Jesus Christ Superstar – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni – 83 https://www.carmillaonline.com/2022/06/16/divine-divane-visioni-antiquissime-83/ Thu, 16 Jun 2022 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72384 di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985 Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci [...]]]> di Dziga Cacace

Tutto quello che conta è come puzziamo assieme (Re Julien, Madagascar 2)

948 – Joan Lui – Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì di Adriano Celentano, Italia/ Repubblica Federale Tedesca 1985
Qui siamo dalle parti del capolavoro incomprensibile, un delirio cattoconfuso dove collidono aspirazioni altissime, pauperismo, ossessione anticomunista, megalomania incontenibile, intuizioni folli, momenti grotteschi e cristianesimo hippie, tutto assieme appassionatamente come si conviene a un musical con risultati indefinibili che oscilla tra Jesus Christ Superstar Yuppi Du ma con l’estetica traviata da Flashdance. In poche parole Adriano ci racconta di un secondo avvento, con un vagabondo postmoderno, Joan Lui, che arriva in Italia in treno, tra un Giuseppe ferroviere e una Maria che fa la maglia, e poi si trova a Genova (!). Intorno a lui si radunano tanti giovani con la faccia di cazzo e lui canta come la società sia vittima di violenza e droga e tutti siano omologati in questo mondo “transistorizzato” (sono scene al porto antico e sulla sopraelevata, con migliaia di persone affacciate ovunque per vedere le riprese e l’operatore che non si cura minimamente di tagliarle dalle inquadrature). In poco tempo il santone sui generis Joan diventa un personaggio del mondo dello spettacolo e continua la sua predicazione, atterrito da come sia ridotto il mondo. Invoca il Signore: “ma perché ci hai dato tutta questa libertà?”. E il mondo – non senza qualche buon motivo – non vuole ascoltarlo. Ci si mette anche un diabolico tale Jarak, Giuda redivivo, impersonificazione del maligno, che prova a comprarselo ma Joan Lui non cede e trova il tempo di fare una piazzata al Tempio (pieno di prostitute, intellettuali, spacciatori e mercanti) dove suona una band con musicisti vestiti da cardinali e si trovano baristi con la mitra in testa. È tutto un pastone, con riferimenti al presente (il rapimento di Emanuela Orlandi) e attacchi alla tecnologia, all’edonismo, all’aborto, alle dipendenze e al socialismo sovietico. Celentano ha le stimmate, miracola ciechi, deformi e storpi e alterna questi momenti, che volendo potrebbero anche sembrare blasfemi, a momenti di surreale comicità scimmiesca che non c’entrano nulla e sarebbero pure la cosa migliore. E tutto ciò con la grammatica del musical: ogni tanto lui, cioè Lui, comincia a cantare, tra inglese maccheronico e parole profetiche. È tutto… esploso, non so come dire, e ogni tanto ci sono lampi di creatività che non ti aspetti, col montaggio curato da Celentano, che sciorina overlap e jumpcut. Dopo tante vicissitudini (e una performance di Claudia Mori nuda sotto una cascata) si arriva a un’Ultima cena in trattoria – giuro – e a delle conclusioni che sembrano una risoluzione strategica delle B.R. in acido: “il mondo è un insieme di corporazioni che formano tutto intorno alla crosta terrestre come… uno spessore di merda stratificato su tutte le nazioni (…) e questa merda l’avete messa voi!”. Di fronte alla constatazione che se Cristo tornasse sarebbe ucciso di nuovo, e anche per meno di trenta denari, Joan Lui viene assassinato e risorge mentre scoppia l’apocalisse ed è troppo tardi per pentirsi: un terremoto distrugge ogni cosa in una apoteosi biblica e splatter. Io veramente con la mascella crollata davanti a ‘sta roba qui. (28/6/12)

955 – Vivere alla grande di Martin Brest, USA 1979
Questo devo averlo visto la prima volta in tivù nel 1986. Storia semplice e irresistibile: tre vecchietti stufi marci della vita ebete che conducono, compiono una improbabile rapina che gli frutta 37mila dollari. Una miseria che per loro è però una cifra notevole. Ma soprattutto è la botta di vita che li rende felici. Fin troppo. All’indomani del colpo Willie (il grande Lee Strasberg) ha un infarto. Gli altri due, per parare il colpo, decidono di volare a Las Vegas e fare quello che non hanno mai potuto permettersi: giocare senza stare attenti al centesimo. E come capita sempre ai principianti, vincono a mani basse 70mila dollari ulteriori. Ma la polizia li ha individuati e sfiancato dalla fatica e dalle troppe emozioni Al (Art Carney, anche lui grandissimo) ci rimane secco nel sonno. Il mattino dei funerali Joe (George Burns, il migliore del trio) viene arrestato come se fosse un pericoloso delinquente. Ha già lasciato tutti i soldi al genero di Al e se ne va in carcere senza battere ciglio. Non dirà mai dove ha messo il bottino e finalmente viene trattato con un po’ di affetto e rispetto dagli altri detenuti. Commedia dolce-amara, con lentezze pronunciate, leggerezza e senso: anche se superficialmente e con le classiche gag, si parla di vecchiaia, solitudine e memoria. Il regista Martin Brest sarà poi responsabile di un capolavoro (Prima di mezzanotte) e di un monumento al kitsch (Scent of A Woman): qui aveva 28 anni ed era già un regista maturo: il film è affettuoso, simpatico e gli voglio un bene dell’anima. (11/7/12)

956 – Alba rossa di John Milius, USA 1984
A Milius non puoi non essere affezionato per tanti motivi che qui sarebbe troppo lungo ricordare ma di fronte ad Alba rossa io vacillo completamente. In un film così o ci entri subito, accettando il patto con la regia, oppure soffri come un cane. E io ho sofferto eccome: l’ho trovato surreale nelle premesse e illogico e ridicolo nelle conseguenze. Si parte con delle severe didascalie: il raccolto è andato male e l’URSS deve fronteggiare la crisi economica, c’è maretta nel Patto di Varsavia e l’Europa è in mano ai verdi e ai soliti omosessuali pacifisti. Il Messico è sconvolto dall’ennesima rivoluzione e un bel giorno russi e cubani invadono gli USA. Si chiamerebbe sospensione d’incredulità ma qui siamo oltre. Vabbeh. La storia è ambientata in un freddo postaccio rurale, Calumet, abitato da burini montanari completamente rincoglioniti. Un gruppo di ragazzi scappa sulle montagne, dove per un po’ gioca ai boy scout ribelli (e anche se non è colpa loro sembrano dei paninari, con le Timberland, i piumini e i jeans): quando tornano in città sono invisibili. In teoria sono ricercati ma nessuno li ferma: del resto gli invasori sono dei pasticcioni capaci solo di allestire campi di rieducazione e di appendere manifesti di Lenin ovunque, e che siano riusciti ad avere ragione degli USA in un amen non suona per nulla contraddittorio. A me non importa che l’assunto ideologico sia sfacciatamente reazionario, è che qui faccio veramente fatica: trovo tutto sconclusionato, tristanzuolo e noioso, e manca completamente un’epica credibile, essendo il contesto ridicolo, la recitazione improbabile e la psicologia dei protagonisti elementare. Il cast è ricco di attori che sarebbero diventati poi famosi (Patrick Swayze e Jennifer Grey dopo tre anni diventeranno divi planetari con Dirty Dancing), qui incappati in una direzione che li costringe a scene madri assurde una dopo l’altra, piangendo come fontane a ogni piè sospinto. I novelli partigiani autonominatisi Wolverines e che di partigiano non hanno nulla, se non qualche baschetto di maniera, si nascondono nella foresta degli Arapaho (cosa che dà ancor più il sapore della burla ma solo per motivi italiani). Gli brucia ancora il culo per Saigon e compagnia bella, ma non hanno imparato niente dalla guerriglia vietcong. Quando arriva l’inverno, voilà, eccoli conciati come sissit finlandesi, giusto per accendere qualche sinapsi negli appassionati di storia. I cubani esibiscono baffoni e fumano il sigaro, i sovietici sono mentitori nati e vigliacchi, capaci solo di fucilare allegramente indifesi patrioti che cantano America the Beautiful (giuro). Il gioco al ribasso è tale, tra invasori dementi e partigiani stupidi senza proseliti, che l’orchite è spontanea e ti viene da parteggiare troppissimo per gli invasori. I ribelli vengono decimati, nonostante le parziali vittorie in cui sparano sempre meglio degli avversari che sono militari veri e propri, miracoli balistici del cinema. Gli unici sprazzi di vitalità si hanno nella cattiveria dell’esecuzione dei prigionieri, con l’interrogativo, di fronte alla barbarie: “qual è la differenza tra noi e loro?” e la pronta risposta, ottusa e ferrea: “Questa terra è mia!”, roba da far rivoltare nella tomba Woody Guthrie. La penultima scena ci riserva un momento sublime: Patrick Swayze, bucherellato, porta via il fratello morente, Charlie Sheen. Un militare cubano, ammirato dall’eroismo fraterno (ma anche dall’empito rebelde in lui mai spento, evidentemente), li lascia crepare in pace salutandoli con un onorevole “Vaya con Dios!”. Alla fine la guerra sarà vinta, ma non da loro. E ci mancherebbe altro. Questa cosa stupefacente è stata scritta da Milius rivedendo un plot di Kevin Reynolds, regista di Fandango. Io proprio non so, anche perché il film ha tanti ammiratori intelligenti e se rileggo in Rete i commenti mi sento un po’ stupido io. E poi ho trovato un’intervista a John Milius in cui il regista rifiuta di essere definito destrorso: preferisce dirsi libertario, contro l’autorità dello stato, al punto che apprezza Marx e i comunisti che lo stato lo vogliono abbattere. Gli fa schifo il sandinista Daniel Ortega ma Ho Chi Minh per niente e pure Fidel Castro che secondo lui è un puro che non lascerà in eredità niente. Boh, io rimango confuso ma anche Milius non scherza, secondo me. (Dvd; 12/7/12)

958 – Diavolo in corpo di Marco Bellocchio, Italia/Francia 1986
Bellocchio si fa densissimo e contorto, io mi concentro dolorosamente senza capire e però il film – dalla fotografia pallida e dalla recitazione talvolta asinina – si fa vedere perché ha un insospettabile ritmo interno. Giulia – Maruschka Detmers, olandesina godardiana (Prénom Carmen) che sa essere innocente e peccatrice – è figlia di una vittima delle B.R. e al contempo fidanzata e sposa promessa di un pentito convertito al cattolicesimo. Viene notata sul suo terrazzo di casa dallo studente Andrea che frequenta un liceo classico dove la sua classe, ai piani alti, è raggiungibile grazie a finestre sempre aperte (e che danno anche su di un carcere). Man mano che si va avanti, vien fuori che tutti conoscono tutti. L’avvocato del pentito è in analisi dal padre di Andrea, che in passato ha avuto in terapia anche Giulia (“è pazza”, la diagnosi) e forse c’è stato pure qualcosa. Padri contro figli, lotta allo Stato, dissociazione, sensualità, disperazione: nella scena finale dell’esame di maturità Andrea fa un figurone (e non si capisce quando abbia studiato, ma del resto era pure finta la classe, senza una cartella o un astuccio aperto) e ci ricorda il libero arbitrio nel canto dantesco di Cacciaguida e la scelta tra legge degli uomini e legge di natura nell’Antigone di Sofocle. (Non so nulla degli studenti di oggi: ai tempi miei questa era fantascienza pura, ma sarò stato io un liceale asino). Il film deve la sua fama a una scena di fellatio abbastanza deprimente perché fotografata male, di sguincio, con imbarazzo. Ma non mi lamento perché non si veda bene il pompino ma perché risulti tutto scoordinato, con la Detmers che ride e l’attore Federico Pitzalis (mai più sentito) poco a suo agio. Ci sono altre scene di sesso qui e là, ma è come se l’eros fosse anestetizzato da questa stagione di pentimento generalizzato e non ancora compreso, un sesso disperato e avvilito. La Detmers è attrice ben strana, non aiutata dalle sue risate nordiche e gutturali in originale e poi con la voce chioccia e flebile del doppiaggio. Il suo personaggio ride sguaiato, poi piange, urla, pratica il rapporto orale, si pente, spacca i piatti, gli fai schifo, ti dà un bacio, ti mena uno schiaffo… ‘na pazza, insomma, come diceva l’analista. Ma sembra quasi una coloritura, non lo spunto per una riflessione sul disagio e la schizofrenia o perlomeno così m’è parso (ma ripeto: ero uno studente sciagurato e probabilmente lo sono rimasto). Dopo che un prof ha sentenziato che “Si può anche vivere senza essere marxisti”, si conclude con Maruschka che piange felice di fronte al bell’esame del muscolato Andrea e fine. Di botto, all’improvviso. Boh. Film non particolarmente verboso ma didascalico, mortificato da una grammatica elementare e soprattutto freddo e cerebrale. Unico lampo di umanità che ho colto io la scena d’amore cruda e toccante tra irriducibili in una gabbia del processo. Il film nasce da un soggetto scritto da Bellocchio con Enrico Palandri su vaga ispirazione del romanzo di Raymond Radiguet, ed è dedicato affettuosamente allo psicanalista Massimo Fagioli. Mah. (Dvd; 18/7/12)

959 – Laguna blu di Randal Kleiser, quello di Grease, USA 1980
Io questa pedovaccata non l’avevo mai vista. Oddio: magari qualche scena, di passaggio, ma mai mi ero fermato per seguirne lo sviluppo e facevo bene perché una volta che sei catturato è impossibile staccarsene, è una fiabona ineludibile: in epoca vittoriana Richard e la cugina Emmeline naufragano bambini su un lussurioso isolotto del pacifico. Crescono assieme al marinaio panzone Paddy che però indulge con l’acquavite e un bel dì ci rimane secco. I due superstiti si arrangiano e vivono come fratelli ma fratelli non sono e quando arriva la pubertà, e beh, sono attirati l’uno dall’altra, diventano litigarelli, nervosetti e in buona sostanza arrazzati come due macachi in calore. Lei – la quattordicenne Brooke Shields – è uno degli esiti evoluzionistici del Sapiens Sapiens più clamorosi, con due occhi felini, i capelli pudicamente appiccicati al seno acerbo e il broncetto di chi sa di essere bellissima. Lui – lo gnoccolone muscoloso Christopher Atkins, in realtà diciottenne – è un Big Jim biondo (per cui Big Jeff, se la memoria non mi tradisce) che non può che stare sulle balle a tutta la popolazione maschile mondiale eterosessuale. Ovviamente i due non capiscono una mazza del subbuglio ormonale di cui son preda e in un innocente ritorno allo stato di natura cominciano a darci dentro come dei bonobo, sinché Emmeline non rimane incinta. Ogni cosa è una scoperta e in effetti non avendo alcuna educazione, orientarsi in quel casino che è la vita non risulta semplice. Tanto più che sull’isola ci son dei selvaggi antropofagi che indulgono nella gradevole pratica del sacrificio umano. I due bellocci hanno infine un figlio, fino a una chiusa che ha qualcosa di enigmatico. Laguna blu, ennesimo successone al botteghino di quel tipo incredibile che è stato Randal Kleiser (che poi ci avrebbe anche regalato Summer Lovers), è un film pruriginoso ma a carica erotica controllatissima, per famiglie, da strizzate d’occhio, anche salaci (il frustrato Richard che a un certo punto va su uno scoglio – comodissimo – a farsi una zaganella) (o a tirare il collo all’oca) (giusto per non dire farsi una sega che faceva brutto, eh, qui siamo signori). La fotografia di Néstor Almendros è bella e funzionale a dare respiro a una vicenda semplice che alla fin fine vede i due protagonisti non far altro che nuotare, pescare, dormire, mangiare, cogliere frutti, sorprendersi di un certo arrazzamento, fino all’immancabile copula, però dissimulata tra grandi abbracci. Viene tutto intervallato contrappuntisticamente da iguane, tarantole, tartarughe, mantidi religiose, pesciazzi, pappagalli e altri uccelli. Fuorché quello di Richard. (18/7/12)

960 – Paradise di Stuart Gillard, Canada 1982
E siccome son critico serio, procedo immantinente alla comparazione col clone Paradise, un Laguna blu sabbioso e un po’ più hard. Il plot è pressoché identico, sennonché nella scopiazzatura viene inserito un motivo di tensione che fa reggere fino alla fine la vicenda: la splendida Phoebe Cates, Sarah, è presa di mira da uno schiavista arabo, lo Sciacallo, che la vuole nel suo harem. Lei affronta una traversata del deserto, da Baghdad a Damasco, e in carovana c’è anche il giovane David, figlio di predicatori e pure rampollo della Famiglia Bradford, per chi ne avesse memoria televisiva. Finisce in massacro, coi ragazzotti che scampano alla morte e trovano rifugio in una splendida oasi, con vista su un lago interno dalle spiagge tropicali. La congruenza geografica non rientrava nei piani del regista anche sceneggiatore, suppongo. Così come la logica: infatti basta uno stacco di montaggio e questi due si son fatti la villetta di bambù tra le palme, a più piani, con veranda e dondolo, in attesa di futuro condono edilizio. Il sole spacca le pietre e lei ha prontamente un bikini tipo Ursula Andress in 007, mentre lui esibisce perizoma e gilet. La vita idilliaca con crema solare a protezione 50 prosegue tra vaghe tentazioni carnali, intervallata da tramonti tra le dune o sul lago e allietata dalla presenza di uno scimpanzé burlone. Ma lo Sciacallo – incarnazione di tutti i luoghi comuni sugli arabi – vuole fortissimamente Sarah e insiste a dare la caccia alla coppia: inseguimenti, fughe, cammelli, palme, cocchi, nuotate nel mare all’interno del deserto (con clamorosa barriera corallina, wow!) e ovviamente l’amore. Con gli stessi passaggi di Laguna blu, ma con molte più scene di nudo e diverse strategiche docce a ogni cascata che si trovi tra le sabbie, cosa probabilissima. I due ci danno dentro a ripetizione a 40 gradi di temperatura e la regia piuttosto bovina riprende carezze, tette spremute e occhi chiusi in rapita estasi. Fino alla prossima doccia. Si conclude con un duello risolutore: quando un uomo con cavallo e sciabola incontra un fesso con l’arco, il suo destino è segnato e si torna alla civiltà sulle note virali della sigla di coda, la Paradise cantata dalla Cates medesima, canzone di cui basta la citazione perché ti si incisti nel cervello per qualche giorno. Concludo: filmaccio turpe per adolescenti che infatti mi ha divertito un mondo. (19/7/12)

871 – Ginger e Fred di Federico Fellini, Italia 1985
Ginger e Fred, Marcello Mastroianni e Giulietta Masina, ballerini, sono due vecchie glorie del mondo dello spettacolo, vittime del tempo che passa inesorabile. Chiamate a una partecipazione televisiva, conosceranno l’attuale crudele realtà dello showbiz. È un film sullo spaesamento di due anziani di fronte alla bolgia dantesca (con rimando visivo puntuale, la METAFORA) che è diventata l’Italia e la critica è talmente esplicita, puntuale e farsesca che mi sembra quasi infantile, di quella ingenuità di cui Fellini era stato maestro e che qui suona un po’ fuori tempo. Durante la visione mi rendo conto che ho fame (sono a dieta e non tocco una Lemonsoda da una settimana), vorrei fumare (qui resisto da 6 mesi) e il film mi sta un po’ scassando. Barbara s’è addormentata dopo venti minuti e io resisto e ve la dico tutta: l’atto d’accusa di Fellini è comprensibile, ma la forma con cui è espresso è molto antica. La confezione, con una messa in scena artificiosa, è in scenografie polverose che puzzano di fame, illuminate da luci da studio, irreali, mortificanti. E siamo d’accordo che si vuole passare la freddezza della tivù ma manca uno scarto poetico. E mi sembra anche antico il moralismo: contro la pubblicità (cui il Maestro si sarebbe presto piegato coi famosi Rigatoni) e contro il caos volgare e sguaiato del cavaliere Lombardoni (…) ma pure contro i drogati, gli ambulanti e i transessuali, eh, diciamolo. E poi il film è d’una lentezza esiziale. All’epoca venne preventivamente salutato come un capolavoro contro la decadenza morale italica e lo vide in anteprima pure il presidente Cossiga, forse motivo dei seguenti sbrocchi mentali. Ovviamente giudicare col senno di poi questo film che usciva nell’euforia socialisteggiante degli anni Ottanta è fuorviante ma se lo vedo ora non ci posso fare nulla e per quanto mi sforzi mi pare che non funzioni granché, anche se poi ci sono diverse scene toccanti come le prove della coppia di ballerini nei bagni, i discorsi durante il blackout che blocca le riprese televisive, l’addio reciproco alla stazione, nel finale. Quando Fellini non vuol farti la morale, allora esce un calore umano vero, anche grazie ai due notevoli protagonisti, un Mastroianni sull’orlo del cedimento strutturale e una Masina tutta dentiera. Avevano 60 anni e in quella Italia chi aveva 60 anni era vecchio. Non come oggi che sei un ragazzo a 40 anni, un uomo a 50 e un signore a 60, ma vecchio fino agli 80 non lo diventi. Questi erano veramente anziani a 60 e si vede, al di là del trucco: si vede dalle facce, da come si muovono, da cosa dicono e come. E infatti sarebbero ciccati a breve, superati appena i 70. Concludendo, faccio i conti della serva: con clown, nani e zampognari Fellini fellineggia, musicalmente Nicola Piovani roteggia e c’è pure Moana Pozzi nella finta pubblicità Olivoil con lo slogan “fateci un pensierino”. Altro che uno. (5/9/11)

886 – The Wrestler di Danny Aronofksy, USA 2008
Leone d’oro a Venezia 2008, mi prendo flemmaticamente tempo per vederlo e ci arrivo solo oggi. E stabilisco: buon film, dolente, non particolarmente ricattatorio. Ma non so se sia voluto, nel senso che il film ha il difetto nella prevedibilità estrema del plot –sviluppi ed esiti – e pertanto non mi risucchia nel classico vertice emotivo che caratterizza questi drammoni: la vecchia gloria (in questo caso di un lottatore di wrestling, Randy) che dopo tante traversie tenta la carta del rientro in scena, con rimpianti, ansia di rivincita etc. Qui leggi la sconfitta in faccia al protagonista fin dalle prime scene e sai già che non c’è scampo. Certo, magari t’illudi, ci credi, ci speri, o comunque vuoi talmente bene a Mickey Rourke che non accetti il finale e frigni. Però, non so, forse son troppo disilluso io: m’è parso che Aronofsky non sia sincero fino in fondo e firmi il compitino, senza sorprese. Bello il discorso subliminale che attraversa tutto il film, sulla verità e sulla falsità della rappresentazione e sulla nostra necessità di crederci, come da sempre accade col il wrestling, una baracconata recitata e creduta in un colpo di sole collettivo. In fondo la storia di Randy the Ram è un percorso cristologico, e la religione cos’è, se non un’immensa messa in scena? È come il wrestling, però sul ring ci si fa male: si recita, ma i colpi pesano un accidente e se il tuo cuore è infiacchito da troppe cazzate, prima o poi si spezza. Come quello dello spettatore, ecco. La canzone di Bruce Springsteen sui titoli di coda è bella, ma non mi smuove come avrei voluto, è un ricarico un po’ troppo costruito. A proposito di musica: la colonna sonora è volutamente cafona e falsissima, secondo i gusti perversi del protagonista, con tanti gruppacci chiassosi degli anni ‘80 come Quiet Riot, Scorpions e altri. E Randy lo dice: li ha fottuti quel cazzo di Kurt Cobain! È vero e aggiungo: per fortuna, dando una sveglia a tutta la scena musicale e garantendo una sopravvivenza mainstream al rock per almeno ancora un decennio. (13/11/11)

(Continua – 83)

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Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 75 https://www.carmillaonline.com/2016/02/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-75/ Thu, 11 Feb 2016 21:02:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28442 di Dziga Cacace

310056-alice-in-wonderland-alice-in-wonderland-an-x-rated-musical-comedy-posterHypocrite lecteur, mon semblable, mon frére

848 – Questo mi mancava: il musical porno Alice in Wonderland, di Bud Townsend, USA 1976 Ambrogio! Avverto un leggero languorino e non è proprio fame, è più voglia di qualcosa di buono…. E allora, siccome son uomo di mondo mi acchiappo un film porcello con ambizioni intellettuali, anzi con giustificazioni artistiche, che è il classico modo borghese e ipocrita per avere un assaggino di trasgressione controllata. Trattasi di curioso esperimento dall’enorme successo commerciale ideato da tale Bill Osco, produttore che già aveva [...]]]> di Dziga Cacace

310056-alice-in-wonderland-alice-in-wonderland-an-x-rated-musical-comedy-posterHypocrite lecteur, mon semblable, mon frére

848 – Questo mi mancava: il musical porno Alice in Wonderland, di Bud Townsend, USA 1976
Ambrogio! Avverto un leggero languorino e non è proprio fame, è più voglia di qualcosa di buono…. E allora, siccome son uomo di mondo mi acchiappo un film porcello con ambizioni intellettuali, anzi con giustificazioni artistiche, che è il classico modo borghese e ipocrita per avere un assaggino di trasgressione controllata. Trattasi di curioso esperimento dall’enorme successo commerciale ideato da tale Bill Osco, produttore che già aveva messo in carniere un Flesh Gordon erotico e che soprattutto, nel 1970, aveva distribuito il primo film porno fuori dal circuito dei cinema a luci rosse americani: tale Mona (nomen omen, pur non essendo recitato in veneto). Nel 1975 siamo in pieno nella cosiddetta Golden Age of Porn, sull’onda del successo clamoroso di Gola profonda (che era una bestialità, fidatevi) e Bill si chiede: cosa posso inventarmi che ancora non s’è visto? Le avventure di sesso e carnazza originali c’erano già a pacchi, le riletture erotiche pure, cosa mancava? Un porno western? No, un musical! Uno di quei generi che io personalmente non ho mai compreso appieno (Jesus Christ Superstar è una rock opera, è diverso, eh) ma che – insieme alla nobile ascendenza letteraria di cui erano disponibili i diritti – poteva dare un motivo in più al grande pubblico per andare a vederlo senza rimorsi, come un qualunque altro film. Ragionamento esatto: costato quattrocentomila dollari, incassò un centinaio di milioni anche grazie al doppio binario ottenuto in montaggio (soft e hard a seconda dei mercati dove distribuirlo). Oltre tutto la storia è generalmente risaputa, per cui di facile assunzione, non fosse altro che per quel pastiche lisergico e completamente scoppiato che è la versione dell’opera di Lewis Carroll fatta dalla Disney, un trip micidiale che ha reso familiare anche ai meno colti la spaesata Alice e altri personaggetti del paese delle meraviglie, perfetti da trasformare in ambigui comprimari della biondina persa tra tante sorprese eccitanti. Bene, e com’è ‘sta roba? Dai, trama: il pretendente della virginale bibliotecaria Alice ha ancora una volta fatto fiasco perché lei, per quanto cresciuta, non vuole – senza tanti giri di parole – dargliela. E si capisce anche il motivo: lui è uno sfigatone, probabilmente raccattato dalla produzione per strada per girare la scena. Parte il primo numero musicale, una song melensa in cui la protagonista si interroga su queste occasioni che sta perdendo mentre è troppo impegnata a crescere. Turbamento logico, dubbi e apparizione del Bianconiglio: voilà, andiamo al di là dello specchio, dove la protagonista si rimpicciolisce ad hoc, abbastanza per non aver più vestiti addosso. Tra l’altro, scusate se non è pertinente, ma cosa c’entra Corto Maltese con CasaPound? Vabbeh. Comunque Alice si aggira tra funghetti molto fallici, si perde e si ritrova e conosce il desiderio e come soddisfarlo, per cui al 23° minuto scopre la masturbazione e al 28° delizia oralmente il Cappellaio Matto.
ddv75 01Più tardi risolve i problemi erettili di Humpty Dumpty e finisce a corte del Re e della Regina di cuori, dove si intrattiene piacevolmente per poi scappare quando le cose si mettono male. Un tuffo salvifico e siamo di nuovo al di là dello specchio: la protagonista si sveglia confusa e c’è il fidanzato ciula, pentito della precedente insistenza. Ovviamente lei è abbagasciata q.b. per smentirlo nuovamente e vai di trombata conclusiva senza più inibizioni, visivamente molto sognante. Beh, che dire? È tutto una scempiaggine ma con qualche motivo di interesse, a partire dalla qualità produttiva: è un film, con una trama (sconclusionata), degli attori (non canissimi) e una messa in scena che si permette anche – nel finale, come se si fosse presa confidenza col pubblico – qualche svisata di metacinema, tipo l’attrice francese che si chiede “Chi devo scoparmi per uscire da questo film?”. Dal punto di vista pornografico ci son tutte le portate del menù classico, mostrate con curiosa ritrosia, lasciando i particolari più espliciti quasi sempre fuori scena, al punto che gli inserti hard (pochi minuti sull’ora e venti del film) squilibrano la leggerezza della pellicola che, tutto sommato, è una pecionata ottima per farsi un cannone e due risate, non esattamente per eccitarsi o per trovare intuizioni registiche autoriali. Comunque, scusate, un altro dubbio che ho di questi tempi: ma che c’entra Che Guevara, sempre con CasaPound? No, vabbeh. Dicevo: Alice in Wonderland si fa vedere come esempio perfetto di certo cinema che coniugava trasgressione, astuzia mercantilistica e pure qualche sensibilità underground. Le musiche – tra vaudeville e turpitudine – fanno schifo ma la produzione è quasi da serie A cinematografica, con quel sapore da cinema indipendente cialtrone, con le messe a fuoco un po’ precarie. In un presente in cui la pornografia è diventata mainstream senza alcun ragionamento sul ruolo della donna e sui rapporti di potere, un Alice in Wonderland così – con un percorso iniziatico, tra timore e scoperta omologhi a quelli del grande pubblico – fa tenerezza. Era prodromico alla situazione attuale senza ovviamente saperlo ma – forse perché son sempre troppo socialdemocratico – non riesco a leggervi dello sfruttamento quanto una (legittima) spensieratezza. Per la cronaca la protagonista è tale Kristen De Bell, una ventunenne con il faccino da bimbetta imbronciata che non ho mai più rivisto, così come il resto del cast e mi rimane solo un dubbio: scusate, ma perché ‘sti fascisti di CasaPound non se ne vanno a fare in culo? (maggio 2011)

ddv7502854 – Interdetto da Vincere di Marco Bellocchio, Italia/Francia 2009
Ecco un film che intuisco bello ma che non riesco a farmi piacere, perché alla fine son più le cose che mi allontanano di quelle che mi avvicinano. Si tratta della vicenda di Ida Dalser, prima moglie disconosciuta del ducce, ripudiata insieme al figlio, Benito jr., in favore di donna Rachele, più terragna e popolare, perfetta per ottenere anche il favore elettorale delle masse. Ida, istruita e affascinata dal giovane Mussolini socialista, si ritrova senza diritti e urla al mondo le sue ragioni, un mondo che, parallelamente all’ascesa del dittatore, la ignora. Finirà in manicomio e morirà nel ’37, seguita dal figlio nel ’42. Bellocchio allestisce un testo complesso, ricco, stratificato – certo –, ma è come se mi sfuggisse un’intima partecipazione sentendo prevalere, invece, una voglia di mettere in scena soprattutto i temi che gli sono cari. Si parla di Mussolini e del fascismo, sì, ma ricordando la consueta protervia della Chiesa, l’ipocrisia della borghesia e la violenza delle istituzioni coercitive della società: c’è un paese, l’Italia, che sprofonda nella follia e che punisce la devianza di chi urla la verità, proclamandola folle a sua volta. Carne al fuoco, molta, quindi, e innegabile ricchezza nella messa in scena che utilizza grafiche futuriste, lampi di montaggio in flashback e la fotografia esangue di Daniele Ciprì. È un bel vedere, a tratti, così come un casino spiazzante in altri. Ma quello che io soffro di più è la partecipazione attoriale, fisica al limite del bestiale, con una Giovanna Mezzogiorno che urla come una prefica (…), tra grandi nudità, tette e pelurie (immagino posticce, vista la moda del prato ben rasato a zero) e un Filippo Timi distrutto dal pianto, che urla tutto teso e strabuzza gli occhi come certa iconografia da cinegiornale ci ha insegnato. Perché Timi interpreta sia il ducce socialista che suo figlio Benito Albino e in mezzo vediamo spezzoni di immagini d’epoca in un andirivieni peggio che stare sul ponte del Bounty prima del naufragio… voglio dire: c’è la Mezzogiorno che sembra più vecchia quando dovrebbe avere 20 anni di quando ne ha invece 47 (dimostrandone comunque 30, i suoi). Il piccolo Dalser Mussolini passa attraverso non so quante metamorfosi kafkiane per assumere infine le sembianze di Timi che pretende di passare per un ventenne. Certo: tutto aumenta l’effetto straniante e il cinema è sogno e bla bla, ma se qualcuno invecchia mentre chi gli sta a fianco ringiovanisce, amore mio, allora durante il film comincio a pensare ai fatti miei. Non dico che sia colpa solo di Bellocchio ma se facessimo una constatazione amichevole son sicuro che strapperei un bel fifty fifty, eh. E poi – e qui passiamo al tasto dolente del cinema italiano, sempre –: un sonoro lontano che, unito all’incapacità della dizione degli attori e alla scelta registica di far sussurrare tutti a mezza voce, fa diventare l’ascolto una vera tortura. Ma voi quando urlate, urlate soffocati? Boh. Premiatissimo al David di Donatello, privato del Miglior film solo da L’uomo che verrà, (quello sì un capolavoro e basta), a me Vincere sembra più un esercizio di stile che un film sincero. Io nel Bertolucci degli ultimi vent’anni sento sempre l’elegante passionalità, talvolta a dispetto anche del buon gusto. E anche se non ti piace vedi che c’è sincerità, magari scomposta, sgradevole, impacciata e imbarazzante, però autentica, com’è il sogno di cinema di BB. Bellocchio invece raffredda tutto con la sua cerebralità, il voler fare il discorso. Buongiorno notte era un sogno d’autore, un desiderio irrealizzato, il what if che ha attanagliato tanti militanti degli anni Settanta. E in questa possibilità avvilita dagli esiti reali stava la poesia del film: un Moro che danzava libero nella Roma deserta dell’alba. Qui, invece, c’è un intorcinamento psicanalitico e un gioco di forme e di scomposizioni temporali che mi pare sempre troppo costruito. Vabbeh: film certamente interessante e discutibile, cioè da dibattito, però alla fine – per me – è più l’insoddisfazione del piacere. Ma che cazzo ne so io, poi, boh. (Dvd; 20/6/11)

ddv7503860 – Il biblico Il Principe d’Egitto di Brenda Chapman, Steve Hickner e Simon Wells, USA 1998
Non credo che esistano pedagoghi che consiglino il double feature per bambini tra i 3 e i 6 anni, ma io sono ben un papà innovatore, no? Fatto sta che sono in vacanza a Brisino solo con le due pupattole e ci becchiamo una delle peggiori giornate di tutti i tempi, con acquazzoni, venti siberiani, grandinate. Me le porto al centro commerciale, come una famigliola americana, e lì ci passiamo due ore facendo la spesa e cazzeggiando. Siccome son babbo diseducativo al massimo per quel che riguarda libri e audiovisivi, concedo l’acquisto di due Dvd nuovi nuovi e poiché abbiamo praticamente già tutto quello che conta, le scelte si fanno bizzarre. Nel senso che Elena, la treenne, muore se non ha questo Principe d’Egitto, di cui non sa e non può sapere nulla. Ed è solo alle 17 – dopo salutare passeggiata sotto la pioggia e merenda a base di frutta – esauriti cioè i doveri di bravo genitore, quando si passa al peccaminoso doppio spettacolo di cui si diceva, che si scopre che ‘sto Principe d’Egitto altri non è che Mosè, ché io mica l’avevo capito. Il film lo vedo cucinando (focaccia alla Cacace, cioè pasta di pane infornata con abbondante olio E.V.O., pizzico di sale ed erbe di Provenza; e bocconcini di pollo alla Cacace, cioè impanati e fritti in olio di semi, perché il punto di fumo è più alto, eh). Per cui c’è – movimentata un po’ – la storia che io avevo visto musicata da Morricone e interpretata ieraticamente da Burt Lancaster. Qui invece, gioventù scapestrata, corse coi cocchi, rivalità col fratellastro Ramses e poi, infine, l’agnizione: stai al tuo posto, sei un ebreo! Naaaa. Non ci posso credere… e allora per chiarire tutto arriva la voce di Dio, che si presenta così: “Io sono quello che sono”. Mi aspetto che Mosè gli risponda “Vedi di cambiare” come nella Cara ti amo di Elio e le Storie Tese. Invece gli dà retta, gli viene una voce dolente, un po’ s’ingobbisce e grazie a quello che viene definito il “Dio degli ebrei”, ammettendo evidentemente che non si possegga il copyright, si mena gran strage di ‘sti egizi che non vogliono liberare dalla schiavitù l’autoproclamato popolo eletto. Dio però promette loro una terra dove scorrono latte e miele e penso: ma allora è una mania quella di incularsi terre altrui! Poi, siccome Dio non è per niente affabile ma anzi vendicativo e cruento anzichenò, manda su Ramses e compagnia bella sette piaghe e poi gli fa secchi tutti i primogeniti. E al momento giusto apre il mar Rosso agli Eletti e lo richiude poi sui faraonici accorsi, che sicché son camiti evidentemente si poteva farli secchi anche allora, senza eccessivi sensi di colpa. Insomma, l’hanno chiamato Il principe d’Egitto perché Mosè faceva troppo sionista e com’è messo il mondo oggi, ti finisce che metà pianeta non ti vuol vedere il film manco per il cazzo. Film che è più che discreto, molto edificante, ritmato, con colori sabbiosi e tenui e un tratto grafico spigoloso che però non mi entusiasma. Buone le canzoni, molto tradizionali. Elena, ovviamente, non l’ha quasi visto; Sofia invece s’è appassionata: ci manca giusto la crisi mistica. (Dvd; 13/7/11)

ddv7504861 – Cacace contro Mostri contro alieni di Rob Letterman e Conrad Vernon, USA 2009 e ce n’è pure per Mine vaganti
Crisi mistica scampata subito, grazie alla belinaggine del secondo film che acchiappa alla grande l’uditorio ma un po’ annoia il Cacace condannato al cinema infantile. L’idea sarà piaciuta molto al reparto marketing della Dreamworks: mettiamo i vecchi protagonisti del cinema classico (lo scienziato pazzo, la donna gigante, il mostro della palude, il blob, il megabaccello etc.) contro degli invasori alieni, omaggiamo la fantascienza anni Cinquanta e vediamo cosa viene fuori. Un pasticcio, per l’appunto, zeppo di citazioni reverenti al patron Spielberg (ET, Incontri ravvicinati… ebbasta! Sembrate tutti degli Emili Fede): la sceneggiatura è farraginosa e si ride quando si tirano fuori alcune caratterizzazioni gustose, come i militari ottusi o il pavido presidente USA che ama suonare una tastiera Yamaha. Il cattivo spaziale Gallaxhar sembra Steven Tyler viola e con 4 occhi, in compenso Bob, il blob, invece, assomiglia paurosamente a Paolo Liguori. Vabbeh, discreto: un film snack che mando giù come gli ottimi pistacchi salati che mi stan rendendo lucido, tondo e pacioccone. In questo periodo incappo anche in Mine vaganti, per l’ineffabile regia midcult di Ferzan Özpetek, e vedo la scena madre in cui Alessandro Preziosi annuncia alla famiglia, testuale: “Sono gay, omosessuale, frocio, ricchione”. E da lì è una slavina di macchiette e stereotipi, col momento poetico, il sogno ad occhi aperti, il padre omofobo, la madre che dissimula, la zia che comprende e la musica che sottolinea in maniera retorica, fino addirittura all’infarto! Ecco, però posso, da una scena sola di un film complesso e scritto con il benemerito Ivan Cotroneo e premiato in tutto il mondo, trarre delle conclusioni così affrettate? Sì, maledizione, sì! (Dvd; 13/7/11)

ddv7505865 – Miracolo a Milano è un capolavoro di Vittorio De Sica, Italia 1951 
Questo è un mio cult, visto la prima volta al Beaubourg di Parigi in mezzo a una folla entusiasta, con gli applausi a scena aperta e l’ovazione finale, e io in piedi, orgoglioso, come se il tripudio fosse per me, che ringraziavo a mani unite. Poi Miracolo a Milano l’ho rivisto al Lumière di Genova e al Palestrina di Milano, oltreché due volte in Vhs, rischiando anche di farne indigestione. Adesso son passati quindici anni dall’ultima volta e provo a farlo vedere a Sofia, che – van bene Spielberg o i Disney – ma vediamo di educarla anche alla differenza, questa saccentina di sei anni. E lei rimane un po’ sconcertata e non afferra tutta l’ironia (com’è logico), però le piace il côte favolistico della vicenda e condivide il mio entusiasmo, non escludendo che lo faccia per compiacermi (con sensi di colpa annessi). Comunque: Miracolo a Milano potrebbe essere la storia del Comunismo, in chiave allegorica e con fiabesco finale enigmatico ed emblematico: i poveracci vanno in cielo a cavallo di una scopa, verso un posto dove “buongiorno significhi veramente buongiorno”. Volano via perché sulla terra – da poveracci – si muore. O forse quel cielo è una promessa di vita ultraterrena cattolica? Il film rimase sul gozzo sia di chi ne vedeva il lato sovversivo sia di chi ne sospettava una morale religiosa. E poi basta con ‘sti morti di fame! Fatto sta che a Cannes Miracolo vinse la Palma d’oro e oggi è considerato una pietra miliare. La storia la sapete, ma faccio un recap per chi si vergogna di ammettere che quest’opera magistrale non l’ha mai vista: un gruppo di spiantati senza casa sopravvive ai margini di Milano su un terreno brullo. L’arrivo del buon Totò fa nascere una comunità che poco a poco si emancipa e scopre di risiedere sopra un pozzo di petrolio. E lì cominciano i guai: se all’inizio i protagonisti guardano i ricchi con ammirazione (il “Bravi!” all’uscita della Scala) poi – scontate le velleità borghesi autorizzate dalla nuova ricchezza – si capisce chi sia il nemico: quello di classe, il paternalistico Padrone, il fantastico dottor Mobbi, che con l’aiuto delle forze dell’ordine vuole cacciare tutti per diventare ancora più ricco. Totò prova in ogni modo – cristianamente e pazientemente – a ricomporre il conflitto finché la sopportazione raggiunge il limite e anche lui conviene che si deve lottare (grazie anche all’aiuto di un defunto!). Ma è tutto trasfigurato metaforicamente, con il linguaggio della fiaba, tra surrealtà e comicità da cinema muto. Ci sono la fame pazzesca (la lotteria con in premio “un pollo… vero!”) e l’ignoranza (combattuta nel borgo con indicazioni stradali matematiche!). La semplicità di cuore e la poesia (la bellezza di un tramonto, col sole che “Se ne va! Se ne va!”, la lettura della faccia da parte di Giovanni che regala constatazioni compiacenti: “Che fronte! Che sguardo spirituale! Lei non finisce qui!”, per chiudere però col dubbio esistenziale: “Chissà chi era suo padre! Cento lire!”). Ma ci sono anche il razzismo della società introiettato dalle vittime e il miraggio della felicità, anche erotica (la statua che prende vita e viene concupita), perché – come dice uno degli sconsolati protagonisti – non vale la pena di vivere se ci si annoia. Scanzonato, struggente, tenerissimo, curato in ogni particolare, denso di finezze registiche (carrelli, dolly, effetti speciali, grandangolate sovietiche da terra o picchiate costruttiviste dall’alto!) come di nuances attoriali quasi impercettibili (Paolo Stoppa!) ma straordinarie, con ogni inquadratura che contiene un’idea se non autentici colpi di genio (vogliamo parlare del barometro umano o del bambino-campanello?). Bene, torno da dov’ero partito: al Pompidou l’avevo visto accoppiato a Umberto D., altro grandissimo film di Zavattini e De Sica, ma alla sala tutta e a me era chiaro quale fosse il capolavoro unico. (Dvd; 28/7/11)

ddv7506870 – Il vorrei ma non posso di Lie with Me di Clément Virgo, Canada 2005
Poverino, ‘sto film, venuto male: Leila è un’esuberante e sensuale ragazza, forse è un po’ eccessiva o forse no (siamo abituati male noi maschi tanardi genovesi) e vuole solo legittimamente divertirsi. Fatto sta che cerca l’ammore vero e va a una festa a trovare compagnia. Si incrocia con David, belloccio dal profilo greco, e lo sfida, seducendo carnalmente un timidone che non crede a cotanta manna dal cielo. David è intrigato da questa ragazza libera e conturbante e da lì comincia un gioco seduttivo, un tira e molla che trova coronamento presto in un epico sessone liberatorio. Okay, ma l’ammore? Lui trova lei un po’ zoccola, è geloso e una ex fidanzata avverte Leila: guarda che David cerca una mamma. Allora la femmina si butta nella storia con ancor più partecipazione, mentre i genitori si stanno separando: ne consegue un certo spaesamento sentimentale in cui echeggiano le domande: quanto può durare una storia? I miei si amavano veramente? E perché sto con David? La vicenda – mediamente torrida – si complica per problemi di lui, lei che cerca altri conforti, sensi di colpa, fellatio rivendicative, sesso solitario compulsivo e consolatorio, confidenza e risate con un’amica che nel finale si sposa. E lì la scena madre: baci prima furtivi e poi sfrenati, lo sguardo che s’incrocia con quello dei genitori, la fuga e infine l’AMMORE. Lie with Me – titolo ambiguo per un film che si vorrebbe scandaloso – non ha incontrato grande successo e non ha épatébourgeois come avrebbe voluto. Il problema è che una vicenda così, esilina (riassumibile in: lei è fragile), col sesso messo in scena graficamente ma non troppo, rimane in un limbo (si vede tanto nudo e qualcosa di esplicito ma neanche tanto, e se si vedesse veramente qualcosa di più allora cambierebbe il valore d’uso della pellicola): non fa venire duro il cervello e neanche quell’altra parola volante in rima. Se penso a un Ultimo tango a Parigi, è evidente che – piaccia o non piaccia, e a me piaccia – lì l’intento era puramente intellettuale, non c’era nessuna eccitazione. Qui è come se si volesse dare sostanza agli assunti del film proprio con la messa in scena in yo face, una specie di stampella visiva per dare della corposità. Che poi, cosa ci stiamo dicendo? Rimane tutto vago. Bello chiavare con chi si ama. Okay. Bene. Poi che siamo tutti delle bestie ma che amiamo la nostra famiglia, specialmente i padri (forse, ma lo deduco dal fatto che sono i rapporti più raccontati). E che, come detto prima, Leila è molto sensibile. E vabbeh. La protagonista, Laureen Lee Smith, è splendida senza essere fastidiosamente bella, una ragazzona rossa lunga e magra, con una di quelle facce da cinema indipendente. Lui lo avevo già visto in serie come 24 e Six Feet Under: un belloccio muscolato che non merita menzione, che si affanna a mostrare il suo turbamento emotivo ma sconta, appunto, un ventre sagomato a tartaruga, particolare che distrae dalle sue limitate qualità interpretative il pubblico femminile etero e quello maschile omo. Ma dette queste stupidaggini, il risultato è che ‘sto film è ‘na pallata al cazzo, e così ho significato in tre parole il mio avviso: non perdeteci del tempo. (Agosto 2011)

(Continua – 75)

@DzigaCacace usa Twitter, male

Qui altre Divine Divane Visioni, venghino siori

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Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 68 https://www.carmillaonline.com/2015/03/05/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-68/ Thu, 05 Mar 2015 21:57:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21084 di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981 Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei [...]]]> di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981
Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei 13 anni questa era una storia edificante di maturazione. Poi – come detto – il revisionismo dell’adolescenza e della maturità. E oggi, decrepito? Mi concedo la versione in originale, curioso di capire come sia cambiata la mia percezione. E non posso che ammettere: sono di fronte a un sublime capolavoro kitsch, intossicante e ineludibile, con un’anima blue collar (un po’ come il primo Rambo) che giustifica lo sbandamento intellettuale, anche a fronte di un militarismo esibito senza ritegno: alla nazione bruciava ancora il culo dopo la sconfitta in Vietnam (come ricordava bene Un pesce di nome Wanda non avete pareggiato, avete perso, ah ah!) e il film ottenne un successo clamoroso, con corsa all’arruolamento di tanti babbei. Richard Gere ebbe invece – dopo American Gigolo – la definitiva affermazione: qui entra in scena in canottiera, bacino leggermente in avanti, braccia penzoloni, scocciato. Vi assicuro, ho visto cani con lo sguardo molto più intelligente. Orfano di mamma, con babbo marinaretto puttaniere e ubriacone, Zack Mayo ha alle spalle un’infanzia difficile nelle Filippine, traumatizzato da donne zoccole e uomini ladri scimmieschi (tutto grazie a scene esemplificative che ci danno subito la razzista chiave giustificativa per comprendere come mai Zack sia un po’ fragilino). Il ciondolone decide di dare una svolta alla sua vita e uno schiaffo morale al padre e per dimostrare qualcosa si iscrive al corso ufficiali dell’aviazione. Nel campo d’addestramento affacciato sul Puget Sound, stato di Washington, lo attende il sergente Foley, Lou Gossett jr. (che per l’interpretazione vincerà il premio Oscar), che allena le matricole facendogli cantare canzoni giulive contro i vietcong, da abbrustolire col napalm, donne e bambini compresi, cosa che nella versione italiana era prudenzialmente censurata. Servono 6 anni per uscire dall’accademia come piloti: questo è solo l’inizio ma è la scrematura più dura. Intorno alla base bazzicano ragazze in cerca di marito, per scappare da questa zona della costa pacifica francamente deprimente (ambientino che ti ha creato un Kurt Cobain, per dire). Due di loro vengono adocchiate alla prima occasione da Zack e dal commilitone Sid: sono Paula Pokrifky e l’amica Lynette, operaie in una cartiera. Paula, con un cognome che sembra una divinità malvagia di un racconto di Lovecraft, è Debra Winger, attrice che ho amato, amo e amerò sempre, uno splendore assoluto, con gli occhi come due fanali, non bella secondo i canoni classici, ma adorabile. Okay, asciugo la bavetta e proseguo: lei mezza polacca, Zack italo-irlandese (direi con i difetti delle due nazionalità), si trovano alla perfezione, con ansia di riscatto sociale ed esistenziale. Nasce un amore che ai miei 13 anni aveva creato qualche spaesamento sessuale: i due scambiano baci sbocconcellati il cui rumore è quello di un cane che lappa dalla scodella uno spezzatino sugoso, masticando i boli a bocca aperta e sbatacchiando le fauci. E vabbeh. Si arriva al primo accoppiamento dopo che lui ha sbroccato per questioni di possesso della merce: al suono di Tush degli ZZ Top c’è stato il virile confronto con quei bovari locali che si vedono fottere dai militari il bestiame femminile. Mayo ha spaccato il naso a un poverino che obiettava alla razzia, poi – siccome è sensibile – si è pentito e Paula: “Non hai avuto scelta” (e non è vero!). Zack: “Un uomo ha sempre una scelta”, e cominciamo ad addentrarci nei territori del Mito. Segue sceneggiata degna di Merola con lui che non ne vuole sapere, lei invoca attenzione, lui la offende e la scaccia, lei piange, lui la raggiunge, le soffia in un orecchio, una carezza, un bacio e voilà, e dopo la prima chiavata cowboy style lei è subito geisha e gli cucina le uova col bacon (e lui mangia come un cafone, con la testa nel piatto, la forchetta tenuta come un pugnale e pure i gomiti sul tavolo. Bah). Ahia, qui c’è già puzza di famiglia. Intanto l’addestramento punteggia la narrazione evidenziando le caratteristiche dei compagni di corso, tra cui Casey Seeger, la ragazza che non riesce a superare il percorso di guerra. Alla truppa viene insegnata la disciplina e lo spirito di corpo e Foley prova a far fuori Zack che commerciava in scarpe e fibbie lucidate, il mascalzoncello. Non ottiene le sue dimissioni dopo un’altra scena madre (“Don’t you eyeball me, boy!”) e da lì in poi il corso è una passeggiata di piacere. Però viene fuori che Paula è figlia di un aspirante ufficiale che poi ha mollato lì la madre. Allora lui scappa, il cazzo non vuole pensieri, eh. Sulle note dell’assolo di Tunnel of Love dei Dire Straits si riavvicinano, lui si fa sotto, è lei a sfancularlo e gli fa capire un po’ di cose. Intanto siamo a fine addestramento, diversi aspiranti piloti hanno rinunciato, e arriva una scena MONUMENTALE, quando Mayo rinuncia a fare il record sul percorso di ddv6801bguerra perché va in soccorso di Seeger. Perché non vince nessuno se non si vince tutti, te capì? E subito, dietro l’angolo c’è il DRAMMA. L’amico di lui, Sid Worley, un burino rifatto del Midwest che deve dimostrare al padre che ha le palle per far dimenticare un fratello morto in Vietnam, scopre che Lynette è forse incinta… detto fatto: dimissioni e anello di fidanzamento. Ma la sgallettata vuole girare il mondo al seguito del suo ufficiale e confessa che no, non c’è nessun bimbo in arrivo. Sconforto. Zack cerca uno sfogo con Foley: si randellano in un confronto edipico, battere il maestro per diventare adulti. Non ci riesce per un pelo e piglia un calcio nei coglioni che dovrebbe farlo cantare come Farinelli per il resto dei suoi giorni. Ha perso ma è come se avesse vinto. Siamo all’EPICA PURA: Sid si suicida e Mayo piange calde lagrime. Ormai è un uomo. Il finale è APOTEOSI GALATTICA: lui, graduato, va a prendere in fabbrica Paula, se la piglia in braccio e la libera dalle sue catene proletarie tra gli applausi delle altre operaie, compresa Lynette che piagnucola “È così che si fa” (e non si capisce se intenda che gli uomini vadano infinocchiati in questa maniera o cosa, boh). Finale da Cenerentola con Joe Cocker e Jennifer Warnes che cantano Up Where We Belong. Beh, cosa posso dire ancora? Eh, che siamo davanti a un capolavoro ricattatorio, perfetto esempio di cinema popolare, capace di abbattere ogni preclusione ideologica o resistenza alla melassa. E io son stato fatto prigioniero, tutto sommato felicemente, lo ammetto. E ora: “Fuori dalle palle, Mayo!”. (Dvd, dicembre ’09)

LIFE ON MARS756 – Un’altra vita? Life on Mars di Aa.Vv., Gran Bretagna 2006
Cosa farei io se capitassi nell’Inghilterra del 1973? Ah, beh: avrei una lista di concerti lunga così a cui andare. Invece Sam non sa ben come comportarsi, perché lui nel 1973 ci capita dopo esser stato investito da un’auto nel 2006, rimanendo vagamente stordito. Che ci fa, lì? Come mai ha fatto un salto nel tempo? Il dubbio è la vera linea tesa nel racconto, che procede per casi polizieschi, giacché il protagonista finisce a lavorare come sbirro nella stessa Manchester dal cui futuro proviene. Da un certo punto in poi il protagonista sente le voci come Giovanna d’Arco, senza particolari colpi di scena, e vive la sua esperienza parallela come se fosse in coma profondo, un po’ come in A Matter of Life and Death (Scala per il paradiso di Powell e Pressburger: citare in originale fa molto Ghezzi). Là c’erano più IPM (invenzioni per minuto), va detto, ma paragonare un film a una serie è sciocco e siccome ci vuole niente per farmi su, mi affeziono a Sam e al suo superiore, il clamoroso ispettore capo DCI Gene Hunt, omofobo, fisico, violento, tutto istinto animale, ignorante come una campana, ma dotato di un innegabile fiuto. Perché i casi all’epoca si risolvevano così: a botte date e a botte d’intuito avute. Giocando molto la serie sugli anacronismi, fa un po’ ridere pensare che adesso abbiamo i profili psicologici, il luminol, le impronte e le analisi scientifiche, perché poi, oggi come allora, c’è chi è segnato e pagherà e chi invece la farà sempre franca. Bella è la ricostruzione della Gran Bretagna dell’epoca, dominata da uno squallore bestiale: tutti morti di fame, dai poliziotti ai malviventi, e le rapine in banca erano faccende improvvisate, come le indagini che seguivano. Ci si divertiva con birra e freccette e la televisione era ammorbante. Forse per reazione, usciva musica di una bellezza unica, che colorava il grigiore di quella società: la soundtrack è eccezionale, con almeno due grandi hit a puntata (Bowie, Deep Purple, Pink Floyd, Wings, Slade, Sweet, Free etc.) e un generale gusto per la riscoperta di alcune chicche musicali coeve (che mi vanto di riconoscere tutte dopo due note). Il finale della serie è così cosà: rimanda la soluzione dell’inghippo e ci lascia nel limbo in cui si trova anche il povero Sam. Vedremo. (Dvd; dicembre 2009)

ddv6803757 – Le semplificazioni di Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, Italia/Francia 2006
Quando vedi un film ogni due mesi, poi rischi che ti sembrino tutti dei capolavori. Non è questo il caso, ma il film si fa vedere, soprattutto per il buon cast. Antonio Pennacchi, autore del romanzo Il fasciocomunista da cui il film è tratto, ha protestato molto per il trattamento. Diciamo che Pennacchi s’incazza e fa caciara a prescindere, ma qui ha ragione da vendere. Il fatto è che Il fasciocomunista faceva dell’ambiguità, del dubbio e dell’incazzatura verso il mondo, la sua cifra. Luchetti assieme agli ubiqui Rulli e Petraglia ha invece optato per una più comprensibile e manichea suddivisione dei personaggi: i buoni e i cattivi, il bene e il male. E se il libro rimaneva inconcluso – in qualche maniera – era proprio perché la rabbia del personaggio era irriducibile; qui invece ti tocca pure il lieto fine che ci manca che suonino le trombe e gli angeli cantino in coro. Semplificando, si son tenuti i caratteri dominanti dei personaggi (tutti bellissimi, ricchi, sfaccettati, nel romanzo; qui più monodimensionali) e s’è dato un ordine lineare alla trama. Come se avessero squadrato il romanzo, lo avessero razionalizzato, mentre là era bello proprio quel disordine, specchio di una personalità e di una società. Accio Benassi è l’ultimogenito di una famiglia di Latina e non ci sta, mai. Contesta, protesta e mena (botte che sono sempre abbracci, ricerche di contatto fisico, richieste d’amore e di calore), non gli vanno la religione e i ruoli familiari e, da fascistello contestatore, diventa presto comunista (conversione che nel romanzo è, per forza di cose, dosata meglio), seguendo le orme del fratello Manrico e della brava sorella maggiore. Subplot che fa da colonna dorsale del film è la mancanza di una casa, invenzione da manuale di narrativa dei due sceneggiatori onnipresenti, che porterà a un canonico finale liberatorio, catartico, con riscatto e ricompensa. La prima parte del film vive bene, poi la narrazione s’impantana un po’ e funziona solo grazie alle interpretazioni: il porcino Riccardo Scamarcio, il nervoso Elio Germano che sembra un Mastandrea sotto eccitanti, la splendida Diane Fleri e Alba Rohrwacher, brava e intrigante, con la sua faccia da strega di Salem. Buon film medio per il pubblico borghese quale ormai rappresento degnamente con i miei 94 chili di ciccia. Consueto sonoro italico pessimo, accettabile la ricostruzione storica e almeno una gran bella scena: quella dell’occupazione del conservatorio, dove si sente il piacere della fratellanza nella condivisione politica, della provocazione, del gioco, dell’emozione. (Dvd; 23/12/09)

ddv6804759 – Poca roba, 24: Redemption di Jon Cassar, USA 2008
Lotsa spoilers, here, folks! Ma detto tra noi, non vi perdete niente: il film è frutto dell’annata storta della fiction USA, conseguente allo sciopero degli sceneggiatori. Si è arronzato un film, ma anche lavorando, direi che gli sceneggiatori hanno continuato a manifestare (tra l’altro, magari lo facessero in Italia uno sciopero, gli sceneggiatori, che ci risparmieremmo i Cesaroni…), perché questo Redemption è una mezza schifezza, praticamente un Bud Spencer-movie con le pistolettate al posto dei ceffoni. Jack Bauer è in Africa, a espiare, nel misconosciuto stato del Sangala, paese che ogni volta che veniva citato mi faceva pensare a Bracardi che urla “Fangala! Pippe Baute, fangala!”. Non si sa bene di cosa sia ricco, il Sangala, ma i bianchi tramano con l’aiuto di milizie e soldataglia violenta e tonta (ovvio, sono neri). Jack resiste assieme al volontario Robert Carlyle, corrugato come un olivo saraceno. Gli tostano un’orecchia e lui reagisce tentando di salvare tanti bambini innocenti. I ribelli hanno ovviamente bandiere rosse; gli uomini delle Nazioni Unite sono traditori e vigliacchi. Botte, fughe, inseguimenti, ma siamo abituati a 24 ore croccanti, noi, non a 100 minuti raffermi. Nelle ultime scene vanno in parallelo il discorso d’insediamento della nuova presidentessa d’America (dopo il nero, la donna: chissà mai che non ci azzecchino anche stavolta) e la fuga in elicottero dall’ambasciata di Sangala (molto Saigon-style). E mentre si parla di libertà e ricerca della felicità vengono mostrati i volti di chi vende armi e trama sottobanco. Tornerà tutto nella prossima serie? (Dvd; 27/12/09)

ddv6805760 – Scopano come cani in Caos calmo di Antonello Grimaldi, Italia 2008
Premetto: anni fa, sulla scorta del successo (…) di Fame chimica, Paolo Vari, regista, e io, indegno suo giullare, abbiamo letto ancora in bozze Caos Calmo, di Sandro Veronesi. Siccome abbiamo fiuto da vendere e volevamo dimostrare ai cinematografari romani che non eravamo gente che si comprava con un best seller, avevamo storto il naso: ci pareva ‘na strunzata, insomma. E invece il film che ne è venuto fuori sta in piedi nonostante richieda una bella sospensione d’incredulità di fronte alle vicende raccontate, peraltro intrise di realismo spicciolo, in una curiosa contraddizione che però funziona. Comunque: è la sera prima di capodanno e festeggiamo la fine di questi insipidi anni Zero soli soletti a casa di mia sorella, a Genova, sapendo che ci sveglieremo dopo la mezzanotte a causa di Elena e non dei botti. Regista è quell’Antonello Grimaldi, già “direction consultant” di Radiofreccia di Luciano Ligabue, cioè, secondo la maldicenza di alcuni del settore, il vero regista. Qua se la cava benissimo, pur rifugiandosi talvolta in un mimetismo morettiano che – a seconda dei gusti – può irritare o compiacere: la vertigine della lista, le manie, i tic, le idiosincrasie di Nanni si attagliano alla sofferenza di un protagonista che vuol fare ordine nel passato per trovare chiarezza nel presente. La storia non ve la racconto perché esistono apposta centinaia di enciclopedie in Rete e su carta. Noto solo che già nella prima scena appare il capezzolone di Isabella Ferrari, quasi un monito per ciò che capiterà dopo. E cioè una scena di sesso dove l’austero Nanni perde ogni inibizione e titilla le mammelle della biondona come se fossero il joystick della Playstation e, dopo tanto desiderare, la tromba, la bomba e la pistona, sfasciandola più di quanto non sia già sfasciata di suo, con la faccia di lei che sembra un mascherone da tragedia greca. Beh, se ripenso al Sapore di mare vanziniano, mai avrei pensato a un incontro di questo tipo, Moretti vs. Isabellina. Va anche detto che la sequenza che tutti ha fatto parlare ha un suo perché. È grottesca ma anche vera, imbarazzante perché non patinata, realistica nella goffaggine, nelle smorfie, nei grugniti, nella mancanza di eleganza (mani che ciancicano, leccate bavose, pelle)… e non è sotto la lenzuola come fanno quei falsoni degli americani, anzi: mentre tampona la Ferrari da tergo, Nanni mostra il culone e una frazione di secondo di pendaglio moscio. Vabbeh. Detto della sequenza cult, noto che Gassman è sempre più bravo, la Golino è come la Gorgona (cioè con la testa mozzata appoggiata al collo) e Kasja Smutniak ha un sorriso che illumina lo schermo. Lo sapevo – modestamente – anche dal vivo, ma non lo ricordavo più. Buon anno. (Dvd; 31/12/09)

ddv6806761 – L’assiderante Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, Italia 2004
Film stralunato, freddissimo, quasi ibernato, improntato a un’estetica minimale che può anche irritare. Toni Servillo oscilla tra la perfezione e la gigioneria: il confine è labilissimo ed è solo con la ritrovata umanità della seconda parte che viene fuori la bravura dell’attore che si scongela grazie al sentimento. Comprimaria una nipote della Magnani, dall’occhio inceneritore finché non apre bocca e infatti mai più sentita né vista, anche se negli extra del Dvd straparla come se avesse vinto un Oscar e pure un Nobel. Comunque mica male ‘sto Sorrentino, sai? (Dvd; 7/1/10)

ddv6807762 – La salutare distopia di Battle Royal di Kinji Fukasaku, Giappone 2000
Non ricordo bene come ci sono arrivato, ma in una botta di esotica spericolatezza, mi procuro il cofanetto del film in un’edizione con un non meglio specificato “alternate ending” e ricca di bonus. Lo vedo con la cugina Alessandra una sera che Barbara è via, e il film ci prende, inutile negarlo. Giappone di un prossimo futuro, con la gioventù ormai allo sbando. Per dare una qualche scossa ai ragazzi se ne portano un tot su un’isola e li si costringe a combattere per sopravvivere: ne devono rimanere due, vivi, e ogni colpo proibito è ammesso. La competizione mortale viene ripresa e trasmessa come un reality estremo dalla funzione altamente educativa. Le grafiche rendono conto di ogni eliminazione e molte le vediamo – con gusto cinico – mentre accadono, col privilegio di entrare anche nella narrazione, non solo assistendo al programma tivù dentro al film. Però è come se – rispetto al testo ricchissimo di suggestioni – ci fosse una messa in scena qualche volta non all’altezza. Intendo dire non così inventiva. Però sono io un rompipalle, il film ha già dieci anni e il regista Fukasaku ne aveva pur 71 e mica poteva fare il tarantinato a ogni momento. Bellissime le sequenze dei sogni, l’uso della musica classica (il violento Dies Irae di Verdi che è autentico Heavy Metal ottocentesco, ma di quello cattivo) e il tema della sessualità adolescenziale. Invece alla teatralità degli attori (penso alle scene di gruppo iniziali) bisogna farci un po’ l’abitudine. Immenso Takeshi Kitano, che ha la parte del cattivo maestro (raramente m’è capitato di pensarla diversamente su di lui). Film da vedere eccome, comunque. (Dvd; 9/1/10)

ddv6808763 – Lo splendido The Shield – Prima Stagione di Shawn Ryan, USA, 2002
Un’altra serie. Che è una bomba, ma della quale non m’innamoro subitissimo. Perché non voglio. È che il mio cuore è già su E.R., inarrivabile, e anche un po’ su 24, da cui sto provando a disintossicarmi. E poi ho finalmente recuperato Prigionieri delle pietre, uno sceneggiato (si chiamavano così) inglese degli anni Settanta per ragazzi di cui attendo da più di trent’anni di sapere come vada a finire. Ragazzi: le serie tv esigono la visione compulsiva ed esclusiva, sono droghe, le vedi alterato dalla scimmia on yo back: ho un migliaio di Dvd da vedere e devo tornare a cibi sani, a fare sport, dormire bene. Devo tornare a vivere, cioè vedere film. Ovviamente dopo la fine di Lost, la morte di Green in E.R. e qualunque cosa accada in 24, Boris e pure quei Soprano che mi aspettano da un anno in cofanetto ancora cellofanato. Poi smetto, giuro. Però The Shield è grande, maledizione, grandissimo: distretto di polizia losangelino dove bene e male sono indistricabilmente allacciati, dove l’etica si scontra ogni giorno col pragmatismo o l’interesse, dove ti affezioni a gente moralmente schifosa ma che fa quello che fa perché qualcuno deve pur farlo. Sai che non è giusto, ma ci caschi e l’equilibrio del dubbio è la scommessa vinta da questi sceneggiatori eccezionali. The Shield è acido, imbarazzante, ambiguo, sporco. È inaccettabile ed è la vita, come non vorremmo che fosse messa in scena perché già la viviamo, ma è questo coraggio insopportabile a renderla una serie unica. Scritto come se fosse Ellroy e girato come un Dogma senza pretese, ma vivo e ansiogeno, vedremo come va avanti, se riesce a non sbracare. Ah: non merita una recensione perché l’ho visto a pezzi, ma Il gobbo di Notre Dame non è niente male. E vogliamo parlare della zingara Esmeralda? Beh, se le donne rom fossero tutte così, credo che gli italiani diventerebbero il popolo più ospitale della terra, a partire dal Presidente del consiglio. Esmeralda sembra una pornostar anni Ottanta, di quelle tettute, con gli occhioni verdi da cerbiatta e i capelli vaporosi. Senza dubbio la miglior CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, vedi qui e qui) di sempre. Animazioni belle, architetture gotiche sublimi e messaggi inconsueti per l’universo Disney. Il Potere ne esce malissimo al grido dei disperati: “Diritto d’asilooooo!”. Fa più propaganda questo Disney che 10 anni di Partito Democratico, senza esagerare. (Dvd; gennaio e febbraio 2010)

ddv6809764 – L’esistenziale Boris 2 di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2008
Boris riparte abbastanza bene, poi ha una flessione (verso la quinta e sesta puntata) e poi piazza lo scatto con un rush finale da antologia, clamoroso, con rimandi mistici (“Senti la Forza, René!”) e all’attualità (sempre attuali: l’Italia è il paese del disastroso eterno presente). Immenso Corrado Guzzanti in una parte di attore sciroccato che sostiene di aver parlato con Gesù Cristo sulla Roma-L’Aquila e invece scarico in un ruolo di contorno da ecclesiastico sui generis. Nella serie sono più chiare alcune linee narrative e diventa un motivo dominante la storia d’amore tra l’assistente Arianna e lo stagista Alessandro, mentre crescono i personaggi dello stagista muto, Lorenzo, e dell’elettricista esaurito Biascica. Non male neanche la nuova divetta, cagnissima, e lo zoccolone di contorno, la vivace Karin. I personaggi principali si alternano, ma René rimane il cardine centrale, lui e il suo dubbio esistenziale/professionale. Capolavoro in crescendo, con una sfumatura poetica sempre più accentuata, pur nella descrizione quotidiana dell’aberrante professionalità televisiva. Ed è tutto vero, vi assicuro. (Dvd; febbraio 2010)

ddv6810766 – Muovi il culo e pensa: WattStax di Mel Stuart, USA 1973
Un concertone per celebrare la dignità del popolo afroamericano nel settimo anniversario della rivolta di Watts, un sobborgo nero di Los Angeles. Lo organizzò la Stax ed è passato alla storia come la Woodstock black, anche se la similitudine tra le due manifestazione finisce nell’assonanza e nel fatto che ne sia stato tratto un film. Là il caos, qui un’organizzazione ferrea, uno spettacolo superbo e un’affermazione politica che ha fatto epoca e purtroppo non ha avuto seguito, come se fosse stata la pietra tombale sul movimento di emancipazione nero, da lì in poi represso sempre più violentemente, annientato con le armi, la droga o i consumi. La musica stessa è al top del suo fulgore, molto bella e sentita, con testi che dicono sempre qualcosa, in maniera sofferta, com’è tradizione, ma con frequenti apertura alla gioia del canto e alla bellezza della danza prima della deriva puramente edonistica che seguirà nei tardi anni Settanta (musica sempre divertentissima, intendiamoci, ma un po’ senza cervello). Si cantano ancora l’orgoglio, il desiderio di libertà, la frustrazione del blues. Poi saranno solo smancerie, come in qualche caso qui già anticipato. Il documentario fa vedere ed ascoltare i diversi partecipanti, su cui spiccano – nel mio personale score – il Rance Allen Group (gospel rock potentissimo con un cantante che stazza come Giuliano Ferrara e canta come Ian Gillan con i coglioni in una morsa) e i Bar-Kays, conciati come comparse di Jesus Christ Superstar ma senza ritenersi in costume. Il pubblico è partecipe in maniera straordinaria e si fa sentire fin dal sermone rap del reverendo Jackson (con un testone afro da paura) che fa recitare a tutto il Coliseum il mantra I AM SOMEBODY: povero, ignorante, senza lavoro, senza capacità, ma IO sono qualcuno, con una dignità da rispettare. Il massimo si raggiunge quando molti spettatori abbandonano le gradinate per invadere il campo e… ballare. Non gliene frega niente di andare sotto il palco ad esagitarsi, non importa essere vicini all’artista: interessa avere spazio per muoversi, esprimersi, e una volta finita l’esibizione di Rufus Thomas, al suo cortese invito tornano tutti ai loro posti. Semplicemente incredibile. La regia intervalla le performance con interviste alla gente del quartiere e, con un montaggio agile, sappiamo come la pensavano su sesso, religione, politica, lavoro e non solo. Perché è estremamente politico parlare anche della propria capigliatura, del gospel e del blues, dell’espressione corporea che si comunica col ballo, dei rapporti tra uomini e donne (o meglio tra brothas ‘n sistas), dell’eredità culturale africana, del perché – in definitiva – nero sia bello. E molto: gli intervistati sono splendidi, scelti benissimo, saggi, scaltri, con la lingua velocissima (e seguire il film in originale è veramente difficoltoso). Ma stupiscono l’eleganza, la fierezza e l’austera bellezza della razza, sinuosa e muscolare, sensuale e fisica. A stemperare un clima che comunque è sereno e piacevolissimo, l’ulteriore bonus dello stand up comedian Richard Pryor che è un’esplosione di macchiette godibili. Questo film è un capolavoro che fa muovere il culo e il cervello. Ne ricordo pochi, recentemente. (Dvd; 27/2/10)

(Continua – 68)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 61 https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-61/ Thu, 03 Jul 2014 21:26:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15584 di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004 Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì. Venerdì arrivo presto [...]]]> di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)

ddv6102Douro632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)

ddv6103 JCS639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)

ddv6104 Bova640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)

ddv6105 24641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)

ddv6106 Uccidete la democrazia642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)

ddv6107 apocalypto645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)

ddv6108 HRCCacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
ddv6109 MoscaDopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)

655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)

ddv6110 History Of Violence660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)

(Continua – 61)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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