John Dos Passos – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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Il tempo del disincanto https://www.carmillaonline.com/2020/01/22/il-tempo-del-disincanto/ Tue, 21 Jan 2020 23:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57469 di Sandro Moiso

Sandro Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge (1940-1947), Quaderni di pagine marxiste, serie blu V, 2018, pp. 138, euro 7,50

E’ un grande merito l’aver ripubblicato il testo di Sandro Saggioro sugli ultimi anni di vita di Victor Serge, precedentemente edito nella serie dei Quaderni Pietro Tresso (n°57 del 2006), arricchendolo di una introduzione a cura di Graziano Giusti e di un apparato di note decisamente ampliato rispetto a quello dell’edizione originale oltre che di una serie di biografie utilissime per inquadrare meglio le decine di militanti, uomini [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge (1940-1947), Quaderni di pagine marxiste, serie blu V, 2018, pp. 138, euro 7,50

E’ un grande merito l’aver ripubblicato il testo di Sandro Saggioro sugli ultimi anni di vita di Victor Serge, precedentemente edito nella serie dei Quaderni Pietro Tresso (n°57 del 2006), arricchendolo di una introduzione a cura di Graziano Giusti e di un apparato di note decisamente ampliato rispetto a quello dell’edizione originale oltre che di una serie di biografie utilissime per inquadrare meglio le decine di militanti, uomini politici ed intellettuali che compaiono nella ricostruzione delle vicende di quel periodo.
Un testo sintetico, ma importante che fa rivivere, sia allo studioso che al militante delle rivoluzioni a venire, un periodo nevralgico e buio della storia del movimento operaio e dei partiti sedicenti “comunisti” che ne avrebbero dovuto rappresentare l’anima più radicale e rivoluzionaria.

Un periodo in cui la sconfitta, dovuta sia al trionfo della controrivoluzione staliniana in URSS che a quello dei totalitarismi fascisti e nazisti in Italia e Germania, si accompagnava al ritorno sulle scene di un macello interimperialista, nuovamente mondiale, destinato non soltanto a ridisegnare la carta geografica della spartizione imperialista del globo, ma anche quello dei compiti dei rivoluzionari e del movimento politico proletario, confusi tra scontri dottrinari e fisici tra differenti ipotesi politiche e scontri militari di portata devastante in cui il proletariato dei maggiori paesi coinvolti nel secondo conflitto globale fu portato al massacro e costretto a schierarsi in nome della Nazione, dell’Ideologia e di una fasulla concezione della Libertà e della Democrazia.

Un periodo di catastrofi politiche e umane di cui l’opera di Saggioro sa dare conto e da cui è possibile trarre ancora insegnamenti. Non soltanto per la ricostruzione del passato e della mancata affermazione di una rivoluzione comunista a livello internazionale nel corso della prima metà del XX secolo, ma anche per lo scioglimento di alcuni nodi politici del presente.

Saggioro (1949-2015), militante della Sinistra Comunista, stimato medico chirurgo e studioso della storia di quella Sinistra cui apparteneva1 , attraverso la ricostruzione delle peregrinazioni fisiche e intellettuali di Victor Serge durante i suoi ultimi anni di vita, trascorsi in Messico, ha saputo ricostruire un ambiente politico, culturale e di autentica guerra civile interna in cui il movimento comunista internazionale si trovò a dibattersi dopo la catastrofe seguita alle purghe staliniane e ai processi di Mosca della seconda metà degli anni Trenta, alla sconfitta dell’esperienza rivoluzionaria coincisa con la guerra civile spagnola, al tragico accordo tra Hitler e Stalin per la spartizione della Polonia e alla seguente suddivisione del proletariato internazionale secondo linee che nulla avevano più a che fare con gli interessi dello stesso o della rivoluzione.

Victor Serge (il cui vero vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič), militante, intellettuale e scrittore rivoluzionario che dalla sua nascita nel 1890 a Bruxelles, figlio di un militante prima del gruppo Zemlja i Volja e poi di Narodnaja Volja costretto ad emigrare in Belgio per sfuggire alla polizia zarista, portò fin dall’infanzia le stimmate del rivoluzionario perseguitato, imprigionato e costretto ad emigrare vagando attraverso l’Europa, la Russia della rivoluzione e poi dello stalinismo e infine attraversando l’Atlantico per sfuggire, destino che lo accomunò a molti altri, sia al nazismo dopo la caduta della Francia sia allo stalinismo che dava una caccia implacabile in ogni angolo d’Europa e poi anche dell’America ai suoi avversari politici.

Tanto è vero che il travaglio messicano, diciamo così, di Serge inizia proprio nell’anno in cui Lev Trockij è assassinato a Coyoacán dal sicario, addestrtao dalla NKVD, Ramón Mercader. Episodio che costituirà soltanto uno dei tanti anelli di una catena di delitti che contribuiranno a indebolire le file dell’Opposizione di Sinistra, trotzkista e non, e a seminare dubbi e ripensamenti, grazie anche ad un gigantesco sistema di disinformazione e calunnia governato dalla centrale di Mosca, di cui però, alla fine, approfittarono anche gli americani e gli esponenti dei partiti sia totalitari che liberal-democratici europei.

Oggi sembra davvero troppo facile attribuire patenti di tradimento o di eroismo a coloro che, in quei giorni, operarono per salvare almeno un minimo di dignità e continuità, individuale o di piccoli gruppi; in quegli anni catastrofici, in cui il dubbio revisionista ebbe buon gioco a trionfare nella mentalità di molti. Eppure, eppure…
Scorrendo le pagine del libro si può rivivere tutta l’angoscia, le ambiguità, i dubbi e le fragili certezze di coloro che si opposero alla marea stalinista e che in tale tentativo finirono con l’essere travolti, uccisi o che si suicidarono oppure, ancora, passarono le linee per affidarsi, ormai delusi e sfiduciati, al nemico borghese di sempre.

Questo dramma è tutto compreso nelle opere letterarie maggiori di Victor Serge, tutte scritte durante il soggiorno messicano e quasi tutte comparse postume, nei suoi, preziosi Carnets scritti tra il 1936 e il 1947 e nel le sue memorie, oltre che nel gran numero di saggi, articoli e lettere che egli ebbe a scrivere sull’argomento2.
Opere attraverso le quali il militante rivoluzionario, seppur sconvolto da una vita in frantumi e dalle vicende che lo accompagnarono fino al giorno della sua morte, cercò sempre di tenere la barra dritta, non su un improbabile, per l’epoca e forse ancora per l’oggi, obiettivo di liberazione della classe perseguito attraverso l’uso di una fede dogmatica o di un partito più autoritario e settario che autenticamente rivoluzionario, ma almeno su una serie di principi e una dirittura morale ed etica individuale su cui non volle mai transigere. Anche a costo di rompere con amici, compagni e militanti con cui aveva condiviso anni di lotte ed esperienze importantissime.

Fu forse per questo motivo che gli Stati Uniti non gli concessero mai un visto di ingresso, anche quando nel 1942 vi fu una forte mobilitazione di personalità americane, tra cui John Dos Passos e altri scrittori e intellettuali, a favore del suo ingresso negli Stati Uniti. E fu proprio questo crescente e insuperabile isolamento a colpirlo, più di ogni altra cosa. Proprio come aveva scritto a proposito della solitudine intellettuale che aveva accompagnato Lev Trockij prima del suo assassinio, in quella casa che Serge chiamava “la tomba di Coyoacán”:

Si dimentica troppo spesso che l’intelligenza non è un dono individuale. Che cosa sarebbe stato di Beethoven isolato tra i sordi? L’intelligenza di un uomo, fosse anche un genio, ha bisogno di respirare. La grandezza intellettuale del Vecchio era in funzione di quella della sua generazione; gli occorreva il contatto diretto con uomini della sua stessa tempra spirituale, capaci di capirlo al volo e di opporglisi sullo stesso piano […] Così, solo, continuava a discutere con Kamenev, morto fucilato: lo udirono spesso pronunciare il suo nome […] mentre camminava su e giù parlando fra sé3.

Militante anarchico imprigionato in Francia per cinque anni, militante bolscevico durante la Rivoluzione e la guerra civile, membro dell’Opposizione nuovamente imprigionato ma nel Gulag staliniano, esule dopo essere stato liberato in seguito ad una vasta mobilitazione internazionale a suo favore, Victor Serge visse gli anni del disincanto comunista-bolscevico e ne bevve fino in fondo l’amaro calice.

Sono forse le parole che egli dedicò nei suoi Carnets al nipote adolescente di Trockij a riassumere, meglio di qualsiasi altro commento, il senso di un’epoca, che ne ha sfatta un’altra sicuramente gloriosa, ma che non è ancora stata sostituita da una equivalente, anche se certamente diversa.

2 marzo 1944 – Incontro in autobus il piccolo Sĕva, il nipote di Lev Trotsky. Assomiglia in modo straordinario a suo nonno, quale lo mostrano le foto della giovinezza […] Sĕva sta entrando nell’adolescenza, deve avere diciassette anni. Un viso ossuto, duro, severo, triste, con gli occhialetti. «Parli ancora il russo?» «No, l’ho completamente dimenticato». «Ma bisogna impararlo, allora!» «Perché? Per l’attaccamento sentimentale, ah, ma no!» (lo dice violentemente). Rispondo che la Russia cambierà tanto, fra non molto, che dobbiamo restarle fedeli e conservare grandi speranze. Sento che non ci crede, che le mie parole sono prive di senso per lui. – Vive sulla tomba di Coyoacán con Natalija Sedova (la vedova di Lev Trockij), vedendo solo qualche mediocre settario che non sa capirlo. Egli è già al suo secondo sradicamento. Sua madre, Zina Lvovna, si è suicidata a Berlino; suo padre è scomparso nelle prigioni; lui è stato ferito all’epoca dell’attentato di Siqueiros contro suo nonno nel maggio del 1940; ha visto uccidere suo nonno tre mesi dopo e conosciuto l’assassino come “un compagno”…4

Un’opera al nero si potrebbe definire la ricerca di Saggioro, un balletto tragico in cui anche personaggi celebri per la mitologia di una sinistra consunta, quali Vittorio Vidali (il comandante Carlos delle Brigate Internazionali), David Alfaro Siqueiros (il pittore muralista messicano), Pablo Neruda (il poeta cileno) e molti altri, sono destinati ad apparire (finalmente) al lettore odierno per quello che realmente sono stati e hanno rappresentato in quegli anni crudeli. Leggere per credere.
Leggere per pensare ed uscire, forse, da un tunnel che ancora ci inganna, come quello dei fantasmi dei vecchi luna park.


  1. Tra le sue opere principali si vedano: S.Saggioro – A.Peregalli, Amadeo Bordiga 1889-1970. Bibliografia, Colibrì 1995; S.Saggioro – A.Peregalli, Amadeo Bordiga. La sconfitta e gli anni oscuri (1926-1945), Colibrì 1998; S.Saggioro, Nè con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionale (1942-1952), Colibrì 2010; S.Saggioro, In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale «il programma comunista» (dal 1952 al 1982), Colibrì 2014. Si veda qui la recensione su Carmillaonline del secondo dei due.  

  2. Poiché la bibliografia sarebbe davvero impossibile da contenere in un singola nota, si ricordano qui alcune delle sue opere, letterarie e non, più importanti cui si accennava prima: V.Serge, Memorie di un rivoluzionario, Massari 2011; V.Serge, Il caso Tulaev, Fazi 2017; V.Serge, Anni spietati, Mondadori, 1974; V. Serge, E’ mezzanotte del secolo, Fazi 2012; Carnets (1936-1947), Massari 2014  

  3. V.Serge, Vie et mort de Trotsky, p. XVI cit. in S.Saggioro, Gli ultimi anni di Victor Serge, p. 122  

  4. V. Serge, Carnets (1936-1947), p.217 cit. in Saggioro, op.cit. p.79  

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Breve storia cinematografica del maccartismo https://www.carmillaonline.com/2014/07/23/breve-storia-cinematografica-maccartismo/ Wed, 23 Jul 2014 20:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15860 di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo” (Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia [...]]]> di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”
(Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia del primo (il Negro’s Theatre Project) fu affidata la direzione economica a John Houseman, il quale a sua volta nominò direttore artistico l’allora giovanissimo Orson Welles, che aveva compiuto da poco 22 anni, mentre nel secondo si affermarono una nuova generazione di registi e drammaturghi trentenni quali Clifford Odets, Irwin Shaw, Lee Strasberg, Elia Kazan e Joseph Losey.
L’offensiva dei censori politici, sia democratici che repubblicani, segnò la fine di queste esperienze artistiche dopo pochi anni, quando riuscirono a imporre il divieto governativo di allestire nuovi spettacoli fino al 1° luglio del 1937, causa imminenti tagli e ristrutturazioni, mettendo i sigilli al teatro Maxine Elliott dove sarebbe dovuto andare in scena The Cradle Will Rock, un dramma in musica scritto da Marc Blitzstein in favore del movimento operaio, con la regia dello stesso Orson Welles.
Welles sfidò comunque il decreto governativo mettendo in programma lo spettacolo per il 16 di giugno, ma le guardie federali occuparono e sigillarono la sala il giorno prima, cosicché decise di affittare un altro teatro, il Venice, scavalcando in maniera creativa i regolamenti sindacali che vietavano l’ingresso in scena del cast: Blizstein salì sul palco suonando le musiche e declamando i movimenti di scena, mentre gli attori recitavano le battute e cantavano le loro canzoni dalla platea. Il successo fu egualmente enorme, tanto che lo spettacolo venne replicato nella stessa forma improvvisata fino al cadere del divieto.
Probabilmente The Cradle Will Rock fu l’unico dramma proletario che andò in scena negli Stati Uniti, nonostante la censura tentò di impedirne la rappresentazione: Tim Robbins, con il suo fervore politico, nel 2001 ha tratto dall’episodio un debole film, con l’omonimo titolo della pièce, che però non rende giustizia della complessità degli eventi e delle tensioni in campo in quel determinato periodo.
The Cradle Will Rock venne recitato anche durante il viaggio degli attori dal Maxine Elliott al Venice Theatre, come una sorta di happening di strada, aprendo così di fatto la scena alle future esperienze del Living Theatre e di tutto il teatro americano degli anni Sessanta, dove l’elemento di protesta sociale era contiguo a quello delle rappresentazioni che invadevano gli spazi urbani della società. Come si leggeva in un manifesto del Group Theatre, pubblicato sul Federal Theatre Magazine: “Noi siamo il teatro viaggiante nei parchi, Shakespeare sulle colline, Gilbert e Sullivan in uno stagno, Toller su un camion […] recitiamo nelle scuole, nelle arene, nelle carceri, nei riformatori e negli ospedali. Siamo i Living Newspapers, il teatro negro e il teatro yiddish…”. A tal proposito anche André Bazin, nel suo libro dedicato a Welles, ricordò come “quando il governo vietò di rappresentare al Federal Theatre The Cradle Will Rock, e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione… non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, se la messa in scena di The Cradle Will Rock o quell’altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina, che la inglobava come un dettaglio con Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizzava la folla come Marc’Aurelio sul cadavere di Cesare”.
Non a caso la House Committee on Un-American Activites (HUAC ovvero Commissione per le Attività Antiamericane) venne istituita proprio nel 1937 e il primo presidente fu il senatore democratico del Texas Martin Dies Jr., che si prefisse di smascherare le infiltrazioni comuniste, termine riferito poi a qualsiasi associazione a favore dei diritti civili e umani, dei lavoratori o che avessero come scopo il miglioramento della società, in poche parole la maggior parte delle associazioni popolari operanti nei diversi settori della società, dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle scuole ai sindacati, dalla finanza allo spettacolo, bollate come sovversive e antiamericane. La HUAC, violando palesemente la costituzione, condannò le persone anche solo sulla base di semplici sospetti e/o indizi senza che essi dovessero essere supportati da prove concrete, agendo così in maniera autoritaria e palesemente antidemocratica.
Nel frattempo l’affermarsi dei vari fascismi in Europa e l’invasione hitleriana dell’Europa centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti quale fosse il vero pericolo totalitario, fino ad allora abbastanza ignorato, con il conseguente impegno nella Seconda Guerra Mondiale (avvenuto in effetti con un certo ritardo se si pensa agli avvenimenti dell’epoca). Subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso e liberal divenne nuovamente la principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua (nefasta) gloria negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie alla paranoia del suo più fervido politico, un signore di mezza età semi alcolizzato, il senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy.
Guidata dal senatore McCarthy, la commissione si scagliò soprattutto contro le due maggiori industrie americane: quella hollywoodiana e quella militare. Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America (MPPA) decise di denunciare dieci loro associati tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente famosi come “i dieci di Hollywood”, anche se uno di essi in seguito rinnegò la propria partecipazione ai movimenti liberali di quegli anni, dieci nomi che vale la pena ricordare: Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al primo emendamento della costituzione americana, la quale garantisce a ogni cittadino americano la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche, evitando di rispondere.
Nonostante gli altri nove lo seguissero nel rifiutarsi di rispondere alla domanda inquisitoria della commissione “è o è mai stato un membro del partito comunista?”, l’MPPA e l’affermarsi di un clima sempre più previdente da parte dei capitani della maggiore industria cinematografica del mondo fu inevitabile: la stessa MPPA istituì una blacklist sulla quale segnare (e segnalare) i sospetti comunisti, soprattutto dopo le condanne penali riportate dai dieci, alcuni dei quali scapparono proprio per non subirne gli effetti (tranne Dmytryk che, in seguito alla latitanza londinese tra il ’49 e il ’51, decise di abiurare le proprie idee pur di tornare a Hollywood).
Dmytryk non fu di certo l’unico né tanto meno il più eclatante personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare in una realtà economico-finanziaria di alto livello, ma di certo fu il primo a fare il mea culpa di fronte alla HUAC. Lo fece nel momento peggiore della democrazia degli Stati Uniti d’America, quando i coniugi Rosenberg vennero condannati a morte per attività spionistiche e antiamericane, sospettati di aver consegnato 7 anni prima dei piani riguardanti la bomba atomica all’URSS, molto prima che l’Enola Gay sganciasse la bomba atomica sul suolo giapponese, tralasciando il fatto che nel 1944 gli USA e l’URSS erano alleati.
Nello stesso anno un altro giovane senatore repubblicano della California, Richard Nixon, venne alla ribalta come fautore della HUAC. Nel frattempo alcuni registi, seppur non direttamente collegati ai processi svolti dall’HUAC, proprio per evitare di rispondere democraticamente appellandosi al primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, preferirono emigrare: Charlie Chaplin in Svizzera, Joseph Losey in Inghilterra, Orson Welles gironzolando per il mondo, mentre Joris Ivens fu costretto ad allontanarsi dagli Stati Uniti ai primi del 1945, poiché aveva girato nel 1937 un documentario a favore dell’intervento delle brigate internazionali nella Guerra civile spagnola, Earth of Spain, su sceneggiatura di Ernest Hemingway e John Dos Passos, con sottofondo musicale di Marc Blitzstein.
Altri non ebbero questa fortuna e subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i figli, le amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate, sceneggiando film o dirigendoli sotto altri nomi; ovviamente coloro che pagarono più di tutti tale situazione furono gli attori: Zero Mostel, pur essendo un eccellente attore, probabilmente deve la sua fama soprattutto al fatto di essere stato iscritto nelle blacklist negli anni Cinquanta, prima di venir resuscitato da Mel Brooks alla metà degli anni Settanta come vecchio attore di secondo piano. Mostel non era l’affermato John Garfield o il giovane promettente Lionel Stander, eppure anche la sua vita fu rovinata così all’improvviso, come a un signore di 35 anni al quale tolgono improvvisamente la sua famiglia, il suo lavoro, le sue libertà, nonché la dignità, neanche l’avessero trovato a camminare a piedi nudi nel parco, in un periodo nel quale portare un cappello a cilindro significava essere tacciati come comunisti.
Nel 1953, un testo teatrale, The Crucible (Il Crogiuolo), di uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca, Arthur Miller, anch’esso sfiorato dall’HUAC, definiva quegli avvenimenti come il periodo moderno della caccia alle streghe, istituendo un parallelismo tra il processo alle streghe di Salem nel 1692 e la contemporaneità. Il testo teatrale di Arthur Miller ebbe uno strepitoso successo, ma, nonostante ciò, l’industria cinematografica risultò come paralizzata nell’affrontare se stessa e quel periodo, seppur risulta oggi facile, e inevitabile, leggere in maniera metaforica tanti dei film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi come reazione al maccartismo, soprattutto da parte degli autori più significativi che subirono le conseguenze della caccia alle streghe. Un esempio su tutti Spartacus diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da Dalton Trumbo, nel quale la lotta degli schiavi contro l’esercito di Roma venne riletta a posteriori come la lotta per la libertà di espressione contro la ferocia del maccartismo.
Emblematico risulta proprio il caso di Trumbo, arrestato nel 1947: appena scarcerato fuggì in Messico dove continuò a scrivere sotto pseudonimo molti film, tra i quali il soggetto di Vacanze Romane e la sceneggiatura di La più grande corrida per i quali vinse, all’insaputa dell’Academy, due Oscar. Nonostante la piena riabilitazione nei primi anni Sessanta, fino al 1971 Trumbo non riuscì a portare sullo schermo il suo bel libro antimilitarista del 1939 E Johnny prese il fucile. E non è un caso che fino al 1976 il tema del maccartismo non fosse mai al centro di un film, non solo hollywoodiano: in quell’anno, l’allora ottuagenario ed ex blacklisted Martin Ritt, già regista dopo la fine della persecuzione nel 1956 di Quella lunga estate calda, con il ritorno di Welles a Hollywood in veste di attore, realizzò The Frontman (Il Prestanome), un film con protagonista l’allora famosissimo comico Woody Allen, un film che di comico non ha nulla, riprendendo gli stilemi di denuncia sociale, sotto forma spettacolare, dei film americani del primo dopoguerra.
La pellicola affronta la vicenda focalizzandola dal punto di vista dei tanti che furono costretti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati da colleghi tolleranti nei confronti del loro status di pericolosi sovversivi, autori come Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt. Nel 1988 invece Irwin Winkler in Indiziato di reato affronta la vicenda dal punto di vista della perdita della propria vita quotidiana, degli affetti più cari, del degradarsi delle amicizie, concentrando la vicenda sul protagonista, interpretato da Robert De Niro: un regista accusato di essere comunista in un film che, nonostante l’assunto poderoso, si sviluppa in maniera abbastanza convenzionale e scontata. A differenza del più recente film di George Clooney Good Night and Good Luck, che invece concentra abilmente l’attenzione sul giornalista televisivo che più di ogni altro mise in luce la palese violazione dei diritti democratici e le storture inquisitorie prodotte da Joseph McCarthy, Edward R. Murrow.
Murrow fu un vero e proprio paladino della libertà democratica e combatté in prima persona con il suo programma televisivo See It Now la battaglia contro la potente HUAC, decretandone la fine e permettendo agli USA di uscire da uno dei periodi più bui della propria Storia.
Di certo l’esempio scelto da Clooney è un esempio alto e perfettamente adatto a rappresentare gli elementi in gioco, grazie a una forma cinematografica sobria e asciutta, la stessa del volto del protagonista, David Strathairn, che proprio per questo risulta adatta ed efficace a illustrare l’atmosfera dell’epoca. Nella realtà infatti, nel successivo programma condotto da Murrow alla CBS-TV Person to Person, il 25 novembre 1955 venne intervistato l’ormai esule Orson Welles, favorendo il suo reinserimento in ambito lavorativo ad Hollywood dopo un’assenza durata 9 anni. Quell’Orson Welles che a suo modo si ritenne in parte responsabile, anche se in maniera ironica, dell’elezione al Senato di Joseph McCarthy: “…penso che sarebbe stato molto più interessante usare il cinema e i media in generale a scopi diversi, non solo di intrattenimento. E una volta per un pelo non mi sono candidato per il Senato, in Winsconsin. Il mio avversario sarebbe stato Joe McCarthy – dunque ce l’ho sulla coscienza – ma questa è un’altra storia”. Ecco, per l’appunto, questa è un’altra storia che forse qualcuno un giorno avrà la forza e il coraggio di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anche se alcune storie sembrano essere troppo grandi persino per il cinema.

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