a richiamare l’universo della guerra: «Pulitore di trincea / Pulitore di mattatoio / È quasi lo stesso / Mi sento come se fossi in guerra / I brandelli i pezzi l’equipaggiamento necessario il sangue / Il sangue il sangue il sangue il sangue», mentre gli stessi operai che si recano al lavoro appaiono quasi come soldati che si recano al fronte. Oltre ad evocare l’inferno della guerra, l’iterazione (in cui le parole «il sangue» sono ripetute ben cinque volte) che chiude il verso e che suona come un lugubre rintocco, richiama ancora una volta potentemente la sfera corporea: il corpo stesso del poeta, quasi come i corpi degli animali uccisi, subisce un graduale abbrutimento, una graduale coercizione verso l’assuefazione ai terribili ritmi lavorativi. Questi ultimi si trasformano in una nuova Odissea: se la fabbrica si trasforma in Mediterraneo, i «gamberetti» diventano «le mie sirene / i buccini i miei ciclopi / il guasto del nastro trasportatore solo un’altra tempesta». E allora «la produzione deve continuare / Sognando Itaca / Nonostante la merda». Alla fine del viaggio-inferno c’è pur sempre un’Itaca e il solo sognarla potrebbe rappresentare un sabotaggio a quella produzione incessante, al ritmo coercitivo e lavorativo della fabbrica perché è sempre e solo nell’ottica dei padroni, detentori del capitale, che la «produzione deve continuare». Tutte le citazioni inserite nell’incedere impetuoso della scrittura poetica, tutti i riferimenti alle canzoni, alla letteratura, alla poesia, all’arte sono piccoli sabotaggi che si insinuano nel ritmo della produzione. Anche la stessa scrittura diviene sabotaggio, diviene resistenza e, in definitiva, un vero e proprio strumento di libertà. Le parole poetiche sono perciò un momento di «silenzio del lavoro» perché rappresentano qualcosa di veramente antitetico ad esso.

Perché in definitiva, la fabbrica, come i templi greci, la prigione e le isole – come leggiamo in un momento iniziale del poemetto – appaiono come «Mondi chiusi / Dove si va solo per scelta / Deliberata / E da cui non si esce / Come dire /Non si lascia un santuario indenni / Non si lascia mai davvero la galera / Non si lascia un’isola senza un sospiro / Non si lascia la fabbrica senza guardare il cielo». Mondi chiusi che potrebbero assomigliare, perciò, alle eterotopie, cioè gli “spazi altri”, come sono descritti da Michel Foucault (citato tra l’altro da Ponthus in riferimento alla prigione). La fabbrica, come del resto la prigione, sarebbe comunque un’eterotopia che non apre alla libertà dell’immaginazione come, secondo, Foucault, ad esempio fa la nave, «eterotopia per eccellenza» nell’ottica dello studioso francese8. Sono spazi ‘altri’ consegnati alle dinamiche della disciplina e della coercizione per cui diventa importante ritagliarsi spazi utopici di libertà all’interno di essi. La scrittura, come abbiamo visto, è uno spazio utopico di libertà che, nell’opera di Ponthus, diviene ben reale: diviene resistenza e strumento di resistenza, un luogo di libertà che può accogliere in sé il corpo e la mente del poeta ma anche di altri, nuovi resistenti che, come lo stesso autore, riescono a sopravvivere grazie a personali vie di fuga dall’inferno della fabbrica.

Durante la settimana, al lavoro si parla poco tra colleghi, sia perché si indossano i tappi nelle orecchie che perché, tutto sommato, dichiara amaramente Ponthus, non c’è granché da dirsi a parte scambi di ordini e invettive. «Per una settimana sei formattato in una non-lingua, in modalità performativa […] Non parli. Durante la pausa fumi la tua sigaretta, bevi il tuo caffè e nient’altro. Dato che sei nell’industria della morte, di notte ti divora, hai gli incubi. […] Una cosa è certa: musi tagliati, mammelle affettate, queste cose non si possono raccontare nella lingua dei vivi, perché nessuno può capire. La lingua si ferma. Questa vita quotidiana passa attraverso gli occhi, le espressioni facciali del lavoratore, una mano che batte sulla spalla, ma non attraverso la voce. C’è solo la scrittura che può farlo»9.

Joseph Ponthus è scomparso nel febbraio dee 2021 a soli quarantadue anni. Nel ricordare questo «attivista, insegnante precario e operaio interinale, autore di À la ligne, un capolavoro di scrittura working class», scrive Alberto Prunetti: «La sua esistenza è stata breve, ma il suo tempo non è stato perduto, come in À la ligne si diverte a dire sfrontatamente a Monsieur Proust: «Cher Marcel, ho trovato quel che tu cercavi. Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo perduto»10.


  1. Émilien Bernard, Joseph Ponthus: «L’usine te bouffe le temps, le corps et l’esprit», in “CQFD”, 14 febbraio 2021. Intervista uscita originariamente nella versione cartacea della rivista “CQFD” n. 190, settembre 2020 tradotta in italiano da Andrea Bottalico, “La fabbrica mangia il tempo, il corpo e la mente”. In ricordo di Joseph Ponthus, in “Napoli Monitor”, 1 marzo 2021.  

  2. Émilien Bernard, cit. 

  3. Gioacchino Toni, L’altra faccia del “Made in Italy”, in “Il Pickwick”, 22 dicembre 2018; Guy Van Stratten, “L’Alfasuin” di Giovanni Iozzoli. Storie di sfruttamento fino alla tragedia di Novara, in “Codice Rosso”, 19 giugno 2021. 

  4. Gioacchino Toni, “108 metri”. L’importanza di non tradire le regole, in “Il Pickwick”, 2 agosto 2018. 

  5. Claudio Panella, Nemmeno il tempo di cantare. Sulla “linea” di Ponthus, tra Marx e Trenet, in “Pulp”, 14 aprile 2021. 

  6. Émilien Bernard, cit. 

  7. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, trad. it. di G. Bartolucci, Lerici Editore, Milano, 1960, p. 29. 

  8. Cfr. Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine 2001, p. 32. 

  9. Émilien Bernard, cit. 

  10. Alberto Prunetti, Il tempo perduto di uno scrittore operaio, in “Jacobin Italia”, 25 febbraio 2021. 

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