Joseph Conrad – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

]]>
Nomadi letterari nello spazio liscio https://www.carmillaonline.com/2023/06/11/nomadi-letterari-nello-spazio-liscio/ Sun, 11 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77627 di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto [...]]]> di Paolo Lago

Luigi Weber, Navi nel deserto, Il ramo e la foglia, Roma, 2023, pp. 370, euro 19,00.

Navi nel deserto di Luigi Weber mette in scena una peculiare e interessante rappresentazione letteraria dello spazio liscio (il deserto solcato dai nomadi) e dello spazio striato (quello sedentario della città) di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille Piani: secondo i due studiosi, infatti, il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui, dal momento che lo stesso nomade appare come un “vettore di deterritorializzazione”. Egli aggiunge il deserto al deserto, la steppa alla steppa, in un movimento continuo di deterritorializzazione. L’azione narrativa si svolge in uno scenario fantastico e distopico, una Terra del futuro simile al pianeta Arrakis di “Dune”, ricoperta da un unico immenso deserto. Qui, su delle piste appositamente costruite, si muovono le “Navi”, dalla forma tradizionale ma dotate di ruote, descritte come giganteschi mostri metallici che ci fanno pensare a enormi mercantili o portacontainer e che possono rimandare all’immaginario steampunk degli ‘anime’ di Hayao Miyazaki (ricordiamo Il castello errante di Howl ma anche Conan, il ragazzo del futuro, in cui vediamo la grigia metropoli Indastria e cupe navi di ferro). Le navi seguono un vero e proprio “tragitto nomade” il quale, come scrivono Deleuze e Guattari, agisce in modo contrario al percorso sedentario perché “distribuisce gli uomini (o gli animali) in uno spazio aperto, indefinito, non comunicante”.

A bordo delle navi ci sono i “Mobili”, cioè coloro che hanno abbandonato la vita sicura e stanziale delle rocche, città cinte da alte mura che sorgono nell’immensa spazialità del deserto. Se quest’ultimo è lo spazio liscio abitato dai nomadi, le rocche sono lo spazio striato irrigidito nel rispetto del nomos, della legge geometrica creatrice di griglie e divieti. Le rocche sono dominate da un greve pensiero oscurantista che considera turpe e squallida la vita dei naviganti, i “Mobili” che come nomadi si spostano continuamente nello spazio liscio del deserto. Le città, arroccate nel loro sistema chiuso, sono l’emblema dell’economia e del commercio, dalla quantificazione monetaria dell’esistenza: “Da buoni commercianti quali sono, i Cittadini parlano, e pensano, il linguaggio dell’equivalenza, della chiara quantificazione monetaria”. Irrigiditi nelle aride leggi dell’economia e del mercato, essi non possono fare altro che odiare chi conduce una vita libera e fuori dalle regole come i Naviganti ma soprattutto chi – pure se stanziale – vive al di fuori dello spazio striato delle rocche: gli abitanti delle Oasi. Sarebbe meglio dire le abitanti perché le Oasi sono popolate soprattutto dalle “Isolane”, donne e ragazze che scelgono una vita fuori dalla convivenza e dal matrimonio: proprio per questo sono viste come pericolose sovvertitrici dell’ordine morale “giacché si sa che le donne sono naturalmente madri e mogli, e che senza una prole da allevare e un marito a cui obbedire la vita femminile è del tutto priva di senso”. E quando le “isolane” vengono accolte all’interno della rocca di Banka, per salvarle dal pericolo delle razzie piratesche, la stanza che le accoglie, nell’ottica dei funzionari cittadini, si trasforma in un “antro” saturo di un’atmosfera “molle e corrotta, tentatrice”, che si oppone alle linee rette dell’ordine cittadino; un antro che accoglie ingannevoli e “orride” “sirene”. Perché, se il deserto e i suoi abitatori sono esteticamente connotati dalla sinuosità delle forme circolari e dalla difformità delle dune, le rocche sono intrappolate in rigide forme geometriche.

L’impianto avventuroso su cui è costruito questo interessante romanzo di Weber non poteva d’altronde escludere la presenza dei pirati, appartenenti a una lunga tradizione letteraria e cinematografica. Lungi dall’essere solamente personaggi leggendari appartenenti alle Terre del Nord (secondo voci diffuse nelle rocche), i pirati, efferatissimi e sanguinari, irrompono, sotto la guida del terribile capitano Schomberg, nel lembo di deserto in cui si svolge l’azione narrativa. Guardando alla tradizione letteraria piratesca, è possibile rilevare alcune somiglianze fra i pirati di Navi nel deserto e quelli della Trilogia dei pirati di Valerio Evangelisti e, nella fattispecie, di Tortuga (2008), primo romanzo della trilogia. In quest’ultimo, i pirati, al comando del diabolico capitano De Grammont, rappresentato come un oscuro demone infernale capace di inenarrabili efferatezze, compiono crudeli torture sui nemici vinti. Schomberg e De Grammont hanno in comune non soltanto una crudeltà che si spinge al di là di qualsiasi immaginazione (le torture descritte in Navi nel deserto lasciano iperbolicamente senza fiato) ma anche una raffinatezza e un’eleganza nel portamento e nell’aspetto che sembra stridere con l’immagine dei pirati come rozze belve assassine assetate di sangue. I comandanti pirata possiedono una “nobiltà di spirito” che sembra ignota ai cinici e meschini funzionari delle rocche.

Il romanzo possiede inoltre un suggestivo e affascinante impianto ipertestuale in quanto rimanda all’universo letterario di Joseph Conrad. Se nel corso delle vicende incontriamo spesso personaggi che portano il nome di quelli conradiani (da Jim a Mahon e Kurtz), una figura chiave del racconto si chiama proprio Joseph Conrad, il capitano, fresco di nomina e con poca esperienza, della nave Kairos. Conrad assume delle connotazioni particolari perché non appartiene all’universo dei naviganti ma è l’abitante di una Rocca che ha scelto di abbandonare la sedentarietà degli spazi striati per darsi interamente allo spazio liscio del deserto. Conrad appare come una figura di transizione, non appartiene interamente a nessun contesto sociale, né a quello dei Naviganti né a quello dei sedentari e neppure a quello delle Oasi. Egli è l’espressione del “pensiero del fuori” come è teorizzato da Foucault e da Deleuze e Guattari: secondo questi ultimi, mettere il pensiero in rapporto immediato con il “fuori” e con “le forze del fuori” può contribuire a fare del pensiero stesso una “macchina da guerra” che agisce contro l’irreggimentazione sedentaria delle leggi e dei divieti. D’altra parte, il piccolo Conrad, durante la sua vita nella città, ascoltava la madre che gli insegnava a non aver paura dei Naviganti, generalmente considerati come mostri o demoni infernali: “Guardali bene la prossima volta, sono gente come noi… hanno solo scelto una vita diversa, e non è né migliore né peggiore. Anche nelle Città ci sono persone che si comportano molto bene o molto male, cosa ti credi?”.

In relazione alla presenza dell’ipotesto conradiano, Navi nel deserto – che passa spesso dalla modalità narrativa in prima persona alla terza persona del racconto più freddo e distaccato – presenta una suggestiva citazione di una sequenza narrativa di Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909) nel momento in cui Conrad, di notte, sul ponte, incontra un misterioso personaggio in fuga che gli chiede di essere nascosto sulla propria nave. Senza svelare ulteriormente la trama, si può affermare che questo incontro è modellato su quello presente nel racconto conradiano: un incontro notturno fra il giovane capitano al suo primo comando e il misterioso Leggat, un ufficiale di una nave inglese in fuga che sale di notte sull’imbarcazione del protagonista io narrante. Sia in Il compagno segreto che in Navi nel deserto, il capitano della nave si trova alla sua prima esperienza di comando, in un ambiente in cui gli altri membri dell’equipaggio sono invece più esperti e stanno insieme da lungo tempo. Inoltre, in entrambi, una inquietante somiglianza fisica (che finisce per sfiorare le ossessioni del doppio) accomuna il giovane capitano e il misterioso fuggitivo.

La letterarietà del romanzo emerge in modo interessante anche nella sua capacità di passare disinvoltamente da uno stile all’altro: nell’istanza narrativa tradizionale sono inseriti spesso lacerti di intonazione più poetica, dalle tonalità elegiache ma anche e soprattutto brani in cui emerge uno stile a pastiche che libera un linguaggio dalle tinte arcaiche e parodistiche. Ad esempio, in un momento di forte tensione, in cui Conrad e i suoi ufficiali sono impegnati a cercare una via di fuga per allontanarsi da un imminente attacco dei pirati, il misterioso ospite, nascosto nella cabina del capitano, inizia a leggere un vecchio libro nel quale si trova una storiella salace e piccante (che può ricordare la novella del fanciullo di Pergamo del Satyricon di Petronio) che, con uno stile dall’impianto parodico, racconta i sotterfugi erotici fra un falegname e una ragazzina, coperti dalla complicità del fratello. Si potrebbe anche pensare all’impianto di carattere milesio e boccaccesco che pervade la narrazione di L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia, in cui Mastro Landone, per mezzo dell’inganno, riesce a godere delle grazie del giovane Nerino.

Anche la novella inserita appare come un’espansione del “pensiero del fuori” di cui si è parlato, macchina da guerra nomade che sfugge ad ogni tentativo di inquadramento poiché perennemente in transizione. In un momento di estrema tensione ed angoscia (la paura per un imminente attacco dei pirati), il libretto trovato dal misterioso ospite squaderna una narrazione en abîme che si pone in netta antitesi con il racconto primario: la novella salace sembra provenire dal “fuori” e rappresenta una magica via di fuga dall’angoscia, dal pericolo e dalla paura. È il “fuori”, è l’“Esterno” che nell’ottica dei cittadini rappresenta solo distruzione e morte ma che in realtà è l’espressione più diretta dello spazio liscio perché, persino di fronte a Schomberg, quando scende dalla nave e si avventura nell’Oasi, “l’Esterno era terribile: non si lasciava ghermire, non si inginocchiava, non lacrimava né supplicava, non soffriva. L’Esterno si faceva beffe della sua volontà, occhieggiava dappertutto eppure sfuggiva tra le dita”. E dall’Esterno sembra provenire anche la narrazione di Navi nel deserto, intrisa di una dimensione letteraria che spalanca porte a svariati generi, dal fantasy all’avventura e alla fantascienza, che rifugge gli incasellamenti e gli stili definiti. Una narrazione che apre al fascino dell’avventura e allo spazio liscio solcato da indomiti e liberi Naviganti letterari.

]]>
Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

]]>
Incontri con l’Altro nei viaggi coloniali https://www.carmillaonline.com/2022/01/25/incontri-con-laltro-nei-viaggi-coloniali/ Tue, 25 Jan 2022 22:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70249 di Paolo Lago

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159, euro 24,00.

I viaggi coloniali avvenivano soprattutto a bordo di una nave; come scrive Michel Foucault, «la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle [...]]]> di Paolo Lago

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159, euro 24,00.

I viaggi coloniali avvenivano soprattutto a bordo di una nave; come scrive Michel Foucault, «la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di più prezioso nel loro giardino»1. Lo studioso continua affermando che «la nave è stata per la nostra civiltà, dal XVI secolo fino ai nostri giorni, non solo il più grande strumento di sviluppo economico (non è di questo che voglio occuparmi adesso), ma anche il più grande serbatoio di immaginazione»2. Per Foucault, la nave è uno strumento di sviluppo economico ma anche una vera e propria eterotopia, cioè uno spazio separato da tutti gli altri spazi, saturo di immaginazione e di fantasia liberata.

Certo, non si può negare che grandi «serbatoi di immaginazioni» siano anche le navi che, emblemi dell’imperialismo marittimo vittoriano, si dirigono verso mari orientali e sconosciuti nei romanzi di Joseph Conrad. Però, Conrad riveste le sue navi e i suoi equipaggi di connotazioni quasi ‘infernali’ e ‘malate’, segno di un’avventura coloniale che si dirige verso una lenta decadenza. Ad esempio, la nave de Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909), avvolta da isole sconosciute e scogli affioranti pericolosi per la navigazione, viene definita come un «battello di morti» che si dirige verso «l’ingresso stesso dell’Erebo»3 (l’oscura e misteriosa isola di Koh-Ring, nel Golfo del Siam). Ma già in un romanzo precedente come Il negro del «Narciso» (The Nigger of the «Narcissus», 1897), gli stessi personaggi sono caratterizzati da volti grotteschi e mostruosi mentre la malattia e il disfacimento sembrano dominare visibilmente i loro corpi. Per non parlare, poi, dei funzionari coloniali europei che si recano in Africa dipinti da Céline nel suo Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1933) come «satolli», «stravaccati», «pustolosi», «panciuti», «olivastri»: «Satolli, stravaccati, si rassomigliavano tutti adesso, ufficiali, funzionari, ingegneri e appaltatori d’imposte, pustolosi, panciuti, olivastri, mescolati, pressappoco identici. I cani assomigliano ai lupi quando dormono»4. I viaggiatori coloniali imbarcati sulle navi di Conrad e di Céline, benché esponenti di un mondo ormai alla deriva, continuano a vedere, negli “altri da sé”, siano essi orientali o africani, come scrive Mario Coglitore nel suo interessante saggio Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, «l’emblematica raffigurazione di un selvaggio paragonabile al massimo a una scimmia urlante che salta tra gli alberi».

Del resto, come nota ancora Coglitore, «la conoscenza dell’Oriente che circolava in Europa era funzionale della messa a punto del congegno coloniale; era stata formalizzata in un “discorso” che utilizzava le rappresentazioni culturali di stampo schiettamente occidentale del “Vicino Oriente”, oggi indicato come Medio Oriente, per sostenere la creazione e il funzionamento stessi delle società coloniali». Si tratta, in sostanza, di quell’«orientalismo» del quale Edward W. Said ci ha offerto una lucida analisi. Come ha dimostrato quest’ultimo, lo studio dell’Oriente, realizzato anche per mezzo di testi letterari, ha consolidato modi di pensare che hanno costituito l’ossatura fondamentale del potere coloniale. Un certo «orientalismo» di fondo lo si può riscontrare anche nell’atteggiamento razionalista di Jonathan Harker che, in Dracula (1897) di Bram Stoker, viaggia verso la Transilvania per incontrare l’Altro al grado più alto, il vampiro: si tratta pur sempre di un inglese del periodo vittoriano che, dalla metropoli imperialista si sposta in treno verso le misteriose periferie del continente europeo. Harker, prima di partire, si era recato alla biblioteca del British Museum e aveva raccolto informazioni sugli usi e costumi della Transilvania, i cui abitanti vengono guardati con distacco e superiorità. Non a caso, il giovane e razionale inglese si prenderà gioco delle truci leggende e delle superstizioni di quel popolo, non ascoltando gli ammonimenti degli indigeni. Gli abitanti della Slovacchia e della Transilvania sono poi allontanati in una dimensione fantastica e ‘teatrale’, descritti da Harker come dall’«aspetto assai pittoresco, ma poco rassicurante. Sul palcoscenico potrebbero assai bene rappresentare qualche antica banda orientale di briganti. Sono però, mi si dice, del tutto innocui e mancano di qualunque autorità»5.

Il saggio di Mario Coglitore, da un punto di vista della forma, rifiuta, in modo originale, le tradizionali suddivisioni in «prologo, primo, secondo, terzo capitolo e conclusioni» sostituendo ad esse delle partizioni derivate dalla musica: abbiamo quindi una «Ouverture», tre «movimenti» e un «Finale». Dopo una lucida disamina introduttiva del concetto di «viaggio coloniale» da un punto di vista sociale, letterario, politico ed economico («Ouverture»), l’analisi si focalizza sulla figura di un funzionario coloniale, Roger Casement («Primo movimento (adagio)»), sulla figura di uno scrittore, Emilio Salgari («Secondo movimento (allegro)») e, infine, sull’importanza che la ferrovia (oltre che la nave) ha giocato nel viaggio coloniale («Terzo movimento (presto)»). Funzionario coloniale britannico e esploratore di origine irlandese, Casement partecipò a diversi viaggi in Africa, soprattutto in Congo. Dapprima fedele all’ideologia colonialista, successivamente, deciderà di prendere le parti degli indigeni difendendone i diritti e pagando con la vita questa sua scelta. Verrà infatti condannato all’impiccagione nel 1916 per alto tradimento, dopo aver cercato il sostegno della Germania contro la Gran Bretagna in favore dell’indipendentismo irlandese. Casement è l’autore del Congo Report, «un vivido documento di denuncia delle atrocità commesse dai belgi nei confronti degli indigeni con la complicità di altre nazioni europee: massacri, mutilazioni, criminale sottrazione di risorse per salvaguardare il commercio della gomma e promuoverne l’espansione nel mercato mondiale». Nel saggio di Coglitore non mancano certo puntuali rimandi alla letteratura: in uno di essi lo studioso ricorda che «l’anno precedente al viaggio di Casement, Joseph Conrad aveva pubblicato in volume Heart of Darkness, ambientato nel Congo belga, dove lo scrittore inglese era rimasto per sei mesi nel 1890; destinato a diventare un classico della letteratura, il romanzo di Conrad aveva denunciato i crimini perpetrati ai danni delle popolazioni locali più di un decennio prima. Nel 1904 il Rapporto sul Congo venne reso pubblico». Nonostante Casement si sia battuto senza tregua per difendere i diritti delle popolazioni indigene, «sarebbe rimasto per l’intera esistenza fermamente convinto della superiorità europea», segno che è veramente difficile, per un europeo, liberarsi della sua mentalità di carattere «orientalista».

Di una mentalità di questo tipo sono imbevuti anche i romanzi di Emilio Salgari (affrontati nel «secondo movimento» del volume), nati non da esperienze dirette dell’autore ma forgiati dall’immaginazione «sfogliando atlanti ed enciclopedie». Come osserva Coglitore, «le fonti di cui si serve Salgari sono già di per se stesse vettore di “orientalismo”, appartengono all’universo culturale degli occidentali e possiedono, in una densità linguistica strutturalmente “bianca”, le locuzioni della subalternità degli “altri da sé” che popolano le colonie, mondi totalmente inconoscibili se non a partire dalla necessità della conquista e, nel migliore dei casi, del riscatto che, quasi fosse un dono, viene offerto al non europeo dalle mille sfumature di nero». Le stesse stanze in cui vive Sandokan in Le tigri di Mompracem sono «colme di ogni specie di suppellettili e ornamenti, le “cineserie” per le quali impazzivano gli europei, che lo avvicinano più a un ricco possidente della metropoli che a un reietto». Le opere di Salgari sono il frutto di una fantasia liberata capace di creare un immaginario strettamente legato alla dimensione del viaggio in terre lontane e sconosciute. Se l’Oriente dello scrittore veronese è intriso della visione occidentale, è anche vero che la sua penna è stata capace di creare personaggi che resistono e si ribellano all’ingordigia dell’imperialismo: «Considerato autore di puro intrattenimento e sostanzialmente ignorato dalla critica, Salgari descrisse, forse inconsapevole, il colonialismo nei suoi vari aspetti, modellando figure a tutto tondo di veri e propri rivoluzionari: partigiani e guerriglieri che resistevano all’ingordigia dell’imperialismo (il cosiddetto ciclo de I pirati della Malesia ne è l’esempio più classico)».

Parlando di viaggi verso territori orientali, saturi di immaginazione e di mistero, non si può non ricordare che molti di essi avvenivano per mezzo del treno e della ferrovia. Come sottolinea l’autore del saggio, lo stesso Phileas Fogg, protagonista del Giro del mondo in 80 giorni (1873) di Jules Verne, per attraversare il territorio indiano da Ovest a Est, si sarebbe servito di una linea ferroviaria all’epoca famosa, la Great India Peninsular Railway, costruita tra il 1852 e il 1870. Il «terzo movimento» del volume è dedicato appunto alla «ferrovia nel viaggio coloniale». Gli europei, dopo aver colonizzato e assoggettato i paesi africani o orientali, costruivano la strada ferrata (molto più antica della locomotiva) per agevolare i trasporti e le comunicazioni in territori che, in alcuni casi, si presentavano estremamente vasti. Anche la costruzione della ferrovia rientrava quindi in una ‘europeizzazione’ dei paesi conquistati: essa, infatti, appartiene interamente al paesaggio europeo, sia reale che mentale. Fin dal 1855 le ferrovie erano attive in tutti e cinque i continenti: come, in modo suggestivo, scrive l’autore, «un pianeta in movimento venne intessuto di ragnatele di metallo che inventarono nuove geografie economiche, promossero scambi culturali e politici, favorirono commistioni tra abitudini, costumi, mentalità». La ferrovia e il treno a vapore divengono gli emblemi della modernità e della Rivoluzione Industriale; non si dimentichi, del resto, che il ‘razionalista’ inglese Jonathan Harker, per recarsi dal conte Dracula, viaggia in treno, utilizzando, così, il mezzo moderno per eccellenza. Non è un caso che il vampiro, esponente invece di un’arcaica alterità, per muovere il suo attacco a Londra, cuore economico dell’imperialismo, si imbarchi di nascosto su un mezzo più antico come la nave a vela, molto più lenta delle navi a vapore che pure in quello stesso periodo solcavano i mari.

Discutendo di ferrovia nel viaggio coloniale, l’analisi di Coglitore si concentra principalmente sulla costruzione della linea Congo-Oceano, realizzata fra il 1921 e il 1934, definita come «una delle opere d’ingegneria più letali della storia coloniale». I lavoratori vennero reclutati fra le tribù indigene, costretti a turni di lavoro massacranti e senza le più elementari condizioni igieniche (nei cantieri, la mortalità raggiunse molto probabilmente il tasso del 57 %). In questo genere di imprese, infatti, «si assiste a una reificazione degli indigeni, ridotti a puri e semplici automi, oggetto di brutalità indescrivibili». Essi venivano trattati come esseri viventi di infima categoria e – si potrebbe aggiungere – soggetti a un vero e proprio processo di “zombificazione”.

L’analisi portata avanti da Coglitore in modo lucido e disincantato appare intrisa di un habitus narrativo che tiene avvinghiato il lettore al racconto di viaggi che mettono in contatto culture diverse, le amalgamano, le apparentano, le incrociano, le contaminano. I viaggi “riterritorializzano”, quando il viaggiatore si stabilisce nella nuova terra. E allora, «in quelle comunità turbate da arrivi improvvisi, e indesiderati, ritroviamo spesso i nuclei di transizioni e di mutamenti storici». Ma si tratta pur sempre di viaggi coloniali e le riflessioni conclusive, in fin dei conti, sono amare perché «perfino quando gli eserciti si ritirano il colonialismo resta un destino», «una condizione esistenziale così profondamente imposta da essere ritenuta imprescindibile». Come scrive lo studioso, «l’Occhio dell’Impero sembra immortale». E, si potrebbe aggiungere, sembra continuare a sussistere ancora oggi, nelle stragi di migranti nel Mediterraneo che avvengono sotto gli occhi indifferenti dei paesi ricchi, nelle delocalizzazioni del capitalismo occidentale nei paesi più poveri, nel lavoro che spesso diventa schiavitù, nelle mille prevaricazioni quotidiane nei confronti dell'”altro da sé”. Nessun Sandokan e nessun pirata della Malesia riuscirà a scalfire tale «condizione esistenziale» che sembra non finire; ci riuscirà, forse, un nuovo immaginario libero e liberato che faccia a pezzi queste strutture di pensiero surrettiziamente sopravvissute fino ad oggi.


  1. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano, 2002, p. 32. 

  2. Ibid. 

  3. J. Conrad, I grandi romanzi e i racconti, Newton Compton, Roma, 2013, p. 1615. 

  4. L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, trad. it. Corbaccio, Milano, 2010, p. 141. 

  5. B. Stoker, Dracula, in B. Stoker, J. S. Le Fanu, J. W. Polidori, Vampiri. Dracula, Carmilla, Il vampiro, Skira, Milano, 2018, p. 11. 

]]>
Guerrevisioni. Corpi, droni e kamikaze nelle guerre contemporanee https://www.carmillaonline.com/2018/09/23/guerrevisioni-corpi-droni-e-kamikaze-nelle-guerre-contemporanee/ Sat, 22 Sep 2018 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48021 di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi [...]]]> di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi rispettivamente al controllo del corpo nei conflitti contemporanei e al confronto tra il ricorso ai droni occidentale e ai kamikaze da parte mediorientale nelle guerre recenti, pubblicati sul volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla].

Barbara Grespi, nel saggio “Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei”, si sofferma sulla rilevanza etica, ideologica e culturale del rapporto tra corpo e guerre e sul suo trattamento iconico nella contemporaneità. La studiosa mette in luce come nei conflitti contemporanei sembrano confrontarsi una politica occidentale tendente alla rimozione del corpo e una politica mediorientale votata invece alla sua esposizione. Se da un lato i bombardamenti occidentali effettuati con i droni determinano una «fantasmatizzazione del pilota, che attacca da un altrove radicale» e una «cancellazione del corpo del nemico bombardato, ridotto a puro disturbo visivo a malapena registrato dalle riprese a bassa definizione» (p. 343), dall’altro il nemico mediorientale sembra fare del corpo del combattente il centro delle proprie tattiche di guerra soprattutto attraverso il corpo-bomba del kamikaze e la decapitazione di alcuni prigionieri da parte dell’Isis. A tal proposito, la documentazione filmata e diffusa in internet «costituisce non soltanto la cruda esibizione del corpo del nemico ucciso, ma anche l’autorappresentazione di un Sé radicalmente altro, che alla “civile” soppressione dell’avversario, senza contatto fisico e di conseguenza senza una netta auto-percezione della propria responsabilità, contrappone la presa in carico dell’atavico gesto del boia. Con questa politica, il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo; la riemersione di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca, è forse la più interessante spia di questa impasse, nonché del grande bisogno, soprattutto statunitense, di circoscrivere la differenza culturale all’interno del proprio sistema di pensiero» (p. 344).

Grespi pone l’accento su come la minaccia di subire un attacco da parte dei kamikaze determini in Occidente l’ossessione del riconoscimento preventivo mentre, inversamente, per gli attentatori suicidi il problema diviene quello di non farsi individuare. Di fronte al rischio di attentati l’obiettivo dei servizi di sicurezza occidentali è pertanto quello di riconoscere preventivamente e a tal proposito nel 2007 il Dipartimento di Sicurezza Interna degli Stati Uniti ha dato il via al “Project Hostile Intent” al fine di formare agenti per migliorare le loro «capacità di interpretare i corpi, rilevando tutti quegli elementi comportamentali, gestuali e vocali che rendono un viaggiatore sospetto e meritevole di ulteriori, più aggressive indagini antiterroristiche» (p. 345). Alle tecniche di osservazione sul campo si sono aggiunti sofisticati sussidi tecnologici denominati “Future Attribute Screening Technology” con lo scopo di monitorare la temperatura basale, il movimento oculare e il battito cardiaco. I dati raccolti da tali tecnologie vengono poi trasmessi agli agenti della “Transportation Security Administration”, sottosezione dei “Behaviour Detection Officers”: «a loro spetta l’incarico di osservare i passeggeri, inquadrandone il comportamento e producendo un calcolo del “coefficiente di pericolosità” di ogni individuo, ovvero della probabilità che egli nutra intenzioni criminose» (p. 346). Tale coefficiente si basa sostanzialmente sul riconoscimento delle emozioni secondo un modello proposto dallo psicologo statunitense Paul Ekman, l’ideatore del “Facial Action Coding System”, consistente in una misurazione obiettiva dei micromovimenti facciali che dovrebbe poi essere convertita in un codice informatico destinato alla produzione di “tecnologie sensibili alle emozioni”. Al momento il supporto informatico si limita alla rilevazione delle espressioni involontarie del volto, mentre è all’abilità umana degli agenti che spetta il compito di interpretare tali espressioni riconoscendo i segni di stress corrispondenti alla paura di essere scoperti, i sintomi della menzogna ecc.

Nei tentativi di prevenire i crimini e di riconoscere i segni del volto che rivelano affermazioni menzognere è facile intravedere rispettivamente le ossessioni che abitano Minority Report – il film di Steven Spielberg, liberamente tratto dall’omonimo racconto di Philip K. Dick, è uscito nel 2002 in pieno “clima 11 settembre” –, e quelle caratterizzanti la popolare serie televisiva Lie to Me (Fox 2009-2011), che non a caso vanta la supervisione scientifica dello stesso Ekman. Per certi versi la serie tv sembra rispondere alle critiche mosse all’applicazione del metodo dello psicologo statunitense negli aeroporti, con un opera di divulgazione del suo metodo di lettura del volto – in cui si mescolano semiotica, fisiognomica, neurologia e scienza naturale delle passioni –, ricorrendo ad un’operazione di mitizzazione e certificazione attuata attraverso la fiction e un testimonial-divo (Tim Roth).

In realtà gli agenti addetti al riconoscimento dei potenziali terroristi più che all’analisi accurata del volto fanno riferimento agli aspetti gestuali degli individui: sintomi fisici, formule emotive, sottocodici simbolici, marcature somatiche (!) ecc. Risulta comunque difficile pensare che a una frontiera tutti questi aspetti del fenomeno gestuale possano essere valutati congiuntamente e in tempi stretti ai fini dell’individuazione di un possibile terrorista; «è evidente che fra la rilevazione di un eccessivo stress sospetto e l’interpretazione univoca di formule emotive, soprattutto fra una cultura e l’altra, il passo è lungo» (p. 350).

Sull’onda del convincimento che il corpo non mente mai e che sia pertanto possibile individuare un potenziale terrorista dalla sua gestualità, si sono diffuse sul mercato editoriale americano deliranti pubblicazioni di psicologia spicciola come Body Language of Terrorists (2015), testo scritto da «un’esperta di comunicazione e body language – consulente forense, trainer di personaggi pubblici e attori, nonché autrice di bestseller internazionali, quali Te lo leggo nel pensiero o Come eliminare i rompiballe e vivere felici – e un ex agente dell’Fbi» (p. 352). Tale libro presenta una catalogazione empirica della gestualità del terrorista che, seppur priva di qualsiasi base scientifica, merita di essere considerata per la sua sintomaticità socio-culturale. «Infatti, la spiccata finalità pratica del volume – che si offre al comune cittadino come un manuale salvavita che può aiutarlo a presagire la minaccia terroristica, e come un promemoria dei suoi doveri civili – produce un pensiero totalmente governato dall’ansia dell’Alterità e capace di proiettare un’ombra oscura sulle attuali scienze e pratiche di controllo dei corpi» (pp. 351-352). Nel libro viene prospettata una delirante classificazione del terrorista in alcune varianti identitarie derivate dalla diversa combinazione delle sue principali emozioni: ansia, paura, arroganza, rabbia. Si propongono così classificazioni che tendono ad applicare, non di rado invertendone il significato, caratteristiche ritenute proprie alla cultura occidentale a culture diverse. Ad esempio, quando nel corpo dell’Altro vengono individuati gesti che nella cultura occidentale denoterebbero orgoglio ed eroismo, si invita a leggervi un’intenzione aggressiva.

«Nel contemporaneo sistema di controllo dei corpi, [la] dimensione immaginaria del gesto – associata a un’idea di corpo come medium che elabora immagini e le trasmette con un proprio linguaggio e una propria forma di memoria – viene totalmente rimossa. Nei luoghi di transito, infatti, ci si sforza di omologare la rilevazione del gesto alle altre misurazioni corporee effettuate. La stessa osservazione in video degli stili di comportamento, al di là del fatto che risponde alla filosofia bellica occidentale dell’operare a distanza, viene sperimentata come tecnica di oggettivazione attraverso la tecnologia: registrato da una videocamera, il gesto diventa più facilmente prova, assomiglia di più alle rilevazioni dei molti sensori che completano l’attività di sorveglianza degli agenti, e che proprio perché non contengono variabili “umane” sono considerati attendibili, “gender, culture and age-neutral”» (pp. 355-356).

I dati puramente fisiologici rilevati dai sensori (movimenti oculari, battito cardiaco ecc.) attribuiscono una misura matematica ai gesti denotanti ansia rilevati dagli agenti. Ci si basa pertanto, sottolinea Grespi, «su un’idea di corpo antica, che riesuma la fiducia nella sua trasparenza, nella sua capacità di riflettere all’esterno il proprio interno, manifestando in superficie i segni di ciò che nel profondo lo muove. Body Language of Terrorism traduce questo implicito in un assioma ricorrente: “the body doesn’t lie”, presentato come distillato di esperienza, ma in realtà frutto di un ben noto modello di pensiero, quello attraverso cui la fisiognomica si congiunge alla criminologia ottocentesca» (p. 356).

L’immaginario distopico di un film come Gattaca – La porta dell’universo (1997) di Andrew Niccol, ha ipotizzando un futuro votato alla crescente indexicalità, precisione e infedeltà iconica del dato identificativo. Nel film si prospetta una società futura che ricorre all’identificazione attraverso l’impronta delle dita su un sensore in grado di forare la pelle e analizzare il sangue controllando il Dna. Per superare i controlli che danno accesso a un’agenzia riservata a una élite genetica, il protagonista del film ricorre a campioni di sangue altrui facendo attenzione a rimuovere al contempo le proprie tracce biologiche senza preoccuparsi eccessivamente del diverso aspetto del volto, visto che per accertare l’identità in quella società non si presta più tanta attenzione all’immagine. Se lo scenario distopico prospettato dal film è in linea con lo sviluppo del sistema di identificazione indexicale affermatosi a fine Ottocento, la “guerra al terrore”, sostiene Guerri, sembra invece «far ritorno all’iconicità e all’affanno numerico. In particolare la mano che lascia tracce aniconiche ridiventa la mano che gesticola, che produce forme riconoscibili o che contiene indici metrici» (p. 360).

L’analisi della gestualità introdotta nella lotta al terrorismo mediorientale sembra prescindere totalmente dalle differenze culturali che in alcuni casi danno significati diversi ai medesimi gesti e, soprattutto, non tiene conto di come, a maggior ragione in una dimensione globalizzata come l’attuale, il significato da attribuire ai gesti muti costantemente attraverso processi di appropriazione e riappropriazione simbolica, così come non si cura del fatto che le violenze del controllo alterano, e non in maniera univoca, le modalità con gli individui reagiscono. Insomma, negli aeroporti americani si è in balia dell’arbitrio di guardie che, dopo un grottesco corso di formazione, si prodigano nell’arte dell’interpretazione del corpo dell’Altro applicando su di esso formule semplicistiche e stereotipate con pretese di scientificità.

Maurizio Guerri, nel saggio “Il drone e il kamikaze. Due immagini della guerra contemporanea”, analizza il drone occidentale e il suicida mediorientale come figure caratterizzanti i conflitti del nuovo millennio. «Il suicida compie la propria missione di morte e distruzione contro civili o militari – senza alcun obiettivo specifico se non quello di suscitare terrore – annientando se stesso mentre compie il proprio attacco con una violenza pari a quella che infligge ai propri nemici. Nella maggior parte dei casi i nemici sono obiettivi fortuiti e astratti, mentre concreto è il loro ferimento o la loro morte […] L’altra immagine è quella del drone, una macchina volante dotata di occhi elettronici per muoversi e per lanciare ordigni il cui volo è gestito da un uomo a distanza di sicurezza dalle operazioni; l’aeromobile opera sul cielo del territorio nemico con l’obiettivo di eliminare i propri targets una volta che essi siano stati localizzati attraverso diversi sistemi che si concretizzano in un’immagine sullo schermo» (p. 365).

Se l’immagine del gesto dell’attentatore suicida genera orrore tra gli occidentali, la conduzione della guerra attraverso i droni è percepita dagli stessi, almeno a livello diffuso, come una pratica decisamente più umana rispetto all’azione del kamikaze e alle pratiche di guerra tradizionali: il ricorso ai droni consente infatti di preservare vite sul fronte amico. Ben diversa è la percezione sul fronte opposto, tra le popolazioni civili mediorientali spesso colpite da quelli che vengono ipocritamente definiti dalla retorica occidentale “effetti collaterali” della guerra a distanza.

Nell’opinione pubblica occidentale si è fatta strada una logica che schematizza così lo scontro in atto: «da un lato la radice [della violenza mediorientale] sarebbe da ricondurre all’adesione dei terroristi a versioni “radicali” dell’Islam, dall’altra parte i paesi occidentali con tutta la loro eredità in termini di libertà, laicità, illuminismo conducono le loro guerre in modo violento, per lo più all’interno delle convenzioni del diritto internazionale e in nome della democrazia» (p. 366). Insomma, si sarebbe di fronte ad uno “scontro di civiltà” tra il sistema democratico capitalista, con il suo modo “civile” di condurre la guerra, e il mondo islamico-terrorista, con le sue modalità barbare e crudeli di partecipazione al conflitto. Secondo Guerri, in realtà, non si è affatto in presenza di uno “scontro di civiltà”, quanto piuttosto a due diversi modi condurre la guerra, probabilmente si tratta di «due pieghe dello stesso tipo di conduzione del conflitto […] all’interno del pianeta globalizzato che è dominato e unificato da un sistema economico capitalistico» (p. 367). Il drone e il kamikaze non rappresenterebbero tanto i simboli di due differenti civiltà che si scontrano, quanto piuttosto «due figure in cui si condensano due modi del conflitto all’interno dello stesso sistema economico che mettono in discussione l’idea stessa di guerra così come è stata condotta dalle origini fino alla fine della Guerra fredda» (p. 367).

Al fine di ricostruire un passaggio della genealogia delle figure del kamikaze e del drone, lo studioso riprende alcune riflessioni degli anni Trenta di Ernst Jünger (Sul dolore, 1934) e di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) in cui queste due tipologie sono state prese in considerazione.

Nel suo scritto Jünger prende spunto dalla notizia di un siluro messo a punto dalla marina militare giapponese guidato da un essere umano che alloggia su di esso all’interno di una piccola cabina: un pilota al contempo “arto tecnico” e “vera intelligenza del proiettile”. Una “costruzione organica” in cui l’essere umano rappresenta se stesso e utilizza il suo corpo come parte integrante «del sistema tecnico-lavorativo di cui anche la guerra è divenuta parte» (p. 369). Jünger osserva anche che la civiltà occidentale dall’Ottocento in avanti è dominata «dall’impulso a rimuovere il rapporto diretto del soggetto con la vita, come perdita di esperienza, come volontà di “rimuovere il dolore e di separarlo dalla vita”. I diversi settori della scienza e della tecnica possono essere concepiti nel loro complesso come dominati da una tendenza a stabilire la rimozione del dolore e a impiantare una condizione di “comfort” in ogni ambito della vita» (p. 369).

Con la riduzione della vita a mera funzione del sistema economico-lavorativo, l’esistenza dell’essere umano si inserirebbe «all’interno del sistema del lavoro, fino a diventare – come nell’esempio citato del proiettile umano – un “arto” dello strumento o la sua “intelligenza”» (p. 371). Secondo Jünger l’uomo proiettile rappresenta «una figura in cui si esprime il massimo sacrificio dell’uomo contemporaneo nel porsi al servizio del sistema tecnolavorativo» (p. 371). Guerri sottolinea come in Jünger l’uomo proiettile venga visto come figura pienamente in linea con la logica novecentesca che impone all’individuo di sacrificarsi al sistema tecnolo-lavorativo. «La figura di colui che sacrifica la propria vita in una operazione bellica appartiene alla fenomenologia della conduzione dello scontro violento nell’epoca del dispiegamento del lavoro su scala planetaria e in esso possiamo leggere il tipo di rapporto che il sistema del lavoro istituisce con il singolo» (pp. 372-373).

Se da un lato nel proiettile umano Jünger individua «il massimo assorbimento possibile dell’uomo nel sistema della tecnica», dall’altro, però, nella figura di chi è pronto ad un sacrificio tanto estremo individua anche una possibile nuova forma di libertà e ciò risulta meglio comprensibile prendendo in considerazione le sue riflessioni a proposito di un romanzo di Joseph Conrad – probabilmente Agente segreto (1907) –, ove individua nell’anarchico russo di cui si narra la figura dialettica e complementare a quella dell’uomo proiettile giapponese. Il rivoluzionario del romanzo di Conrad, nel portare al seguito una bomba al fine di tenersi pronto a farsi esplodere nel caso di arresto, porta per certi versi agli estremi l’idea di libertà individuale. «Le immagini dell’uomo-proiettile e dell’anarchico russo sono figure sovrapponibili e allo stesso tempo in tensione dialettica. Da un lato l’uomo-proiettile si caratterizza per un sacrificio definitivo al sistema della tecnica e del lavoro, che si traduce in un totale assorbimento al suo interno, fino all’essere sacrificabile per scopi militari; dall’altro l’anarchico russo sembra invece il rovesciamento dell’uomo-proiettile: nella misura in cui l’oggettivazione conduce a una estraneazione da sé, a una capacità del soggetto di guardare alla propria esistenza corporea come a un “avamposto” in grado di condurre alla conquista di qualcosa di più alto, l’anarchico russo appare come una figura allegorica della rivolta e della libertà nella tecnica» (p. 374).

All’estremo sacrificio al sistema tecnico-lavorativo del pilota giapponese si contrappone il sacrificio per la libertà dell’esistenza dell’individuo dell’anarchico russo. «Il kamikaze con il suo sacrificio costituisce l’inserimento totale del singolo al sistema lavorativo declinato sul piano bellico, l’anarchico russo è colui che si sacrifica in nome della irriducibilità della propria singolarità al piano tecnolavorativo planetario […] Nella forma del kamikaze o dell’anarchico Jünger afferma che la dimensione del sacrificio massimo dell’individuo sia essenziale per comprendere la relazione dell’uomo contemporaneo con il sistema planetario in cui è situato» (p. 375).

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica notoriamente Benjamin sostiene che tutte le tecniche umane, compresa l’arte della guerra, «sono dominate da una tensione dialettica i cui poli sono individuabili nel “sacrificio” (“prima tecnica”, aura, cultualità) e nel “gioco” (“seconda tecnica”, riproducibilità, esponibilità). L’attività su cui si fonda la “prima tecnica” è il sacrificio umano sia in senso religioso […], sia in senso tecnico- artistico […], o su un piano bellico come virtù del sacrificio eroico in battaglia. Al polo opposto di questa tensione dialettica, Benjamin pone la “seconda tecnica”, quell’elemento che in ogni attività tecnico-artistica non ha nulla a che fare con il lavoro, anzi la emancipa da esso» (pp. 376-377). Il filosofo tedesco, dopo aver letto negli anni Trenta di esperimenti inglesi volti a realizzare aerei comandati a distanza da utilizzare come obiettivi durante le esercitazioni, pensa all’immagine degli aerei teleguidabili in grado di fare a meno dell’equipaggio come ad un’allegoria di un’esperienza ludica (seconda tecnica) contrapposta al sacrificio produttivo-lavorativo (prima tecnica). Sostenendo che le due tecniche, seppure in misura variabile, sono ravvisabili in ogni attività umana, è nei “nuovi media” dell’epoca che Benjamin individua la possibilità di ampliare la sfera d’azione della seconda: così come «gli aerei teleguidabili alludono alla possibilità di movimento e di osservazione libera dal sacrificio del lavoro alla scoperta di un “inconscio spaziale”, così la fotografia e il cinema alludono a un ambito estetico in cui il sacrificio e il lavoro abbiano ceduto spazio al gioco, intraprendendo un viaggio nell’“inconscio ottico”» (p. 378). Nel filosofo lo sguardo fotocinematografico diventa così «allegoria di un mondo che l’uomo ha la possibilità di costruire in base alla propria capacità estetico-immaginativa, libera per la prima volta dal riferimento passivo a un essere o a un ordine di valori che preesiste rispetto all’attività dell’uomo stesso». (p. 382). Chiaramente, è bene ricordarlo, in Benjamin affinché si possa dispiegare la dimensione emancipativa della seconda tecnica occorre passare attraverso un processo rivoluzionario che metta fine alla schiavitù del lavoro.

L’uomo-proiettile a cui fa riferimento Jünger e l’immagine dell’aereo senza pilota di cui parla Benjamin, secondo Guerri, indicano ancora oggi «i limiti dello spazio al contempo estetico e politico in cui ci muoviamo» (p. 388). Drone e kamikaze sembrano allora davvero immagini speculari del modo di condurre la guerra ai nostri giorni. «Il drone è l’arma massimamente “auratica” in quanto colui che conduce l’attacco è assente dal luogo in cui l’attacco stesso è condotto. […] Viceversa il kamikaze è la concretizzazione dell’identità tra corpo e arma, l’inclusione dell’arma nel corpo che esclude la salvezza di colui che conduce un attacco» (p. 388). Sviluppando i ragionamenti di Jünger e di Benjamin, le figure del drone e del kamikaze che conosciamo ai giorni nostri appaiono come le due facce della medesima logica del sacrificio interna ai conflitti che si danno in un mondo dominato dal capitalismo. «Il kamikaze si sacrifica attingendo a una disciplina che viene posta al servizio della tecnica distruttiva delle armi contemporanee, finendo per dissolversi con l’ordigno che porta con sé. Nel caso del drone, invece, siamo in presenza del sacrificio che è tutto spostato sugli obiettivi nemici attraverso la messa a distanza tecnica dello Uav [Unmanned aerial vehicle]. L’etica dell’autosacrificio e quella dell’autopreservazione appaiono così come le modalità attraverso cui si dispiega una violenza bellica che si svolge da un lato con gli attentati suicidi, dall’altro con gli attentati fantasma» (p. 389).


Serie Guerrevisioni

]]>
Pagine di indolenza e di rifiuto del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/10/31/41194/ Mon, 30 Oct 2017 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41194 di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati [...]]]> di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati a tornare» (p. 176).

Federico Bellini nel suo saggio analizza pagine di resistenza all’egemonia dell’azione scritte da autori come Herman Melville (Bartleby, 1853), Joseph Conrad (The Nigger of the “Narcissus”, 1897) e Samuel Beckett (Murphy, 1938). Ad accomunare i personaggi attorno ai quali i tre grandi scrittori costruiscono le loro opere – Bartleby, James Wait e Murphy – è, seppure in modalità differenti, il non lavoro. Il mite impiegato Bartleby di cui racconta Melville inizia improvvisamente a rifiutarsi di assolvere alle mansioni d’ufficio: di punto in bianco “preferirei di no” diviene la sua risposta automatica alle richieste che gli vengono fatte. Il marinaio James Wait, originario delle Indie Occidentali, di cui ci racconta Conrad, è reso pigro dalla malattia che lo condurrà alla morte prima di sbarcare dopo un lungo viaggio in cui l’intera ciurma si prodiga per sostenerlo. Il giovane perdigiorno Murphy di origini irlandesi che vive nel sud ovest londinese narrato da Beckett, è alle prese con una serie di nevrosi che gli impediscono l’azione e lo isolano dal resto della società. Attraverso tali personaggi letterari che si rifiutano di lavorare i tre scrittori riescono a dare corpo a uno sguardo alternativo sulla loro epoca, su quella fetta di modernità, che grossomodo copre la seconda metà dell’Ottocento, costruita sull’egemonia dell’azione, del fare e del trasformare.

Scrive Giovanna Borradori nella Prefazione del volume che intrecciando l’analisi dei personaggi creati dai tre grandi scrittori, La saggezza dei pigri invita il lettore a «immaginare tre distinte possibilità di quello che potrebbe succedere se ci lasciassimo alle spalle l’ansia di plasmare il nostro circostante, per usarlo e trasformarlo» (p. 14). Bellini «ci fa scoprire […] come il livello simbolico che innerva e accomuna le narrazioni di Melville, Conrad e Beckett catapulti ciascuno dei loro eroi fuori dal solco della modernità: ovvero fuori dallo spazio in cui l’umano, attraverso quell’azione orientata alla produzione che è il lavoro, non solo stabilisce la propria funzionalità sociale ed economica, ma afferma il proprio senso della vita» (p. 14). Dunque, Borradori invita a leggere La saggezza dei pigri «a partire da una riflessione su almeno tre domande chiave dell’orizzonte neoliberalista che ci forza a interrogarci sul senso del fare anche al di là del lavoro, almeno come l’abbiamo concepito a partire dalle rivoluzioni industriali che hanno contraddistinto la modernità: in che senso l’essere umano è capitalizzabile? Che cosa sta dietro all’incessante esortazione di investire su noi stessi? E da ultimo, è possibile disinvestire nel capitale umano, soprattutto quando si tratta del proprio? » (p. 17). In effetti, a ben guardare, le pagine passate in rassegna da Bellini sembrano esplorare «un aspetto importante della condizione contemporanea della precarietà, che è il non-lavoro» (p. 17).

Seppure, per dirla con le parole di Marcel Mauss, il lavoro è il «fatto sociale totale» della civiltà moderna occidentale, l’idea di lavoro ed il suo statuto, ricorda Bellini, sono variati nel corso della storia. Ricostruendo sommariamente le tappe principali di tali trasformazioni, l’autore riprende quanto sostenuto da Dominique Méda (Le travail: une valeur en voie de desparition?, 2010) circa il far coincidere l’inizio del concetto moderno di lavoro con la pubblicazione nel 1776 di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations di Adam Smith, in cui il lavoro viene pensato come astratto e come unità di misura del valore economico. Al secolo successivo spetta il compito di elevare il lavoro a valore etico rendendolo criterio di giudizio dell’umanità dell’uomo. In Georg Wilhelm Friedrich Hegel il lavoro viene inteso come processo attraverso cui l’essere umano si appropria della natura e realizza la propria essenza. «Lavoro, Arbeit, diventa allora il nome dell’attività dello Spirito stesso, il processo attraverso il quale esso si esplica nel reale e nella storia. Il lavoro trapassa dunque dall’essere unità di misura del valore a essere valore in sé, forma essenziale e generica di sviluppo della coscienza» (p. 20).

Successivamente Karl Marx riporta il lavoro al piano concreto della struttura economica del suo tempo. «Così facendo Marx distingue l’essenza del lavoro come essa si configurava nel pensiero hegeliano […] dallo stato reale del lavoro come si offriva storicamente. La conformazione del lavoro sotto il dominio del capitale conduce infatti agli occhi di Marx a uno stato antitetico rispetto a quello del lavoro considerato secondo la propria verità: al posto di consegnare all’uomo la sua essenza esso gliela nasconde. Nello spazio che si apre fra l’essere e il dover essere del lavoro si colloca la dimensione dell’azione politica cui Marx affida la possibilità di condurre il lavoro verso la propria essenza. Così facendo, anche nella critica alle forme storiche e concrete del lavoro, diventa ancora più cogente l’identificazione che si afferma fra lavoro ed essenza dell’uomo» (pp. 20-21). Michel Foucaut spiega invece come la concezione moderna della malattia mentale sia legata all’etica del lavoro dalle sue origini. Nel corso dell’Ottocento il lavoro finisce per identificarsi con la normalità, dunque con la salute, tanto che esso diventa la cura privilegiata di parecchie malattie. Dunque, «il lavoro nel corso dell’Ottocento viene a identificarsi anche come più alto valore morale, principio antropologico, garante della norma sociale e della salute individuale e fonte di ispirazione estetica» (p. 23).

A fianco di tutto ciò, tuttavia, scrive Bellini, si sviluppa un’altra storia che vede nel lavoro un valore negativo. «Come l’etimo della parola esprime in tutte le principali lingue indoeuropee una dimensione di fatica e sofferenza, così i miti sulla sua origine – dalla cacciata dal Paradiso Terrestre ai vari racconti dell’Età dell’Oro – mostrano il lavoro come una caduta da un primitivo e perduto stato di beatitudine» (p. 23). Si tratta di una lettura negativa del lavoro radicata e diffusa quanto quella positiva e, anche in questo caso, si tratta di un’ostilità storicamente variabile; al variare delle forme, del ruolo e del senso del lavoro, variano altrettanto le forme e i significati del suo rifiuto. «La passività di Diogene il cinico non coincide con l’otium della latinità classica; l’isolamento dell’eremita medievale non ha molto da spartire con il ritiro finalizzato allo studio del De Vita Solitaria del Petrarca; i malinconici rinascimentali hanno poco in comune con i flâneurs che passeggiano per la Parigi “capitale del XIX secolo”» (p. 23).

Se la storia dell’affermazione del lavoro come valore egemonico della cultura occidentale ha una qualche unità, sottolinea Bellini, le voci letterarie, artistiche e filosofiche che hanno reagito ad esso risultano frammentate e disparate. «Diverse e anche opposte intenzioni possono infatti supportare il rifiuto del lavoro: la rivendicazione di privilegi aristocratici, l’edonismo individualistico romantico, l’esaltazione utopica della tecnologia come liberatrice dell’umanità dalla fatica, la nostalgia per la società preindustriale compongono una varietà che non si lascia includere sotto un solo indice o in un’unica genealogia» (pp. 23-24).

Il “diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue è ben altra cosa rispetto, ad esempio, dall’esaltazione del rien faire del dandismo; se nel primo caso si auspica un proletariato emancipato dalla logica borghese capitalista nell’indirizzarsi al rifiuto e non al “diritto al lavoro”, nel secondo caso il rifiuto del lavoro ha a che fare con «un altezzoso atteggiamento individualista e nichilista, alieno alle dinamiche di classe e privo di ogni rivendicazione progressista» (p. 24). Altrettanto diverse sono le argomentazioni espresse da Giuseppe Rensi (L’irrazionale. Il lavoro. L’amore, 1923) volte a «dimostrare l’impossibilità di superare il lavoro sebbene “in una vita degna del nome di umana […] non c’è tempo e posto per esso”» da quelle espresse, ad esempio, da Guy Debord e Raoul Vaneigem che si scagliano contro il lavoro considerandolo «un valore borghese e funereo». Se nel caso di Rensi non vi è traccia di un possibile superamento del lavoro, ciò è invece centrale nel «discorso dei situazionisti, i quali ritenevano che una volta liberatisi dalla perversione del lavoro, “l’inversione della creatività”, si sarebbe infine prodotta la rivoluzione che avrebbe condotto la créativité au pouvoir» (p. 25).

Da parte nostra ricordiamo come sull’onda della conflittualità di classe dispiegatasi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento si siano sviluppate modalità di rifiuto del lavoro a partire dal suo esplicito e strategico alludere al diritto all’ozio, derivanti dal riconoscersi della forza-lavoro come variabile indipendente dalla logica del profitto e dai meccanismi del mercato capitalistico. In quella lunga stagione conflittuale il proletariato ha saputo collocarsi ed esprimersi in opposizione al capitale esercitando un ruolo attivo e autonomo nello scontro di classe nella consapevolezza che il conflitto andava giocato attorno al lavoro, sul terreno dei rapporti sociali di produzione e riproduzione.

Il lavoro è il fine stesso (ed è il fine a se stesso) del capitale: lavoro, dunque, in quanto lavoro astratto, valore e capitale, come imposizione illimitata di lavoro e lotta contro di essa […] In quanto lavoro astratto, in quanto lavoro senza qualità e limiti, l’imposizione capitalistica di lavoro abbraccia una dimensione sincronica ed una diacronica. Nel primo caso si parla di valorizzazione del capitale, movimento senza limiti intrinseci della triade denaro-merci-più denaro e, quindi, accumulazione del proletariato ed espansione del rapporto di classe. Nel secondo caso si parla di lavoro che tende a sussumere tutti gli aspetti della vita, sia di quella produttiva che di quella riproduttiva. È chiaro che queste dimensioni prendono forma con caratteri determinati, come risultato di strategie capitalistiche particolari […] L’antagonismo può esprimersi, dunque, sia fra i salariati che fra i non salariati, fra i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche high-tech del Nord, come fra quelli/e dei sweatshops delle zone di esportazione del Sud, fra le lavoratrici della riproduzione della forza-lavoro in un milione di condizioni lavorative diverse, nella fabbrica globale della forza-lavoro, così come fra gli indios od i contadini del Sud del mondo, forzati alla miseria per la produzione di prodotti per l’esportazione, ecc. Checché se ne dica, il lavoro in quanto lavoro capitalistico nelle sue molteplici forme è oggi tutt’altro che marginale. Esso è invece centrale al ciclo complessivo del capitale. Il problema teorico e politico non è tanto quello di optare per una delle due ipotesi sinora delineatesi in merito ad una presunzione di attuale centralità di uno specifico comparto di classe, l’operaio-massa dell’operaismo italiano degli anni ’60 od il lavoratore immateriale degli anni ’90 […] il problema è quello della pluralità dei soggetti antagonistici, è quello della loro reciprocità, all’interno della scala gerarchica sociale, e della/e forma/e della loro generale ricomposizione politica. Lo scontro di classe si gioca a livello mondiale ed investe tutti i rami del lavoro di produzione di merci e di riproduzione della forza-lavoro («Vis-à-vis», n. 1, 1993).

In tale impostazione la categoria del lavoro risulta pertanto centrale nella comprensione del capitalismo e nella formulazione di ipotesi di suo superamento ed è in tale contesto che deve essere intesa quella particolare stagione di rifiuto del lavoro diffuso che ha indubbiamente sue peculiarità che la differenziano da altri rifiuti del lavoro.

Detto di quanto il concetto di lavoro e il suo rifiuto siano storicamente variabili, venendo al campo letterario le rappresentazioni della negazione del lavoro risultano sicuramente assai variegate. «Tuttavia, al fine di proporre una tipologia a maglia larga all’interno della quale tracciare il territorio d’indagine, si può muovere da una generica definizione del lavoro per poi, negandola, definire il suo opposto. Il lavoro, nel senso più generico, è costituito da “ogni attività, manuale o spirituale, con cui l’uomo produce un risultato utile” e quindi dall’instaurarsi di una relazione fra un soggetto e una parte di realtà – fisica o meno – che viene, per mezzo di questa relazione, trasformata. Tale trasformazione, affinché sia prodotto di lavoro e non di un semplice sforzo (come quello compiuto giocando o facendo sport), deve venire riconosciuta dal soggetto stesso e dalla comunità come il frutto della volontà di accrescere di valore il segmento di realtà coinvolto» (pp. 27-28).

A partire da tali presupposti basilari, sostiene Bellini, si possono individuare tre elementi in gioco: «una realtà che viene trasformata; una soggettività cosciente che vi interviene; un’altra soggettività collettiva che riconosce la trasformazione. Nel lavoro il soggetto si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso il reale su cui interviene e verso la collettività alla quale richiede il riconoscimento dell’attività medesima. Ridotto a questi minimi termini, il lavoro si dimostra simile al linguaggio: il luogo in cui l’individuo è messo in relazione contemporaneamente con il mondo e con gli altri uomini per mezzo di segni che attivano una relazione triplice fra realtà, società e soggetto. A ciascuno di questi aspetti corrisponde una funzione della significazione: quella di indicare il mondo e gli oggetti che lo costituiscono; quella di sviluppare un’interazione con gli altri soggetti; quella di permettere al soggetto di esprimersi. Ugualmente il lavoro articola l’esistenza del singolo da un lato in rapporto con il mondo che viene modificato, da un altro in rapporto alla società cui prende parte e in ultimo con se stesso. Eliminando a turno gli elementi che compongono il lavoro sarà ora possibile ottenere una tipologia del non-lavoro» (p. 28).

Interrompendo la relazione con il mondo sociale si ha un soggetto che vuole e può agire sul mondo ma che rifiuta di mettere il proprio sforzo al servizio della società. In tal caso il conflitto si esercita nei confronti della realtà sociale come nel caso dello sciopero. Se ad interrompersi è il lato del mondo condiviso, allora viene meno la necessità di intervenire sulla realtà e si entra in un modello di non lavoro proprio di una supposta “Età dell’Oro” ove si vive senza necessità di faticare. Quando invece è il soggetto a sottrarsi dalla relazione col mondo e la società, continua Bellini, «questo rimane come sospeso al di sopra dei flussi delle forze sociali e materiali» (p. 29). Ed è proprio di questa modalità che si occupa La saggezza dei pigri, dunque di «forme di rifiuto del lavoro che hanno la loro origine non in una protesta nei confronti della società o in una negazione del bisogno di trasformare la realtà, ma nel gesto di un soggetto che si sottrae a entrambe queste dimensioni» (p. 29).

Bartleby di Melville, Il Negro del “Narciso” di Conrad e Murphy di Beckett ruotano attorno a figure che, seppure in modi diversi, rifiutano il lavoro in un momento storico ben preciso, il secondo Ottocento, in cui «come reazione all’affermarsi del lavoro come valore e alle trasformazioni prodotte dalla seconda rivoluzione industriale, le rappresentazioni letterarie di rifiuto del lavoro si moltiplicano e assumono un ruolo sempre più importante e non più limitato a esempio morale negativo o macchietta comica». Ed allora Bartleby di Melville diviene lo specchio di quel mondo caratterizzato dalle grandi e repentine trasformazioni che conducono all’inurbamento e al diffondersi del lavoro burocratico impiegatizio, trasformazioni che «catalizzano l’evoluzione di un ethos nel quale si combinano laboriosità e parsimonia con un atteggiamento di compiaciuto sentimentalismo caritatevole» (p. 30). Nell’opera di Conrad, invece, si ritrovano «le ansie di un’epoca nella quale le rivendicazioni dei lavoratori, l’affermarsi di stili di vita considerati decadenti e i primi segni della crisi del discorso imperialista producono da un lato il vagheggiamento per un ipotetico passato in cui la società era unita nella comunione del lavoro, dall’altro il tentativo di rilanciare per una nuova epoca l’etica vittoriana» (p. 30). In Murphy di Beckett si rintraccia «la moderna scissione della soggettività, lacerata fra un’ingiunzione alla socialità e alla produttività e l’attrazione per gli abissi dell’interiorità» (p. 30). Le tre opere prese in esame da Bellini presentano al contempo «un punto di vista radicalmente individuale e la testimonianza dell’esperienza di un’epoca che, in certa misura, è la nostra» (p. 32).

Questi personaggi non lavoratori si pongono nei confronti della loro epoca come figure enigmatiche irriducibili all’ordine della grande macchina produttiva, come “oggetti inutilizzabili”, per dirla heideggerianamente, e soltanto l’abilità dei grandi scrittori permette di costruire una narrazione ruotante attorno all’inerzia dei personaggi ma, sottolinea lo studioso, occorre anche il contributo del lettore a cui è richiesto un lavoro di interpretazione, tanto che si potrebbe dire che la fatica evitata dal protagonista dell’opera finisce per essere addossata al lettore.

Le figure del rifiuto del lavoro si contrappongono alla moderna visione del mondo per la quale il lavoro, o in senso più essenziale l’azione […], è alla radice del senso dell’esistenza. Contro tale visione esse presentano realtà umane ricondotte per mezzo della negazione dell’agire alla loro dimensione minimale, al loro grado zero […] Lo stato elementare che si annuncia nella passività del non lavoratore è una riduzione della soggettività moderna ai suoi minimi termini, in cui contemporaneamente si manifesta la forma essenziale di tale soggetto e un’istanza di resistenza a esso. Allontanandosi dal lavoro si crea una distanza da cui valutarlo e questo arretrare non è un’opposizione, ma l’apertura di uno spazio di possibilità, di un diverso modo di relazionarsi col mondo. Nel non lavoratore emerge una dimensione primitiva dell’essere umano che è la sua dimensione infantile, nella quale si coniugano strettamente l’essere “in potenza” e l’essere “im-potenza”, la più ampia possibilità e la più radicale fragilità: a partire da questo nodo paradossale si può valutare in che senso i nostri eroi realizzino il loro essere “soggetti rotti” (p. 167).

Con la passività di Bartleby saltano le certezze in favore di una “logica della preferenza” che si presenta come apertura a un indistinto possibile e che finisce col rovesciarsi in una statica impossibilità. «Così, il non preferire di Bartleby, puro conato di una possibilità che mai si realizza, si rovescia e finisce per coincidere con il suo contrario, con la possibilità consumata, col tentativo fallito, con l’occasione sprecata» (p. 168).
In Murphy il «silenzio della potenzialità corrisponde al rinchiudersi nello spazio autistico e mortifero dell’impossibilità, dell’incapacità, dell’inattività del corpo morto» (p. 168). In Wait «è l’impotenza esibita del marinaio la fonte del suo potere di seduzione nei confronti del resto della ciurma e il catalizzatore delle potenzialità di rivolta e messa in discussione dei rapporti di potere. Allo stesso tempo, questa esibizione di impotenza viene attratta in un doppio meccanismo di simulazione, di finzione della simulazione o di finzione al quadrato, nel quale la potenzialità inganna se stessa in un gioco di specchi» (pp. 168-169).
Pertanto, alle diverse modalità con cui questi personaggi del non lavoro «attraversano la dimensione del possibile, dunque – la logica della preferenza di Bartleby, la chiusura nel piccolo mondo di Murphy, la finzione al quadrato di Wait – corrispondono tre modi del suo decadere in impotenza: l’irrigidimento minerale, la dispersione magmatica, la dissoluzione in simulacri» (p. 169).

Dalle rappresentazioni di individui caratterizzati dal calo o dalla perdita delle loro funzionalità sembra emergere una dimensione dell’umano solitamente repressa nella cultura moderna «fondata sull’utilizzabilità e sull’utile», sulla «razionalità funzionale». Questi esseri umani non lavoratori, non funzionali, finiscono per essere trascinati all’interno di quel magma di oggetti dismessi nella letteratura moderna di cui si è occupato Francesco Orlando (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura: Rovine, reliquie, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, 1993).

Se questo represso “antifunzionale” viene a galla attraverso l’infittirsi di riferimenti alle molteplici forme del decadimento e del disuso nella letteratura, altrettanto potrà dirsi delle rappresentazioni del non lavoro. Il non lavoratore infatti assorbe e soggettivizza quanto nell’oggetto desueto si dà in forma oggettiva e oggettuale; il gesto con il quale schiva il lavoro rende non funzionale tutto quanto lo circonda, spogliando ogni cosa del suo essere mezzo in vista di un fine e considerandola, per tornare al gergo heideggeriano, nella sua “semplice-presenza”. Lasciando così che gli oggetti si svuotino della loro funzionalità e si perdano in un’universale decrepitezza, il rifiuto del lavoro trascina fra essi il soggetto, che rinuncia a ravvivarli con la propria attività: è quindi il non lavoratore stesso che si configura come “oggetto desueto”, uomo che ha cessato di servire la grande macchina del lavoro e della sua ideologia (pp. 169-170).

Bellini si sofferma anche sul rapporto tra scrittura e non lavoro a partire dalle possibili analogie tra le modalità con cui gli scrittori si specchiano nei loro personaggi e la tendenza romantica di cui parla Jean Starobinski (Portrait de l’artiste en saltimbanque, 2004) di vedere l’artista come un saltimbanco. Seguendo la linea tracciata da Georges Bataille, che vuole lo scrivere come opposto del lavorare, emergerebbe fra scrittori e non lavoratori «un’affinità profonda, una solidarietà radicale, che consiste in uno stesso modo di venerare e celebrare la vita in ciò che ha di più umile e prezioso, nel suo esporsi come esistenza nuda al di fuori di ogni produzione e produttività» (p. 189).

]]>
“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

__________________

Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

]]>