Jonathan Nolan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fallout: dallo schermo allo schermo. https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/fallout-dallo-schermo-allo-schermo/ Mon, 22 Jul 2024 22:01:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83291 di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più [...]]]> di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più originali e spigliate declinazioni di un immaginario SF ormai sedimentato nelle nostre menti e accettato come tale, humus visionario indifferenziato: una serie di ritagli pot-pourri, frammenti patchwork non riconducibili a nessun autore in particolare e a tutti contemporaneamente – un po’ Dick, un po’ Ballard, un po’ Asimov, o Bradbury, o Heinlein, per dire – fette di inconscio globalizzato, già messo in scena migliaia di volte sulle playstation delle universali moltitudini desideranti, da Abu Dabi a Los Angeles, da Singapore a Sidney. Una scommessa molto più sicura! E le moltitudini oggi desiderano l’Apocalisse: o forse, apotropaicamente, la evocano per esorcizzarla, come in un rituale medievale di fine millennio, perché sanno che è maledettamente vicina.

Così, se The Last of Us, la serie di Mazin e Druckmann, profilava la sua escatologia apocalittica lungo un copione già scritto e molto preciso, con personaggi e situazioni già dati, Fallout, show targato Prime Video e basato sul franchise creato da Black Isle e Tim Cain, realizzato da Interplay e in seguito passato nelle mani di Bethesda, può permettersi invece un margine di invenzione e innovazione, rispetto al videogioco, assai più vasto: scenario e atmosfera sono quelle del preciso universo videoludico – un’estetica retrofuturista che attinge tanto ai B-Movie postapocalittici degli anni ’60, quanto alla saga di Mad Max e allo Spaghetti Western – ma la storia è quasi inedita ed i personaggi diversi.

La serie TV di Prime Video è infatti ambientata nel 2296, esattamente a 9 anni di distanza dalle vicende raccontate in Fallout 4 che è l’episodio cronologicamente posteriore nel videogioco di Bethesda, i cui capitoli sono disposti in ordine temporale consequenziale, lasciando agli spin-off la possibilità di esplorare periodi antecedenti o alternativi: una consecutio temporum, che potrebbe rendere la versione TV del gioco il prototipo di una sorta di Fallout 5, possibile espansione del gioco, derivata questa volta, se venisse realizzata in futuro per consolle, dal prodotto filmato. Un effetto speculare che conferisce piena autonomia creativa a Jonathan Nolan e Graham Wagner, rispettivamente produttore e sceneggiatore del progetto, che pare siano entrambi videogiocatori affezionati alle varie generazioni di Fallout dal 1997 al 2015.

Jonathan Nolan, il fratello meno noto del Cristopher Nolan fresco di Oscar, già autore di una serie che non ho amato affatto e la cui visione ho interrotto piuttosto presto, Westworld, in compagnia della stessa sceneggiatrice Lisa Joy e della showrunner Geneva Robertson-Dworet (quella di Captain Marvel), sono gli autori di quest’inedita riscrittura di Fallout – Nolan è anche regista della puntata pilota –  cui conferiscono la struttura di un road movie corale ambientato nella California distopica del 2296 devastata dalla guerra nucleare. A differenza della troppo seriosa Westworld, Fallout si muove invece sul registro, molto più efficace, dell’umorismo nero, spaziando tra il comico, il cupo, e il grottesco, con abbondanza di sequenze estremamente splatter (un gusto che molto ricorda lo stile irriverente di The Boys) corredate, con evidente intento provocatorio, da una colonna sonora composta di classici musicali orecchiabili e briosi compresi tra gli anni ‘30 e i ’60, ad esempio, What a Difference A Day Made, It’s Just a Matter of Time, I’m Tickled Pink, I Don’t Want to See Tomorrow, We Three (My Echo, My Shadow and Me), titoli che acquistano, come nel videogioco, una risonanza del tutto particolare considerato il contesto. L’estetica anni ’50 dei flashback pre-bomba o quella vintage che caratterizza i Vault sotterranei nel presente diegetico, rendono memorabile la scenografia della serie, così come i set in esterno del panorama lunare e desertico di superficie, girati in location reali in Namibia e sulle montagne dello Utah.

Su questo scenario già noto ai gamers si muovono i nuovi protagonisti: Lucy (Ella Purnell, già vista in Yellowjackets), giovane nata e cresciuta nel Vault 33, una delle strutture antiatomiche apparentemente concepite per salvare una parte dell’umanità, che dopo un lavaggio del cervello durato vent’anni nelle strutture falsamente idilliache e protette della Vault-Tec, è costretta ad avventurarsi in superficie nella Zona Contaminata, alla ricerca del padre rapito (Kyle MacLachlan, attore iconico di David Lynch, protagonista di Dune, Blue Velvet e agente speciale Dale Cooper in Twin Peaks); Maximus (Aaron Moten), aspirante scudiero membro della Confraternita d’Acciaio, la setta militare di cavalieri meccanizzati ben nota ai videogiocatori, il personaggio probabilmente più stucchevole e meno riuscito; e il Ghoul cacciatore di taglie (Walton Goggins, già noto per Justified, o The Righteous Gemstones), ex attore in Western scadenti ad Hollywood, precedentemente noto come Cooper Howard, assai ben caratterizzato nell’audio in lingua originale dall’interpretazione in dialetto texano da vero cowboy. I ghoul, si situano da qualche parte nel continuum tra umani e zombie, in base al tempo passato dalla loro contaminazione e di quante medicine sono riusciti a rimediare: a Cooper Howard non è andata troppo male, perché è ancora vivo dopo due secoli, anno più, anno meno. Infatti il Ghoul è sopravvissuto alla guerra e al bombardamento atomico del 2077 che ha generato il mondo post-apocalittico, e proprio intorno alla sua esistenza pre e post-atomica si focalizzano i momenti narrativi forse più significativi e provocatori della serie: il mondo del 2077 è ancora alle prese con una prolungata Guerra Fredda caratterizzata da due diverse sfere d’influenza, una rappresentata dagli U.S.A. e l’altra dal blocco comunista dell’ancora esistente Unione Sovietica e dalla Cina. L’America, dal canto suo, è ancora immersa nella cultura e nell’estetica degli anni ’50 del ‘900, con le star di Hollywood impegnate a sponsorizzare le varie iniziative di propaganda anticomunista del governo. Come sanno bene tutti gli appassionati del gioco, l’apocalisse nucleare che ha cambiato per sempre le sorti del mondo di Fallout ha avuto inizio con una guerra tra U.S.A. e Cina, i cui governi si sono reciprocamente accusati di aver lanciato per primi l’attacco atomico. Il finale di stagione della serie Tv propone però una nuova prospettiva sugli eventi che hanno portato il mondo al collasso. Dietro il disastro, potrebbero infatti esserci le macchinazioni della Vault-Tec, società che ha prosperato con la progettazione e la vendita dei rifugi antiatomici. Un’eventualità suggerita dalla sequenza che vede Howard Cooper ascoltare i discorsi dei dirigenti della Vault-Tec, che auspicano una guerra nucleare come la più grande opportunità commerciale della storia: accrescerebbe la domanda di rifugi antiatomici, dei quali hanno ottenuto dal governo il monopolio. Un barlume quindi anche di vaga polemica politica, in una trama votata soprattutto ad un puro, per quanto cinico e perfido, divertissement.

Negli otto episodi che compongono questa prima stagione di Fallout, della durata di un’ora l’uno circa, la trama si dipana soprattutto intorno a questi tre personaggi, le cui vicende si vanno a intrecciare fino a un epilogo che incarna appieno l’atmosfera della serie in equilibrio fra comicità dissacrante (irresistibilmente sboccata e volgare, alla The Boys, come dicevamo) e drammaticità cupa e aggrottata. Fallout non delude neppure dal punto di vista tecnico e registico, essendo in grado di riprendere esattamente sia la palette cromatica tipica del gioco per quanto riguarda le ambientazioni, che i costumi indossati dai protagonisti e dalle bizzarre creature umane o meno che abitano la Zona Contaminata. Solo una licenza degli sceneggiatori ha disturbato alcuni fanatici appassionati del gioco. La città di Shady Sands, capitale della New California Republic (NCR), è considerata un punto fermo di tutti i capitoli del videogioco. Nella serie invece apprendiamo che Shady Sands è stata bombardata nel 2277, proprio dallo stesso Hank MacLean, il padre di Lucy, quando questa era solo una bambina. Al luogo è inoltre legato il personaggio di Maximus, che ha perso la famiglia nel bombardamento. Questa decisione di fissare la distruzione di Shady Sands nel 2277 della timeline ha scatenato un vero e proprio dibattito sulla legittimità della scelta, dal momento che sarebbe in contraddizione con gli eventi descritti in Fallout: New Vegas, ambientato nel 2281. Insomma ermeneutica e filologia non disertano nemmeno il canone dei videogame.

 

 

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In che accidenti di mondo siamo? https://www.carmillaonline.com/2023/12/10/in-che-accidenti-di-mondo-siamo/ Sun, 10 Dec 2023 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80093 di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael [...]]]> di Gioacchino Toni

“Have you ever questioned the nature of your reality?” (Westworld)

Del volume di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Carocci, 2022), che attraverso l’immaginario fantascientifico incentrato sull’ibridazione umano/macchina affronta i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica di una contemporaneità sempre più automatizzata, ci si è già occupati su Carmilla. Di seguito ci si limiterà pertanto a riprendere alcune riflessioni proposte dall’autrice nel confrontare la serie televisiva Westworld prodotta nel nuovo millennio con l’omonima opera cinematografica dei primi anni Settanta di Michael Crichton utili non solo a evidenziare le mutate modalità con cui attraverso il filtro distopico si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici e all’emergere della questione della “coscienza artificiale”, ma anche a prendere atto delle nuove forme di sfruttamento introdotte dall’universo digitalizzato contemporaneo.

Dopo essersi soffermata sul perturbante confronto tra l’essere umano e la macchina antropomorfa, sul rapporto tra identità/alterità che ne deriva e sul problema della coscienza a partire da alcuni celebri interrogatori o colloqui psicoanalitici proposti dalla fantascienza – dalle indagini del robopicologo di Mirror Image (1972) di Isaac Asimov, alla misurazione dell’empatia del test Voight-Kampff in Do Androids Dream of Electric Sheep (1968) di Philip K. Dick, poi ripreso dal film Blade Runner (1982) di Ridley Scott, fino al dialogo tra due cyborg ibridazioni umano-tecnologiche di Ghost in the Shell, media franchise sviluppatosi a partire dal celebre manga di Masamune Shirow (dal 1989) – Emanuela Piga Bruni propone un interessante confronto tra il film Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton e la serie televisiva da esso derivata Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld, dal 2016) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy per HBO suggerendo importanti riflessioni sul contesto contemporaneo ipertecnologico votato alla disincarnazione dell’umano e alla trasformazione del suo immaginario e della sua coscienza.

Un contesto, quello contemporaneo, in cui pur persistendo il fascino per l’avanzata digitale nonostante il palesarsi della deriva a cui questa sta conducendo in termini di controllo e sfruttamento, cresce anche il timore per la perdita del controllo sulle tecnologie da parte degli esseri umani indotti a domandarsi con preoccupazione se i computer potranno mai avere una coscienza simile a quella umana evitando però di chiedersi quanto quest’ultima si stia nel frattempo “computerizzando” per effetto delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dell’Intelligenza Artificiale al servizio del capitalismo della sorveglianza e predittivo.

Alcune narrazioni distopiche hanno saputo proporre riflessioni sull’incidenza delle tecnologie sugli esseri umani e su come questi ultimi si stiano trasformando. Se il romanzo di fine anni Sessanta Do Androids Dream of Electric Sheep di Dick si concentra sulle strutture oppressive del potere in un periodo incentrato sul medium televisivo, nel film dei primi anni Ottanta Blade Runner di Scott è invece l’universo informatico nella forma antropomorfa del replicante a conquistare la scena.

Confrontando l’androide del romanzo con il replicante del film si nota come del primo Dick eviti di dare una descrizione tecnologica, tratteggiandolo quasi come una figura magica, mentre il secondo venga utilizzato da Scott per mettere in scena non tanto una guerra tra esseri umani e macchine sfuggite al controllo, quanto piuttosto un tragico confronto tra macchine sempre più intelligenti e intuitive che sembrano dotarsi di coscienza ed esseri umani che stanno perdendo le loro peculiarità.

Se nel romanzo sono gli androidi a mancare di empatia, nel film sono piuttosto gli umani a mostrarsi deficitari in tal senso. Nell’opera di Scott il discrimine tra umano e macchina si sposta sulla presenza o meno di un passato, su quanto i ricordi siano derivati da esperienze vissute o impiantati artificialmente. Evidenziando il processo di artificializzazione del corpo umano, il film, rispetto al romanzo, insiste sulla sempre più difficile distinguibilità tra naturale e artificiale, tra organico e tecnologico.

Nell’opera di Dick l’artificiale assume un ruolo negativo in quanto simboleggia la realtà sintetica creata dai media e dalla farmacologia che ha condotto alla perdita di qualità tipicamente umane come l’empatia, l’amore e l’ironia: lo scrittore invita dunque a cogliere nell’artificiale la manipolazione della realtà operata dal potere.

Si può dire che a marcare una differenza sostanziale tra gli androidi di Dick e i replicanti di Scott è il fatto che mentre i primi vengono considerati demoni perché mancano di un’anima, i secondi si presentano come vittime del demone umano che sembra ormai aver smarrito la propria.

La questione della macchina antropomimetica è affrontata da Dick in un paio di suoi racconti nei primi anni Cinquanta: Second Variety e Impostor pubblicati su riviste di fantascienza nell’estate del 1953 (rispettivamente su “Space Science Fiction” e “Astounding Science Fiction”). Se nel primo il dover distinguere chi è umano da chi non lo è induce il lettore a immedesimarsi con il protagonista umano certo di essere tale, nel secondo caso chi legge è invece portato a identificarsi con chi, sospettato di essere artificiale, sente minacciata la propria identità di essere umano.

La questione della macchina antropomimetica si viene a intrecciare con il motivo del “cogito androide” ripreso da Dick sul finire degli anni Sessanta tanto nel citato Do Androids Dream of Electric Sheep? quanto nel racconto The Electric Ant (1969) in cui non ci si chiede più se si è realmente umani o soltanto programmati come tali, ma ci si domanda come possa reagire un robot organico che si crede umano nel momento in cui viene a conoscenza della sua vera natura. La questione del cogito androide, centrale nel film di Scott, viene affrontata direttamente da Dick nei suoi scritti The Android and the Human (1972) e Man, Android and Machine (1976).

Anche dal confronto tra il film Westworld di Crichton e l’adattamento che ne ha derivato l’omonima serie televisiva creata da Jonathan Nolan e Linda Joy proposto da Emanuela Piga Bruni – che si concentra esclusivamente sulla prima stagione –, permette di evidenziare come siano cambiate le modalità con cui si guarda al rapporto tra gli umani e gli esseri tecnologici antropomimetici, con tanto di emergere della “coscienza artificiale”.

Lo scenario è quello di un parco divertimenti a tema con diverse ambientazioni – antica Roma imperiale, medioevo fiabesco e western di fine Ottocento – di proprietà della corporation Delos Inc. in cui operano robot antropomorfi indistinguibili dagli esseri umani programmati per soddisfare i desideri dei facoltosi visitatori sotto la discreta sorveglianza di operatori umani da una sala di controllo.

Ai clienti è permesso tutto ciò è invece loro proibito nella vita quotidiana in quanto ogni loro comportamento è rivolto contro esseri non umani imprigionati nella coazione a ripetere programmata, impossibilitati a ribellarsi mettendo in pericolo i visitatori. Un guasto nei robot induce uno di loro, il gunslinger “dal cappello nero” – che ha le sembianze dell’attore Yul Brynner, tra i protagonisti del celebre western I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges – a prendere violentemente di mira uno dei clienti, Peter Martin (Richjard Benjamin), arrivato nel parco insieme all’amico John Blane (James Brolin), dai diversi tratti compartimentali.

Nella serie televisiva i due amici diventano Logan (Ben Barnes), individuo senza scrupoli desideroso di sfogare i suoi peggiori istinti sui personaggi antropomorfi, e William (Jimmi Simpson), che da un iniziale ritrosia a commettere atti violenti si trasforma nel corso delle sue ripetute partecipazioni al gioco facendo pian piano emergere la parte più oscura di sé mentre tenta di risolvere il “mistero del labirinto” e di scoprire il dietro le quinte del parco.

Centrale nella serie è il personaggio di Dolores, prototipo degli host realizzati da Robert Ford (Anthony Hopkins) e dall’ormai deceduto, rispetto al presente narrativo, Arnold Weber (Jeffrey Wright), incline a essere solidale alle proprie “creature”.

Piga Bruni sottolinea come sul piano metanarrativo il testo televisivo non manchi di rinviare alla produzione e al funzionamento tipici della serialità generando un meccanismo di mise en abîme. Il controllo si presenta come un sistema a livelli concentrici con al centro i loops degli host, dunque le gesta dei clienti, i tecnici della corporation e, al livello più esterno, chi osserva la serie televisiva da casa. Ogni anello permette l’osservazione degli anelli che contiene.

Sia le attrazioni che i visitatori vivono nell’illusione di avere una scelta, mentre sono spiati e utilizzati per il profitto. Pur con livelli diversi di consapevolezza e margine d’azione, entrambe le categorie agiscono ritenendo di poter scegliere, di essere responsabili delle proprie azioni, ma le loro scelte sono predeterminate dal ridotto novero di possibilità offerte a monte. È una riflessione che possiamo estendere al cerchio esterno di noi spettatori, seguendo un percorso ricorsivo che attraversa mondi che sono via via reali uno all’altro1.

In tali tipi di narrazioni distopiche la figura dell’androide si presta facilmente a fungere da «allegoria di tutti i (s)oggetti sfruttati» imponendo una riflessione sui risvolti etici e sul ruolo della tecnologia nella nostra contemporaneità.

Se gli esseri antropomimetici del film di Crichton degli anni Settanta venivano presentati come macchine elettromeccaniche rivestite da sembianze umane, gli host della serie televisiva del nuovo millennio mostrano di essere costruiti con ossa, carne e sangue, del tutto simili agli umani ben oltre le sembianze superficiali. L’evoluzione non riguarda solo i corpi di questi esseri artificiali ma tocca anche la dimensione della coscienza e delle emozioni.

A differenziare gli esseri antropomimetici proposti della serie televisiva rispetto da quelli del film è la presenza di qualche manifestazione di coscienza. A palesare la dimensione puramente macchinica dei robot di Crichton, suggerisce la studiosa, sono le immagini in soggettiva del pistolero pixelate e scarsamente definite; scelta stilistica volta a sottolineare che si tratta di una ribellione contro gli umani del tutto inconsapevole, priva di una benché minima autodeterminazione, derivata semplicemente da un malfunzionamento tecnologico.

Come sottolinea Piga Bruni, la presenza di un barlume di coscienza negli esseri artificiali della serie televisiva è individuabile, ad esempio, nello sguardo di Maeve quando, per l’ennesima volta, dopo essere stata uccisa al termine del gioco, viene ritirata dai tecnici per essere rimessa in funzione per poi venire nuovamente destinata a soddisfare i clienti. A differenza della visione pixelata del pistolero del film, «la prospettiva di Maeve è nettamente situata, ed esprimere pienamente la dimensione creaturale di una donna ferita, il suo stupore misto a terrore, la percezione di essere in un incubo ancora più inquietante quando, agonizzante ma cosciente, vede il personale del parco incaricato del ritiro»2.

Le modifiche inserite dai creatori nel codice sorgente degli esseri antropomimetici volte a permettere uno sviluppo autonomo della cognizione di sé – come le reveries, le ricordanze – conducono all’emersione di una “coscienza artificiale” e alla definizione di un “inconscio artificiale” immanente, segnando il passaggio verso l’elaborazione di una loro “coscienza collettiva”, «una coscienza di classe volta a intraprendere azioni per riscattare le oppressioni, le torture e lo sfruttamento. Appare allora evidente l’allegoria per cui la condizione delle macchine antropomorfe nella finzione narrativa sia quella concreta degli esseri umani contemporanei, a un tempo merce del capitalismo digitale e fonte della materia prima nell’era del capitalismo della sorveglianza»3. Insomma, negli esseri antropomimetici oppressi di Westworld dovremmo riconoscerci noi esseri umani del nuovo millennio.

Nella serie, la ribellione degli host creati da Robert Ford – che non manca di evocare, sottolinea Piga Bruni, tanto il legislatore di Brave New World (1931) di Aldous Huxley, quanto il sistema fordista – posseduti dalla corporation Delos Inc. e utilizzati da questa nel suo prodotto/servizio di intrattenimento, non deriva da un malfunzionamento tecnico come nel film «ma è un frutto di un percorso di riconquista di sé, di riappropriazione delle proprie memorie ed esperienze, di autodeterminazione, che viene messo in atto da esseri senzienti dotati di percezioni e capaci di provare emozioni»4.

“Il mito della produzione a tutti i costi”, nella rappresentazione di Westworld, è un sistema pervasivo che controlla il ragionamento degli host, cancella i ricordi delle violenze da essi subite e ne dirige i comportamenti. Il controllo delle menti avviene poi anche attraverso alcune pratiche pseudoipnotiche attraverso le quali è possibile orientare direttamente il comportamento dei singoli soggetti: il codice sorgente caricato nel cervello degli androidi contiene evidentemente alcune subroutine che si attivano al riconoscimento della voce e dei gesti di chi detiene il potere5.

Il meccanismo dispotico si estende nella trama nascosta e illecita volta a sfruttare i visitatori dei quali interessa il “surplus comportamentale”. Insomma, il parco a tema si mostra un grande sistema totalitario in cui gli androidi sono mercificati e sorvegliati dalla corporation e i visitatori umani «sono materia prima per il parco in quanto macchina produttiva totalizzante»6. Tutto ciò si estende anche ai telespettatori.

In riferimento più immediato è alla sfera dei social network, gli spazi virtuali in cui i soggetti si muovono dimenticandone la natura mercantile, in cui agiscono senza curarsi di essere osservati e registrati. La spazialità del parco è un fenomeno sociale (delle relazioni tra umani, androidi e il panopticon), così come lo sono gli spazi digitali privati nei quali immettiamo immagini, spostamenti, ricordi, riflessioni e legami affettivi: la materia prima che le grandi corporation che li possiedono conservano in archivi remoti e analizzano in modo da acquisire competenze sulle nostre vite singolari più di quanto non possiamo noi stessi7.

Per Dolores il labirinto di cui prova a venire a capo diviene metafora del proprio sé profondo che conduce alla presa di coscienza di una condizione di essere sovradeterminato e sfruttato abitante un mondo fittizio creato da altri. «Origine o fulcro della presa di coscienza individuale, la scoperta la spinge a trascendere la fisionomia remissiva assegnatale dai creatori – dai “sognatori”, i proprietari del parco – e divenire il villain»8. Dalla complessità labirintica derivano gli interrogativi che si pone Dolores: “Who am I?”, “When am I?”, “Am I in a dream?”.

L’insistito ricorso alla domanda “Have you ever questioned the nature of your reality?” nella serie televisiva ci invita a domandarci “In che accidenti di mondo siamo?”, “Cosa siamo diventati?”. Se i replicanti di Blade Runner e gli host di Westworld, dotati di un briciolo di coscienza, hanno saputo ribellarsi, per quanto sempre meno umani possiamo essere divenuti, forse ci resta ancora qualche possibilità di farlo anche noi. Domandarcelo sarebbe già un importante passo in avanti.

 

 


  1. Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, Carocci, Roma 2022, p. 74. 

  2. Ivi, p. 79. 

  3. Ivi, p. 77. 

  4. Ibidem

  5. Ivi, p. 80. 

  6. Ibidem

  7. Ivi, p. 81. 

  8. Ivi, p. 85. 

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WestWorld: la valle della disrupzione / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/29/westworld-la-valle-della-disrupzione-1/ Wed, 29 Mar 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76466 di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose È la mia scoperta quotidiana (Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza [...]]]> di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose
È la mia scoperta quotidiana
(Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza il film di Crichton. Nemmeno per il “noi o loro” del finale del film del 1973. Il ‘loro’ stava a indicare le machine, gli “hosts”, che si distinguono dal ‘noi’, gli umani, solo per qualche tratto fisico (tanto che, nel film, si consigliava ai nuovi arrivati di osservare le mani dei soggetti per capire se si trattasse di androidi o meno). Nel “WestWorld” di questo secolo la distinzione fisica tra umani e androidi è inesistente. Tuttavia, come nel film, nella serie la garanzia di trovarsi davanti a un umano si palesa esclusivamente nell’impossibilità, per gli hosts, di ucciderlo. Infatti, nel parco le armi non funzionano quando rivolte contro un umano (nella serie, gli hosts non possono puntarle contro gli ospiti umani), rassicurando così i visitatori sul fatto che l’androide non riuscirà mai a ucciderli. Non che l’androide non desideri compiere tale azione, semplicemente egli (esso?) non potrà mai passare all’atto – il che non è una rassicurazione secondaria per gli umani nel parco. Al di là del fatto, non banale, di non perdere la vita in quello che teoricamente è un gioco, questa garanzia serve proprio ad esorcizzare il fantasma della singolarità tecnologica, poiché l’umano potrà sempre imporre la sua superiorità sull’androide inerme. Di conseguenza, seguendo una logica inversa rispetto a quella dell’Etica nicomachea, in WestWorld, quello che caratterizza e trascende l’umano è proprio la sua capacità di uccidere, è proprio la brutalità che è capace di esercitare sui (ormai) suoi simili, sugli androidi che, del resto, per la loro condizione di macchine, saranno sempre soggetti alla violenza umana.

Si potrebbe ipotizzare che è proprio la similitudine morfologica tra hosts e umani che fa della serie WestWorld una grande ‘valle perturbante’1. dove gli individui si trovano sempre sul confine tra l’empatia e la repulsione, ma mai nel mezzo di esse. E questa valle perturbante è proprio il luogo di conquista – proprio come il far west nel nostro immaginario – dell’irrazionale attraverso la totale disinibizione dell’individuo. È la valle dove l’individuo festeggia la sua vittoria irrazionale, festeggia la sua totale disinibizione attraverso un saturnale di violenza sull’oggetto percepito come soggetto; sul corpo reificato che diventa soggetto proprio attraverso l’esercizio della violenza2. Infatti, a differenza del concetto marxista di reificazione (Verdinglichung), che posiziona il fenomeno nella sfera semantica dell’alienazione – e perciò viene a disegnare una distorsione dello scambio organico tra uomo e natura proprio del capitale –, qui la violenza ci ricorda che la reificazione si sviluppa su un piano fenomenologico anche al di fuori di condizioni relazionali determinate dal capitale. In altre parole, la violenza, che secondo Simone Weil presuppone sempre la trasformazione del soggetto in oggetto, finisce per allontanare il fenomeno della reificazione della sfera dell’alienazione per riportarlo alla sua sfera semantica originaria, quella dell’Entfremdung, dello straniamento.

Questo aspetto compare del resto già nell’opera di Georges Bataille il quale, pur condividendo in gran parte la comprensione marxista della reificazione – soprattutto nel riconoscimento della praxis come forza di reificazione3 – ha messo in luce la forza reificante di diverse pratiche rituali. Mi riferisco in particolare alla sua analisi di alcuni riti aztechi, posti dal filosofo in rapporto con la reificazione in contesto industriale4. Attraverso il lavoro di Bataille, allora, emerge come il fenomeno della reificazione non sia un aspetto esclusivo della forza che il valore di scambio (Tauschwerten) esercita sull’essere e come lo stesso fenomeno si manifesti anche al di fuori della relazione capitalista. Questa affermazione diventa ancora più chiara quando negli scritti di Bataille, analizzando lo sperpero (di energie e vite/beni/oggetti sacrificati) nei riti sacrificali aztechi, il filosofo mette in luce il passaggio da soggetto ad oggetto subito dal sacrificato in quanto dono al dio Sole5.

Nella valle perturbante di WestWorld ci troviamo di fronte ad un fenomeno di passaggio analogo, messo in moto proprio dalla violenza irrazionale. Gli hosts, che soggetti non sono – ma che vengono percepiti come tali – finiscono per diventare oggetti a seguito di una trasformazione propiziata dal loro sacrifico, e cioè dalla violenza. Infatti, essere destinatari della violenza irrazionale converte gli hosts in un oggetto. E questo accade benché tutto faccia presupporre – dal loro aspetto, alle loro apparenti facoltà mnemoniche – che precedentemente all’atto violento essi fossero soggetti dotati di libero arbitrio, che esistessero, quindi, perché capaci di esprimere volontà. Oltre a ciò, ad affermare (almeno apparentemente) la condizione di soggetti degli hosts è proprio la percezione che lo spettatore ha di loro. Uno spettatore che, non solo li riconosce come soggetti autonomi, ma che, proprio per via delle violenze e brutalità da loro subite, finisce per umanizzarli a dismisura. Ed è proprio per effetto di questa umanizzazione che, nella serie, soprattutto nella prima stagione, l’empatia può svilupparsi esclusivamente in direzione dell’androide. Ed è ancora per questo motivo che la barbarie degli hosts nei confronti degli umani, messa in atto nella seconda stagione, può essere percepita come una reazione di legittima difesa.

La violenza degli hosts sembra qui una legittima risposta alla carneficina irrazionale e immotivata portata avanti fino a quel punto dagli umani. In ogni caso, mi pare che già all’inizio della seconda stagione, l’empatia dello spettatore sia ormai tutta per loro, per le macchine. Non ce più spazio per un ‘noi o loro’, nemmeno per un ‘noi e loro’. È qui che risiede, a mio avviso, la differenza della serie rispetto alla narrazione originale creata da Michael Crichton negli anni Settanta. Il WestWorld di questo millennio non ci permette di vedere nel West lo scenario di una lotta tra umani e androidi. La conquista qui è di tutt’altra natura.

A differenza del film di Critchton, la trama del WestWorld di questo millennio non si fonda su una netta dicotomia tra umani e macchine. Gli hosts di questo millennio hanno perso completamente l’essenza macchinica – non sono concepiti in base alla parcellizzazione e frammentazione della produzione propria del taylorismo – e sono ormai entità digitali, stampe a tre dimensioni di tessuti organici. Inoltre, il malfunzionamento, il glitch (programmato?) che avvia la rivolta si manifesta chiaramente con l’apparente acquisizione di facoltà mnemoniche da parte degli androidi. Quello che nel film degli anni Settanta sembra una reazione meccanica, un riflesso violento e irrazionale prodotto da un errore elettronico che permette agli androidi di oltrepassare il Rubicone e uccidere un umano, appare nella serie come una reazione violenta articolata e fondata sui ricordi, sui traumi personali che finiscono non solo per costruire l’identità degli hosts, ma che li rende capaci di stabilire relazioni di empatia con gli umani6. Riprendendo la formula di Blade Runner (1982), nella serie si pretende di costruire un essere umano attraverso l’installazione di ricordi. Come ci spiega la mitica scena del film di Ridley Scott, dove appena concluso il Voight-Kampff test effettuato a un replicante ignaro di esserlo, emerge chiaramente la difficoltà di differenziare l’umano dal replicante dotato di ricordi:

Il commercio è il nostro obiettivo, qui alla Tyrell. “Più umano dell’umano” è il nostro motto. Rachel è un esperimento, niente di più. Abbiamo iniziato a riconoscere in loro una strana ossessione. Dopotutto, sono emotivamente inesperti, con pochi anni… In cui immagazzinare le esperienze che voi e io diamo per scontate. Se li dotiamo di un passato, creiamo un cuscino o un guanciale per le loro emozioni. Di conseguenza, possiamo controllarli meglio. 
– Ricordi. Lei parla di ricordi

Sono i ricordi che umanizzano gli hosts proprio perché nel processo di evocazione di un ipotetico passato, nell’evocazione del vissuto, si costruisce l’empatia con lo spettatore. Di conseguenza, come già accennato, la violenza esercitata dagli hosts è percepita come legittima reazione alla barbarie umana. Inoltre, l’atto violento, quando compiuto da un host, viene compreso come espressione di una naturale indeterminatezza dell’androide, il ché si aggiunge a rinforzare l’umanizzazione di queste entità intelligenti. Il risultato è che in questa valle perturbante la sindrome di Frankenstein non si manifesta, e la valle è perturbante proprio perché la repulsione è verso gli umani, autori delle peggiori atrocità. Gli hosts sono, agli occhi dello spettatore, propri simili; gli hosts sono individui completamente familiari a noi, umani. Tuttavia, la loro presenza costruisce un Unheimlich, generato proprio dall’incapacità dello spettatore di riconoscersi nell’umano; in altre parole, l’Unheimlich che si manifesta nella serie risiede nella forza che spinge allo spettatore a vedere nell’umano ‘l’Altro’.

(1continua)


  1. Su questo concetto, vedere Mori M., (1970), The Uncanny Valley, Tr. Eng. K.F. McDorman & T. Minato. Energy, 7:33-35.  

  2. Weil S., (2014), L’Iliade ou le poème de la force, Éclats, Paris.  

  3. Su questo argomenta, vedere Bataille G., (1949), La part maudite, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 62.  

  4. Duarte, G.A., (2015), “La chose maudite”. The concept of reification in George Bataille’s The Accursed Share, in Human and Social Studies De Gruyter, Vol. 4 (1): 91-110.  

  5. Bataille G., (1949), “La part maudite”, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 55.  

  6. A questo proposito, consiglio il testo di Alfredo Rizza, The ‘Death of Neighbour’ Seen in a Black Mirror – (“Be Right Back” on Solaris), dove l’autore analizza, attraverso il concetto di tecnologie fatiche e l’interazione linguistica, la forma in cui la fantascienza ha introdotto nell’imaginario collettivo l’ipotesi di ricreare un soggetto per mezzo di una ricostruzione linguistica dei suoi messaggi, email, discussioni, e conversazioni.  

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