Jeremy Bentham – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Linea del colore, sorveglianza razzializzata, controllo sociale https://www.carmillaonline.com/2023/12/06/linea-del-colore-sorveglianza-razzializzata-controllo-sociale/ Wed, 06 Dec 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80229 di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, [...]]]> di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, saggista, poeta, iscritto dal 1961 al Partito Comunista degli Stati Uniti, parlava soprattutto della situazione interna alla sua patria d’origine dove, nel 1868, era nato nel Massachusetts; ma la sua profetica previsione si è in seguito rivelata fondata, sotto molti punti di vista, ben oltre le linee temporali del secolo passato.

Quella intuizione, che avrebbe fatto sì che W.E.B. Du Bois si battesse per tutta la vita per il riconoscimento dei diritti degli afro-americani ha alimentato le riflessioni sul problema della separazione razziale e del razzismo ad essa intrinsecamente connesso fino ai nostri giorni, spesso affiancata al pensiero di Frantz Fanon. Esattamente come, indirettamente, sottolinea l’opera di Simone Browne pubblicata ora anche in Italia da Meltemi nella collana «Culture radicali» sotto la direzione del Gruppo Ippolita, gruppo di ricerca indipendente che si occupa di cultura digitale, critica della rete e tecnopolitica.

In Materie oscure/Dark Matters, Simone Browne, che si occupa di diaspora nera, media digitali e sorveglianza presso il Dipartimento di Studi Africani e della Diaspora Africana dell’Università del Texas, dove insegna Black Studies, fa parte del collettivo cyber-femminista “Deep Lab” ed è direttrice di ricerca del “Critical Surveillance Inquiry”, un gruppo di lavoro che prende in esame le implicazioni sociali ed etiche delle tecnologie di sorveglianza, traccia una genealogia delle tecnologie e delle pratiche di sorveglianza contemporanee, mostrando come queste derivino da una lunga storia di discriminazioni razziali perpetuate dagli oppressori bianchi per controllare le vite e i corpi delle persone nere schiavizzate.

In questo suo primo libro, esamina e mette in relazione la sorveglianza digitale, la schiavitù transatlantica e le tecnologie biometriche. Le fonti prese in esame sono molteplici: dal progetto della nave negriera Brooks al Panopticon di Jeremy Bentham, fino alla biometria e ai bias algoritmici delle piattaforme digitali.

La sorveglianza è una pratica discorsiva e materiale – sostiene Browne – che reifica i margini, i confini e i corpi lungo le linee della razza. La sorveglianza della nerezza è stata e continua a essere una norma sociale e politica da contrastare. Ma, come ancora indirettamente dimostra la presente opera, le tecniche usate per definirla e controllarla si sono ampliate oggi a tal punto da far sì che la profilazione degli individui e dei corpi sociali riguardi ormai una gran parte, se non la totalità, degli esseri umani sottoposti alla vigilanza del capitale e dei suoi scherani, armati o meno che siano.

Browne ci ricorda come, ancora una volta, sia stato proprio Frantz Fanon a intuire, durante le lezioni che ebbe modo di tenere all’Università di Tunisi, dopo che nel gennaio del 1957 le autorità francesi lo avevano espulso dall’Algeria per aver collaborato con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, che la modernità potesse essere caratterizzata dalla profilazione dell’essere umano.

Nonostante di queste lezioni non rimangano altro che pochi appunti, le osservazioni di Fanon sul monitoraggio delle chiamate e sui sistemi di telecamere a circuito chiuso sono essenziali. Grazie a questi appunti possiamo comprendere l’analisi che Fanon propone dell’alienazione e degli effetti della modernità e la sua lettura critica sulla sorveglianza e le relative forme di resistenza1.

Le ricerche dell’autrice rivelano, fin dalle prime pagine del libro, come per i servizi di sicurezza e spionaggio americani Frantz Fanon rimanga, a più di sessant’anni dalla morte, ancora «materia innominabile: anche da morto, a quanto pare, rimane una minaccia “a oggi propriamente classificata”, così come “le prove che possano attestare l’esistenza o la non esistenza” di un registro riguardante Fanon “sono informazioni che fanno parte di fonti e procedure protette dalla divulgazione”».

La documentazione relativa a Fanon consultabile grazie alla legge sulla libertà di informazione fa parte di una lunga storia di pratiche di spionaggio riguardanti un largo numero di radicali, artisti, attivisti e intellettuali neri tenuti sotto controllo dall’FBI. Questa lista include Assata Shakur, James Baldwin, Lorraine Hansberry, Stokely Carmichael, il Comitato studentesco per la coordinazione non-violenta, i Freedom Riders, Martin Luther King Jr., Elijah Muhammad e la Nation of Islam, Claudia Jones, Malcolm X, Fred Hampton, William Edward Burghart DuBois, Fannie Lou Hamer, Cyril Lionel Robert James, Mumia Abu-Jamal, Angela Yvonne Davis, Richard Wright, Ralph Ellison, Josephine Baker, Billie Holiday, le Pantere Nere, Kathleen Cleaver, Cassius Clay, Jimi Hendrix, Russell Jones aka Ol’ Dirty Bastard dei Wu-Tang Clan, e molti altri ancora2.

Tutti accomunati, come si può facilmente notare da un’unica caratteristica: la nerezza e l’esser afro-americani. Questa osservazione ci permette così di entrare nel merito del discorso sviluppato da Simone Browne e già parzialmente anticipato prima. In cui si rileva che

piuttosto che pensare alla sorveglianza come qualcosa di inaugurato dalle nuove tecnologie, come ad esempio il riconoscimento facciale o i veicoli a guida autonoma (o i droni), è necessario intenderla come un processo che affonda le proprie radici nel passato e che continua a svilupparsi nel presente. Questo permette di ribadire la necessità di tenere in considerazione quanto il razzismo e l’anti-nerezza siano elementi strutturali e una delle basi delle varie intersezioni delle sorveglianze contemporanee3.

Sostanzialmente la mentalità razzista, che sovrintendeva alla tratta atlantica degli schiavi e all’organizzazione del loro controllo e trasporto da un parte all’altra del mondo, di fatto ha anticipato le norme del controllo sociale contemporaneo attraverso la registrazione, la marchiatura e l’assicurazione sugli stessi per garantirne la proprietà dei “bianchi”. Cosicché l’opera di catalogazione giudiziaria, razziale, economica, sociale, mercantile, di genere e di classe che risulta dagli attuali processi di profilazione diffusa attraverso l’uso di strumenti di controllo non solo polizieschi ma, e forse soprattutto, volontari per mezzo dei social media e delle disparate piattaforme di comunicazione personale e commerciale, trova le sue origine in pratiche messe in atto fin dal XVIII secolo.

Questi corpi, ridotti a pacchetti di informazioni, vengono stoccati in immensi database in cui confluiscono tutti i dati raccolti su larga scala. Storicamente, cronache di simili pratiche di contabilità possono essere trovate nelle distinte delle navi negriere, nelle polizze assicurative ai proprietari degli schiavi, nella marchiatura come tecnologia di tracciamento della nerezza, per garantire che quei corpi venissero identificati come proprietà privata4.

Da qui deriva anche il titolo del libro poiché quel Dark Matters fa riferimento alla razza: «dove la razza, come sostiene Howard Winant, “continua a essere la materia oscura, la sostanza il più delle volte invisibile che struttura l’universo della modernità”»5. Un universo-mondo strutturato secondi rigidi schemi divisivi che, però, pian piano si sono espansi ben al di là della funzione di controllo della schiavitù per diventare norma esistenziale per gli appartenenti ai gruppi sociali classificati come potenzialmente pericolosi poiché caratterizzati dalla nerezza secondo lo sguardo indagatore del sistema “bianco”
e capitalistico.

Sguardo indagatore che a partire dall’osservazione sociologica canonica «avrebbe contribuito a trasformare ‘l’osservazione’ in una tecnica epistemologica ‘oggettiva’, a vantaggio del potere statale moderno. In questa maniera è stato possibile definire la sorveglianza come una pratica scientificamente accettabile e socialmente necessaria. Ciò faceva sì che il sociologo, in quanto osservatore, si sentisse al sicuro e separato dalle pratiche oscene degli uomini, delle donne e dei bambini afroamericani»6.

Un processo che, però, si è andato progressivamente allargando a tutto il corpo sociale, occorre dirlo, anche non caratterizzato dalla “nerezza”. In cui lo sguardo inizialmente rivolto allo schiavo o, per dirla con Ralph Ellison, all’uomo invisibile si è rovesciato anche contro l’osservatore primigenio.

Osservazione, quest’ultima, che, più che sminuire la traccia specifica della ricerca di Browne riguardante la condizione determinata dalla “nerezza”, intende invece sottolineare come la scarsa o nulla capacità della classe operaia bianca di accogliere le istanze del proletariato nero e farsene portatrice in nome di una comune lotta per la liberazione reciproca, sia di classe che di genere, ha finito col condizionarla fino a renderla incapace di difendere i propri interessi materiali e politici.
Proprio come, già nel XIX secolo, Marx ed Engels avevano previsto quando rimproveravano gli operai inglesi, incapaci di difendere gli operai irlandesi immigrati e sottomessi e, per questo motivo, destinati a veder inscritti nei propri comportamenti la condanna e l’immancabile sconfitta. Economica, sociale e politica.

Comunque fin dall’origine del sistema di fabbrica con «i timbracartellini che tengono traccia del tempo trascorso dagli operai in fabbrica, fino a forme più onnipresenti di osservazione, monitoraggio della produttività e raccolta di dati, come la visualizzazione remota del desktop o il software di monitoraggio elettronico che tiene traccia dell’uso di Internet da parte dei dipendenti al di fuori del lavoro»7 i metodi di sorveglianza dei comportamenti sul lavoro e nella vita privata hanno costituito un elemento essenziale dell’ordinamento sociale e statale di stampo capitalistico. Destinato ad ampliarsi sempre più nei confronti di ogni categoria e classe sociale.

Il termine “ordinamento panottico” di Oscar Gandy designa i processi attraverso i quali la raccolta di dati relativi a individui e gruppi come “cittadini, dipendenti e consumatori” viene utilizzata per identificare, classificare, valutare, ordinare o comunque “controllare il loro accesso ai beni e ai servizi che caratterizzano la vita nella moderna società capitalista”. Un esempio è l’applicazione di punteggi di fiducia da parte degli istituti di credito, per valutare l’affidabilità creditizia dei consumatori o per il marketing mirato delle offerte di finanziamento per speculare grazie a prestiti ad alto tasso di interessi. L’ordinamento panottico privilegia alcune persone, penalizzandone altre. Questi concetti – sospetto categorico, selezione sociale, società di massima sicurezza, guinzaglio elettronico, controllo partecipato, ordinamento panottico – insieme a quello di “assemblaggio del soggetto sorvegliato”, sono alcuni dei modi in cui la ricerca è giunta a teorizzare la sorveglianza. L’assemblaggio del soggetto sorvegliato vede il corpo umano osservato prima “scomposto, perché sottratto al suo contesto territoriale”, e poi riassemblato altrove (ad esempio, in una banca dati per la rendicontazione del credito) per essere usato come un “doppio digitale” fatto di dati o come strumento di confronto. Ne sono un esempio i calcoli per l’affidabilità creditizia o le analisi delle urine nei test antidroga, in cui il campione biologico viene raccolto e analizzato per verificare l’uso di sostanze8.

Per questo motivo, prendendo a modello l’opera di Foucault in cui «lo sguardo disciplinare del Panopticon è l’archetipo del potere della modernità», fin dal primo capitolo l’autrice sottolinea che «anche la nave schiavista deve essere intesa come un’operazione del potere della modernità e come parte della violenta regolamentazione della nerezza» e prende in esame il Panopticon (1786) e il progetto della nave schiavista Brooks (1789) per ciò che svelano sulla sorveglianza, sulla razza e sulla produzione di conoscenza. Mentre nei capitoli successivi il discorso sulla sorveglianza viene approfondito attraverso l’analisi del Book of Negroes, un registro del XVIII secolo che elenca tremila ex schiavi che una volta emancipatisi dalla schiavitù si imbarcarono principalmente su navi britanniche; le tecnologie biometriche e il loro ruolo nella formazione della razza afroamericana, a partire dalla marchiatura degli schiavi, che, come la tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali e le scansioni della retina, “riducono la carne a pura informazione”; fino all’«ondata di dirottamenti aerei [che] all’inizio degli anni Settanta portò infine alla legge antidirottamento o Air Transportation Security Act del 1974, firmata da Nixon il 5 agosto 1974, quattro giorni prima delle sue dimissioni», introducendo il concetto di bagaglio razziale per descrivere quanto la razza e il razzismo pesino su determinate persone in aeroporto.

Una rassegna storica, sociale e politica che permettere di cogliere in profondità le radici e le forme del controllo che pervadono la società nel suo insieme e opprimono le sue componenti razzializzate in particolar modo. Un testo lucido che può mettere in discussione non solo le esigenze di controllo spacciate come esigenze di sicurezza nazionale o sociale, ma anche le più recenti teorie del controllo collegate alle proteste contro il green pass e le vaccinazioni. Utile, quindi, come tutto ciò che permette di superare criticamente l’effimero stato delle cose presente e le sue illusioni, di regime oppure solo superficialmente antagoniste.


  1. S. Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 14-15.  

  2. S. Browne, op.cit., pp 9-10.  

  3. Ivi, p. 19.  

  4. Ivi  

  5. Ivi, p. 20.  

  6. R. Ferguson, Aberration in Black Toward a Queer of Color Critique, University of Minnesota Press 2003, p. 77 cit. in S. Browne, op. cit., p. 22.  

  7. S.Browne, pp. 35-36.  

  8. Ivi, pp. 31-32.  

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Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza


  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Esperienze audiotattili tra dispositivi panottici e panacustici https://www.carmillaonline.com/2018/08/10/esperienze-audiotattili-tra-dispositivi-panottici-e-panacustici/ Thu, 09 Aug 2018 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42109 di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere [...]]]> di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere un esempio del coinvolgimento plurisensoriale dello spettatore al cinema, basti pensare a come le basse frequenze diffuse in sala dalle tecnologie contemporanee siano in grado di permettere allo spettatore di «percepire i suoni attraverso il corpo e le sue terminazioni nervose, vibrando fisicamente all’unisono con quello che si propone di definire cinema audiotattile» (p. 10). Lo studioso si propone, in particolare, di indagare la reciproca relazione tra sonoro e visivo nell’esperienza cinematografica, rintracciando quei momenti topici nella storia del cinema capaci di evidenziare tale relazione ricorrendo a un approccio metodologico in cui interagiscono le teorie della comunicazione audiovisiva con le teorie e filosofie dei media.

Dopo aver ricostruito le tappe tecnologiche che hanno condotto al cinema «compiutamente sonoro» e alla messa punto del linguaggio cinematografico attraverso il montaggio, e dopo aver analizzato il cinema dagli anni Trenta ai Settanta – soffermandosi sull’avvento del Dolby, sull’innesto del medium radiofonico sul cinema muto, sull’affinarsi della teoria del montaggio audio-visivo, sulle caratteristiche del cinema contemporaneo caratterizzato dall’high fidelity e dal concetto di verità del cinema -, nella parte conclusiva del volume Iannotta si sofferma sui cambiamenti tecnologici che hanno riguardato il cinema a partire dagli anni Settanta, dal perfezionamento dei meccanismi di fonofissazione fino all’avvento dell’era digitale. Secondo l’autore, tali trasformazioni tecnologiche metterebbero «in questione alcuni nodi capitali del cinema strettamente contemporaneo, in particolare il realismo in connessione con l’ontologia nell’epoca della produzione digitale, e il cinema della sorveglianza e del controllo nell’esperienza del cinema audiotattile» (p. 11).

Un esempio paradigmatico di come il cinema audiotattile faccia dell’iperestesia auditiva il proprio centro nodale, è indicato dallo studioso nell’incipit di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman: la macchina da presa, che sbuca dal nero dello schermo, anticipata dal rumore di un elicottero, sorvola la città dominandola dall’alto e controllando le conversazioni dei cittadini.

Short Cuts ci conduce all’interno del dispositivo audiovisivo dall’alto, dalla posizione privilegiata di chi può sorvegliare il mondo sonoro del film […] Altman ci invita a prestare attenzione a quello che si dice per sciogliere una matassa narrativa ricostruendo le vicende dei tanti personaggi inquadrati dalla storia a partire dal sonoro e in prima istanza dalla voce, a volte in altre over altre ancora off dell’opinionista televisivo […] La voce entra in ogni casa e il dispositivo audiovisivo coinvolge in maniera totalizzante le nostre orecchie. Si tratta a tutti gli effetti di un dispositivo e di un film panacustico (p. 186).

Risulta evidente il riferimento all’ambiente panottico e panacustico pensato da Jeremy Bentham che sarà alla base degli studi di Michel Foucault sui dispositivi di sorveglianza e sui meccanismi di sapere e potere. Ai dispositivi di controllo visivo vanno aggiunti quelli di ascolto. Non stupisce che il termine “monitor” sia passato dall’iniziale significato di «istruttore e controllore carcerario», a designare un «apparato tecnologico di informazione» e, dunque, sottolinea Iannotta, di «sorveglianza e controllo». Secondo l’autore, l’esperienza cinematografica sarebbe legata «all’esperienza del controllo: non siamo più in grado di percepire il mondo in cui viviamo come un universo dotato di un senso decifrabile ma ci percepiamo (come) percepiti da altri» (p. 188).

Nel cinema contemporaneo non sono pochi i film che ricorrono alla sorveglianza come dispositivo narrativo. Si pensi a film come: Lost Highway (Strade perdute, 1997) di David Lynch; Gattaca (Id., 1997) di Andrew Niccol; Enemy of the State (Nemico pubblico, 1998) di Tony Scott; The Truman Show (Id., 1998) di Peter Weir; Caché (Niente da nascondere, 2005) di Michael Haneke; Paranormal Activity (Id., 2007) di Oren Peli; REC (Id., 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza; Cloverfield (Id., 2008) di Matt Reeves… È «il fantasma dell’ascolto» ad essere sempre al lavoro in questi film, e, sostiene Iannotta, occorre seguire l’invito di Gilles Deleuze circa la necessità di affiancare allo studio foucaultiano delle società disciplinari l’analisi di un «più invasivo e strisciante meccanismo di sorveglianza posto in essere dalle società di controllo», da qui l’invito del filosofo francese a dotarsi di «nuove armi».

In Enemy of the State il fuggiasco viene mappato ininterrottamente oltrepassando qualsiasi barriera e, suggerisce Iannotta, nel film il controllo spaziale continuo ha un equivalente sonoro preciso.

Grazie al pan pot (panoramic potentiometer) è possibile creare l’illusione pressoché perfetta che la fonte sonora fluttui circolarmente nello spazio uditivo. La spazializzazione quadrifonica mette in cortocircuito l’idea che esista un unico e determinato punto di ascolto. Il suono satura lo spazio come se fosse una nube di vapore. È qui che si situa il cambio di paradigma: le teorie oculocentriche, pur nella loro sofisticata varietà, individuavano l’esperienza cinematografica in maniera abbastanza univoca, come se ci si trovasse tutti in un unico grande peep-show, con il senso dell’udito pronto ad ascoltare ciò che viene diffuso dallo stesso luogo della visione in correlazione con l’immagine. Sussiste qualcosa di più di un’analogia tra il punto di vista, che al cinema è per lo più genericamente assimilabile al punto di vista della macchina da presa, e un punto di ascolto, che invece non coincide mai espressamente con la posizione delle orecchie dello spettatore. Chi ascolta quello che noi ascoltiamo? Il suono sembra attribuire delle orecchie virtuali alla macchina da presa rendendola un personaggio dotato di una strana concretezza. Non si sta negando la nozione di punto di ascolto; per quanto la si presupponga necessaria, è solo a partire dalle differenze strutturali più volte ribadite tra suono e immagine che si deve chiarire il concetto di rappresentazione uditiva al cinema (pp. 190-191).

Iannotta presenta un interessante confronto tra due importanti film incentrati sul controllo: The Conversation di Francis Ford Coppola e Die 1000 Augen des Dr. Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960) di Fritz Lang. Nel film di Coppola l’esperto di intercettazioni Harry Caul (Gene Hackman), dopo aver intercettato la conversazione di una coppia in Union Square a San Francisco, si trova catapultato in una situazione da cui non riesce a venire a capo. Il ruolo svolto dalla coppia intercettata da Caul, secondo lo studioso, rimanda ad un’analoga funzione rintracciabile nella coppia al centro del film di Lang.

L’ultimo film del regista tedesco marca una differenza importante tra la fine di una fase che si è detta moderna, con al centro la relazione mediale tra cinema e schermo televisivo, e l’epoca del controllo diffuso di un film come Enemy of the State, sull’asse della relazione mediale tra cinema e computer. Il fantasma di Mabuse, che sapevamo essere morto dal secondo film della trilogia, viene evocato da quello che scopriremo essere il suo nuovo erede, il sedicente visionario cieco Peter Cornelius, alias dottor Jordan (Wolfgang Preiss). La coppia di amanti al centro dell’escamotage diegetico del film è composta dal ricco industriale Henry Travers (Peter van Eyck) e da Marion Ménil (Dawn Addams), donna apparentemente disperata che finge il suicidio nell’albergo dove risiede Travers, con l’obiettivo di irretirlo. Con un carrello all’indietro, scopriamo che i due sono spiati su un monitor. La cabina di regia di chi sorveglia quanto accade nell’albergo possiede più videocamere: da qui i 1000 occhi (e orecchie) del titolo. Mabuse, o chi per lui, può vedere e sentire qualsiasi cosa. Un doppio livello di sorveglianza si impone nel film: quello della storia d’amore (Travers spia Marion da una stanza attigua) e quello di Mabuse. Il miliardario sta partendo con Marion ma nutre ancora qualche sospetto su di lei. Incalzata dalle sue domande, la donna confessa di essere un’agente della banda di Mabuse e di averlo ingannato per sposarlo, impadronirsi della sua ricchezza e soprattutto delle sue ricerche sulla bomba atomica. Ma Marion dice di amarlo davvero e implora di essere creduta. L’albergo, rivela, ha occhi e orecchie che osservano e ascoltano: “Loro vedono e sentono tutto!”. Alle richieste di spiegazioni di Traverse, Marion mostra il luogo dell’ascolto. Eccolo al lavoro il sistema di sorveglianza di Mabuse. Il dispositivo panottico e panacustico presente dovunque nell’albergo nel finale disvela tutta la potenza audiovisiva del suo potere occulto (pp. 192-193).

Il film di Coppola, in cui il protagonista deve ricostruire il significato della conversazione della coppia amanti, «offre anche un efficace discorso sul (cosiddetto) reale e sulla rappresentazione che il medium cinematografico è chiamato a dare». Captando la frase «He’d kill us if he got the chance», Caul viene catapultato all’interno dei problemi della coppia e del committente dell’intercettazione fino a comprendere, sul finale del film, che egli stesso è vittima di intercettazioni, scoprendo, in preda alla paura, di non sapervi, né potervi, porre rimedio.

Nell’epilogo delle narrazione, Caul, rientrato a casa, si dedica al suo hobby prediletto, suonare il sax tenore duettando con un disco jazz, improvvisando le note che si accavallano a quelle dello strumento solista. A rompere il fraseggio è il suono insistente di una telefonata […] Harry, spazientito, abbassa il volume del giradischi, risponde e ripete per due volte «Pronto», senza alcun esito. Dall’altra parte del ricevitore si ode solo il suono muto della linea telefonica. La macchina da presa ferma l’inquadratura per qualche secondo sul primo piano del telefono, mentre Caul si sposta nuovamente sulla sedia e riprende a suonare, rialzando il volume del disco. A quel punto la cinepresa si sposta con un carrello laterale per riprendere Harry nuovamente al centro dell’inquadratura. Dopo pochi secondi il telefono squilla nuovamente. Questa volta Caul è visibilmente in ansia, tanto da non prendersi la briga di abbassare, come aveva fatto prima, il volume del giradischi. Si alza e risponde nuovamente: “Pronto”. Questa volta il suono di un nastro che si riavvolge è immediato: “Noi sappiamo che lei sa tutto, signor Caul. Per il suo bene le consigliamo di non immischiarsi. Noi la sorvegliamo”. La musica del giradischi cessa e Caul si mette al lavoro. Con tutta la perizia tecnica di cui è capace cerca di capire come sia possibile che il miglior spione in circolazione sia stato messo sotto controllo. Con metodica professionalità, fa a pezzi la casa in cui vive. Nulla è lasciato al caso, anche la carta da parati viene rimossa. Senza esito alcuno, però. “Noi la sorvegliamo”. Alla fine, evidentemente senza più speranza, anche se si sente ancora sorvegliato, rimette il disco e ricomincia a suonare, tra le macerie, mentre la cinepresa percorre in lungo e largo la stanza dove si trova. L’ultima scena del film lo ritrae mentre continua a suonare il sax, con una panoramica dall’alto. È il cinema del controllo che lo sovrasta e noi con lui siamo sotto il suo dominio (pp. 193-194).

L’abile intercettatore non trova la microspia forse perché questa si colloca fuori dalla sua portata: il sistema di sorveglianza adottato «è irreperibile e irrimediabilmente sottratto agli occhi di Caul perché è allogato nello stesso dispositivo della macchina cinematografica» (p. 195). A differenza di quanto accade nel film di Lang, qui sembra emergere un «dispositivo vedente e senziente che non si interfaccia né identifica con nessun personaggio del film […] Qui l’identificazione è con la stessa macchina da presa, con un occhio e un orecchio capaci di dominare quanto viene visto e udito nella diegesi […] Il luogo del controllo si è spostato, ha cambiato direzione in maniera impercettibile quanto decisiva muovendosi dallo spazio della storia alla condizione primigenia che ogni storia possa essere raccontata» (p. 195).

La sorveglianza è divenuta la vera protagonista della narrazione filmica. Più il protagonista cerca il dispositivo senza trovarlo, più si sente in balia della sorveglianza e in preda alla paura: «il cinema audiotattile si dispiega come un rizoma difficile da decodificare, dove la minaccia è permanente e si fa allarmante metafora dell’ontologia dell’ascolto. Immersi in questa foschia fibrillante, un compito infine sembra spettare a ciascuno di noi: a ogni spettatore audiotattile la propria cimice da trovare» (p. 196).

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